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  • C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

    C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

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    «Quando a Cariati hanno chiuso l’ospedale è stato come se avessero chiuso la Fiat». L’amarezza di Cataldo Curia, attivista del comitato Le Lampare Basso Jonio Cosentino, la dice tutta. Perché, oltre a garantire il diritto alla salute, il nosocomio del piccolo centro sulla SS 106 assicurava anche tanti posti di lavoro. Un presidio economico e sociale importante per molti medici, infermieri e personale sanitario della zona.

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    L’ingresso dell’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    Quando ha aperto, nel 1978, era una struttura così all’avanguardia che chi era già emigrato al nord decideva di tornare a Cariati per partorire “a casa”. «Mia madre abitava a Bolzano e decise di farmi nascere all’ospedale di Cariati perché all’epoca era una struttura all’avanguardia», rivendica emozionata una giovane donna, all’uscita dal cinema San Marco di Corigliano Rossano. È il 6 dicembre e ha appena visto la seconda anteprima nazionale del film documentario C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, dei registi Federico Greco e Mirko Melchiorre, prodotto da Studio Zabalik.

    C’era una volta l’ospedale a Cariati

    I due film-maker romani hanno scelto di iniziare proprio dalla punta dello Stivale, con tappe a Reggio e Rossano, il tour di questo “western” sulla distruzione della sanità pubblica in Italia. Un richiamo a Sergio Leone in salsa calabra, a partire dalla chiusura dell’ospedale di Cariati con la «resistenza epica» dei cittadini che lo hanno occupato durante la pandemia per chiederne la riapertura.
    C’era una volta in Italia è a tutti gli effetti il sequel di PIIGS, del 2017, film narrato da Claudio Santamaria, che racconta gli effetti nefasti delle politiche di austerity sul caso specifico del lavoro della Cooperativa sociale Il Pungiglione di Monterotondo (Rm).

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    Federico Greco durante le riprese a Cariati

    Stavolta Federico Greco torna alle origini. «Mio padre era di Crotone – ricorda il regista – e ho riscoperto questa terra filmandola». Si trovavano proprio nel capoluogo pitagorico, con il collega Melchiorre, e stavano facendo riprese per Emergency all’ospedale dove era appena arrivato Gino Strada per gestire il reparto covid.
    Lì vengono a sapere dell’occupazione dell’ospedale di Cariati e vanno subito a capire cosa stesse accadendo. «Non ricordo altre occupazioni di un ospedale prima d’ora – spiega Melchiorre – e ci ha colpiti il coraggio e la tenacia di questi cittadini, giovani e anziani insieme, che sono andati avanti a testa alta e con pazienza per rivendicare il diritto alla salute».

    Così è successo che il film è diventato parte integrante dell’occupazione. «Abbiamo seguito – spiega Greco – la lotta delle Lampare per molto tempo. Infatti abbiamo narrato sia i momenti duri, tristi, sia quelli molto entusiasmanti». Come l’appello di Roger Waters, proprio durante la loro intervista. «Le sue parole, come avete visto, sono finite su tutti i telegiornali e l’ospedale di Cariati è diventata una questione internazionale».
    Proprio come il documentario che, nel solco di PIIGS, segue il doppio binario glocal.

    Come distruggere la sanità pubblica

    Si parte dalla storia di un piccolo territorio e gli effetti delle politiche globali su di esso. La privatizzazione della sanità e il Washington Consensus, le dieci raccomandazioni dell’economista inglese John Williamson al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e al Tesoro degli Stati Uniti, che puntavano alla liberalizzazione del commercio estero e del sistema finanziario, con l’obiettivo di attrarre capitali stranieri nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) per condizionare l’intervento statale nell’economia.
    Poi la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, nel 2001, che di fatto trasforma il Sistema Sanitario Nazionale, in un sistema sanitario regionale, aggravando le grandi disparità economiche e sociali tra Nord e Sud Italia e la conseguente emigrazione sanitaria da quest’ultimo verso il centro-nord.

    Come risultato, documentato nel film, un’ambulanza privata della Misericordia, che si inerpica di corsa e a fatica sulle strade dissestate dell’entroterra jonico «che sembrano bombardate», fa notare Greco, per andare a prendere con la barella una persona nel paesino di Scala Coeli. «Abbiamo voluto mostrare, a chi calabrese non è, cosa significhi essere costretti a percorrere anche poche decine di chilometri dissestati in questi luoghi abbandonati, nella rincorsa al primo Pronto Soccorso vicino».

    Indonesia, Cile, Calabria: a ciascuno la sua Giacarta

    Il “metodo Giacarta” fu il massacro di comunisti nel genocidio in Indonesia deciso dal generale Suharto nell’ottobre 1965. Si replicò in Cile, quando per le strade di Santiago comparirono le scritte Ya viene Jacarta, un disegno mortale contro il presidente democratico Salvador Allende (e i suoi sostenitori), ucciso dal golpe militare di Pinochet l’11 novembre 1973.

    Giacarta, inteso come massacro dei diritti sociali, a partire dalla salute, è arrivata anche in Calabria. C’è una data precisa che lo testimonia e ringraziamo la collega giornalista Giulia Zanfino per averci concesso le immagini dell’intervista a Roberto Occhiuto, allora neoeletto deputato Udc, oggi presidente della Regione Calabria e commissario straordinario della Sanità calabrese.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il 9 ottobre 2010 sedeva in prima fila nel gremito Teatro Morelli di Cosenza, dove l’ex presidente Scopelliti presentava il piano di rientro dal debito sanitario. Occhiuto rivendicava la riforma e i tagli: «Oggi spieghiamo ai cittadini e agli operatori del settore che la sanità non può più essere un baraccone per alimentare clientele». E ancora: «Si possono tagliare i posti letto per impedire i ricoveri impropri e investire, allo stesso tempo, nella medicina territoriale, perché la qualità dei livelli essenziali di assistenza sia garantita a tutti».

    Su la testa

    Ma Giacarta arriva e non perdona. Solo che, anche in un territorio spopolato e spolpato come la Calabria, c’è chi non ci sta e si mobilita. E richiama l’attenzione di chi calabrese non è, ma coglie l’importanza di certe storie e decide di raccontarle, «anche se rischiano di vendere poco», spiega Alessandro Pezza, di Studio Zabalik, produttore del film. «A noi – precisa – piace il cinema scelto dagli spettatori e non imposto dalle case di produzioni. Ci siamo innamorati di questa storia perché i ragazzi dell’ospedale di Cariati hanno alzato la testa contro le ingiustizie e sono un esempio da seguire. Con questo film speriamo di farci anche portavoce dei diritti dei calabresi. Del resto, ormai ci sentiamo un po’ calabresi anche noi».

    Nell’attesa che arrivino risposte certe sulla riapertura completa dell’ospedale, continuano le proiezioni del film con la lotta delle Lampare del Basso Jonio Cosentino contro Giacarta “mani di forbice”. Le prossime?  Il 12 dicembre al cinema San Nicola di Cosenza alle 20 e al Nuovo Olimpia di Roma alle 21. Il 13 dicembre, sempre a Roma, ore 21, cinema Giulio Cesare.

  • Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

    Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

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    A San Lucido i pescatori under 30 hanno mangiato pastina e acqua salata da piccoli, hanno deciso che da grandi avrebbero fatto questo lavoro già alle prime uscite in mare con i nonni e con i papà. Oggi salgono sui pescherecci di notte come navigatori fenici. Non è un mestiere semplice. I rischi sono diversi. E adesso che il gasolio è aumentato, per una battuta di pesca bisogna fare i conti fino all’ultimo centesimo. Una notte in mare costa almeno 400 euro soltanto di carburante. Bisogna tornare con un bel carico per non perderci.

    Riposa in pace capitano Mazza, tra i primi morti per Covid

    Nel minuscolo porto della terrazza sul mare, così è chiamato il paese del basso Tirreno cosentino, per decenni il San Giovanni e la Nuova speranza sono usciti e rientrati con al timone il capitano Gianni Mazza. Era il più autorevole dei pescatori ed è stato una delle prime vittime di covid in Calabria, morto nel marzo del 2020 a 75 anni. Anche i colleghi del Nord Italia lo hanno ricordato tributandogli manifesti e saluti tra le onde.
    Le barche di famiglia sono accompagnate dal suo volto, formato poster, sulla plancia. Suo nipote ha 20 anni, porta orgogliosamente lo stesso nome, fa lo stesso mestiere. «La prima volta mio padre Andrea, che ha 45 anni, mi ha portato in mare con la pastina a tre anni e mezzo. Siamo una famiglia di pescatori. Io i miei due fratelli, uno di sedici anni e l’altro quasi quindici, mio padre, due zii e quattro cugini».

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    Gianni Mazza, pescatore esperto di San Lucido morto a 75 anni dopo aver contratto il Covid

    A un passo dalla laurea, poi ha scelto il mare

    È sabato mattina. Nel porto di San Lucido l’acqua brilla, una famiglia di papere scivola sul mare, mentre sui pescherecci si srotolano le reti per riparare il tremaglio. Un’arte che solo i pescatori conoscono, che apprendono senza bisogno di teoria, osservando i più anziani. Con gli occhi fissi sulle trame e le mani che si muovono veloci, è questo il momento della condivisione, dei racconti e degli aneddoti che viaggiano da una barca all’altra.
    Francesco Maria Tonnera, 27 anni, è qui da prima dell’alba. Lui e il suo equipaggio sarebbero dovuti uscire presto per la pesca, ma hanno rimandato a causa del vento. «Un giorno, avrò avuto otto anni – racconta, – ho detto a mia madre: io continuerò a studiare, però tu mi devi fare andare in mare. Trascorrevo la notte sul peschereccio, tornavo alle cinque del mattino, facevo una doccia, mi mettevo il grembiule e andavo a scuola».

    Quella di Francesco Tonnera (un destino già scritto nel cognome), è la terza generazione di una famiglia di pescatori. La promessa fatta a sua madre – purtroppo scomparsa due anni fa – l’ha mantenuta: con i buoni voti ha sempre meritato borse di studio, si è diplomato ed era a un passo dalla laurea in Giurisprudenza e da una vita completamente diversa da quella dei suoi. «Ero stato selezionato per un colloquio per un posto in banca a Milano, ma non me la sono sentita: una vita in giacca e cravatta non fa per me, ho scelto la libertà». La libertà è la pace e la poesia delle notti sulla barca sotto un cielo stellato. «Non so descriverla, è una sensazione unica».

    Francesco Tonnera (con il cappuccio) è un giovane pescatore di San Lucido

    Il pescatore 4.0 di San Lucido su Tik Tok

    Ne è passato di tempo da quando si buttavano le rizze a mare e poi si vendevano i pesci sul molo del porto facendo a gara a chi urlava più forte. Francesco non ha l’aspetto del lupo di mare, è piuttosto un pescatore 4.0: da una parte la tradizione, la sapienza e i riti che si tramandano; dall’altra le innovazioni, per esempio le telecamere a bordo per filmare il pescato e un uso efficace dei social. Basta digitare il suo nome e su Tik Tok è un trionfo di seppie e polipi e altri pesci ancora nella rete ma pronti ad arrivare sulle tavole dei clienti che possono ordinare on line.
    A San Lucido i giovani scelgono ancora di fare questo lavoro duro ma soprattutto usurante perché l’umidità e la fatica alla lunga compromettono la salute. A muovere tutto è la passione, ma le difficoltà sono tante.

    Peschereccio nel porticciolo di San Lucido

    Concorrenza sleale

    «Le leggi europee stanno ammazzando il nostro lavoro – dice Tonnera – viviamo con il terrore delle sanzioni, con la costante incognita dei controlli dei militari della Capitaneria che salgono a bordo a controllare il pescato, ma si fa troppo poco invece per arginare la concorrenza del pesce che arriva da altri paesi», il malepesce lo chiamano.
    «La nostra famiglia ha perso tre pescherecci, uno più bello dell’altro», interviene il padre Tullio, 57 anni, cinquanta anni di lavoro, due figli, entrambi pescatori. «La Michelangelo, 18 metri, è stata affondata nel porto di Vibo per pesca illegale del pesce spada. Un altro è finito bruciato. Là – indica la strada – è ferma la Mariella, 14 metri di peschereccio, sequestrata per disastro ambientale, poi ce l’hanno ridata ma a questo punto non è più utilizzabile».

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    Peschereccio rientrato dalla battuta di pesca a San Lucido

    Pesce azzurro e delfini che t’inseguono

    È tanta la voglia di mollare ma alla fine vince il richiamo del mare. Di notte, lontano dalle coste, si capisce quanto inquinamento di luci trasfigurino il cielo. Sul mare quelle delle stelle sono abbaglianti, dicono i giovani pescatori.
    Poi, con le reti in acqua, tutto può succedere. Perché laggiù è un turbinio di pesci che si muove sotto la barca. «È in quei momenti che capisci che dovrai agire col pugno fermo e i nervi saldi, perché ogni tua decisione avrà una conseguenza», dice Francesco Tonnera. E l’obiettivo è rientrare nel porto, quando il sole è già sorto, con un bottino ricco. «Con quello che costa il gasolio, se qualcosa va storto il danno sarà enorme».
    Il mare di San Lucido è uno scrigno di pesce azzurro: alici, sarde, sgombri soprattutto. E il Tirreno regala spettacoli improvvisi di delfini che inseguono il peschereccio o che giocano intorno alle barche ferme, di notte. «Ce ne sono tantissimi, noi pescatori sappiamo quanto possano essere addirittura “infestanti”, perché nel loro periodo di transito spesso danneggiano le reti e le imbarcazioni».

    La maledizione delle tartarughe

    E nonostante l’esperienza, lo stupore è sempre grande davanti alle tartarughe – «tante, enormi, meravigliose», dice Tonnera – che si incontrano lungo il cammino. «Specialmente di notte capita di avvistarle in acqua, stanche, affaticate. Quando possiamo le teniamo un po’ a bordo per farle riprendere e poi le rimettiamo in mare». Guai a far loro del male e non solo perché le sanzioni in caso di controlli della Capitaneria sarebbero altissime, ma soprattutto perché secondo una credenza popolare, «le tartarughe bestemmiano», quando sono in pericolo o vengono catturate emettono dei suoni cupi e quella è una maledizione che colpirà chi le uccide.

    Francesco Tonnera porta i segni del morso di uno squalo azzurro: 75 punti

     

    Azzannato dallo squalo azzurro

    Hai mai avuto paura? La domanda è rivolta a Francesco, ma risponde suo padre Tullio: «Paura unn’avi mai». Francesco ha il suo trofeo, mostra una enorme cicatrice sul polpaccio, è il morso di una verdesca, lo squalo azzurro. «Era finita nella rete e dovevamo smagliarla per poi farle riprendere il largo. Io e mio padre abbiamo dovuto tirarla a bordo, è un pesce molto mobile con una torsione rapidissima: uno scatto e mi ha azzannato alla gamba, il risultato è questo, hanno dovuto mettermi 75 punti di sutura».

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    La statua di Cilla a San Lucido, che perse marito e figli in mare

    La donna che perse marito e figli in mare

    Sulla gente marinara di San Lucido veglia Cilla, la moglie e madre ormai leggendaria che ha perso i suoi uomini in mare. È ritratta da una scultura di Salvatore Plastina che sembra una donna in carne e ossa affacciata sul belvedere. I sanlucidani raccontano che nelle notti di mare grosso la sentono lamentarsi.
    Ha pianto lo scorso venti agosto. Gianni Mazza, il giovane pescatore di razza, era al largo di Belmonte insieme con l’equipaggio della Nuova speranza e «all’improvviso ci siamo trovati davanti una tromba marina, con onde alte fino a tre metri. È stato un momento veramente difficile. Ma siamo riuscito a tornare nel porto. Mio nonno ci ha insegnato a capire il mare. Lui, diceva non vuole caputoste, non si può sempre sfidare, altrimenti soccombi».

    Il grande squalo bianco

    Gianni Mazza è stato il capitano di tante imprese. Nel lontano 1978 prese lo squalo bianco, la creatura più temuta dai bagnanti, che rare volte si è vista nei mari calabresi.
    Lui e la sua famiglia sono i protagonisti del documentario dell’antropologo Giovanni Sole “Pescatori d’argento. Alici e lampare in Calabria”.

    È anche nelle notti calme e silenziose che possono accadere cose starne. «Una volta eravamo a motore spento con le reti calate – racconta Francesco Tonnera – c’era una pace assoluta e soltanto la luce delle stelle. Ero a prua, quando all’improvviso ho visto sollevarsi l’acqua per una lunghezza di circa dieci metri, come se ci fosse un pesce in superficie. Ho seguito l’enorme sagoma che lentamente si muoveva di fianco alla barca a filo d’acqua. Sono certo che si trattasse di un enorme capodoglio».

  • Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Florindo Rubbettino è l’amministratore della più importante realtà editoriale del Sud.
    Fondata da suo padre Rosario nel 1973, la Rubbettino vanta un catalogo di oltre tremila titoli. Un catalogo decisamente onnivoro in cui passa di tutto purché di qualità. E, soprattutto, senza preconcetti culturali o, peggio, ideologici. Vi trova posto, ad esempio, Leonardo Sciascia, a fianco di filosofi come Dario Antiseri, Carlo Lottieri e Giuseppe Bedeschi.

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    I tipi di Rubbettino, inoltre, “macinano” politologi (Alessandro Campi, Rudolph J. Rummell), sociologi (Pino Arlacchi), storici (Christopher J. Duggan ma tantissimi altri di vaglia). E non mancano i politici, che hanno raccontato sé stessi e le loro visioni (Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Paolo Savona).
    Intenso anche lo scavo nella cultura regionale, operato con la riedizione degli autori calabresi più importanti o di grandi autori che si sono occupati della Calabria.

    Da Soveria Mannelli al Salone di Torino

    Quest’avventura continua, dopo quasi cinquant’anni, lì dov’è nata: a Soveria Mannelli, nel cuore della Sila Piccola.
    A dimostrazione che la marginalità del territorio non è sempre e necessariamente un ostacolo.
    Reduce dal Salone del Libro di Torino, Florindo Rubbettino, ha ripreso la sua polemica nei confronti della classe politica meridionale e calabrese in particolare: «Il livello, nell’ultimo ventennio, è sceso tantissimo e forse questo declino è lo specchio della società».

    Florindo Rubbettino e la politica

    La società civile deve liberarsi di certe catene, ha sostenuto l’editore. Anche se – ammette – in Calabria non è facile: «Siamo tra gli ultimi in Europa anche nella lettura, dove ci battono anche i Paesi dell’Est Europa e il nostro pubblico è soprattutto fuori regione».
    Questo primato negativo, sostiene sempre Rubbettino, si riflette anche sull’economia e sul livello della vita civile. Già: «I Paesi più ricchi sono quelli in cui si legge di più».
    Le ipotesi, ventilate in passato, di candidature alla Regione sono sfumate. E ora Florindo Rubbettino le rispedisce al mittente.
    Questo e altro nell’intervista rilasciata a I Calabresi.

     

  • [VIDEO] Uffici vuoti a Bruxelles, ma la Regione Calabria paga lo stesso

    [VIDEO] Uffici vuoti a Bruxelles, ma la Regione Calabria paga lo stesso

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    Nessuno probabilmente se n’è accorto ma il bergamotto, che è certamente un prodotto DOP (denominazione di origine protetta), da maggio 2019 è diventato anche DOT, di origine toscana.

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    Al numero 14 di Rond Point Schuman – nel cuore del quartiere Ue di Bruxelles – si trova l’edificio dove hanno sede molti enti e uffici di rappresentanza delle Regioni italiane. Ed è stata proprio la Regione Toscana a concedere alle associazioni Profumi di Calabria e Calabresi in Europa, la grande sala convegni all’ottavo piano dello stabile. La sala utilizzata per un evento di promozione del bergamotto.

    La Regione Calabria a Bruxelles

    Eppure la Regione Calabria a Bruxelles ha un suo spazio nello stesso edificio e continua a pagare un consistente canone di locazione per i suoi uffici. Non li usa e non si fa vedere lì da tempo.

    Di recente anche I Calabresi ha provato a visitare la sede. Ma chi lavora lì ci ha confermato che quegli spazi sono chiusi e inattivi da diverso tempo. Una vicenda che restituisce il mancato legame della Calabria con il cuore delle istituzioni europee. Una regione che adesso si trova ad affrontare tra mille incertezze la sfida del Pnrr.

  • [VIDEO] Cucine da incubo: sfruttati a 20 euro nei ristoranti di Cosenza

    [VIDEO] Cucine da incubo: sfruttati a 20 euro nei ristoranti di Cosenza

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    Sapete perché sulle porte delle cucine dei ristoranti c’è scritto “vietato entrare”? Perché non ne uscireste vivi.
    Dietro quella soglia c’è un mondo capace di evocare spettri da rivoluzione industriale: lavoratori frenetici, impegnati nel muoversi provando ad ostacolarsi il meno possibile; comandi che si sovrappongono con furia quasi ci si trovasse nella fase cruciale di una battaglia, tra nuvole di vapore e fumi; pentole che bollono; mestoli appesi e piatti da riempire; griglie roventi e la fatica di uomini e donne quasi come dentro una trincea.

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    Diritti e profitti nei ristoranti di Cosenza

    Venti euro a turno di lavoro, spesso in nero, con durata dei turni parecchio flessibile. Quando invece c’è un contratto, le tutele si smarriscono dentro prassi consolidate, ben note e tuttavia taciute. Ferie che risultano in busta paga ma non sono godute, inesistenti assenze ingiustificate conteggiate per riequilibrare il divario tra le somme dovute da contratto e quelle realmente pagate, importi relativi a periodi di malattia versati dall’ente di previdenza e incredibilmente trattenuti dal datore di lavoro.

    Escludendo qualche studentessa impegnata nel fare la cameriera per racimolare un po’ di denaro, la maggior parte delle persone che sta dentro questo girone infernale è prevalentemente fragile sul piano culturale, scarsamente scolarizzata. E, dunque, meno consapevole dei propri diritti, poco incline a rivendicarli. Facili prede per quanti volessero massimizzare i loro profitti sulla carne viva dei lavoratori.

    La brandina nel retrobottega

    Angela ha poco più di vent’anni, è minuta e sembra più piccola, ma ha già una bambina e molto bisogno di lavorare. Per questo accetta di buon grado di fare spesso il doppio turno, lavorando mattina e sera in uno dei ristoranti di Cosenza. Purtroppo abita lontano da Cosenza e non potrebbe fare in tempo ad andare a casa e tornare tra la fine di un turno e l’inizio del successivo, quindi ha messo una brandina sul retro del locale. Lì si sdraia per poco meno di un’ora, si leva le scarpe e prova a chiudere gli occhi, mentre i suoi colleghi poco distanti lavorano.

    Ristoranti a Cosenza: l’orata sfuggita dal congelatore

    Una mattina cuochi e lavapiatti entrarono nella cucina di un noto ristorante della città per cominciare la loro giornata di lavoro e trovarono sul pavimento un’orata. La scena dovette sembrare vagamente surreale: un pesce, pure bello grosso, sul pavimento. Era evidentemente caduto la sera prima, mentre qualcuno aveva preso qualcosa dal congelatore. Il pesce era lì da tutta la notte, doveva essere buttato, con sommo disappunto del proprietario del ristorante che aveva tuonato: «Qualcuno questa orata la deve pagare!». E infatti qualcuno la pagò, trovandosi una cospicua trattenuta in busta paga.

    Se le buste paga potessero parlare

    Giovanni non ha molta dimestichezza con le buste paga, lo sguardo va dritto alla somma che sta alla fine della pagina e quello gli basta. Una volta però scorrendo i dettagli scopre che ha fatto quattro giorni di assenza non giustificati dal lavoro. Lui è uno che invece non si assenta mai e trova il coraggio di chiedere spiegazioni al datore di lavoro.

    «Non ti preoccupare – spiega l’imprenditore con voce rassicurante – è solo per una questione di tasse». In realtà anche alcune buste paga di altri colleghi riportano ogni tanto la stessa voce in sottrazione di somme di denaro per assenze mai avvenute e la ragione è legata alla necessità di far avvicinare lo stipendio reale a quello veramente accreditato secondo contratto.

    Restate a casa: cuciniamo noi

    asporto-ristorantiDurante il lockdown molte realtà della ristorazione hanno affrontato la crisi dei locali vuoti ripiegando sull’asporto. Meno clienti, ovviamente, ma era un modo per non fare morire l’impresa. A soffrirne sono stati i lavoratori, che a turno sono stati impiegati nelle cucine, come Fiorella e gli altri che ufficialmente erano in cassa integrazione, ma la trincea di pentole e fornelli non l’hanno mai potuta lasciare. «Eravamo ogni giorno al lavoro, non tutti assieme perché non c’era bisogno di tanta gente contemporaneamente, ma a rotazione. Saremmo dovuti stare a casa, e invece eravamo al lavoro»

    I grandi assenti

    In queste storie ci sono alcuni grandi assenti: i diritti e la loro consapevolezza, l’Ispettorato del lavoro, che magari qualche ispezione potrebbe pure farla, il sindacato. Il protagonista incontrastato è il bisogno che attanaglia un numero sempre maggiore di persone, piegandole a condizioni che facilmente possono essere considerate inaccettabili. Ma anche la retorica di quanti con sufficienza affermano che «la gente non vuole lavorare».

    Quando state in un ristorante e lo sguardo vi va verso l’ingresso delle cucine, rivolgetelo subito altrove: “Non aprite quella porta” potrebbe non essere solo il titolo di un vecchio film dell’orrore.

  • Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    «Scimmie, scimmie calabresi, lavatevi che puzzate di ‘nduja». Sono frasi inqualificabili pronunciate da un tifoso del Vicenza – durante lo spareggio con il Cosenza di giovedì scorso – in un video caricato su You Tube e pubblicato sul canale L’Ultrà dei poveri. Salvo poi scomparire sotto la dicitura: video non disponibile. Ma I Calabresi ne ha conservato la versione integrale. Una parte di questa ha deciso di mostrarla.

    Sul campo la compagine veneta si è imposta per 1-0.  L’ultrà del Vicenza si cimenta poi con l’immancabile «terroni di merda».  Non mancano i consueti stereotipi: «Cosa è la Calabria? ‘Nduja e mafia?». Continua la sua performance razzista gridando: «Ributtateli in Africa». Venerdì prossimo il ritorno dello spareggio-  per restare in serie B-  in uno stadio San Vito Marulla che si preannuncia infuocato.

  • L’odissea dei migranti a Siderno: due morti annegati (VIDEO)

    L’odissea dei migranti a Siderno: due morti annegati (VIDEO)

    Sono state le onde di scirocco a fare sbattere il bialbero carico di migranti sulla spiaggetta di Pantanizzi a Siderno, ennesimo approdo sulla “rotta turca” che collega lo Jonio calabrese ai flussi migratori in movimento dal medio oriente. In un video che circola su internet si vede l’attimo in cui, prima pochi alla volta poi tutti insieme, uomini donne e bambini si lanciano sulla spiaggia sotto il vecchio pontile per cercare rifugio.

     

    Almeno due di loro non ce l’hanno fatta, sopraffatti dal mare molto agitato. Un altro invece è stato salvato dagli uomini del commissariato di Siderno, giunti per primi sul posto, mentre cercava di raggiungere faticosamente la riva. Ma le operazioni di ricerca in mare e dall’alto sono andati avanti per ore alla ricerca di qualche sopravvissuto rimasto in acqua. O di qualche corpo.

    L’odissea dei migranti in mare

    Sono 109 tra loro anche donne e diversi bambini, hanno dichiarato di venire dal Pakistan e dall’Afghanistan e di avere viaggiato per mare per 5 giorni dopo essersi imbarcati in una spiaggia isolata in Turchia. Vanno ad aggiungersi ai gruppi arrivati nei giorni scorsi, con Roccella capolinea di quattro sbarchi in meno di 40 ore per oltre 400 migranti accolti e rifocillati prima sotto il tendone allestito dalla Croce Rossa sulle banchine e poi nelle strutture del territorio che di volta in volta vengono utilizzate.

    Forse a morire sono stati i due scafisti

    Dalle prime testimonianze raccolte, i due uomini rinvenuti cadavere potrebbero essere gli stessi che hanno pilotato la piccola barca a vela lungo il Mediterraneo. «Sono russi, si sono buttati prima di arrivare sulla spiaggia» racconta uno dei migranti nel suo stentatissimo inglese. Sull’identificazione dei due corpi stanno lavorando gli uomini della polizia coordinati dalla Procura di Locri.

    Ma non sarebbe la prima volta che gli scafisti pagano con la vita l’avere tentato di raggiungere a nuoto la riva e sfuggire quindi ai controlli. Un paio di anni fa, durante un analogo “sbarco autonomo” – uno di quelli non intercettati dalle motovedette della capitaneria o della finanza e che quindi si spiaggia sull’arenile ormai privo di guida – tra i comuni di Riace e Stignano, i due scafisti, entrambi provenienti dal Kigikistan, provarono a scappare lanciandosi in acqua a una decine di metri dalla spiaggia. Solo uno era riuscito a raggiungere la riva. Il corpo del secondo uomo, poco più che ventenne, fu restituito dal mare quattro giorni dopo. Lo trovò sulla battigia un bagnante mattiniero.

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    I migranti sulla spiaggia di Siderno

    Emergenza continua

    L’allarme dalla Prefettura è già arrivato ai sindaci della riviera: tutto fa prevedere che gli sbarchi continueranno almeno fino ad ottobre. Come ormai succede da più di venti anni. E nonostante il flusso di disperati in arrivo sia continuato ad aumentare nelle ultime stagioni, ogni volta che un barchino sfugge ai controlli e non viene veicolato verso Roccella – unico centro “attrezzato” tra Crotone e Reggio – i sindaci si trovano di fronte agli stessi problemi. Chiuso e in attesa dell’avvio dei lavori di ristrutturazione l’ex “ospedaletto” di Roccella, capace di ospitare per la prima accoglienza circa 250 persone, i migranti vengono di volta in volta ospitati, per l’identificazione e la prima accoglienza, nelle strutture comunali dei paesi dove avvengono gli approdi.

    Palazzetti, scuole, tendoni dove ogni volta, gli amministratori devono inventarsi qualcosa visto che generalmente, in queste struttura raccattate all’ultimo minuto, non ci sono nemmeno le cucine. Tanto che in più di un’occasione, a Locri e Ardore e anche a Caulonia e Brancaleone, sono stati i ristoratori del posto a offrire i pasti ai migranti. Il gruppo sbarcato venerdì a Siderno è stato trasferito nel pomeriggio nella frazione collinare della cittadina jonica, in una struttura di competenza comunale

     

  • Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Francesco Savino è il vescovo di Cassano, territorio ricco, con una antica radice cattolica, ma anche tormentato dalla presenza di una potente criminalità organizzata. Ed è l’uomo mandato da Papa Francesco nella Chiesa calabrese.

    La voce pacata e lo sguardo mite non devono ingannare: Savino viene dalle lotte di Libera contro le mafie, è delegato presso la conferenza episcopale della Chiesa calabrese ai temi della Salute. E sa che qui è troppo spesso un diritto negato, assieme al lavoro e alla dignità.

    Non fa giri di parole. Sa pure che i responsabili sono da cercare nei legami tra certa politica e il malaffare, nella presenza di poteri trasversali che si sono impossessati di ampie porzioni della vita pubblica. E sa anche che lo sguardo severo va rivolto anche dentro la Chiesa, troppe volte in silenzio quando avrebbe dovuto gridare.

    E così, partendo dal messaggio del pontefice, Savino traccia la rotta di una chiesa militante, dentro la moltitudine delle persone, immersa tra la gente, alla ricerca di una via di liberazione che non lasci escluso nessuno. Quando Savino pronuncia la parola “liberazione”, una suggestione latinoamericana sembra insinuarsi nel salone della Diocesi. E invece siamo a Cassano, in Calabria. Ma forse non è così differente.
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    Michele Giacomantonio e Claudio Dionesalvi

  • La danza di Scanderbeg

    La danza di Scanderbeg

    Qualcuno si spinge fino al Ponte del diavolo. A piedi i più temerari, in sella a vecchi fuoristrada Iveco i meno abituati alle insidie della salita. Sono le prime ore del pomeriggio di un martedì che a Civita e nelle altre comunità dell’Arbëria  ha un significato particolare per le Vallje. Come ogni anno, dopo la Pasquetta, queste antichissime danze segnano il calendario dei paesi albanofoni. Senza la minima tentazione di chiamarli borghi.

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    Vallje a Civita, nel cuore del Pollino (foto Alfonso Bombini 2022)

     

    L’origine delle Vallje non si perde nella notte dei tempi. Nascono per rinsaldare quel legame profondo tra l’Arbëria, la sua storia, la madrepatria. E rievocano un episodio particolare con la forza di diventare un mito fondativo: la vittoria del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg sui turchi nella città di Kruja. Era il 24 aprile 1467. Anche allora era il primo martedì dopo Pasqua.

    Scanderbeg è l’icona più forte in possesso degli albanesi d’Occidente. Al pari della bandiera rossa con l’aquila nera. Immancabile anche ieri a Civita (Çifti). Al lato del palco, forse 3×6, ha accolto il Presidente della Repubblica d’Albania, Ilir Meta.

    Vallje a Civita: da tradizione d’Arbëria a festival del folklore

    C’è qualcosa di immutabile e al contempo rivoluzionario nella cultura di questo popolo, come ricorda lo scrittore Carmine Abate da Carfizzi. Due anni di fermo non hanno fiaccato la voglia di riportare in vita tradizioni così radicate. La pandemia si è fatta sentire e continua a rosicchiare tempo e destini. Ieri il ritorno della sfera pubblica. In una piazza militarizzata con transenne ovunque.

    Misure di sicurezza per garantire protezione a Ilir Meta. Un paradosso difficile da non notare: danze circolari hanno da sempre avvolto autoctoni e forestieri, adesso sono diventate uno spettacolo da festival del folklore. Con un copione imposto. Va bene lo stesso. Ma gli occhi di chi ne ha viste tante tradiscono il disappunto per un rito ormai confinato a beneficio di smartphone e fotografi veri o improvvisati con gli immancabili teleobiettivi parabellum. Quasi a volere entrare dentro il corpo di una comunità. Che invece si lascia attraversare allargando lo sguardo.

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    Il presidente della Repubblica albanese, Iril Meta, in visita a Civita (foto Alfonso Bombini 2022)

    Da San Marzano a Civita

    Ci si ritrova un po’ tutti in piazza, calabresi e non. Persino “Katundi Joni”, gruppo proveniente da San Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto. Una città meridiana più vicina del capoluogo Catanzaro al piccolo centro del Pollino. Più vicina non solo su Google maps.
    Ne fa parte la signora Carmela. Per la prima volta partecipa alle Vallje. Ma in qualche modo ha un profilo levantino come le stesse Calabrie di quassù. Canta a squarciagola e balla insieme ai suoi compaesani. In Puglia organizza rappresentazioni teatrali rigorosamente in lingua arbëreshë.

    Mancano fiumi di anice

    Pochi metri più dietro qualcuno chiama: «Professo’!». Si gira un signore anziano in camicia bianca e cravatta rossa. Uno dei pochi a sfidare una primavera mascherata da quasi inverno. Inizia a intonare canti, accompagnato da un organetto e un tamburo. Lo suona un tipo coi baffi che sembra un gitano dei film di Emir Kusturica. Vengono da Cerzeto e poco dopo li raggiunge pure il sindaco Rizzo. Nemmeno lui vuole perdersi rito e presidente Meta. Manca l’anice che invece nella vallja “eretica” e carnevalesca di Cervicati scorre a fiumi.

     

    Civita, per le Vallje ecco gli stranieri in Arbëria

    Gli occhi di giovani e meno giovani si posano su un cappello rosso che fa pendant col rossetto. Armata di ballerine ai piedi, sorride e gira video con il cellulare. Quel che resta delle intenzioni cariche di testosterone vittorioso sul colesterolo postpasquale si riversa su di lei. È inglese.

    Non mancano olandesi con figli piccoli, francesi e tedeschi a loro agio in t-shirt. Senza il bisogno di abbigliamento tecnico comprato nella non lontanissima Decathlon di Corigliano-Rossano. La tragedia del Raganello è alle spalle, non il ricordo delle vittime. Qui si viene volentieri. Case Kodra e buon cibo. Gente ospitale.

    Per fortuna la fisiologica passerella della politica non ha ammorbato troppo il pomeriggio di Civita. Tutti hanno già dato al mattino. Tributando saluti a effendi Iril Meta. Adesso il sole taglia queste montagne alle spalle. Il mare si concede ancora alla vista. L’organetto accompagna per l’ultima volta le Vallje di Çifti.

     

  • L’Unical, Rende e la decrescita infelice di Cosenza

    L’Unical, Rende e la decrescita infelice di Cosenza

    La cittadinanza onoraria di Rende all’architetto Empio Malara ha fatto andare su tutte le furie Sandro Principe. Dal canto suo l’urbanista che ha dato il volto alla città d’oltre Campagnano dell’era Cecchino Principe, ha risposto per le rime. La polemica ha avuto almeno il merito di riportare all’attenzione il dibattito sulla città unica tra Cosenza e Rende e gli altri, Unical compresa.

    Cosenza ormai caduta in basso da molti anni: perde abitanti ed è meno vivibile. Una decrescita infelice a tutto vantaggio di Rende. Lo stato delle cose della città di Telesio è raccontato in un video dall’architetto Pino Scaglione, che insegna Progettazione urbana all’Università di Trento. Un quadro senza sconti: Cosenza sempre più in basso, l’Unical che di fatto si disinteressa della questione dell’area urbana e Rende che gongola. Ma fino a quando?