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  • Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    La grande storia calpestata, ricoperta di cemento e connivenze, passa per i contatti imbarazzanti tra un presunto faccendiere del clan Mancuso, Giovanni Giamborino, e alcuni archeologi con cui avrebbe avuto una certa confidenza e da cui avrebbe ricevuto più di un consiglio per ottenere l’ok ai lavori di un palazzo costruito ricoprendo una strada e una villa di epoca romana [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE]. Succede – è successo – a Vibo, piccolo capoluogo calabrese considerato da molti una capitale di affari e intrecci non proprio trasparenti. Se lo siano o meno quelli al centro di questa vicenda spetta ai giudici stabilirlo, ma ciò che emerge dalle carte di “Rinascita-Scott” è quantomeno sorprendente per tanti cittadini che conoscono per esperienza diretta le lungaggini e le pastoie burocratiche cui si va incontro, magari giustamente, quando si ha a che fare con vincoli e Soprintendenze.

    La firma mancante

    Per Giamborino non era così: il finale della piccola storia di cui è protagonista è noto e non è per niente lieto. È riuscito a ottenere l’autorizzazione che cercava dopo aver messo in moto conoscenze e «amicizie» che vanno anche oltre i rapporti intrattenuti con Fabrizio Sudano, all’epoca funzionario della Soprintendenza e oggi al vertice dello stesso organismo che ha competenza su Reggino e Vibonese, e Mariangela Preta, archeologa che ha collaborato da esterna con la Soprintendenza e che oggi dirige il Polo museale di Soriano. Né Preta né Sudano sono indagati, ma gli inquirenti osservano come si dedichino all’iter che interessa a Giamborino. Che a un certo punto rischia di allungarsi perché serve una firma di Gino Famiglietti, già alto dirigente del Ministero e per un periodo anche alla guida della Soprintendenza calabrese, che però non è sempre nella regione e ha tante cose di cui occuparsi.

    Cambio della guardia, progetto sbloccato

    «Ma cerco di arrivarlo io a questo, a questo pagliaccio … perché io lo arrivo, a Roma lo arrivo non è che non lo arrivo…», dice il presunto faccendiere riferendosi proprio a Famiglietti. Che poi riesce effettivamente a incontrare proprio nel suo cantiere dopo aver contattato, in una triangolazione che ricorre spesso nelle intercettazioni, sia Preta che Sudano. L’alto burocrate non rimane però alla guida della Soprintendenza della Calabria. E dopo la sua sostituzione Giamborino riesce ad ottenere, tramite «interessi nonché interventi criminali e di soggetti appartenenti alla massoneria vibonese – scrive il Rosquanto non potrebbe legalmente avere: lo sblocco del progetto e la prosecuzione dei lavori».

    «Mi hanno detto che è un fratellino»

    Preta gli dice al telefono di essere a conoscenza di tutto: «Io so tutto e so anche una notizia più bella … che Famiglietti si è levato dalle palle …(ride) … te lo dico proprio in francese…». La guida della soprintendenza passa a Salvatore Patamia (anche lui non indagato), la cui nomina viene accolta con una certa soddisfazione. Preta rassicura Giamborino dicendo che «la firma» è questione di giorni e che non c’è più bisogno di mettere in mezzo terze persone. Ma l’impiegato pensa comunque a una sua personale corsia preferenziale: «Io ho il modo perché è intimo amico di un mio carissimo amico Patamia». E per chiarire il concetto dice: «Adesso m’hanno detto che è un fratellino, capito, quindi io già mi ero mosso e non ci sono problemi». Aggiungendo: «Se tu hai bisogno di questo qua, non ci sono problemi hai capito?». Preta risponde ridendo: «Questo è il dato in più che ci serve».

    Il compasso, uno dei più noti simboli massonici
    Il Gran Maestro

    Quando un’altra persona gli chiede chi fosse il «carissimo amico» Giamborino risponde che si tratta di «don Ugo». Secondo gli inquirenti è Ugo Bellantoni, inizialmente indagato ma poi uscito pulito dall’inchiesta con un’archiviazione, già responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vibo e Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani. Secondo la Dda sarebbe lui a procuragli un appuntamento con Patamia al Parco Scolacium di Roccelletta di Borgia. Mentre ci va, Giamborino scherza con la persona che è con lui in auto: «Lo vedi quanto sono precisi la massoneria? Quanto conta… La massoneria è come la maffia … (ride) …». L’incontro viene in realtà rinviato all’indomani, ma ciò che conta è il risultato: in pochi mesi, da gennaio a maggio 2016, Giamborino risolve i suoi problemi e arriva l’agognata firma sul progetto di variante.

    Cemento sui resti romani

    Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dell’impiegato rispetto ai resti di epoca romana è lui stesso a spazzarli via: «Una volta che io vado là… Con mezzi… E sopra mezzi… Che devo vedere di nascondere già quelle muraCon quella cazzo di strada… Buttare il solaio… Per fare i lavori là…». E ancora: «La getto là sotto e apparo con la brecciadi modo che non si veda la strada che siccome deve venire la Soprintendenza… di modo non la vede per niente quella strada (…) Una volta che togliamo la strada poi dieci cm di terra dobbiamo togliere e la gettiamo là dentro stesso e le pietre le buttiamo là dentro … li mettiamo da un lato no? E dall’altro lato riempiamo di terra … poi … e poi gli gettiamo 4 5 6 carrettate di breccia per completarlauna volta che gli metto la breccia glielo copriamo là sotto e non vedono niente poi … vedono tutto paro loro … hai capito?».

    I resti di epoca romana catalogati

    «Ho paura della Sopritendenza»

    Nella stessa proprietà, conferma Giamborino, ha trovato «quella strada del 300una strada del 300… oggi ho buttato un muro… se mi beccano mi fanno rovinato… mi rompeva il cazzo quel cazzo di muro mi stavano sui coglioni… e l’ho buttato… adesso ho paura della soprintendenza». Commentando le tante tracce di storia che emergono in quella parte di Vibo l’impiegato dice che lì «c’è il tesoro più importante del mondo… è documentato e tutto… e infatti questo qua… qua dovevano fare un palazzo è stato fermo… è fermo da cinquant’anni… il mio da trenta… questo da cinquanta… io sono riuscito a svincolarlo… nessuno gl’altri sono riusciti a svincolarlo…».

    L’archeologa scomoda

    Per lui, come raccontato dal maggiore del Ros Francesco Manzone nell’aula bunker, c’era solo un unico, grande ostacolo. Una professionista, Maria Teresa Iannelli, che allora era responsabile della Sovrintendenza. «Per 25 anni non mi ha dato retta, non mi ha neanche ricevuto», dice sdegnato. E lei fino a poco prima di andare in pensione si è sempre messa di traverso, non ha mai dato autorizzazione per consentire che il cemento ricoprisse le tracce della grande storia. Ma il presunto faccendiere dei Mancuso è riuscito lo stesso ad aggirare l’ostacolo risalendo le gerarchie dei Beni culturali. «Io tramite Roma … Tramite il ministero … Tramite tutti … Sono riuscito a parlare con loro …».

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  • Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    La piccola storia vibonese che passa velocemente per le cronache locali è piena di episodi su tombaroli che, nascosti di giorno nei garage o nottetempo in qualche giardino, scavano buche e cunicoli in cerca di reperti archeologici da trafugare. Stavolta i resoconti di giudiziaria restituiscono invece una vicenda all’incontrario: un presunto factotum di potenti boss che nasconde, sotto una colata di cemento e collusioni, dei resti di epoca romana di grande valore storico. Per costruire in pieno centro a Vibo, in area vincolata, un palazzone in stile moderno con appartamenti e spaziosi magazzini da piazzare sul mercato.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    Il cemento tra le pieghe di Rinascita Scott

    L’episodio era quasi passato inosservato a dicembre del 2019 tra le pieghe dell’imponente mole di documenti dell’inchiesta “Rinascita-Scott” ma, di recente, l’ha riportato alla luce un investigatore dei carabinieri già in servizio al Ros di Catanzaro. Deponendo in aula bunker durante il maxiprocesso istruito dal pool di Nicola Gratteri, il maggiore Francesco Manzone – scrive il giornalista Pietro Comito su LaC raccontando l’udienza – dice che il suo reparto aveva allestito «un vero e proprio Grande fratello» attorno agli uomini di fiducia del superboss Luigi Mancuso. Uno di questi è il presunto faccendiere al centro della vicenda: Giovanni Giamborino, considerato uno ‘ndranghetista battezzato nella frazione Piscopio e cugino dell’ex consigliere regionale Pietro. Per la Dda è un elemento chiave dell’intera inchiesta: avrebbe un ruolo di primo piano negli affari e nelle strategie della cosca che da Limbadi domina il Vibonese e non solo.

    La storia sotto quel cemento
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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana

    Il palazzone moderno è suo: ne avrebbe messo insieme la proprietà unendo più particelle, fin dagli anni ‘80, grazie ai soldi di tre fratelli ai vertici della famiglia Mancuso (Antonio, il defunto Pantaleone «Vetrinetta» e, appunto, Luigi, il «supremo»). Sotto quel cemento ci sono i resti di una strada e di una villa romana che Giamborino ha ricoperto, pur essendo un luogo sottoposto a vincolo archeologico, grazie ad una successione impressionante di presunte connivenze che passa per la Soprintendenza, coinvolge massoni di alto rango e, dal Comune di Vibo, arriva fino ai palazzi ministeriali. A raccontarlo, stavolta, non sono i pentiti, ma lo stesso factotum che, pur essendo un semplice impiegato comunale, dimostra di avere conoscenze ben addentrate nel mondo dei colletti bianchi. E non sapendo di essere intercettato, ne parla moltissimo.

    L’incontro con il soprintendente

    A partire da gennaio 2016 Giamborino si muove per ottenere dalla Soprintendenza archeologica l’approvazione di una variante «necessaria» per completare i lavori e poter vendere almeno parte del fabbricato. Il Ros monitora tanti contatti tra Giamborino e Mariangela Preta, archeologa «di fiducia dell’impresa» che effettua i lavori, e con un funzionario all’epoca in servizio alla Soprintendenza di Reggio, Fabrizio Sudano. Sia Preta che Sudano non sono indagati. La prima oggi dirige il Polo museale di Soriano e spesso ha collaborato da esterna con la Soprintendenza, il secondo dal 15 novembre scorso è il nuovo soprintendente per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, mentre nei mesi precedenti era stato alla guida di quella di Cosenza e, ad interim, anche di quella di Catanzaro e Crotone.

    Il rapporto tra Giamborino e Sudano

    Dai brogliacci dell’inchiesta depositati agli atti del processo emerge quello che per gli inquirenti è un «rapporto di confidenza» tra Giamborino e Sudano, in una triangolazione di contatti che coinvolge quasi sempre anche Preta. A un certo punto serve una firma da parte di un alto burocrate del Ministero dei beni culturali che, in quel momento, ricopre anche l’incarico di soprintendente della Calabria. Si tratta di Gino Famiglietti. È Preta a spiegare a Giamborino che ruolo abbia, suggerendogli anche di chiamare Simonetta Bonomi – oggi soprintendente del Friuli Venezia Giulia – che «lo conosce».

    I resti di epoca romana catalogati
    «Vado e trovo Franceschini, il ministro proprio»

    Il passaggio che va fatto con Famiglietti rischia però di comportare un’ulteriore perdita di tempo, allora Giamborino dice alla stessa Preta che «se ci sono problemi vado e chiama a Franceschini…vado e trovo Franceschini». Il presunto fedelissimo di Luigi Mancuso, quindi, non nasconde l’intenzione di rivolgersi «ad amicizie» non meglio specificate «in modo – annotano gli inquirenti – da poter raggiungere gli uffici ministeriali». Lo ribadisce parlando con il titolare dell’impresa di costruzioni: «Io faccio salti mortali, io se questo qua non me la firma giovedì, io in settimana salgo a Roma…ah ah io vado e trovo a Franceschini, il ministro proprio…non è che mi mancano le cose, o mi mancano le amicizie».

    Serve un’autorizzazione per quel cemento

    A un certo punto nei colloqui con Sudano spunta addirittura una relazione redatta da Giamborino, o da chi per lui, che il funzionario, garantisce, avrebbe fatto propria. «Allora ti mando quella carta – dice Giamborino – finta che l’hai fatta tu la relazione». Il funzionario risponde: «Questa mandamela che mi serve…». Aggiungendo: «Quella la faccio mia, che io faccio l’istruttoria come se ho notato la differenza del progetto e le cose positive sono queste…io più di quello…». In seguito Sudano ribadisce: «La relazione che ha fatto, che hai fatto tu, che ha fatto non lo so l’ingegnere, sulle cose positive rispetto al progetto vecchio, l’ho fatta già mia, che gliela spiego io, molte cose non gliele spiegherò neanche, comunque non ti preoccupare che faccio in modo da farti avere un ok».

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  • Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Chissà se l’ostentato approccio “rock” di Roberto Occhiuto sarà applicato anche a un lentissimo ente subregionale: il Parco delle Serre. Istituito nel 1990, c’è voluto un decennio prima che qualcuno stendesse la cartografia su un tavolo e ne tracciasse almeno i confini. Poi, pur esistendo poco più che sulla carta, è finito al centro di una girandola di conflitti politici e contenziosi giudiziari. Ne è scaturito un commissariamento che dura ancora oggi. Commissariamento non per infiltrazioni mafiose, ma per manifesta incapacità della politica.

    La neve ricopre la riserva naturale regionale
    Tante parole, nessun fatto

    Il Parco delle Serre è l’unica riserva naturale a carattere regionale che sorge in continuità geografica, ma non amministrativa, con i Parchi nazionali di Pollino, Sila e Aspromonte.Toccando tre province (Catanzaro, Vibo, Reggio) e 26 Comuni, estende la sua superficie di competenza su un territorio di 17.687 ettari, con al centro una montagna che sale fino a 1500 metri e dista poche decine di km dai due mari. Un paradiso di biodiversità diventato però un simbolo di immobilismo istituzionale, tanto vorticoso negli avvicendamenti e nelle grane giudiziarie quanto improduttivo. Le aspirazioni di salvaguardia del territorio e di sviluppo “sostenibile”, alla fine, si sono concretizzate solo nella retorica delle brochure convegnistiche ed elettorali.

    Le meraviglie del Parco delle Serre

    La legge che disciplina le aree protette in Calabria risale al 2003 e si pone l’obiettivo di «promuovere nel territorio in esse ricompreso l’applicazione di metodi di gestione e valorizzazione naturalistico-ambientali tesi a realizzare l’integrazione tra uomo e ambiente naturale». Nelle Serre ci sono distese di abete bianco e pino laricio, faggete, castagneti, pioppeti e querceti. C’è l’oasi del lago Angitola, una zona umida di valore internazionale. E c’è il bosco Archiforo, un Sito di interesse comunitario che rientra nella cosiddetta zona di riserva integrale. Proprio in questo bosco nei mesi scorsi il Wwf di Vibo ha denunciato, con tanto di documentazione fotografica, uno «scempio» di alberi tagliati in un luogo in cui «non si potrebbe toccare neppure un filo d’erba».

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    Il lago Angitola
    Secoli di rispetto cancellati dalla mafia dei boschi

    Non è certo la prima volta che accade. Pare che ora se ne stia interessando anche la Procura vibonese. Negli anni scorsi altri tagli di imponenti abeti bianchi sono stati talvolta bloccati dalle proteste degli ambientalisti. Va detto che da queste parti i boschi hanno rappresentato per secoli una fonte di sostentamento economico e sono stati gestiti con sapienza. La gente delle Serre ci viveva, nel bosco, tanto da muovercisi dentro attraverso una particolarissima toponomastica che ancora sopravvive nella memoria di boscaioli, bovari, mannesi e carbonai e di cui c’è ancora qualche traccia nell’archivio comunale di Serra San Bruno.

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    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Ma di questa cultura del bosco l’ente Parco non si è mai fatto carico. E , oggi, anche chi non è un “estremista” verde e non è pregiudizialmente contrario a ogni tipo di taglio può accorgersi, andando in quei boschi, della differenza tra un intervento ragionato, una previdente selvicoltura, e quello che si pratica in certi casi nelle foreste comunali che rientrano nel Parco, dove da decenni imperversa la mafia dei boschi.

    Gli interessi dei clan

    Dalla recente inchiesta “Imponimento”, ma anche da altre del passato, sono emersi gli interessi dei clan sulle Serre vibonesi e catanzaresi con la complicità di tecnici e amministratori comunali. Per la Dda di Catanzaro ci sarebbe un collaudato meccanismo di rotazione nell’aggiudicazione degli appalti boschivi «attraverso turbative d’asta e illecita concorrenza sleale». Per i boschi, per esempio, litigarono due mammasantissima che un tempo erano stati fratelli come il boss di Filadelfia Rocco Anello e quello di Serra San Bruno Damiano Vallelunga, che prima di essere ucciso in un agguato a Riace aveva guadagnato potere e carisma tali da tenere testa ai Mancuso.

    E nei boschi – emerge sempre da “Imponimento” – nell’estate del 2017 un paio di imprenditori ritenuti sodali dei clan avrebbero sversato un bel po’ di rifiuti, anche pericolosi, persino eternit, eseguendo senza tanti scrupoli un ordine arrivato proprio dallo stesso Anello. Che, intercettato, parlava di «quaranta camionate di calcinacci, più due con eternit» provenienti dal cantiere di un resort a Pizzo e finiti in alcuni terreni in parte rientranti nel Parco delle Serre.

    Da Murmura al controllato controllore

    L’ente è ancora retto da un commissario: dall’estate del 2020 (epoca Santelli) è Giovanni Aramini, dirigente del Settore Aree protette del dipartimento regionale Ambiente. In teoria, quale vertice del Parco sarebbe il controllato e quale dirigente di quel Settore sarebbe anche il controllore. Ma probabilmente questo è il male minore, perché Aramini è comunque un tecnico competente e sensibile alle tematiche ambientali. Il problema è che ha in mano poco o niente di concreto da programmare come tutti quelli che lo hanno preceduto.

    la sede del consiglio regionale della Calabria
    La sede del Consiglio regionale

    In tanti, tra commissari e presidenti, si sono avvicendati negli anni. Il primo fu il senatore Antonino Murmura e con lui sono partite anche le contese di fronte alla giustizia amministrativa che hanno coinvolto i suoi successori in una serie di ordinanze, sospensive e sentenze che hanno aggiunto solo confusione a confusione. Dal 2010 chi ha governato la Regione ha preferito optare per i commissari perché questi vengono nominati dal presidente della Giunta mentre, per legge, i presidenti sono indicati dal presidente del consiglio regionale. L’ultimo bando di Palazzo Campanella per individuare un presidente è stato chiuso a ottobre del 2020 ma non è stato ancora nominato nessuno. Meglio non assumersi la responsabilità politica di un fallimento annunciato.

    Il concorso e i favoritismi

    Oltre ai contenziosi amministrativi non è mancata qualche digressione nel penale. Nel 2015 era scattata un’inchiesta su alcuni concorsi del Parco che secondo l’accusa erano stati pilotati. Ma il reato di abuso d’ufficio contestato a 6 imputati è stato dichiarato prescritto a settembre dal Tribunale di Vibo. Già in precedenza era scattata la prescrizione per alcune contestazioni di falso ideologico, mentre gli imputati sono stati assolti da altre per falso anche se nelle motivazioni della sentenza si parla comunque di procedura «viziata da evidenti favoritismi».

    La pianta organica approvata nel 2005 prevede 57 unità di personale, 41 tecnici e 16 amministrativi, di cui 6 dirigenti. Oggi quelli che ci lavorano si contano sulle dita di una mano. C’è un solo dirigente e qualche funzionario, più un centinaio di tirocinanti scelti tra disoccupati/inoccupati inseriti in un percorso di riqualificazione professionale di politiche attive. Al Parco sono state assegnate negli anni scorsi anche alcune decine di operai ex Afor che lavorano sul territorio. In generale, qualche iniziativa per cercare di rendere fruibili i percorsi naturalistici si intraprende. I risultati, però, sono inevitabilmente proporzionati ai finanziamenti che l’ente ha a disposizione.

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    Il consuntivo 2020 individua «trasferimenti correnti», ovvero le somme assicurate dalla Regione, per circa 1 milione di euro, circa mezzo milione in meno rispetto all’anno prima. Le spese per il personale ammontano a 937mila euro. È chiaro che resta ben poco. Tutto ciò però non è abbastanza per svegliare i sindaci del territorio e far loro rivendicare il ruolo assegnatogli dal popolo. Si vedrà ora se il presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso e l’Occhiuto del «cambio di passo» vogliano mettere «cuore e coraggio» anche per riempire questa scatola vuota. Che, ormai da 30 anni, incarna il fallimento della politica su un territorio in cui bellezza e marginalità si vanno sempre più impastando. In un amalgama che restituisce nient’altro che decadenza.

     

  • Usura, a Vibo tassi di interesse al 257%

    Usura, a Vibo tassi di interesse al 257%

    L’usura ha raggiunto tassi di interesse al 257% nel Vibonese secondo il report di Caritas. Sono dati presenti nell’ultimo dossier su povertà ed esclusione sociale. E la percentuale di persone in condizioni economiche difficili che si rivolgono a parrocchie e diocesi registra un 49,6 % in più nel 2020.

    A Cosenza e nella Locride tassi al 200%

    Nella morsa degli strozzini non finiscono solo imprenditori che rischiano di chiudere bottega. «Lo spaccato offerto dalle inchieste giudiziarie almeno degli ultimi quindici anni è incredibile» – si legge nel report della Caritas. In provincia di Cosenza e nella Locride i tassi di usura hanno toccato il 200%.
    Numeri che fanno paura ma sono, paradossalmente, piccoli rispetto ad altri dati: 1500% annui raggiunto a Roma in alcune specifiche occasioni, i 400% a Firenze, i 150% a Milano, i 180% annui nel nord est padovano e fra il 120% ed il 150% nel Modenese. Negozianti, artigiani, piccoli imprenditori, divenuti improvvisamente incapaci di onorare i debiti che avevano contratto in tempi migliori, sarebbero sempre più tentati di cercare una illusoria e rapida via di fuga, cedendo alla proposta di chi è pronto a offrire soldi facili senza chiedere troppe garanzie in cambio, salvo poi far pagare a caro prezzo il denaro prestato o a impossessarsi dell’attività di chi non può pagare.

    La povertà nel rapporto Caritas

    L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (salita al 9,4%, dall’8,6% del 2019). Anche se la crescita più ampia si colloca nelle regioni del Nord, dove la povertà familiare cresce dal 5,8% al 7,6%. Tale dinamica fa sì che se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese fossero distribuite quasi in egual misura al Nord (43,4%) e nel Mezzogiorno (42,2%). Nel 2020 si giunge rispettivamente al 47% e al 38,6%, con una differenza in valore assoluto di 167mila nuclei.

    Il Nord si conferma come la macro-area con il peggioramento più marcato, con un’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3% (è il Nord-Ovest l’area maggiormente penalizzata, cosa che in qualche modo non stupisce). Sono così oltre 2 milioni 554mila i poveri assoluti residenti nelle regioni del Nord e 2 milioni 259 mila quelli del Mezzogiorno.

    usura-caritas-icalabresi.it

    Usura, l’odissea di Mario

     A 40 anni, sposato e con due figlie piccole, Mario (ma non è il suo vero nome) ha lavorato come magazziniere in provincia di Cosenza.
    Uno stipendio per mantenere la famiglia in modo dignitoso. Poi la crisi, la pandemia, le prime difficoltà anche del datore di lavoro che poi però alla fine si dimostrerà fondamentale per la sua rinascita insieme ai suoi parenti e soprattutto a Caritas e la Fondazione Don Carlo de Cardona.

    Licenziato, cerca la fortuna con il gioco

    Tutto inizia quando il suo contratto passa da full time a part time poco prima dell’insorgere dell’emergenza Covid 19. Non racconta niente alla moglie. Le cose precipitano rapidamente. Licenziato ma con la promessa che sarà riassunto appena possibile. E così sarà poi alla fine, ma passerà un anno. Dodici mesi in cui piano piano sprofonda nel suo incubo personale. All’inizio chiede piccoli prestiti alla banca e ad amici e parenti. Ma i soldi non bastano. Cerca di tirare su qualcosa con il gioco on line, ma ovviamente perde. Debiti su debiti.

    C’è sempre qualcuno che ti porta da loro

    Come succede spesso in queste storie, c’è sempre qualcuno che può metterti in contatto con chi può farti un prestito. Senza nessuna garanzia, se non quella di restituire i soldi mensilmente poco per volta. L’uomo cede e ottiene circa 10mila euro. Dopo pochi mesi si ritrova senza soldi e senza la possibilità di pagare le rate agli usurai. E “i cravattari” iniziano a perseguitarlo prima con telefonate, poi con appostamenti, sia sotto casa che sotto scuola dei figli. Le minacce si fanno sempre più pressanti.

    Riassunto dal datore di lavoro

    A quel punto la famiglia si accorge che c’è qualcosa che non va e lui, per fortuna, crolla e racconta tutto. Tramite l’intervento familiare ottiene dei soldi in maniere legale. Con i quali estingue i suoi debiti con “gli strozzini”. Non se la sente di sporgere denuncia, (motivo per il quale i dati ufficiali sull’usura reale sono sempre al ribasso). Successivamente, grazie a Caritas e alla Fondazione della Diocesi cosentina, riesce a risolvere anche la questione del debito con l’istituto di credito. Una storia che finisce con la sua riassunzione. Ma è solo un’eccezione fra i più che non si risollevano dal baratro.

  • Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.

    Di padre in figlio

    La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.

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    Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi

    All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».

    Oggi gli attacchi, domani gli accordi

    Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.

    La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.

    «L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»

    Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».

    Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».

    La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.

    Il sindaco e lo ‘ndranghetista

    Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.

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    L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi

    L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».

    Il killer e l’intellettuale

    È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».

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    Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi

    Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.

    Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».

     

  • Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    C’è una scuola, in un paese dell’entroterra calabrese, in cui un preside custodisce gelosamente un tubo fotomoltiplicatore e un piccolo, ma raro, prototipo di calorimetro elettromagnetico formato da strati di piombo ed elettrodi in rame con forma a fisarmonica, il tutto immerso in argon liquido. Quei pezzi provengono dall’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra e a portarli all’istituto “Einaudi” di Serra San Bruno è stata Teresa Barillari, scienziata di caratura internazionale che proprio da quel paese di 7mila abitanti sulle montagne del Vibonese, e proprio da quel liceo, è partita per approdare prima all’Unical, entrando nel team di Antonino Zichichi ai tempi della tesi di laurea, per poi diventare Group Leader al Max-Planck Institute for Physics di Monaco e Deputy Team Leader nell’esperimento ATLAS dell’acceleratore di particelle più grande e potente del mondo.

    Fa la spola tra Ginevra e Monaco di Baviera ma torna spesso in Calabria. Le abbiamo rivolto qualche domanda per provare a capire qualcosa in più del suo lavoro, della ricerca scientifica, dei risvolti che lo studio della fisica può avere nella vita di tutti i giorni. Partendo dal Nobel assegnato di recente al fisico Giorgio Parisi, premiato, tra gli altri, assieme a Klaus Hasselmann che proviene proprio dal Max-Planck, istituto che ha oggi in “bacheca” 36 dei prestigiosi premi assegnati a Stoccolma.

    Parisi ha detto di essersi occupato del caos, la scoperta per cui è stato premiato riguarda i sistemi complessi. Di cosa si tratta, in termini comprensibili anche ai non addetti ai lavori?

    «Rispondo citando l’esempio fatto da lui stesso: “La prima volta che proviamo a mettere i bagagli dentro la macchina non c’entrano tutti. Poi proviamo ad ottimizzarne la disposizione, tolgo questo qui, metto quello lì… facendo un po’ di manovre alla fine c’entrano tutti. Il giorno dopo riprovo e non mi ricordo come avevo fatto, poi magari viene un’altra persona e trova una soluzione diversa su come disporre le valigie in macchina. Ecco, le due soluzioni sono differenti” ma hanno lo stesso risultato.

    I sistemi complessi e le loro soluzioni hanno lo stesso comportamento e diversità di soluzioni da caso a caso. La complessità di un sistema deriva da quello che viene chiamato disordine. Si può pensare a un tavolo da biliardo. Quando si tira la prima palla, si può ipotizzare dove potrebbe andare, ma tutti i tiri successivi al primo saranno difficili da intuire. Parisi ha scritto una formula matematica che riusciva a prevedere in qualche modo il comportamento dei sistemi complessi. Ci sono voluti circa 20 anni prima che i matematici riuscissero a provare che quella formula fosse corretta. Io ammiro Parisi per la personalità semplice, per la sua passione e per la capacità di spiegare in parole semplici cose difficili».

    Cosa succede in quell’enorme cilindro costruito sul confine franco-svizzero a cento metri sottoterra?

    «In generale due “pacchetti” di particelle (ogni pacchetto è composto da circa 100 miliardi di protoni) sono accelerati in versi opposti nel Large Hadron Collider (LHC). I due pacchetti di protoni sono fatti scontrare l’uno contro l’altro nel punto centrale di grossi rivelatori del LHC, come per esempio il rivelatore ATLAS, dove lavoro io, o come l’altro rivelatore, CMS. I prodotti delle collisioni protone-protone vengono osservati da ATLAS/CMS e si spera che da queste interazioni si possano scoprire nuove particelle o altre scoperte. Nel 2012 con i rivelatori ATLAS e CMS abbiamo scoperto il bosone di Higgs».

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    L’esperimento ATLAS del Cern di Ginevra
    Quali possono essere le conseguenze pratiche dello studio della fisica? Quanto ha a che fare, per esempio, con la salute o con la scienza climatica?

    «Parisi a una domanda analoga ha risposto che la scienza pura da sempre, in un modo o in un altro, porta risultati pratici alla società. Al Cern di Ginevra e in Italia noi abbiamo avuto colleghi durante la pandemia che hanno usato la loro esperienza e la loro conoscenza scientifica per costruire respiratori che poi sono stati usati negli ospedali. Il Cern ha fatto usare il proprio centro di calcolo e i propri computer ai medici che a livello mondiale volevano analizzare in modo veloce i dati raccolti in questi mesi di per capire come i loro studi procedessero.

    La ricerca di Parisi sui sistemi complessi viene applicata anche alla scienza climatica. Come si può leggere qui “il legame delle ricerche di Parisi con quelle sul clima riguardano la natura stessa di quest’ultimo, ossia quella di sistema complesso. Il suo studio infatti prevede una caratterizzazione di diversi sottosistemi climatici, come ad esempio l’atmosfera, l’oceano, la biosfera, su molte scale temporali”».

    Meno di 60 donne hanno vinto il Nobel, nella fisica 4 donne e 212 uomini. In Germania le presenze femminili nelle facoltà scientifiche sono sotto il 15%, peggio che in Italia dove sono al 37% (da segnalare che Catanzaro è tra le 12 università italiane in cui ci sono più studentesse che studenti).
    C’è un problema di genere, una questione femminile, nel mondo della scienza? È stato difficile da un paesino dell’entroterra del Sud arrivare dov’è ora?

    «Sì, c’è un problema di uguaglianza. Credo che in Italia la situazione delle scienziate sia migliore che in Germania. Credo che la discriminazione di genere anche a livello scientifico sia ancorata a una cultura chiusa, che rinchiude le persone in ruoli sociali imprigionando le menti. In tutto il mondo adesso si cerca di sopperire a questo gap di genere. Ci vorranno anni per cambiare questo stato di cose, ma cambierà.

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    Marie Curie, una delle sole quattro donne ad ottenere il Premio Nobel per la Fisica. Se ne aggiudicò anche uno per la Chimica

    Io sono cresciuta con due fratelli che mi hanno sempre spinta a cercare la mia indipendenza. I miei genitori non hanno mai ostacolato i miei sogni e la mia passione per lo studio e la fisica. Loro non si sono opposti quando decisi di trasferirmi da giovane e da sola fuori dall’Italia. Il mio unico e solo interesse, la mia grande passione è stato studiare fisica, la fisica delle particelle elementari, il resto devo dire non l’ho proprio visto, il resto era ed è per me solo bla bla bla. Devo dire che in Germania per la prima volta in vita mia ho sentito forte la discriminazione per essere una donna e una madre che si occupa di scienza. Ma ho camminato per la mia strada seguendo le mie idee e la mia passione, lasciandomi tutto il resto alle spalle».

    Molti scienziati italiani protestano contro i tagli alla ricerca, Parisi stesso ha detto che l’Italia non è un Paese per ricercatori.

    «Io credo che un Paese che non investe nella ricerca pura in generale è, o diventerà, un Paese povero. Il covid ci ha insegnato che gli scienziati esperti del settore, in Italia e nel resto del mondo, hanno aiutato i governanti e l’umanità intera a uscire da una situazione drammatica. Cosa avrebbe fatto l’Italia senza questi scienziati? Secondo me se una nazione dà fondi alla ricerca alla fine questo investimento porta benessere e prestigio alla nazione stessa. Investire nella ricerca rispecchia il benessere del Paese stesso».

    Grazie alla scienza usciremo dalla pandemia? Cosa direbbe agli scettici?

    «Sì, la scienza ci aiuterà a uscirne. Si basa su numeri, fatti, evidenze. Bisogna guardare ai numeri, per esempio ai dati sui contagi che avevamo un anno fa in Italia e a quelli di oggi. Il vaccino ha fatto quello che doveva fare. Meno persone hanno il covid in Italia e nel resto del mondo rispetto a un anno fa. Tutto questo grazie alle persone che per anni hanno passato le loro notti a studiare e testare questo vaccino e i vaccini in generale. Attualmente in Italia c’è più gente vaccinata che in Germania. Il numero di contagiati e morti in Germania attualmente è circa almeno tre volte in più che in Italia. Bisogna credere nella scienza».

  • Pd pulp, colpi bassi e intrecci nella Calabria di mezzo

    Pd pulp, colpi bassi e intrecci nella Calabria di mezzo

    Dalle narrazioni non ufficiali della notte dei lunghi coltelli vissuta dal Pd catanzarese tra venerdì e sabato emerge uno spaccato inquietante. L’introduzione delle quote rosa ha fatto sì che tre posti, sugli 8 disponibili nel collegio Centro (Catanzaro-Crotone-Vibo), fossero blindati: Aquila Villella, Annagiulia Caiazza, Giusy Iemma.

    Posto sicuro anche per un consigliere uscente (Luigi Tassone) e per due che si erano candidati ma non ce l’avevano fatta a gennaio 2020 (Fabio Guerriero e Raffaele Mammoliti). Restavano due posti, ma se li contendevano tre maschietti: il sindaco di Soverato Ernesto Alecci (in realtà a garanzia del suo posto c’era l’appartenenza a “Base riformista”, la corrente di Luca Lotti), l’ex presidente della Provincia Enzo Bruno, l’uscente Francesco Pitaro.

    Ernesto Alecci, sindaco di Soverato

    Quest’ultimo è entrato in Consiglio regionale con Pippo Callipo, ha fatto quasi tutto lo scorcio di legislatura col Misto e qualche settimana fa si era avvicinato al Pd, forte di un accordo con i vertici provinciali. Apriti cielo. Guerriero ha minacciato di ritirare la candidatura, Alecci pure, Bruno di uscire dal partito. Alla fine sono cadute le teste di Bruno e Pitaro, il posto conteso per uscire dall’impasse lo ha occupato il segretario provinciale Gianluca Cuda e le due “vittime” hanno subito dato sfogo a reazioni al vetriolo.

     

    Lo sfogo di Bruno

    L’ex presidente della Provincia ha parlato di «logiche poco trasparenti, perverse e poco rispettose della comunità democratica». Poi con un certo sprezzo del ridicolo ha fatto anche sapere di aver accettato la candidatura a sindaco di Vallefiorita per il «cambiamento e la rinascita» del suo paese, dove era assessore già nel 1988 e vicesindaco nel 1993.

    Francesco Pitaro ha descritto un partito di belve feroci che non sarebbe diventato certo una comitiva di educande se avesse accettato la sua candidatura. Pino Pitaro, ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta antimafia “Orthrus” per il quale però la richiesta d’arresto è stata più volte negata, ci ha messo il carico scrivendo sul profilo Facebook del fratello: «La cosca politica si è organizzata contro di te». Secondo i bene informati la regia della loro esclusione sarebbe, almeno in parte, ascrivibile al deputato Antonio Viscomi. Che, così, nel suo collegio di appartenenza ha provato a evitare di farsi fare le scarpe proprio dall’ultimo arrivato.

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    Francesco Pitaro, consigliere regionale del gruppo Misto

     

    Pd, il mentore e il discepolo

    La vicenda (molto pulp) del Pd catanzarese è emblematica dello stato di un partito a cui sembra interessare solo il mantenimento di postazioni da cui dividersi le macerie di ciò che resterà dopo le Regionali. In questo senso dice molto anche un’altra storia di queste ore che viene dall’entroterra, dalle Serre: quella del ricandidato Tassone. Eletto a gennaio 2020 dopo essere entrato in lista all’ultimo minuto grazie alla scure calata da Pippo Callipo sulle candidature proposte dal duo Graziano-Oddati, e del suo mentore di sempre, Bruno Censore, che invece è nella lista di Mario Oliverio.

    L’uno era l’ombra dell’altro, diciamo quasi zio e nipote, oggi invece non si parlano nemmeno e puntano al reciproco scalpo da postazioni distanti. Tassone ha dalla sua un piazzamento decisamente migliore. Censore invece è dovuto ricorrere anche a candidature di servizio per riempire le caselle, ma i voti in provincia sono sempre stati del mentore e il delfino sa in cuor suo che gli venderà (politicamente) cara la pelle.

     

    Il garantismo di FI non vale per Vito Pitaro

    Altra vicenda vibonese interessante è quella di un altro Pitaro, Vito, estromesso dalla sera alla mattina dal centrodestra senza tante spiegazioni. Consigliere regionale uscente, è parecchio chiacchierato per delle intercettazioni molto sconvenienti con un sanguinario, presunto capo di una cosca emergente e per dichiarazioni di pentiti non esattamente da curriculum, ma per quel che se ne sa non è nemmeno indagato.

    L’ex comunista Vito Pitaro

    Stupisce dunque che il garantismo storico dei berlusconiani stavolta non sia stato adoperato per un politico che è ritenuto utile al Comune di Vibo. Lì (almeno finora) il suo gruppo sostiene l’amministrazione di centrodestra guidata da Maria Limardo ed è risultato “buono” anche per vincere le elezioni regionali del 2020. Invece ora, all’improvviso e senza motivazioni ufficiali, finisce fuori dalle liste. Per di più proprio quando il coordinatore regionale del partito che esprime il candidato alla Presidenza è lo stesso Giuseppe Mangialavori con cui si era alleato per vincere le Comunali.

     

    Il notaio vibonese con De Magistris

    Nel collegio centrale ha puntato forte anche un altro aspirante governatore, Luigi de Magistris, che tra Crotone, Lamezia e Vibo ha scelto candidati ben radicati sul territorio come Filippo Sestito, Rosario Piccioni e Antonio Lo Schiavo. Quest’ultimo, notaio vibonese, ci aveva già provato con Callipo alle passate elezioni ma non ce l’ha fatta per una manciata di voti. All’epoca e anche oggi ha il sostegno dell’ex presidente della Commissione regionale antimafia Arturo Bova, ma stavolta gli mancherà proprio l’appoggio lametino dell’area di Gianni Speranza di cui Piccioni è un punto di riferimento. Fra i tre, alla fine, potrebbe trarne vantaggio solo l’ex pm, forse.

     

    Lamezia rischia di non sedere in consiglio regionale

    A Lamezia, come previsto, è partita una nuova carica di candidature – una quindicina solo dalla città, senza contare l’hinterland – che rischiano solo di frammentare i rispettivi campi riducendo le possibilità di avere rappresentanti in consiglio regionale per la quarta città della Calabria, com’è già avvenuto nelle ultime due legislature.

    È da segnalare il ritorno in campo di Pasqualino Scaramuzzino, ex sindaco ai tempi del secondo commissariamento per mafia di Lamezia ed ex presidente della Fondazione Terina; di recente si è attirato parecchie polemiche social per un video (sponsorizzato) su Facebook in cui, affiancato da da Mangialavori e Occhiuto, esaltava il “sacrificio” di quest’ultimo per aver deciso, dalla postazione di rilievo della Camera, di venire a “sporcarsi le mani” in Calabria.

    Gioca la sua personale partita anche il deputato leghista Domenico Furgiuele, spesso citato per gli imbarazzi giudiziari in cui si è trovato il suocero, che ricandida l’uscente Pietro Raso in “accoppiata” con Antonietta D’Amico, provando così dal suo “feudo” di Sambiase ad allargarsi sia nell’hinterland che nel centro di Nicastro.

    Flora e Baldo nella campagna acquisti Udc

    Sull’asse Crotone-Catanzaro sembra potenzialmente forte, dal punto di vista dei consensi, la doppia new entry nell’Udc rappresentata da Baldo Esposito, già in area Gentile, e di Flora Sculco, altra figlia d’arte che scalpita come Silvia Parente il padre Claudio ha rinsaldato l’asse con Mimmo Tallini – e Katya Gentile, forte dell’accordo bifamiliare con gli Occhiuto tra la Regione e il Comune di Cosenza. Nell’Udc ha militato anche Sabatino Falduto, ex assessore comunale vibonese che oggi è candidato nella lista di Fratelli d’Italia e che “vanta” anche un passaggio nel Pd.

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    Flora Sculco, consigliera regionale del gruppo DP, si candida con l’Udc
    Cambi di casacca

    Trasversalismi e cambi di casacca sono d’altronde pratiche diffuse e nel collegio si segnalano a questo proposito le seguenti curiosità: Giovanni Matacera, candidato di Forza Italia, è fratello di Pietro, già vicesindaco di Soverato, cittadina jonica il cui sindaco è Alecci (candidato nel Pd); Innocenza Giannuzzi, già Agricoop, Confapi e ora Confartigianato, era candidata a gennaio 2020 con “Io resto in Calabria” di Callipo mentre ora è in lista con Oliverio; Tiziana De Nardo, alle precedenti elezioni candidata con i Democratici e progressisti (centrosinistra), nel giro di un anno e mezzo è passata, via Italia del meridione, a conquistare un posto nella lista “Forza azzurri”.

  • Così fan tutti (a Vibo): i politici ingombranti tornati in ballo per le Regionali

    Così fan tutti (a Vibo): i politici ingombranti tornati in ballo per le Regionali

    In comune hanno molte cose, soprattutto quella di essere ingombranti per i loro stessi schieramenti. Poi c’è l’umana tendenza all’autoconservazione che li spinge a svolazzare di fiore in fiore nel tentativo di carpirne il profumo e succhiarne la linfa. Le metafore finiscono qui, perché le gesta dei personaggi in questione non sono esattamente ancorate all’idealismo ma a quel realismo che in politica, specie nella periferia della periferia calabrese, si traduce in sfrontato cinismo.

    Non sono certo i soli, ma i loro profili sono paradigmatici di come vadano le cose in quel di Vibo Valentia, dove su trasversalismo e consociativismo si potrebbe istituire dei corsi di laurea. Sono quattro, due vengono dalla “città” e gli altri due dall’entroterra. Hanno cambiato casacca più volte, certo più per necessità che per propensione concettuale, e sono pure chiacchierati. Ma, direttamente o indirettamente, si preparano a giocare un ruolo di primo piano in vista delle prossime elezioni regionali.

    Hasta la victoria a volte

    Partiamo dal più giovane, Vito Pitaro. Avvocato, 45 anni, a gennaio 2020 è stato eletto nella lista “Jole Santelli presidente” con 5.024 preferenze. È alla sua prima legislatura regionale, ma a Palazzo Campanella ci era già stato prima, vedremo come e con chi. Dal 2005 al 2007 è stato consigliere comunale nella sua città, Vibo, nonché assessore alle politiche sociali, della famiglia, del volontariato, dell’associazionismo e sanitarie. Deleghe eterogenee, proprio come il suo percorso politico. Oggi Pitaro è un irrinunciabile portatore di voti del centrodestra – in molti scommettono in un suo boom di consensi esteso fino ai confini crotonesi del collegio – ma fino a qualche anno fa era addirittura un compagno: è stato in Rifondazione comunista e nei Comunisti italiani, quindi socialista e anche dirigente del Pd.

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    L’ex comunista Vito Pitaro

    In una delle poco esaltanti sedute di questi mesi del consiglio regionale, vestito come se stesse festeggiando un matrimonio a Little Italy, ha dato il meglio della sua arte oratoria per sbeffeggiare l’opposizione di centrosinistra rispetto ai danni fatti nel recente passato. Nessuno dei dirimpettai, però, gli ha ricordato che proprio nella vituperata legislatura precedente è stato tra i ben remunerati collaboratori di uno dei consiglieri del Pd più vicini a Mario Oliverio, Michele Mirabello.

    Intercettazioni che scottano

    Magari, regolamento alla mano, la Commissione Antimafia non potrà fare il “favore” a Roberto Occhiuto di segnalare il suo nome, che però compare, non da indagato, in un paio delle più rivelanti inchieste antimafia che hanno riguardato il Vibonese negli ultimi anni. In una, “Rimpiazzo”, ci sono intercettazioni parecchio sconvenienti dei suoi colloqui con un presunto killer ed elemento di vertice, descritto come piuttosto sanguinario, del clan dei “Piscopisani”.

    L’altra è Rinascita-Scott: nell’aula bunker del maxiprocesso il suo nome, anche qui non da indagato né da imputato, è riecheggiato più volte. E nelle carte, per esempio, c’è una telefonata tra un indagato e uno dei principali imputati, Giovanni Giamborino, in cui quest’ultimo dice: «’Sto Vito è uno spregiudicato… di nessuna cosa si guarda… fa compari, comparaggi con tutto».

    Il rinnegato

    Per anni Pitaro è stato il plenipotenziario su Vibo di Brunello Censore, ex uomo forte del Pd ora rinnegato dal suo stesso partito e riparato tra le fila di Mario Oliverio, con cui pare voglia candidare il figlio. Nato a Serra San Bruno 63 anni fa, cuoco, commercialista, docente di scuola superiore, è stato consigliere comunale e poi sindaco del suo paese dal 2002 al 2005. Quindi il grande salto: eletto consigliere regionale nell’era Loiero si conferma, passando all’opposizione, anche quando vince Peppe Scopelliti.

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    Da sinistra verso destra, Vito Pitaro, Stefano Luciano (capogruppo del Pd al Comune di Vibo) e Brunello Censore

    La carriera non si ferma e nel 2013 arriva addirittura alla Camera. Un figlio del popolo, di famiglia umile e cresciuto nella sezione del Pci di un paese di montagna, fa ingresso a Montecitorio e ci resta per 5 anni. Bersaniano quando vince Bersani, renziano quando si afferma Renzi, poi ovviamente anche Zingarettiano, alle primarie per il fratello di Montalbano incassa grandi numeri e diventa un personaggio social per un’espressione che riassume il suo credo politico – «a mia mi piacia mu ‘ndi vidimu allu bar, mu parramu , mu facimu…» – e per l’imitazione con tanto di video spopolante sul web che ne fece un giovane studente durante un incontro pubblico.

    Né con te né senza di te

    A maggio del 2018 il consiglio regionale della Calabria gli ha riconosciuto il vitalizio per i due mandati a Palazzo Campanella: 8 anni e 29 giorni per un assegno mensile di 4.113,58 euro. Alle primarie nazionali di cui si diceva (marzo 2019) fece una lista, “Calabria con Zingaretti”, assieme a Carletto Guccione e contro Oliverio. A giugno del 2019 dichiarava convinto: «Il Pd vada oltre Oliverio o la sconfitta è certa. Il progetto di cambiamento è diventato continuismo. Ripartiamo dal civismo».

    Probabilmente poi avrà cambiato idea sul civismo quando Pippo Callipo mise una x sul suo nome alle Regionali del 2020 facendolo ripiegare su Luigi Tassone, oggi ricandidato dal Pd che, come tanti altri nel percorso politico di Censore, gli ha voltato le spalle dopo aver beneficiato del suo appoggio. Oggi è tornato con Oliverio.

    Per Brunello la discesa è iniziata con la batosta presa alle Politiche del 2018, quando non è riuscito a farsi rieleggere alla Camera venendo superato dalla meloniana Wanda Ferro e dalla grillina Dalila Nesci. Lui all’epoca deteneva ancora le redini del Pd a Vibo e la sua prima vendetta fu l’espulsione dai dem dell’ex presidente della Provincia Francesco De Nisi.

    L’espulso già senza tessera

    Nato a Filadelfia nel ’68, ingegnere, eletto più volte sindaco del suo paese con percentuali bulgare, De Nisi viene dai cattolici di centrosinistra confluiti nella Margherita, ma quando Censore lo ha fatto espellere lui non aveva la tessera del Pd da due anni. Hanno fatto scalpore le foto che lo ritraevano all’epoca in un conciliabolo romano con il senatore di Forza Italia Giuseppe Mangialavori, ma oggi nessuno si stupisce più nel vederlo mani e piedi nel centrodestra.
    A gennaio 2020 si è candidato con Jole Santelli nella “Casa della libertà” ma, nonostante i 7mila voti presi, non è riuscito a diventare consigliere regionale. Stavolta ci riproverà con la creatura politica di Giovanni Toti, “Cambiamo”.

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    Francesco De Nisi
    La poltrona al fratello

    Nella sua Filadelfia ha lasciato la poltrona da primo cittadino ben salda sotto le terga del fratello minore, Maurizio, mentre alla Provincia ha condiviso con il suo predecessore, Gaetano Bruni, la sorte di dimettersi prima della scadenza naturale del mandato da presidente per inseguire uno scranno parlamentare mai raggiunto. La storia di quell’ente, finito in dissesto finanziario e al centro di inchieste e polemiche, è tristemente nota.

    Ancora tutta da scrivere, almeno in sede giudiziaria, è invece quella che potrebbe scaturire dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Giovanni Angotti, che nel corso di diversi interrogatori, parlando del clan Anello-Fruci, ha riferito «che la cosca in occasione di alcune competizioni elettorali aveva appoggiato Francesco De Nisi procacciandogli dei voti». De Nisi non è indagato e ha respinto le accuse del pentito: «Sono rimasto basito dalla diffusione di tali notizie del tutto prive di qualsiasi possibile indizio di fondamento e che contrastano con il mio impegno pubblico».

    Il pianista

    La sua strada si è recentemente incrociata con quella di un ex senatore di lungo corso tornato al centro del dibattito politico e anche delle schermaglie mediatico-giudiziarie. De Nisi, di scuola Dc, è infatti vicecoordinatore del movimento di Toti che, a livello regionale, è guidato da Franco Bevilacqua. Tutt’altra scuola: nato a Vibo nel ’44, insegnante, Bevilacqua viene dal Msi ed è entrato in Senato nel 1994 con Alleanza nazionale.

    A Palazzo Madama ha fatto quattro legislature: da An-Msi è passato nel Popolo della Libertà e ci è rimasto dal 2008 al 2013. Poi è transitato in Fratelli d’Italia ed è approdato alla corte dei sovranisti di Gianni Alemanno. Nel frattempo ha maturato il diritto a un vitalizio che oggi dovrebbe aggirarsi attorno ai 5mila euro al mese e, negli anni, le cronache parlamentari lo segnalano per un paio di episodi non proprio da curriculum.

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    Franco Bevilacqua in versione pianista

    Una volta fu beccato a fare il “pianista”: si votava (ottobre 2002) la “legge Cirami” (legittimo sospetto e rimessione del processo) e Bevilacqua fu ripreso mentre assieme ad altri schiacciava il pulsante anche per un collega assente. Un’altra volta risultò tra i cofirmatari di un disegno di riforma costituzionale per abolire la XII norma della Costituzione italiana, quella che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito fascista».

    Votato da tutti

    Oggi le sue posizioni devono essere diventate più moderate visto che è il coordinatore regionale di un partito/persona che guarda al centro e che parla, per la Calabria, di «modello Genova». Il suo rinnovato impegno è stato però “sporcato” dalle dichiarazioni di un altro pentito, Bartolomeo Arena, secondo cui i Pardea, storica famiglia mafiosa di Vibo, avrebbero sostenuto Bevilacqua.

    «È stato votato praticamente da tutti – ha detto Arena deponendo in Rinascita-Scott – perché ce lo disse Enzo Barba. È fratello di uno ’ndranghetista, Ferruccio (deceduto nel 2018, ndr), affiliato ai Pardea fin dagli anni ’70, avendo attivato la Locale insieme a mio padre, per poi avvicinarsi al ramo di Giuseppe Mancuso detto ’Mbrogghjia».

    «Ma era anche un massone perché Salvatore Tulosai, negli anni ’90 stava cercando di entrare in quegli ambienti proprio per il tramite di Ferruccio, legato a Carmelo Lo Bianco alias “Piccinni” ed Enzo Barba detto “Il musichiere”. Ma già il padre di Franco Bevilacqua aveva rapporti strettissimi con i Lo Bianco perché abitava nello stesso quartiere. Quando vinse le elezioni entrando in Senato ci ritrovammo tutti nella sua sede che era al centro della città».

    Così fan tutti

    Ovviamente le dichiarazioni dei pentiti sono ancora tutte da riscontrare e i politici tirati in ballo sono innocenti fino a prova contraria. Fanno però riflettere i vizi privati e le pubbliche virtù di una politica che a Vibo sembra sempre uguale a se stessa e sempre pronta a riciclarsi alleandosi e scambiando favori con chiunque, in barba a ideologie, partiti e schieramenti. Per dire: è emblematica un’intercettazione – sempre Rinascita-Scott – in cui uno dei Nostri, Censore, chiama Giancarlo Pittelli, avvocato-politico oggi ai domiciliari perché coinvolto nello stesso maxiprocesso, per dirgli che lo aveva sostenuto in passato, anche se i due appartenevano a partiti “nemici”, e che era venuto il momento di ricambiare il favore.

    Quella telefonata avveniva alla presenza di un imprenditore che secondo gli inquirenti sarebbe colluso proprio con la cosca di Filadelfia, il paese di De Nisi. Ed è capitato pure in un determinato momento storico non troppo lontano (febbraio 2019) che l’ex missino Bevilacqua e l’ex comunista Censore appoggiassero lo stesso candidato a sindaco (Stefano Luciano, oggi capogruppo del Pd in consiglio comunale). Così fan tutti, a Vibo.

  • Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

    Un tipo alternativo

    Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

    All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

    I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

    Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

    Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

    Un cadavere nel bosco

    Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

    Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

    Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

    Il coraggio di sfidare il “supremo”

    Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

    Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

    Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

    Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

    Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

    Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

    Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

    L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
    In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.