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  • Irtolandia: il nuovo Pd puzza già di vecchio, inciuci e sardine

    Irtolandia: il nuovo Pd puzza già di vecchio, inciuci e sardine

    Un anno fa Nicola Irto era il candidato in pectore del centrosinistra alla presidenza della Regione Calabria. Sul suo nome, però, arrivò il veto del Movimento 5 Stelle. E il Nazareno, in virtù della ricerca spasmodica – più nazionale che locale – di una alleanza organica con i grillini, lo sacrificò. A nulla valse il supporto offertogli da Dalila Nesci, pronta a candidarsi a primarie di coalizione (suscitando le ire dei suoi colleghi).

    Irto si ritirò con tanto di nota polemica offerta alla stampa. «La volontà di militanti ed elettori è svilita», dichiarò. Per poi annunciare di non voler «starsene zitto e buono» e denunciare i «piccoli feudi» del Pd. Poco dopo ne divenne il segretario regionale al motto di “Rigenerare il Pd”. Ma il partito pare essere solo all’ennesima situazione di stallo dove regna il tutti contro tutti.

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    Francesco Boccia, responsabile enti locali del Pd

    Irtolandia, in attesa delle politiche

    Oggi, il Pd è “Irtolandia”, un mondo dove lo scenario politico interno che viene raccontato è quasi idilliaco. L’unanimismo (spesso forzato) nelle decisioni interne e nell’elargizione di pennacchi partitici riempie le rassegne stampa quotidiane con roboanti annunci di assunzioni di responsabilità.
    Il tutto è chiaramente funzionale alle imminenti elezioni politiche che vedranno lo stesso capogruppo regionale del Pd candidato capolista (probabilmente al Senato). Irto, attualmente impegnato in un tour sui territori di presentazione del suo libro, è già proiettato verso uno scenario extracalabrese. E pazienza se ad accompagnarlo sono i mugugni di alcuni suoi colleghi eletti a Palazzo Campanella.

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    L’ex ministro Peppe Provenzano e Jasmine Cristallo

    I possibili intoppi rappresentati dal vedersi catapultati rivali interni nazionali pare averli scongiurati. Francesco Boccia è commissario regionale del Pd in Puglia e Stefano Graziano candidato segretario regionale del Pd campano. Con tali cariche avranno certamente diritto di opzione nei listini bloccati delle rispettive regioni. Ma per Irto sarà comunque complicato tenere le redini del partito con una lotta tra possibili “quote rosa” imposte da Roma e dirigenti locali, dato il risicato numero di posti per il Parlamento.

    Dema e Cristallo

    Il Nazareno, soprattutto per via dell’ex ministro Peppe Provenzano, tenta in tutti i modi di trovare spazio alla “sardina” di Catanzaro, Jasmine Cristallo. Il suo omologo bolognese, Mattia Santori, è consigliere comunale e si occupa di oche e frisbee. Lei è prima finita (con sorpresa dei più) nell’ormai noto sondaggio commissionato da Roma sui papabili candidati sindaci di Catanzaro espressi dal Pd. Poi avrebbe “suggerito” (tramite Boccia) al candidato sindaco Nicola Fiorita di offrirle un qualche ruolo nella campagna elettorale. Da qui al listino, però, ce ne passa. Certo è che se Fiorita dovesse diventare sindaco potrebbe essere suo grande sponsor. Sarà questo uno dei motivi del “boicottaggio” dei dem al “loro” candidato sindaco? Si vedrà.

    Altra questione è Luigi de Magistris, radicato praticamente “solo” in Campania ed in Calabria. Il centrosinistra a trazione Pd potrà concordare qualche patto di non belligeranza, inglobando qualche candidato dell’ex pm (la cosentina Anna Falcone?) in virtù del decantato campo largo? Sulla carta un accordo simile è già in atto nel capoluogo di regione, dove Dema e il Pd andranno a braccetto. Difficile, però, che l’uscente-effervescente Enza Bruno Bossio non usi (politicamente) il bazooka per farsi spazio, unitamente alle altre donne interne al Partito con l’ambizione di un giro di giostra in Parlamento.

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    Stefano Graziano, ex commissario del Pd in Calabria

    Ciao ciao Graziano

    Unica nota accolta con sollievo unanime all’interno del Pd è il bye bye a Stefano Graziano. Dell’ormai ex commissario regionale del Pd per ben tre anni, con in mezzo due elezioni regionali stra-perse, non rimarrà certo un buon ricordo tra i militanti, eccezion fatta per le portaborse di Amalia Bruni, da lui stesso indicate. Oltre alle elezioni calabresi, Graziano perse pure la sua in Campania nell’autunno del 2020. E dire che a sostenerlo c’erano vari big locali del suo partito: il sindaco di Caserta e presidente dell’Anci Campania, Carlo Marino; il vicesindaco Franco De Michele, presidente dell’Ente Idrico; il consigliere comunale e membro del C.d.a. del Consorzio Asi, Gianni Comunale.

    Graziano, però, è stato subito “recuperato” da Vincenzo De Luca quale suo consulente. Farà l’“Esperto del Presidente in materia di Analisi e programmazione economica degli interventi inerenti alle Reti ed Infrastrutture di interesse strategico regionale”. Oggi, proprio lo stesso De Luca lo sta fortemente sponsorizzando come segretario regionale a seguito delle dimissioni di Leo Annunziata. Andasse in porto, si archivierebbe nei fatti la sua candidatura in Calabria come “risarcimento” per il lavoro svolto nel triennio da commissario regionale.

    I feudi ci sono ancora: il caso Vibo

    Nonostante la mediatica narrazione del Pd come “IrtoLandia” e i congressi celebrati con la curatela del Nazareno che ha imposto l’unanimità nell’assunzione delle varie cariche, sui territori continuano ad esserci quei feudi che Irto aveva denunciato giusto un anno fa. E la situazione non si accinge certo a migliorare.

    Emblematico è il caso del Pd di Vibo Valentia, rimasto orfano del capogruppo in consiglio comunale, Stefano Luciano. «Sono grato a Nicola Irto per avermi scelto in direzione regionale del Pd, ma quanto verificatosi recentemente nel partito cittadino e provinciale non mi ha lasciato sereno, perché ogni spinta verso un radicale cambiamento è stata impedita in ogni modo e con ogni forza», ha dichiarato Luciano prima di abbracciare Azione di Carlo Calenda qualche giorno fa.

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    Giovanni Di Bartolo, segretario provinciale del Pd a Vibo Valentia

    Rigenerazione sì, ma dei parenti

    Già, perché in città è prevalsa la linea di Francesco Colelli e Fernando Marasco (provenienti da Sinistra, ecologia e libertà) e Carmelo Apa, proveniente da Rifondazione Comunista.
    Non certo una “Rigenerazione”, per dirla con Irto, ma il riproporsi delle stesse facce o dei loro parenti. È il caso del consigliere comunale del Pd Stefano Soriano, figlio di Michele, già candidato a sindaco in quota dem nel 2010. Ma anche del consigliere provinciale Marco Miceli che, seppur iscritto al gruppo “Vibo Democratica” (strizzando l’occhio al M5S), ha come padre un dirigente cittadino di lungo corso del Pd (ha guidato la commissione di garanzia dell’ultimo congresso).

    A livello provinciale il “pennacchio” di segretario è andato, invece, a Giovanni Di Bartolo, studente universitario, classe ’96, già “social media manager” dell’ex deputato Brunello Censore. La presidenza del Partito, invece, è toccata all’ex consigliere regionale Michele Mirabello, anche lui ex pupillo di Censore e già segretario provinciale del Partito nel 2013. Per l’uscente segretario provinciale Enzo Insardà, infine, è arrivato il posto di tesoriere regionale del Partito.

    L’ambiguo rapporto con Solano

    A “rigenerarsi” con questo nuovo Pd è certamente il presidente della Provincia di Vibo Valentia, Salvatore Solano, imputato per corruzione, concorso nel minacciare gli elettori e turbata libertà degli incanti con l’aggravante mafiosa nell’ambito del processo della Dda di Catanzaro “Petrolmafie”.
    Già, perché la consigliera provinciale del Pd Maria Teresa Centro ha accettato di buon grado la delega offertale da Solano (che, ricordiamo, è stato eletto con Forza Italia), unitamente al citato Miceli, supportata dal collega di gruppo comunale Giuseppe Policaro, anch’esso grande supporter di Solano. Insomma, qui il nuovo Pd inciucia quanto e come il vecchio.

    A Catanzaro ritorno al passato

    Una versione amarcord del Pd arriva pure dal Catanzarese. Sui tre colli hanno “incoronato” segretario l’ex consigliere comunale Fabio Celia, che è stato il primo coordinatore del Pd cittadino nel 2010. Dodici anni fa scriveva: «Basta con chi ha generato la morte della politica di centrosinistra in città; basta con chi ha costruito lobby di potere per gestire la politica dell’interesse e dell’affermazione di sé e dei propri amici». Un ottimo intento, che pare cozzare, però, con l’aver piazzato suo cognato Giuseppe Correale prima come portaborse di Francesco Pitaro e ora di Ernesto Alecci.

    Come primo atto, Celia ha nominato un direttivo dal quale nell’immediato si è dimesso più d’uno in dissenso con la linea del Partito. Non proprio un buon inizio. La nomina di Celia è arrivata dopo il passo indietro di Salvatore Passafaro, figlio di ex consigliere comunale, già coordinatore cittadino del Pd  – e futuro capolista, qualora i dem abbiano la forza di stilare una lista alle prossime amministrative nonché protagonista delle primarie farsa (con tesseramento fasullo) del 2019.

    Come segretario provinciale, archiviata la tragicomica era Cuda, è stato collocato Domenico Giampà. Il sindaco di San Pietro a Maida, protagonista della faida per la segreteria provinciale con Enzo Bruno a suon di ricorsi del 2013, è un ex portaborse dell’assessore all’Ambiente Roberto Musmanno, fedelissimo di Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo. Il Pd a guida Giampà ha confermato come presidente l’ex primo cittadino di Satriano, Michele Drosi, già portaborse dell’assessore regionale Francesco Russo nell’era Oliverio.

    Ernesto Alecci, consigliere regionale del Pd

    Il nuovo Pd che guarda a destra

    Piccolo particolare: come membro della direzione regionale il Pd catanzarese ha nominato Eugenia Paraboschi, figlia dell’ex presidente della commissione di garanzia del partito catanzarese, storico comunista di Marcellinara. È proprio in questo paese che Eugenia è stata candidata ed eletta con “Marcellinara da Vivere”, lista di centrodestra con candidato a sindaco l’allora vicepresidente della provincia in quota Forza Italia, oggi consigliere regionale di Fdi, Antonio Montuoro. La Paraboschi correva contro il segretario cittadino del Pd di Marcellinara, Giovanni Torcasio, ed è ancor oggi nel gruppo consiliare con l’esponente dei meloniani. Insomma, c’è molta confusione in questo “nuovo Pd”. Tanto che, in vista delle comunali del capoluogo, molti suoi esponenti hanno già virato a destra con Valerio Donato, chi ufficialmente, chi in maniera felpata.

    A Cosenza tutto rimandato

    A non cedere fino ad oggi all’unanimismo forzato che è stato imposto nelle varie province è stata la federazione del Pd cosentino, che esprime la deputata Enza Bruno Bossio.
    La Commissione nazionale di garanzia ha annullato le fasi propedeutiche alla celebrazione dei congressi alla luce dei vari ricorsi presentati. Tutto rimandato a maggio, in attesa che Bruno Bossio, Bevacqua, Zagarese, Locanto e Iacucci, con la tutela nazionale imposta per il tramite del funzionario Riccardo Tramontana, trovino la quadra.

    Nel mezzo, però, ci son state le elezioni provinciali di Cosenza, che hanno visto vincere il centrodestra di Rosaria Succurro. Il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi, ha punzecchiato: «Bisognerebbe riflettere su quanti e sulle ragioni di chi, seppur del centrosinistra o del PD, hanno votato centrodestra, visto che è aritmeticamente accertato». Per questa resa dei conti c’è da attendere.
    Intanto il tour di Irto continua, di feudo in feudo.

    La parlamentare del Pd, Enza Bruno Bossio
  • Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

    Energia gratis contro il caro bollette? La Calabria ci prova

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    «Arrivare secondo inizia già a darmi fastidio, voglio arrivare primo nelle cose che faccio». Ha fretta Giuseppe Condello, sindaco di San Nicola da Crissa (VV). Il suo piccolo paese, “balcone delle Calabrie” alle pendici del Monte Cucco, è uno dei primi comuni nella regione che porterà a regime in tempi brevi una comunità energetica rinnovabile solidale, nel quartiere delle case popolari di Critaro.

    Qui le procedure amministrative sono state completate. L’istituzione della Comunità risale allo scorso 19 gennaio: nel giro di un mese, secondo i piani della giunta comunale, si procederà all’installazione degli impianti fotovoltaici. Le famiglie coinvolte sono 32. «Prima di Pasqua potremmo installare l’impianto, e ci vorranno 15 giorni. Contiamo di renderlo operativo entro maggio», ci spiega Illuminato Bonsignore, amministratore unico della 3E Environment Energy Economy s.r.l e sviluppatore della Comunità.

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    Un panorama di San Nicola da Crissa

    L’operazione vuole regalare ai cittadini energia pulita, il controllo dei propri consumi e bollette più basse. Stando ai dati del Comune, i beneficiari possono risparmiare tra i 250 ed i 300 euro all’anno. Tutto questo senza spese di installazione, grazie al finanziamento della BCC del vibonese. L’ambizione è quella di estendere la Comunità a tutti i 1000 abitanti del centro entro la fine dell’anno.

    Insieme ad altri Comuni, San Nicola da Crissa punta a diventare uno dei modelli per la transizione ecologica, specialmente nei piccoli comuni. E le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) saranno un pezzo molto importante di questa trasformazione.
    Si tratta di gruppi di soggetti, sia pubblici che privati, che decidono di produrre insieme energia elettrica tramite fonti rinnovabili da utilizzare per l’autoconsumo.

    I benefici delle Comunità energetiche

    Partiamo da una delle questione più sentite degli ultimi tempi, quella del peso in bolletta. I membri di una CER in funzione posso ottenere tre tipi di introiti. Il primo è il Ritiro Dedicato, cioè quello che si ottiene dalla semplice vendita dell’energia prodotta dagli impianti. Il secondo è l’incentivo sull’energia consumata nel momento della produzione, pari a 110 euro al MWh.

    È una questione di equilibrio: «Se produco 100 e riprendo 100, il bilancio non perturba il sistema», ci spiega Daniele Menniti, ordinario del dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical.
    In questo caso, hanno un ruolo decisivo le tecnologie di monitoraggio in tempo reale dell’energia, così come i sistemi di accumulo, che permettono di conservare l’energia in eccesso ed ottenere l’incentivo durante le ore serali.

    Il terzo contributo è di circa 8 euro a MWh, che lo Stato restituisce perché gli utenti utilizzano meno la rete. Come funziona? I membri della CER continuano ad essere legati ai loro vecchi fornitori. Questi aggiungono in fattura i costi di trasporto dell’energia: lo Stato, però, sa che è stata autoprodotta, quindi restituisce i soldi ai beneficiari, per il tramite del Gestore dei Servizi Energetici (GSE).
    Non dimentichiamo, inoltre, che si tratta soprattutto di una lotta contro le emissioni. Le CER, secondo i dati di Legambiente ed Elemens, possono contribuire in Italia per il 30% degli obiettivi climatici per il 2030.

    Come si costituiscono

    Nel concreto, però, come si attiva una Comunità Energetica? A livello normativo, siamo in una specie di limbo: si possono fare, ma non si sa con che parametri potranno essere costituite in futuro.
    Le CER, infatti, sono state introdotte in Italia con l’art. 42 bis del Decreto Milleproroghe del 2019, con una serie di limiti restrittivi che dovevano essere superati con il Dlgs 199/2021, documento che recepisce in maniera completa la direttiva europea intitolata RED II.
    Il problema, però, è che ancora non sono stati stilati i decreti attuativi. Per ora, rimangono alcuni vincoli significativi, come la vicinanza fisica alla cabina secondaria o il limite di potenza degli impianti (attualmente di 200 KW).

    In attesa delle novità, e nonostante la mancanza di un piano energetico regionale, si può comunque creare una Comunità. Il primo passo è l’individuazione delle cabine secondarie, così da delimitarne il perimetro. «Con la normativa attuale possono far parte solo di una CER le persone il cui contatore è collegato a questa cabina», ci spiega Illuminato Bonsignore, che con la sua azienda ha reso possibile la creazione della Comunità di San Nicola Da Crissa. Nel paese, ad esempio, si è scelto di costruire l’impianto fotovoltaico sopra il tetto di una scuola, che era allacciata alla stessa rete del quartiere di Citrato.
    Delineato il perimetro, si può iniziare la ricerca dei membri della comunità, che dovranno fornire i dati dei consumi diurni. La parte più complicata, inevitabilmente, è l’installazione degli impianti. Sia per la lentezza della macchina burocratica, sia per la ricerca dei finanziatori.

    Il PNRR e il piano della Regione

    Il PNRR mette a disposizione 1,6 miliardi per i progetti di condivisione dell’energia nei comuni sotto i 5.000 abitanti: «Sebbene appaiono tanti, sono semplicemente il 10% di quanto ha speso il governo per tentare di combattere il caro bollette, senza neanche riuscirci», riprende Menniti. Se la Regione vuole finanziare i centri più grandi, invece, dovrà usare le sue risorse, come in parte già previsto dal nuovo POR 2021-2027.
    Una volta presentato il progetto e installate le tecnologie necessarie, la Comunità può entrare a regime.

    Le CER garantiscono dei vantaggi economici, ambientali e sociali, dando però una serie di responsabilità all’utente/gestore. «Non basta mettersi insieme, firmando un pezzo di carta. Dobbiamo far si che l’energia condivisa sia la massima possibile, ed essere capaci di consumarla nel momento in cui viene prodotta» ci ricorda Menniti.
    Nonostante l’enfasi da parte della politica, il professore chiede prudenza: «Bisogna stare attenti perché le comunità energetiche non sono la panacea di tutti i mali. Sono comunque un contributo importante, un primo passo verso la democratizzazione dell’energia» e la fine della dipendenza da fonti straniere.

    Di investimenti sulle comunità energetiche ha parlato anche di recente l’assessore regionale Rosario Varì. L’intenzione è di «sostenere i comuni che hanno più di cinquemila abitanti. Nell’ambito del Pnrr abbiamo soltanto per il supporto alle comunità energetiche 121 milioni di euro, la Regione Calabria ne ha stanziati circa 42 per il primo supporto e circa 41 per tutta la tecnologia a supporto», il suo annuncio. Seguito da quello di Roberto Occhiuto secondo cui la prima comunità energetica sorgerà proprio nella Cittadella: «Ho chiesto all’assessore che se ne facciano anche nei nostri aereoporti perché hanno bisogno di energia».

    Andamento lento

    La priorità delle varie amministrazioni deve essere l’installazione delle tecnologie rinnovabili, specialmente i pannelli fotovoltaici. Secondo il report di Legambiente Comunità rinnovabili: quale energia per una Calabria proiettata nel futuro?, la crescita degli impianti è stata costante, ma molto lenta: al momento, il tasso annuale di costruzione degli impianti è inferiore all’1%. Una lentezza che si accompagna a quella dell’intera nazione. Secondo il dossier Scacco alle Rinnovabili, per rispettare gli impegni internazionali presi, l’Italia dovrebbe installare almeno 6 GW di potenza da fonti rinnovabili ogni anno. Al 2021, non arriviamo a 1,8 GW.

    «È come se io dovessi regolare il traffico in un centro città, avendo le strade, le autovetture e tutto il resto. Allora mi pongo il problema di creare meno caos», spiega Menniti con un esempio. «Qui non siamo a questo punto. Qui ancora abbiamo installato i pannelli fotovoltaici giusto su qualche tetto, Non abbiamo esaurito la risorsa minimale, la più scontata, che non richiede di pianificare nulla».

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    Una centrale idroelettrica

    Infatti, su 10.438 GWh di energia elettrica prodotta in Regione, il fotovoltaico contribuisce solo con 681 GWh. In generale, il 36% dei consumi non sono prodotti da fonti rinnovabili, secondo i dati messi a disposizione dall’Unical. A farla la padrona sono ancora le fonti termoelettriche tradizionali, che sfruttano il gas: producono 13.000 GWh, 13 volte in più dell’idroelettrico.
    E se è vero che la nostra Regione genera un grosso surplus di energia elettrica rispetto a quella che consumiamo (+180%), bisogna ricordare che questo proviene dall’utilizzo del gas, una risorsa che prendiamo dall’estero, che inquina e sulla quale non abbiamo il controllo. Senza dimenticare che «il 90% per cento dei Comuni che hanno impianti a fonti rinnovabili hanno impianti che non funzionano perché non fanno la manutenzione».

    Le altre comunità energetiche

    San Nicola da Crissa punta a diventare la prima Comunità Energetica Solidale della Regione. «La differenza con quelle normali, fatte dai privati, è che questi investono per guadagnare. In questo caso, invece, nessuno investe. Le famiglie non mettono e non rischiano un euro, e guadagneranno. In questo modo si viene incontro alle famiglie che hanno difficoltà a pagare le bollette, perciò è solidale», specifica ancora Bonsignore.

    Ed è proprio per combattere la povertà energetica che a San Nicola si è scelto di creare la comunità nel quartiere delle case popolari. Il sindaco Condello si è voluto ispirare ad una delle prime esperienze in Italia, la CER solidale di Napoli Est, finanziata dalla Fondazione Famiglia di Maria e operativa dallo scorso 17 dicembre. Un modello che è stato citato anche dal New York Times.
    Gli esempi da cui prendere spunto non mancano nel nostro Paese. Già nel 2018, in Veneto, Coldiretti Veneto e ForGreen hanno iniziato a collaborare alla creazione di una comunità energetica agricola. Esperienza da non confondere con il filone dell’agrivoltaico, un modello che prevede l’installazione dei pannelli fotovoltaici direttamente sui campi agricoli.

    Napoli, i pannelli sui tetti della prima CER italiana

    I progetti in Calabria

    Tutte le regioni, poco alla volta, stanno iniziando a promuovere le comunità. Tornando in Calabria, San Nicola da Crissa non è l’unico progetto regionale che è quasi pronto per l’attivazione. L’Università della Calabria, da mesi, sta lavorando con i piccoli comuni calabresi. La prima convenzione tra Comuni, il dipartimento DIMEG dell’Unical ed il Consorzio Regionale per L’energia e la Tutela Ambientale (CRETA) ne ha coinvolti 16, che stanno vedendo i loro progetti realizzarsi. Dopo pochi mesi, il numero è salito a 60.
    Uno di questi è il comune di Panettieri, cittadina di poco più di 300 abitanti. Qui, un privato ha finanziato un grosso impianto fotovoltaico da 600 KW, che metterà a disposizione dei membri della CER, senza costi aggiuntivi.

    L’Università della Calabria

    Secondo Daniele Menniti, coinvolto direttamente nella loro realizzazione, «anche Francica è pronta. In dirittura di arrivo c’è pure il comune di Triolo, che fu uno dei primi a iniziare il percorso insieme a noi».
    Una strada simile a quella di San Nicola è stata battuta da Amendolara, in provincia di Cosenza. Qui, i costi della costruzione dell’impianto di Fotovoltaica Srl verranno coperti in parte da finanziamenti pubblici, ed in parte con il sostegno di alcune banche.
    Sul loro aumento, comunque, ci sono pochi dubbi. E non solo per motivi ambientali ed energetici, ma anche di opportunità politica. «Ci sono un po’ di movimenti anche su Catanzaro. Molti, in vista delle nuove elezioni, vogliono inserire nel loro programma amministrativo proprio il tema delle comunità energetiche», conclude Menniti.

  • La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

    La prof ucraina in dad: lezione sotto le bombe agli studenti in Calabria

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    La scuola oltre la guerra, come un esile filo che trattiene il desiderio di una normalità perduta. Da Zaporozhye, città ucraina sulle rive del Dnepr, che per la sua posizione strategica è stata duramente bombardata dalle truppe russe, fino ad un appartamento nel cuore di Cosenza. È in questa sua nuova casa che Klim affronta calcoli matematici che devono sembrargli difficili ma dal cellulare giunge la voce della sua professoressa, rimasta lì dove ancora piovono le bombe. Lei, come un rassicurante appuntamento, si collega in rete e raggiunge i suoi studenti sparsi per l’Europa.

    La resistenza ucraina è fatta anche di questo, di brandelli di normalità, di lezioni tramite la rete, di contatti che non vogliono interrompersi.
    Klim è uno dei tanti studenti ucraini che hanno raggiunto parenti e amici che già da tempo stavano in Italia. La nonna di Klim, per esempio, è una apprezzata allenatrice di tuffi, che ha curato anche la preparazione atletica del campione cosentino Giovanni Tocci. Oggi Klim è iscritto alla terza media della scuola di via Negroni.

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    Klim con i compagni della scuola di via Negroni a Cosenza

    Le scuole si rimboccano le maniche

    «Il ragazzo è giunto alla nostra scuola tramite i genitori di altri studenti», spiega Marina Del Sordo, dirigente dell’istituto comprensivo. Lo hanno iscritto alla seconda media, che corrisponde al settimo anno del sistema scolastico ucraino «e accolto con grande calore dai nuovi compagni». Davanti a questa emergenza le scuole si sono trovate a gestire potenti novità, senza poter far conto su mediatori culturali o sostegni di sorta.

    Solo di recente la Regione Calabria si è accorta di quanto le nostre scuole fossero coinvolte in questo intervento solidale ed ha provveduto ad emanare una circolare in cui si chiede ai dirigenti di vigilare sullo stato vaccinale dei nuovi studenti provenienti dalla zona di guerra e di riempire un modulo per ottenere la presenza di mediatori linguistici. Nel frattempo le scuole avevano fatto da sé, assumendo «decisioni riguardo l’accoglienza dei nuovi studenti che garantissero il loro benessere e una efficace inclusione»

    Gli orfani di Kharkiv

    Chi per adesso il problema della vaccinazione, molto sentito da chi siede a Palazzo Campanella, non se lo pone è la preside dell’istituto comprensivo di Vibo Valentia “Amerigo Vespucci”. «Questi vengono da una guerra, abbiamo altre priorità, come accoglierli nel modo migliore», dice Maria Salvia, con la voce di chi nella trincea della scuola in emergenza ci sta da parecchio. Di bambini ucraini il suo istituto ne ha accolti quaranta, tutti provenienti da un orfanotrofio di Kharkiv, giunti qui accompagnati da un tutore legale e per adesso affidati ad alcune famiglie.

    Su questo aspetto la preside è perentoria: «Non sono adottati, né adottabili, sono ospiti e la loro permanenza presso le famiglie sarà verosimilmente prorogata mese per mese». Il tramite attraverso cui sono giunti in Calabria è il consolato ucraino di Napoli che era in contatto con alcune associazioni accreditate di Vibo. Giunti qui, un operatore turistico di Capo Vaticano ha aperto le porte del suo villaggio ed è partita la gara di solidarietà.

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Dal punto di vista scolastico i ragazzi sono stati inseriti nelle classi corrispondenti alla loro età anagrafica, così da trovare coetanei in grado di includerli meglio possibile. «Con i docenti, invece, abbiamo provveduto a ricalibrare il percorso didattico in maniera da trasformare questa situazione difficile in una opportunità anche per gli studenti italiani, che hanno modo di confrontarsi con coetanei che provengono da una esperienza durissima». Un modo per crescere assieme ma senza violare «la loro naturale riservatezza, perché abbiamo compreso che non amano essere al centro dell’attenzione»

    Dal Liceo sportivo al Coreutico

    Quando si scappa dalle bombe, si comincia una vita nuova. Per Alina, che ha lasciato il suo liceo sportivo, ad accoglierla c’era una classe di ballerine, quelle dell’indirizzo coreutico del “Lucrezia Della Valle” di Cosenza. Alina non conosce una parola d’italiano, ma una scuola non si fa spaventare facilmente e mette in campo tutte le risorse che ha. L’asso nella manica del Lucrezia Della Valle si chiama Angela, è ucraina ma vive in Italia da tempo. Angela tiene in ordine le aule e il corridoio del corso dove studia Alina e in un attimo è diventata una mediatrice linguistica e culturale.

    «Questo fenomeno migratorio ha carattere transitorio – spiega la preside Rossana Perri – perché queste persone sentono forte il desiderio di tornare alle loro case», ma intanto occorre provvedere ad una accoglienza che sia autenticamente inclusiva, anche sul piano scolastico, «per questo i docenti di Alina predisporranno un piano educativo personalizzato, per andare incontro alle sue esigenze facendo fronte alle difficoltà». È la scuola che è sempre pronta ad affrontare a mani nude i cambiamenti inattesi, anche se la preside spiega che «dal ministero sarà fatto un censimento per individuare il numero degli studenti ucraini e la loro distribuzione, in maniera da predisporre le risorse necessarie».

    Artem e le sue scarpette nuove

    Valentina Carbone è una maestra della scuola elementare di via Roma che di bambini ucraini ne ha accolti tre fino ad adesso, ma potrebbero aumentare di numero, considerato l’impegno del dirigente Massimo Ciglio sul fronte dell’inclusione.
    Valentina parla di loro come «i suoi bambini», si tratta di scolari dagli otto ai nove anni, inseriti in classi con compagni di uguale età e subito ben accolti. Una classe particolarmente vivace e avvolgente si è presa cura di Artem, per il quale ogni piccolo passo fatto durante le lezioni è una vittoria. Come quando sollecitato dalla maestra Valentina a scrivere tutte le parole italiane che aveva imparato, è stato in grado di riempire quattro fogli.

    «Con lui ho fatto quello che faccio con i bambini della prima classe, sono partita dalle vocali, le consonanti, fino a formare le parole ed è stato subito un successo». Attorno a questi bimbi c’è un universo di accoglienza, fatto di chi nel pomeriggio si prende cura di loro e anche di piccoli regali. Perché domenica si gioca a calcio con i compagni di scuola e Artem, che ha lasciato la propria casa senza portarsi le sue scarpette, avrà quelle nuove.

  • La marcia su Vibo: in strada per difendere il diritto a Cultura e Bellezza

    La marcia su Vibo: in strada per difendere il diritto a Cultura e Bellezza

    Il liceo Morelli dista da quel palazzo, costruito su antichi resti romani, poco più di cento passi. E quello che è accaduto a Vibo in queste poche decine di metri ha molto a che fare con l’idea di «insegnare la bellezza». Senza rispolverare la retorica su Peppino Impastato, che in realtà certe parole non le ha mai pronunciate, si tratta comunque di una storia che fa pensare. Perché riguarda la bellezza e, soprattutto, il coraggio di non girarsi dall’altra parte.

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    Il liceo Morelli di Vibo Valentia

    A spasso nella storia di Vibo

    Parla proprio di questo, ai suoi ragazzi, Maria Concetta Preta, docente di Lettere, Latino e Greco del Classico di Vibo. Della bellezza passata, di quella nascosta e anche di quella ricoperta da cemento e collusioni. La professoressa ha promosso nelle scorse settimane una «Marcia per i Beni culturali» che ha portato i suoi studenti «in cammino per il diritto alla Cultura e alla Bellezza».

    Lo hanno fatto richiamando l’articolo 9 della Costituzione e andando, fisicamente, in alcuni luoghi simbolo del patrimonio archeologico vibonese. Il Tempio Greco al Belvedere, le Aree sacre del Cofino e del Cofinello, il Museo “Capialbi”, le Mura Greche di Hipponion. Gli studenti vorrebbero adottare una porzione di queste mura (nell’ambito del progetto “La scuola adotta un Monumento”, che passa per un concorso nazionale promosso dalla Fondazione Napoli 99), ma per il momento lo hanno potuto fare solo simbolicamente.

    Il Parco archeologico invaso dalla vegetazione

    Nessuno infatti ha aperto loro i cancelli del Parco archeologico perché, hanno risposto dalla Soprintendenza, il sito «risulta inagibile a causa di alta vegetazione che ingombra gran parte del percorso di visita e la vista stessa dei monumenti». Insomma sono necessari dei lavori di manutenzione straordinaria per i quali la Soprintendenza «sta provvedendo», mentre quella ordinaria spetta al Comune che ha pure garantito che se ne occuperà.

    Una tappa non ufficiale

    «Vedremo se mai si riuscirà a visitare il percorso messo in luce da Paolo Orsi nelle campagne di scavo fatte tra 1916 e 1921», commenta la professoressa Preta, che non demorde. Alla Marcia con gli studenti è stata pure aggiunta una “tappa” non ufficiale: sono andati proprio davanti al palazzo, di cui si parla nelle carte dell’inchiesta “Rinascita-Scott” e nel maxiprocesso che ne è scaturito, ricostruendone la controversa vicenda. Su I Calabresi ne abbiamo scritto raccontando gli agganci di un presunto factotum dei Mancuso e il senso del dovere di chi ha provato a ostacolarlo.

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    I resti di epoca romana catalogati prima che ci costruissero un palazzo sopra

    Alla fine lui ce l’ha fatta, ha superato i vincoli e fatto erigere il suo palazzo nel luogo in cui c’erano i resti di un’antica strada e di una villa di epoca romana. Però il fatto che la vicenda sia emersa non è rimasto isolato. C’è stato un seguito grazie alla coscienza sociale di docenti come Maria Concetta Preta che, nella sua «didattica all’aperto» votata alle «competenze», all’«ascolto» e al «pensiero critico», ha ricordato le luci del patrimonio culturale vibonese senza nasconderne le ombre.

    Una lezione per i cittadini di domani

    «Tappa irrinunciabile», commenta la prof sui social. «Non si parla d’altro – aggiunge – quando si tocca l’articolo 9 della Costituzione Italiana e la didattica trasversale sulla Legalità. Dovere della scuola è far leggere criticamente e civilmente la storia antica e presente della propria civitas. La narrazione di Hipponion/Valentia e di Vibo non può ignorare questi argomenti. È un dovere etico dei docenti, prim’ancora cittadini! A chi consegneremo il nostro testimone, se non prepariamo un pochino i giovani, facendo aprire loro gli occhi?».
    Ad affrontare di recente la questione del “palazzo della discordia” è stata anche una docente di Istituzioni di diritto pubblico dell’Unical, Donatella Loprieno. Ne ha parlato diffusamente durante un corso promosso dal Consorzio Macramè con Legacoop Calabria e il Forum del Terzo settore Calabria.

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    Il “palazzo della discordia”

    L’interrogazione a Franceschini dopo gli articoli su I Calabresi

    Il titolo della sessione era “La criminalità organizzata impoverisce la democrazia costituzionale?”. La risposta, questa sì, è retorica. Ma prima o poi, visti i contorni imbarazzanti per gli uffici che da lui dipendono, potrebbe provare a darla anche il ministro della Cultura Dario Franceschini. A lui è infatti rivolta l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Misto Francesco Sapia dopo i nostri articoli.

  • INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

    INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

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    La vita di Emanuele Mancuso è cambiata nel giro di una settimana. Quattro anni fa, il 18 giugno del 2018, ha cominciato a parlare coi magistrati, ha deciso di raccontare ciò che ha visto e vissuto in 30 anni da rampollo di un potentissimo casato di ‘ndrangheta. Tre giorni dopo sarebbe dovuta nascere sua figlia, che si è poi fatta aspettare un altro po’, venendo al mondo il 25 giugno. I due eventi – la scelta di pentirsi e la nascita della primogenita – sono strettamente collegati.

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    Emanuele Mancuso intervistato da Studio Aperto

    Lo ripete spesso, Emanuele: ha iniziato a collaborare con la giustizia proprio per la figlia. Avrebbe voluto crescerla in un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto lui. Ma, denuncia, ora gli viene impedito.

    Gli viene negato un diritto che è invece garantito a molti altri genitori che con la giustizia hanno avuto parecchi problemi ma che, come invece ha fatto lui, non ci hanno mai collaborato.

    Figlio di Pantaleone “l’Ingegnere”, quando suo padre era in carcere riusciva a vederlo più di quanto oggi permettano a lui di stare con sua figlia. Gli è concessa poco meno di un’ora a settimana, in locali «fatiscenti e privi di ogni requisito di legge». La bimba ora ha 4 anni e nota la presenza dei «signori» dei Servizi sociali e di quelli della scorta ai loro incontri.

    Lei vive, per decisione del Tribunale per i minorenni, in una casa-famiglia con la madre. Stanno in una località protetta individuata dal Servizio centrale di protezione, dunque a carico dello Stato, anche se l’ex compagna di Emanuele non si è mai dissociata dal contesto della famiglia di lui. Anzi, a suo dire sarebbe «in mano» ai Mancuso. A entrambi è stata limitata la responsabilità genitoriale.

    «Mi hanno visto persone di Limbadi»

    Emanuele è il primo, con il pesantissimo cognome Mancuso, ad essersi pentito. Mostra una certa dimestichezza con i meccanismi e la terminologia giuridica, ma il tono sicuro con cui solitamente parla, anche davanti ai giudici, durante un colloquio esclusivo con I Calabresi tradisce una profonda amarezza. Succede quando gli si chiede se abbia paura. «A questa domanda preferirei non rispondere. Una volta è capitato pure che mi abbiano visto alcune persone di Limbadi… Dico solo che quando ti isolano, provano ad avvicinarti più volte, ti tolgono quello che hai di più caro, la ragione per cui hai fatto la scelta più difficile, allora della vita e delle morte non ti interessa più niente. Non hai più paura di niente. Che mi dirà domani mia figlia?».

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    Pantaleone Mancuso “l’Ingegnere”, padre di Emanuele Mancuso

    «Salgono con le valigette di soldi e comprano tutto»

    Di recente ha inviato due lettere all’Autorità Garante per l’infanzia e al Presidente della Repubblica. Contengono una denuncia pesantissima: il pentito parla di «maltrattamenti» che la sua piccola subirebbe dagli operatori sociali. E parla di un «complotto» per sfinirlo e portarlo ad abbandonare la collaborazione con la giustizia.

    Dice anche molto altro: «La mia famiglia si compra tutto. Sale con valigette piene di soldi dove sta la bambina e corrompe i Servizi sociali. Infatti mi trattano come fossi Pacciani e fanno relazioni che contengono falsità, completamente sbilanciate dalla parte della mia ex compagna. La dipingono come una povera donna che non sapeva chi io fossi. Invece siamo stati insieme per circa 10 anni e si era inserita nel contesto criminale. È stata pure denunciata due volte per reati commessi mentre era nel programma di protezione».

    Un uomo libero

    Ora Emanuele è un uomo libero, anche se la libertà vera è un’altra cosa. «Mi sveglio alle cinque di mattina per andare a lavorare e torno la sera», dice. Ma si sente ingiustamente privato della possibilità di costruire un vero rapporto affettivo con la figlia. Una cosa che lo sta facendo vacillare parecchio. «Vogliono farmi ritrattare. Ho fatto tutto questo per poterla crescere e ora me lo impediscono».

    Il suo ragionamento è drammaticamente lineare. «Se il Tribunale ti dice che limita la tua responsabilità genitoriale a causa del conflitto con la madre della bambina, è chiaro che l’unico modo per riavere mia figlia è attenuare questo conflitto, insomma fare pace. Tra l’altro la rottura non è dovuta a motivi sentimentali, ma alla mia scelta di collaborare».

    Fare pace dunque significherebbe «inevitabilmente passare attraverso la mia famiglia». E fare marcia indietro, ritrattare, rientrare nei ranghi dei Mancuso. «Se va avanti così – ammette sconsolato – finisce che saluto tutti e ciao… ma non sarebbe solo una disfatta per la giustizia, sarebbe un’enorme sconfitta sociale».

    Teme le presunte pressioni sulla ex compagna

    C’è un episodio piuttosto inquietante che conferma quanto, secondo lui, l’ex compagna sia manovrata dai suoi familiari. Emerge da alcuni atti depositati nei processi – già approdati a sentenze di primo grado sia in abbreviato che in ordinario – sulle presunte pressioni della famiglia per indurlo a ritrattare. Si tratta di un’informativa di polizia giudiziaria redatta dopo l’ultimo arresto del padre.

    Nel 2014 “l’Ingegnere” era stato individuato a Puerto Iguazù, in Argentina, mentre cercava di passare il confine con il Brasile su un bus turistico, con un documento falso e 100mila euro addosso. A marzo del 2019 lo hanno invece beccato a Roma in una sala Bingo. Aveva con sé un IPhone ed è proprio da quel telefono che gli inquirenti hanno tirato fuori i messaggi scambiati con i familiari durante la latitanza. Chat che sono finite in un decreto di acquisizione di documenti di 187 pagine.

    Lei parla con i Mancuso

    I contatti tra i familiari di Emanuele e la sua ex compagna sono frequenti. Sembrano tenerla sotto controllo, tanto che a un certo punto si parla di un registratore da piazzare nella sua abitazione. E lei mostra soggezione nei confronti di Pantaleone, con cui dialoga attraverso il telefono della moglie. A un certo punto le dice, tra il serio e il faceto: «Sono in cielo e in terra». Le impartisce indicazioni precise: «Non mi deludere». Fino ad arrivare a scriverle esplicitamente: «Tu mettiti a disposizione».

    Succede dopo che lei manda un sms all’avvocato di Emanuele, fa uno screenshot del messaggio e lo invia alla sorella del pentito, che a sua volta lo inoltra al padre. Pantaleone cerca di tranquillizzare l’ex compagna del figlio. Ma lei è allarmata: «Si mi beccano quel coso su rovinata». Il «coso» sarebbe un telefono che lei dovrebbe portare a un incontro con l’ex compagno. La ragazza prova a ipotizzare una soluzione diversa: «Se riesco porto la scheda. E poi un cel lo prenderò lì». Lui taglia corto: «Na fari difficili». Ma il tono di lei resta quello: «Mi stati mandandu a furca».

    La compagna del pentito «abilmente governata» da Pantaleone l’Ingegnere

    L’ex compagna di Emanuele, secondo gli inquirenti «abilmente governata» dall’“Ingegnere”, avrebbe dovuto portare con sé, di nascosto anche dal suo compagno, un telefono (o una sim card) a un incontro con il pentito. Avrebbe voluto far credere, tramite l’sms al suo avvocato, che voleva riconciliarsi con lui ed entrare così nel programma di protezione, ma solo quando lui sarebbe stato posto ai domiciliari, perché all’epoca era ancora in carcere.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme dove si celebra anche il processo Rinascita-Scott

    L’attentato al pentito sventato dalla Dda di Catanzaro

    «In questo modo sarebbe venuta con me nella località protetta e, mettendo questa sim in un telefono, avrebbe dovuto inviare ai miei familiari la posizione in cui ci trovavamo». Insomma, chiosa il pentito: «Stavano pianificando un agguato. Ma la Dda di Catanzaro lo ha sventato». Trae una conclusione agghiacciante, Emanuele. Ma i contatti tra la sua famiglia e l’ex compagna sono effettivamente cristallizzati nelle carte della Procura antimafia. In cui parecchie pagine sono coperte da omissis.

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    Luigi Mancuso “Il Supremo”

    Una dinastia di ‘ndrangheta

    Intanto nel Vibonese, tra Limbadi e Nicotera, la calma apparente nasconde un’evoluzione ancora non decifrabile delle dinamiche interne a una delle famiglie più potenti dell’intera ‘ndrangheta, e dunque delle mafie di tutto il mondo. Luigi Mancuso, il “Supremo”, è stato arrestato nel blitz di “Rinascita-Scott”, la maxinchiesta di cui è un elemento centrale e da cui è scaturito il processo che si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia.

    Luigi è zio di Pantaleone “l’Ingegnere”, dunque prozio di Emanuele. Nel frattempo sono tornati in libertà due zii diretti del pentito, Diego e Peppe “‘Mbrogghia”. Quest’ultimo è ritenuto uno dei capi storici, tra i più temuti. Si è fatto 24 anni consecutivi di galera, 20 dei quali in regime di 41 bis. Pare abbia sempre avuto un legame particolare con Luigi, che è suo zio ma è più piccolo di lui di qualche anno. Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, Domenico, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Peppe Mancuso “Mbrogghia”

    «Sono un esercito», dice Emanuele dei suoi parenti. E aggiunge: «Figli e nipoti si sono laureati, alcuni recandosi ben poche volte all’università, giusto per firmare… Hanno contatti con colletti bianchi, massoneria…». Descrivendo i boss, spiega che «Luigi è il più “istituzionale”». Mentre Peppe «ha un cimitero alle spalle (risulta condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ndr). Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa. Ai giovani però – conclude – io vorrei dire una cosa: il fascino della ‘ndrangheta è ingannevole, in realtà fa schifo, non rovinatevi la vita con queste porcate».

  • La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.

    In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.

    Anello, il boss imprenditore

    Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.

    Niente telefono, basta la moglie

    Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.

    Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.

    Il finanziere coinvolto

    Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme

    Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.

    Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.

    Kalashnikov all’ufficio postale

    Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».

    Dal Tirreno allo Jonio

    La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.

    Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.

    «Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».

    «I capannoni degli Abramo»

    C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
    Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».

    Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.

    L’erba con la Panda

    Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
    Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».

  • Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Chissà quanti tra qualche anno si ricorderanno della crisi idrica dell’Epifania. Sicuramente rimarrà in mente agli operai di Sorical che lavorano da ormai 7 giorni per ridare l’acqua a migliaia di persone. Però non la dimenticheranno neanche quelle persone che si sono ritrovate in pieno inverno coi rubinetti a secco. Specie chi è in difficoltà, non è autosufficiente o è in quarantena, che a Vibo città e nei paesi dell’entroterra è costretto a chiedere aiuto per lavarsi o cucinare.

    Lavori all'Alaco per riportare l'acqua nelle case
    Lavori all’Alaco

    Il 5 gennaio

    Per bere no, perché quell’acqua non la beve nessuno neanche in tempi normali. Dieci anni fa l’invaso da cui arriva, l’Alaco, è stato sequestrato dalla Procura e non si ha notizia che sia mai stato dissequestrato. Ma nonostante le inquietanti accuse di avvelenamento colposo di acque il processo è finito in prescrizione e l’acqua di questo lago artificiale non ha mai smesso di immettersi nelle case dei vibonesi. Almeno così è stato fino al 5 gennaio scorso, quando il terreno della montagna di Brognaturo, a mille metri sulle Serre, è franato rompendo due condotte. È ancora da capire se una perdita abbia causato la frana o viceversa, perché in quel momento non pioveva. Comunque il risultato è un blackout idrico sulla linea che serve Vibo e su quella che rifornisce sia i paesi dell’entroterra che alcuni Comuni della Piana di Gioia Tauro.

    Il bacino dell'Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese
    Il bacino dell’Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese

    Nessun piano B

    Così un evento imprevedibile ha fatto scoprire a molti che non esiste un piano B. Il territorio non ha alternative di approvvigionamento e, negli anni, è diventato quasi totalmente dipendente da un invaso controverso. Ancora, per esempio, nessuno ha spiegato cosa sia successo tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, quando nell’acqua proveniente da quel lago di montagna l’Arpacal – che come Sorical fa capo alla Regione – trovò composti «derivati dal benzene» e, soprattutto, un valore fuorilegge di triclorometano, cioè cloroformio. Acqua passata: la maggior parte dei vibonesi non sembra esserselo più chiesto.

    Niente acqua ai forestieri

    Questi giorni li ricorderà senz’altro anche il sindaco di Brognaturo, Rossana Tassone, che all’assalto alle fontanelle pubbliche del suo paese ha reagito emanando un’ordinanza, di dubbia legittimità, per vietare ai non residenti di riempire bottiglie e bidoni. Sommersa da critiche anche feroci, ha spiegato che si erano verificati pericolosi assembramenti. In realtà era stata anche insultata per aver provato a far rispettare le regole e le è scappata la frizione istituzionale. Il giorno dopo ha revocato l’atto disponendo il «prelievo massimo, per ogni utente, di 50 litri». Alcuni ragazzi della vicina Serra San Bruno hanno riscosso sui social un certo successo con un video satirico che riporta la vicenda ai tempi del proibizionismo.

    «Un fatto veramente curioso»

    A Soriano invece, qualche giorno dopo l’amministrazione comunale ha avvisato i cittadini che la mancanza d’acqua non era dovuta al guasto ma «ad un fatto veramente curioso». La Protezione civile aveva «ritenuto opportuno riempire delle cisterne di acqua per portarla ai cittadini di Gerocarne che stanno subendo in questi ultimi giorni una grave carenza idrica» e il soccorso ai vicini ha causato lo svuotamento dell’acquedotto di Soriano. Il sindaco, Vincenzo Bartone, ha fatto sapere di essersi rivolto ai carabinieri.

    In un altro paese della provincia, Arena, si è cercato di alleviare il disagio allacciando al serbatoio comunale la rete di una contrada servita da Sorical. Il sindaco Antonino Schinella dice di voler arrivare, nel giro di qualche mese, «finalmente, dopo decenni e una lunga attesa», ad affrancarsi «definitivamente da Sorical».

    A Serra, centro più popoloso della zona, l’Alaco è da anni un tema caldo non disdegnato dai politici locali. Puntualmente, in campagna elettorale garantiscono ai cittadini indignati di adoperarsi per un’autonomia che nessuno, benché i boschi attorno al paese fossero pieni di sorgenti oggi in gran parte non più fruibili, finora ha dimostrato di poter raggiungere. Compreso l’attuale sindaco, Alfredo Barillari, che ora prova a incalzare Sorical affinché «dia tempi certi sul ritorno alla normalità di decine di comunità che vivono da giorni in condizioni, ormai, divenute insopportabili».

    Acqua in bottiglia

    Il commissario leghista di Sorical, Cataldo Calabretta, con l’esplodere della crisi ha «dato disposizione di attivare una prima fornitura di oltre 2.500 casse di acqua minerale in bottiglie da 2 litri alla Protezione Civile del Comune di Vibo». Nel frattempo sia nel capoluogo che nei paesi le autobotti della Prociv e tanti volontari hanno fornito altre migliaia di litri di acqua ai cittadini che ne avevano bisogno.

    Acqua, Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo
    Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo

    Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) dice che «il tempo massimo per l’attivazione del servizio sostitutivo in caso di sospensione del servizio idropotabile è di 48 ore» e prevede degli standard specifici di continuità del servizio. In caso di mancato rispetto degli standard «l’utente finale ha diritto ad un indennizzo automatico (base) pari a 30 euro – incrementabile del doppio o del triplo in proporzione al ritardo dallo standard».

    Candidature

    Comunque: a dispetto di qualche annuncio troppo precipitoso, gli acquedotti nel capoluogo di provincia hanno ricominciato a riempirsi nel pomeriggio del 10 gennaio, ma in alcuni punti della città l’acqua arriva a singhiozzo e in altri per nulla. Nell’entroterra montano tutti a secco: ancora si stanno effettuando dei lavori delicati – resi nei giorni scorsi difficilissimi dalle condizioni climatiche e dai luoghi impervi – e la gente è all’esasperazione.

    Calabretta sul cantiere di Brognaturo
    Calabretta sul cantiere di Brognaturo

    Lo stesso Calabretta è salito al cantiere al sesto giorno di emergenza e si è «intrattenuto con gli operai», che ha giustamente ringraziato perché hanno profuso sforzi enormi. Nello stesso comunicato, mentre quelli continuavano a lavorare nel fango e gli utenti riversavano rabbia sui social, si è però preoccupato di sottolineare che «Sorical sta ancora una volta dimostrando di poter gestire non solo gli investimenti per gli acquedotti, ma anche affrontare e risolvere gravi emergenze». Aggiungendo che la società da lui guidata «è il candidato naturale per la gestione del servizio idrico integrato della Calabria».

    Milioni e multiutility

    Lo sguardo del commissario Sorical è rivolto ai progetti di ammodernamento delle reti che ha già presentato e per i quali sollecita la Regione. Ma è chiaro che l’obiettivo sono i milioni di euro in arrivo con il Pnrr. In questi mesi si sta giocando una partita che ha portato, sulle ceneri della “Cosenza Acque”, alla costituzione di un’Azienda speciale consortile di cui dovranno far parte tutti gli oltre 400 Comuni calabresi. Questa società, costituita in fretta per non perdere dei fondi destinati alle reti, si occuperà della fornitura al dettaglio, mentre a Sorical per ora resterà l’ingrosso.

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto ha chiarito che si tratta di una soluzione provvisoria perché vuole arrivare a un’unica «multiutility» che gestisca tutto: fornitura idropotabile, depurazione e riscossione delle bollette. Il governatore sostiene che «il fallimento del sistema idrico integrato» sia dovuto «oltre che alla inadeguata gestione della Sorical, al mancato avvio di un processo di riorganizzazione e di integrazione tra la gestione della grande adduzione e le gestioni delle reti comunali».

    L’enorme percentuale della dispersione (45%) è ricondotta all’«impossibilità da parte dei Comuni di far fronte al costo insostenibile nei confronti della stessa Sorical e di provvedere alla manutenzione straordinaria della rete». E c’è sempre il problema dei cittadini (tanti) che non pagano l’acqua e dei debiti – a volte scanditi da contenziosi – che i Comuni hanno con Sorical.

    Sovranisti dell’acqua

    Quanto avvenuto nel Vibonese dovrebbe però aprire una riflessione ampia, certo non ideologica ma anche sganciata da interessi privati o profitti politici, sulla gestione di un bene (in teoria) collettivo e sempre più prezioso. Su cui – piaccia o no a chi decanta le meraviglie delle gestioni private ma non disdegna i soldi pubblici – i calabresi nel 2011 si sono espressi in massa: in 780mila hanno votato Sì al referendum per escludere i profitti dall’acqua, più o meno quanto l’intero corpo elettorale che si è recato alle urne alle Regionali di tre mesi fa.

    acqua pubblica

    C’è ora da chiedersi se il “sovranismo” idrico di alcuni sindaci e le sempre più frequenti guerre di campanile per l’acqua, tra cui si annovera anche quella estiva tra Cotronei e San Giovanni in Fiore, siano il prologo di un futuro non troppo lontano in cui la mancanza d’acqua genererà conflitti tra poveri. E c’è da domandarsi se davvero la soluzione possa essere l’autonomia attraverso fonti locali e piccoli acquedotti o la dipendenza dai grandi schemi idrici.

    Pioggia di fondi

    È evidente che da tempo, e lo si ribadisce anche nel Pnrr, le classi dirigenti individuano nella «gestione industriale» la soluzione a tutti i mali. Certamente ne sono convinti gli attuali protagonisti della governance dell’acqua calabrese, ovvero Occhiuto, Calabretta e Marcello Manna (sindaco di Rende, presidente di Anci Calabria e dell’Aic, l’Autorità idrica calabrese che è l’ente di governo d’ambito in cui sono rappresentati i Comuni).

    Tutti e tre sono senza dubbio interessati alla gestione della pioggia di fondi europei destinati al settore e non è difficile intuire chi farà la parte del leone. Fa però rumore, in proposito, il silenzio di Occhiuto: pur intervenendo ogni giorno su questioni anche nazionali, il presidente non ha detto una parola sulla crisi che ha messo in ginocchio buona parte della sua regione.

    Ma prima o poi, oltre a cercare di trarre profitto dalle emergenze e pretesti per mettere le mani sui soldi del Recovery, qualcuno dovrà spiegare perché chi ha gestito Sorical in questi anni – senza escludere alcuna parte politica che ha governato la Regione – non abbia fatto gli investimenti che servivano per evitare, o quantomeno alleviare, una crisi di tale portata.

  • Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Il paradiso e l’inferno, la giustizia e l’ingiustizia. Figure retoriche e categorie abusate nel linguaggio comune si incrociano in maniera tremendamente concreta nell’omicidio di Matteo Vinci. Il suo paradiso, racconta la madre Sara, erano gli ulivi che lui stesso aveva piantato in un terreno a Limbadi, paese del Vibonese tristemente noto come feudo del clan Mancuso. Ed è proprio lì che ha trovato l’inferno quando, il 9 aprile del 2018, la Fiesta su cui era a bordo assieme al padre Francesco è saltata in aria dilaniandolo ad appena 42 anni.

    Il pestaggio di Francesco Vinci

    La giustizia, Sara Scarpulla e Francesco Vinci, la cercano nei Tribunali e continuano a invocarla dopo che la Corte d’Assise di Catanzaro, poco prima di Natale, ha condannato all’ergastolo coloro che sono ritenuti i mandanti dell’omicidio: Rosaria Mancuso, sorella di alcuni boss della cosca egemone, e il genero Vito Barbara. Per i presunti esecutori materiali è in corso il rito abbreviato mentre, sempre nell’ordinario, sono stati comminati 10 anni (a fronte dei 20 chiesti dall’accusa) a Domenico Di Grillo, 75enne marito di Rosaria Mancuso, accusato di un brutale pestaggio avvenuto nel 2017 contro il papà di Matteo, lasciato quasi esanime e con la mandibola fracassata davanti a quella campagna che i Mancuso/Di Grillo, secondo l’accusa, volevano prendersi a ogni costo.

    Tre ergastoli

    Gli ergastoli, ha commentato la mamma di Matteo affiancata dall’avvocato Giuseppe De Pace, «in realtà non sono due ma tre», perché va considerata anche la condanna inappellabile subita da suo figlio. Le motivazioni della sentenza sono molto attese: dovranno spiegare come sia possibile che un omicidio così efferato, commesso con un’autobomba e seguito a un pestaggio per la volontà ancestrale di dominio su un pezzo di terra, per di più nella roccaforte dei Mancuso e su ordine – stando alla sentenza di primo grado – di qualcuno che porta quel cognome, non sia ascrivibile a motivazioni, atteggiamenti, mentalità mafiose. L’aggravante è infatti caduta, ma ancora più sconcerto desta nei genitori di Matteo il fatto che da qualche giorno Di Grillo sia a casa sua.

    A pochi metri dai Vinci

    A pochi passi, qualche decina di metri, da dove Sara e Francesco Vinci continuano a fare i conti con il loro dolore, davanti a quegli occhi che hanno visto il figlio trovare una morta atroce, Di Grillo potrà ora scontare i domiciliari. La Corte d’Assise ha infatti accolto l’istanza presentata il 17 dicembre dai suoi difensori, Gianfranco Giunta e Francesco Capria, che hanno sostanzialmente posto tre questioni a tutela del loro assistito: l’età, le patologie di cui soffre, l’assoluzione per alcuni reati. Era infatti originariamente accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso e di tentato omicidio, mentre è stato condannato “solo” per armi e lesioni gravi.

    Infermità accertate

    Dei 10 anni che gli sono stati inflitti per il delitto Vinci dalla stessa Corte che lo ha poi scarcerato ne ha trascorso in carcere già quasi 3 e mezzo, dunque un terzo della pena. Le sue «accertate infermità», secondo gli avvocati, sono una valida ragione per farlo tornare a casa, «potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria attuale anche in combinazione letale con il virus covid19 che ancora circola». Nell’istanza vengono elencate 8 patologie e viene descritta una situazione «molto severa e rischiosa anche in virtù dell’età avanzata e della pessima condizione psicofisica».

    Vittime e carnefici

    È dunque contenuta in poche righe la giustizia dei tecnicismi legali e si materializza in poche decine di metri l’ingiustizia della realtà. Ci sono i diritti costituzionalmente garantiti anche al peggiore degli assassini e c’è il dovere dello Stato di rendere almeno la verità a una madre e un padre costretti, per il resto dei loro giorni, a convivere con la condanna peggiore che possa esserci al mondo. È su questo confine labile, sottile e forse impercorribile da chi non conosce certi dolori, che si consuma il dramma di Limbadi. Dove le vittime sono condannate a stare accanto ai carnefici e tutto – la giustizia e l’ingiustizia, il paradiso e l’inferno – sembra destinato a trasformarsi nel suo contrario.

  • Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Per “tagliare” quattro curve e realizzare un tratto di strada di appena un km c’è voluto l’esercito. Negli anni scorsi gli abitanti delle Serre si erano abituati a vedere i ragazzi con il mitra e la mimetica mandati in questo lembo della Calabria centrale a combattere una guerra che di sicuro non era la loro. Quel tratto, oggi completato dopo enormi ritardi e con modalità assimilabili alla diga di Mosul in Iraq, è uno dei simboli della Trasversale delle Serre, una strada di cui si parla da più di mezzo secolo. E che tra le tante incompiute calabresi assume contorni ormai mitologici.

    L'esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre
    L’esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre (Foto Salvatore Federico, 2016)
    Oltre mezzo secolo, meno di 40 km

    Dovrebbe collegare, in circa 56 km, la costa tirrenica e quella jonica, da Tropea a Soverato, passando per l’entroterra serrese. Non è certo un’opera facile, costellata com’è di gallerie e viadotti. Ma pur essendoci stata nell’ultimo decennio una qualche accelerazione, questo termine rappresenta senza dubbio un eufemismo. Le parti completate oggi misurano circa 37 km e questi chilometri non sono nemmeno consecutivi.

    Una mappa dei tratti realizzati finora
    Una mappa dei tratti realizzati finora

    Siamo pur sempre nella periferia di due province della Calabria (Catanzaro e Vibo) dove ogni cosa sembra più difficile che altrove. Comunque qualche giorno fa il presidente della Regione Roberto Occhiuto l’ha menzionata tra i temi affrontati in un incontro con il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini e anche questa è una notizia. Chissà però se entrambi sanno quanto i loro omologhi in passato abbiano promesso e tagliato nastri vagheggiando uno sviluppo che, nel frattempo, deve aver sbagliato strada.

    Promesse bipartisan

    Non avrebbe potuto perdersi, per esempio, il defunto Altero Matteoli quando, nel febbraio del 2011, per inaugurare due tratti (8 km in tutto) affiancato da Peppe Scopelliti arrivò qui non in auto ma in elicottero. Nell’immaginario locale, poi, più che le parole è rimasta impressa l’improbabile camicia con cui Mario Oliverio si presentò nell’agosto del 2015 accompagnato dall’immancabile stuolo di tecnici e politici che gli illustravano le ben poco progressive sorti dell’infrastruttura.

    In ogni metro della Trasversale delle Serre c’è una quota di retorica e buone intenzioni difficilmente quantificabile. Al di là dell’ironia, ognuno dei politici menzionati e sicuramente molti altri – ci si può inserire anche l’ex parlamentare Giancarlo Pittelli – si è mosso e ha poi messo il cappello sulla “sua” quota di soldi pubblici destinati all’opera. Che in totale potrebbe avere un costo che si aggira attorno ai 600 milioni euro, ma fare una stima compiuta è difficile. Almeno quanto capire se questa, dopo l’incontro Occhiuto-Giovannini, possa essere davvero la volta buona, come l’Anas sostiene da tempo.

    Una storia iniziata nel 1966

    D’altronde si trova traccia della Trasversale delle Serre in atti ufficiali già dal 1966, quando il Comitato regionale per la programmazione economica propose di realizzare una strada «a scorrimento veloce» che collegasse la zona ai due mari. Due anni dopo l’amministrazione provinciale catanzarese inserì l’opera nell’“Asse di riequilibrio territoriale” ma per arrivare al primo appalto si dovette aspettare fino al 1983 (3 km tra Vazzano e Vallelonga). Seguì un altro lungo stop fino a quando, nel 1997, partirono i lavori tra Chiaravalle e Gagliato con grande soddisfazione dell’allora Sottosegretario di Stato ai Trasporti Giuseppe Soriero (governo Prodi), che piazzò se stesso con sfondo di piloni su un memorabile manifesto in cui dichiarava lo sviluppo del territorio ormai inesorabilmente avviato.

    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Cittadini allo scontro

    Tanto avviato che, oggi, la strada realizzata, sul lato vibonese, va da Serra San Bruno a Vallelonga, pochi chilometri per poi fermarsi e ricomparire con un breve tratto tra le campagne di Vazzano e l’imbocco dell’autostrada. Sul versante jonico va invece ininterrottamente dalla cittadina della Certosa fino a Gagliato. Lì finisce: c’è un muro invisibile su cui si scontrano, giusto per non farsi mancare nulla, le rivendicazioni di due gruppi di cittadini. Quelli che abitano proprio le contrade tra Gagliato e Satriano, contrari al progetto – rimodulato da Anas rispetto a uno originario più complesso e costoso – che vedrebbe loro espropriati un bel po’ di terreni, e quelli del Comitato “50 anni di sviluppo negato” che invece spingono perché almeno si completi quest’ultimo, breve tratto che consentirebbe di arrivare dalle Serre a Soverato in circa venti minuti.

    Il malcontento dei cittadini
    Il malcontento dei cittadini
    Costi e tempo aumentano

    Si sono susseguite riunioni di sindaci, dibattiti, interventi sulla stampa e cartelli piantati sul ciglio della strada. Ma ancora è tutto fermo e chi tragga vantaggio da simili lungaggini è difficile stabilirlo. Certo fa specie ciò che la Guardia di finanza qualche tempo fa ha segnalato alla Corte dei conti: un potenziale danno erariale di oltre 56 milioni di euro emerso dopo un monitoraggio durato tre anni sull’appalto che riguarda il tratto vibonese, aggiudicato nel 2005 per un importo di circa 124 milioni di euro e concluso dopo 13 anni spendendone oltre 191. Il risultato è che i tempi contrattuali si sono dilatati del 300% con «un incremento pari al 46% circa dell’importo dei lavori».

    Fiamme e pallottole

    Quella della Trasversale delle Serre non è certo solo una storia di proteste, lungaggini burocratiche e costi lievitati. Nell’aprile del 2015 un capocantiere fu arrestato perché accusato di essere tra i responsabili delle intimidazioni subìte dalla sua stessa azienda. Ne emerse «un solido rapporto fiduciario» tra il capocantiere e alcuni «esponenti di pericolose organizzazioni criminali intenzionate ad affermare il loro potere sul territorio».

    Nella notte tra il 12 e il 13 ottobre 2014 le fiamme distrussero diversi mezzi di quel cantiere e il geometra che aveva denunciato il fatto trovò un bossolo calibro 12 sotto il tergicristallo dell’auto. Poi qualcuno gli telefonò dicendo: «Se non ve ne andate la prossima volta le cartucce saranno piene, per te e i tuoi colleghi». A fare quella telefonata, secondo quanto emerse dall’inchiesta dei carabinieri di Serra San Bruno, sarebbe stato proprio il capocantiere poi arrestato.

    Pentiti e Servizi segreti

    In una relazione consegnata al governo nel 2007 i Servizi segreti segnalavano che tra «le proiezioni imprenditoriali/collusive della ’ndrangheta» c’era il settore dei lavori stradali. E che, in questo ambito, c’erano «soprattutto» quelli di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, della Statale 106 e della Trasversale delle Serre. Che le ‘ndrine della zona abbiano banchettato sui lavori della Trasversale lo ha rivelato l’inchiesta “Showdown 3”. Un pentito, Gianni Cretarola, che ha raccontato molti retroscena della seconda “faida dei boschi” e ha parlato del «grande business della Trasversale».

    Secondo Cretarola «tutto l’ambiente ‘ndrangheta» era coinvolto nelle decisioni sui grandi appalti: agli imprenditori veniva imposto di pagare il 3% che veniva poi diviso tra le ‘ndrine del luogo. Anche il pentito vibonese Andrea Mantella ha raccontato di presunti legami tra la ‘ndrangheta locale e un noto politico della zona per «raddrizzare questi grossi imprenditori, che venivano dal Nord» e piazzare gli escavatori e il calcestruzzo del clan sui cantieri della Trasversale delle Serre.

  • L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    Gli epiteti che Giovanni Giamborino le riserva, parlando con altre persone, non sono riferibili. E guardando a cosa emerge da questa incredibile vicenda – raccontata da I Calabresi in altri due articoli – si capisce anche il perché. Lui è una delle figure chiave dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché è considerato un faccendiere del superboss Luigi Mancuso. Lei è un’archeologa oggi in pensione che, fino a quando e come ha potuto, ha tentato di impedirgli di ricoprire di cemento i resti di una villa e di una strada romana nel centro di Vibo Valentia. Il cemento della ‘ndrangheta, almeno secondo la Dda di Catanzaro, alla fine ha però avuto la meglio sulla gloriosa storia di cui la città che fu Hipponion e Monteleone fa vanto. E che è stata calpestata nell’indifferenza di quasi tutti. Non di Maria Teresa Iannelli, rivelatasi un osso duro anche per chi, grazie ad amici e «fratellini», era abituato a vedersi aprire ogni porta.

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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
    Il maggiore del Ros Francesco Manzone ha spiegato in Tribunale che lei rappresentava un problema «insormontabile» per Giamborino. Perché? Cosa ha pensato leggendo le cronache di quell’udienza?

    «Non ricordo di avere conosciuto il maggiore Manzone, ma, a giudicare da quello che ha dichiarato, credo che abbia compreso appieno la vicenda dell’edificio realizzato da Giamborino. In effetti, già nel 1987, quando da tempo ero l’archeologo responsabile di Vibo Valentia, la Soprintendenza Archeologica della Calabria era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori.

    Nello stesso anno, alla luce degli importanti resti rinvenuti, è stato emanato un decreto di vincolo archeologico che, per quello che ne so, è tuttora in vigore. Per anni, nonostante il vincolo, Giamborino, e prima di lui la madre, hanno chiesto ripetutamente l’autorizzazione a costruire ottenendo categorici dinieghi. Evidentemente la fermezza e il rigore delle risposte hanno determinato la giusta convinzione dell’impossibilità di ottenere quanto richiesto».

    Avrà letto anche le intercettazioni che testimoniano il tenore dei contatti tra Giamborino e due archeologi, Mariangela Preta e Fabrizio Sudano. Se lo sarebbe aspettato?

    «Conosco da tempo la dottoressa Preta che, per qualche tempo, ha partecipato ad alcune campagne di scavo da me dirette. Come ho fatto con altri giovani colleghi, ho dato anche a lei la possibilità di introdursi all’archeologia. Ma successivamente ho interrotto ogni rapporto perché è venuta meno la stima necessaria. Il dottor Sudano è stato mio collega di Soprintendenza solo per pochi anni a ridosso del mio pensionamento. Con lui ho instaurato pochi rapporti formali. In ogni caso quanto ho appreso dall’articolo mi lascia profondamente sconcertata».

    L’incontro tra Giamborino, Sudano e Famiglietti monitorato dai militari del Ros
    In che modo aveva provato a fermare i lavori che Giamborino stava facendo su quelle antiche vestigia? Perché non ci è riuscita?

    «Fin dall’inizio dei lavori di sbancamento che hanno portato alla luce importanti reperti, la Soprintendenza era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori, che, però, il Comune ha ritardato a notificare, nonostante le mie sollecitazioni, consentendo così il parziale sbancamento dell’area. La presenza del vincolo e i dinieghi a costruire hanno, per molti anni, salvaguardato l’area.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    E poi cosa è successo?

    Nel 2015 il Soprintendente pro tempore mi ha informata della sua intenzione di concedere l’autorizzazione. Più volte le ho illustrato, anche con note interne, la notevole importanza archeologica di quell’area nell’ambito della città greco-romana, tant’è che l’autorizzazione è stata subordinata allo scavo delle pareti non ancora sbancate.

    Infine, il rinvenimento delle monumentali arcate medievali e del tratto di strada romana realizzata con grossi basoli, mi aveva fatto ben sperare in un ulteriore diniego a costruire. So che le attività di scavo sono proseguite anche dopo il mio pensionamento avvenuto il 1 maggio 2015. Quanto al non essere riuscita a fermare la realizzazione del fabbricato, mi sembra evidente che il mio parere di semplice funzionario sia stato superato a livello gerarchico».

    Che valore storico poteva avere quel sito ricoperto dal cemento?

    «Per farne comprendere la valenza storico archeologica basta dire che nella realtà urbana di Vibo, dove lo strato medievale si sovrappone a quello romano e questo a quello greco, dopo anni di ricerche a cominciare dall’Orsi (1921) fino ai nostri giorni, non si era mai trovato un asse viario di età romana che consentisse di conoscere, anche se parzialmente, l’impianto urbano romano».

    In quegli anni sentiva la pressione di Giamborino e degli ambienti (politica, massoneria, burocrazia) da cui secondo gli inquirenti avrebbe tratto vantaggi?

    «Le pressioni dei vari ambienti sono state fortissime e costanti in tutto il periodo in cui sono stata responsabile di Vibo Valentia. Ma la mia personale risposta, sostenuta dal Soprintendente che più a lungo ha diretto l’Ufficio (dottoressa Elena Lattanzi), è stata sempre molto risoluta e convinta. Affermando la prevalenza dell’interesse dello Stato e la priorità della tutela».

    Lei ha passato anni ad eseguire scavi e a dirigere diversi musei calabresi. A Vibo ha trovato un ambiente diverso rispetto alle sue altre esperienze?

    «Purtroppo la situazione descritta per Vibo si riproponeva, talvolta anche con maggiore esasperazione, anche nelle altre località e sedi museali di cui sono stata responsabile (vedi Rosarno)».

    3/fine