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  • IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    Che Calabria è e che città è quella che si chiama Vibo Valentia?
    Vibo è un altro di quei luoghi che mi interroga ogni volta che ci rimetto piede. Specie da quando è diventata capoluogo della sua omonima, e sparutissima, provincia. Un territorio che fa in tutto 150.000 abitanti sparpagliati in 50 Comuni e comunelli disseminati tra le Serre e le marine del Tirreno.
    Lo stesso capoluogo è poco più di un paesone, con una sua certa araldica, se rievochiamo i suoi tanti nomi (Hipponion, Valentia, Monteleone) e il passato. Ma oggi?

    Il crollo demografico

    Oggi conta un po’ più di 30.000 abitanti ed è in drastico calo demografico come il resto della regione, nonostante quasi 1.700 stranieri residenti. Però Vibo Valentia è “il comune più popoloso della cosiddetta Costa degli Dei”. Il maggiore distretto turistico calabrese, dove la ’ndrangheta è monopolista. E fa affari d’oro tra alberghi a 5 stelle, ristoranti e resort di lusso da Nicotera a Tropea, fino a Pizzo Calabro.

    La Costa degli Dei

    In Calabria – vuoi mettere? – ci si consola con i nomi aulici e si convocano gli Dei a ogni piè sospinto. Specie se il presente lascia invece poche speranze all’immaginazione. E rende opaca la sorte di intere comunità per il futuro prossimo e quello venturo.

    Il disastro urbanistico

    Capisci il senso dei luoghi già dalle strade malmesse che – dal tronco della Statale 18, alla provinciale che sale da Porto Salvo e Triparni all’ingresso di Vibo Sud – sono cosparse ai lati da mucchi di rottami sparpagliati ovunque. A tacere del trionfante disordine urbanistico che precede il centro città, lungo Viale Affaccio.
    Un posto certamente ricco di passato Vibo. Ma un passato remoto saccheggiato, svisto, trascurato con stizza e con disprezzo dagli abitatori moderni.
    Che qui tutto cancellano nella fretta smemorata e oltraggiosa dell’oggi.

    Gli dei non abitano più qui

    Arrivato in cima alla vecchia Vibo, mi guardo intorno dal piazzale antistante alla tetra muraglia del Castello normanno-svevo, sede del Museo Archeologico Statale intitolato a Vito Capialbi, che conserva cose bellissime in sale drammaticamente deserte. E guardandomi intorno a giro d’orizzonte dal posto dove fu costruita probabilmente l’Acropoli dell’antica Hipponion dei greci mi sono chiesto: «Ma gli Dei da queste parti da quanto tempo non ci mettono più piede?».

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    Un antico mosaico a Vibo

    Di sicuro non si vedono da qualche millennio. Dai tempi della polis fondata dai locresi tra il VI e l’inizio del V sec. a.C. che guidò una guerra contro Crotone, come ricorda Tucidide.
    Oggi tutto quel che resta delle monumentali mura greche di Hipponion è seppellito sotto intrichi di rovi ed erbacce. Altri pezzi stanno al riparo di una tettoia di lamiera. Quasi misconosciuti ai più, soprattutto agli ingrati abitanti del luogo. Un’assurdità. Un avanzo di storia millenaria sperso in mezzo alla campagna aggredita dai palazzoni della periferia.

    Brutture postmoderne

    Cubi di calcestruzzo dalle forme più bizzarre e pretenziose tirati su alla buona dalla speculazione degli anni d’oro del mattone, età che qui non sembra conoscere tramonto. Le divinità del mattone e del cemento pressofuso regnano da queste parti. La dea Speculazione spadroneggia indisturbata.

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    Un parco pubblico nel degrado

    Tutto sottosopra. Il passato classico e le memorie monumentali, greche e romane, oberate da un presente di cemento armato e casermoni a spaglio, villette sgraziate, cooperative di abusivi condonati e in attesa di condono.
    In quartieri che si chiamano “Moderata Durant”, “Cancello Rosso”, “Feudotto”. Terre di nessuno abbandonate al proprio destino. Esempi sommi di urbanistica disperata e arraffona, dove nel 2022 ancora manca l’acqua. Ma non è il presente che qui sembra fare più scandalo. Il passato da queste parti è considerato invece una maledizione da cui non ci si libera in fretta. Preferibilmente a colpi di ruspa, come si suole fare per non intralciare affari e speculazioni a buon mercato.

    Guai agli onesti

    Chi sta con lo Stato e la cultura e si oppone allo scempio non se la passa bene a Vibo. Ne sa qualcosa Maria Teresa Iannelli, archeologa e solerte funzionaria del Mibact.
    Iannelli ha subito minacce e soprusi per sottrarre i resti antica Hipponion dalla furia degli speculatori alla Cetto la Qualunque che qui spadroneggiano.
    Non è una piazza decisamente sensibile anche ad altre sfumature della cultura la città che fu dell’euruditissimo barone-archeologo Vito Capialbi.

    Christian De Sica da giovane

    Né conserva un bel ricordo di Vibo Valentia Christian de Sica. In una recente intervista, l’attore ha richiamato un suo souvenir “teatrale” del capoluogo: «Avevo 21 anni e conducevo una serata a Vibo Valentia, con giacca rosa e capelli lunghi. Cantavo una canzone francese, Chaînes, cioè “Catene”, mentre la gente dalla platea mi urlava “Ricchione”. Da allora a Vibo non c’ho più rimesso piede».

    Si muore male e si vive peggio

    C’è poco da stare allegri in quanto a sensibilità civili. L’aria che si respira in città sembra ovattata dalle abitudini, da una acquiescenza al peggio diventata folclore e stile di vita.
    A guardarla da fuori, dalla poco lusinghiera classifica stilata da Italia Oggi sino ai più recenti reportage delle grandi testate, Vibo sembra un’emergenza più nazionale che regionale. È la provincia d’Italia in cui si registrano più omicidi. E, neanche a dirlo, anche quella messa peggio per qualità della vita.
    Nicola Gratteri l’ha definito il territorio a più alta densità mafiosa del Paese. E, con recenti conferme dalle inchieste, è anche una le città più massoniche d’Italia.

    Terra di grembiuli e ’ndrine 

    Ci sono ben dodici logge su una popolazione risicata. Sono invece ben sedici le ’ndrine censite dalla Dia in un rapporto semestrale del 2018.
    Altri dati certificano un quadro a dir poco fosco. Il 30% delle aziende della provincia è stato confiscato dalle autorità negli ultimi 10 anni per infiltrazioni e contiguità con le ’ndrine.
    Vibo ha celebrato con gran pompa la proclamazione a Città del Libro 2021. Ma risulta che più di due ragazzi su dieci lasciano la scuola entro i 15 anni.

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    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    L’ospedale Jazzolino, tristemente famoso per episodi di malasanità tragicamente frequenti e per corruzione amministrativa, cade a pezzi e se ne reclama uno nuovo.
    Per giunta, anche il tribunale, simbolo dei poteri legali che qui da sempre faticano ad attecchire, versa in una situazione altrettanto critica. E lo Stato ha collocato stabilmente una caserma di “Cacciatori”, il corpo dei carabinieri a elevatissima specializzazione anticrimine, che stana ‘ndranghetisti e mafiosi latitanti.

    Abusi e caos

    Invece prosperano in ogni angolo di Vibo gli abusi urbanistici, le discariche, le strade che si perdono nel caos, i cartelli stradali completamente cancellati e ricoperti dalla vegetazione.
    L’occhio basta a cogliere molti aspetti del degrado. Ancor prima di registrare i pochi, timorosi, commenti raccolti dei cittadini perbene che ancora sopravvivono a fatica in questa città. Dichiarazioni da stato di assedio. In quasi tutti prevale il risentimento o la rassegnazione: «Senza sanità, trasporti, lavoro. Qui stiamo peggio degli africani che sbarcano alla marina».

    Rifiuti per strada alla Marina di Vibo

    Oppure qualcuno più preoccupato delle sorti civiche: «Qui ormai la delinquenza sta vincendo su tutto, e i politici sono pure peggio dei mafiosi, non ci sono speranze».

    Troppe banche per tanti poveri

    Percorrendo le strade del centro sono molte le saracinesche abbassate e le insegne di negozi chiusi. Mentre proliferano, apertissime e animate da giovani vocianti, le numerose sale per slot e i centri per scommesse sul corso principale e nelle adiacenze.
    E c’è una quantità sospetta di sportelli bancari. Troppi per una città in cui il reddito medio (dichiarato) è spesso molto al sotto la soglia di povertà. «Questa città non ha futuro», commenta sconsolato un piccolo imprenditore, «e ai miei figli ho chiesto io di allontanarsi da qui finché sono in tempo».

    I ricordi di Prestia

    Così prosegue il lento, inarrestabile declino di una città che un tempo era un «belvedere, un giardino fiorito su un mare di storia e di bellezze».
    Me lo racconta Mario Prestia, ingegnere idraulico, perito nelle inchieste per le alluvioni che negli anni scorsi hanno fatto danni e morti nella zona marina di Vibo, a causa degli abusi sfrenati e del saccheggio sistematico di un territorio bello quanto fragile.
    Prestia è anche figlio di uno scultore notevolissimo: Gregorio Prestia, che a Vibo pare non aver lasciato tracce ed eredità culturali. Né e andata meglio al più noto e famoso pittore Enotrio Pugliese,

    A destra nella foto, il pittore Enotrio Pugliese

    È doloroso ammettere che oggi Vibo Valentia registra una serie incredibile di tristi primati.
    È una realtà decisamente ostile ai cambiamenti, in netta controtendenza rispetto anche agli alfieri della “restanza”, la testimonianza di una fedeltà alle radici a tutti i costi che sa di lezione ex cathedra. Quando a restare sono, invece, troppo spesso, i peggiori.

    Il teatro dell’assurdo

    Negli ultimi 15 anni oltre 180.000 calabresi sotto i 35 anni hanno abbandonato le proprie residenze. E il Vibonese è stabilmente in testa all’esodo.
    Molte migliaia di ragazzi e ragazze, con un titolo di studio superiore o universitario, hanno abbandonato la città per cercare altrove un futuro migliore.
    A Vibo Valentia restano gli inossidabili simulacri di socialità rappresentati da Rotary e Lions, con le loro azzimate riunioni periodiche, i riti associativi che tra inni e gagliardetti raccolgono il pubblico-bene, sempre in grande spolvero nei saloni dello storico Hotel 501.
    Chi non si rassegna continua invece a organizzare cultura dal basso nell’isolamento. Una specie di deserto dell’ascolto e dell’attenzione, come nel teatro dell’assurdo alla Ionesco. Le iniziative tese a risvegliare la città dal torpore cadono nel vuoto spessissimo. O, peggio, nell’irrisione, che parla sempre in dialetto forte e fangoso, e usa spesso toni offensivi.

    Gli sforzi delle associazioni

    «Dobbiamo essere bravi – mi dice un operatore culturale impegnato nell’associazionismo cattolico cittadino – a far capire che l’omertà e un certo modo di vivere i rapporti col prossimo genera mostri. Bisogna combattere le minacce, e soprattutto il codice mafioso del silenzio che qui è la regola».
    Queste parole contraddicono le dichiarazioni rassicuranti rese tempo fa dall’ex sindaco Elio Costa, ex magistrato.

    L’ex sindaco Elio Costa

    Interpellato in un’intervista sul peso imbarazzante dei poteri criminali nella vita di Vibo Valentia, Costa rispondeva mostrando con ammirazione il mare e lo Stromboli all’orizzonte. E alla replica, «Bello, sì, però la ‘ndrangheta?», rispondeva: «C’è, però la maggior parte degli affari li fa altrove…».

    Un brutto ricordo

    Ho un ricordo particolarmente sconfortante di una delle ultime volte che passai da Vibo per trovare degli amici. Nei pressi di un incrocio del centro, fui tamponato, del tutto incolpevolmente, da un guidatore distratto dal telefonino che rispettò lo stop.
    I danni al mezzo erano mei, alla sua auto neanche un graffio. Ma questi non si scompose.
    Chiamai i vigili per un accertamento del sinistro. Il vigile arrivò, mi squadrò e diede un’occhiata d’intesa all’investitore. Per tutto il tempo si parlarono in un dialetto strettissimo. Protestai. Ma il suo intento era però chiarissimo. Giocavo fuori casa, e quel tizio doveva essere uno conosciuto: alla fine mi trovai dalla parte del torto. Come Vibo.

  • Vibo, Falduto superstar: il meloniano che piace anche a Nesci & Co

    Vibo, Falduto superstar: il meloniano che piace anche a Nesci & Co

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    L’amministrazione di Vibo Valentia vive in questi giorni un forte scossone politico.
    Domenico Primerano, il fedelissimo vice della sindaca Maria Limardo, ha mollato in malo modo dopo aver esternato diversi malumori.
    «La conformazione dell’attuale maggioranza, la sua specifica caratterizzazione, pone il problema della mia permanenza in Giunta: essendo un tecnico, ritengo non sussistano più le condizioni della mia presenza nell’esecutivo comunale».

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    Domenico Primerano, l’ex vice di Maria Limbardo

    Lo ha seguito a ruota Rosamaria Santacaterina, assessora all’Istruzione e alle politiche giovanili. «Anticipo il cambiamento politico in atto» ha scritto Santacaterina alla sindaca. Siccome non c’è due senza tre, ha lasciato anche l’assessora alla Cultura Daniela Rotino.

    Assessori che evaporano, assessori eterni

    Nella giunta Limardo certi assessorati si sciolgono come la neve al primo sole. Invece, ce ne sono altri che sembrano intoccabili, nonostante atti che destano scalpore in città. Ad esempio, i 15mila euro dati dall’assessore al turismo a un amico di partito per il festival sovranista Culturaidentità.

    Limardo e i meloniani

    Parliamo di Michele Falduto, assessore con varie deleghe, tra cui Turismo, spettacolo manifestazioni ed eventi, in quota Fratelli D’Italia.
    È fratello dell’avvocato Nuccio Falduto, che ha preso 1.900 preferenze con i meloniani alle ultime regionali, ex assessore comunale dell’Udc nel 2010 e poi consigliere di Pd e Fi.

    Nuccio Falduto, una presenza per molti

    All’atto di costituzione della sua giunta, Maria Limardo adottò uno schema per accontentare le forze politiche: due consiglieri, un assessore.
    Purtroppo è più facile fare gli schemi che rispettarli. Infatti, il consigliere meloniano Antonio Schiavello ha aderito l’anno scorso a Forza Italia, di cui è diventato capogruppo. Il suo collega Antonio Curello, invece, è rimasto in Fdi, ma è del tutto autonomo rispetto al partito.

    Il demansionamento d’oro

    Saltato lo schema Limardo, sarebbe dovuto saltare anche il relativo assessore. Ma la sindaca non ha voluto “guastarsela” con Wanda Ferro, la commissaria regionale dei meloniani. Tutto questo, nonostante le dichiarazioni rilasciate dalla stessa Ferro subito dopo l’inchiesta Rinascita-Scott: «È opportuno che il sindaco Limardo, che gode della nostra piena fiducia, riunisca le forze di maggioranza al fine di valutare la chiusura di questa esperienza amministrativa». E val la pena ricordare che la deputata aveva ricevuto un no secco, proprio dai consiglieri di Fdi e da Falduto.

    Wanda Ferro: la lady di ferro di Fdi

    Quest’ultimo sta per perdere quasi tutte le deleghe, tranne quella all’Innovazione tecnologica. In altre parole, rimarrebbe assessore all’innovazione tecnologica e ai social media con un compenso di 3.835,30 euro mensili. Insomma, un demansionamento d’oro.

    Michele Falduto e i soldi all’amico di partito

    La determinazione della dirigente del settore Turismo, Adriana Teti (la 1048 del 14 giugno) ha stanziato 15mila euro a favore dell’Associazione Culturaidentità nella kermesse Vibo Città del Libro.
    La manifestazione rientra nell’impegno di spesa di 500mila euro previsto dal decreto dirigenziale del Dipartimento turismo, marketing territoriale e mobilità della Regione, recentemente finito al centro del “gadget gate” con l’assessore, anch’esso in quota Fdi, Fausto Orsomarso.

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    Pasquale La Gamba

    Lo scorso 30 maggio, si legge nella determina della dirigente comunale, l’assessore al turismo Falduto «ha provveduto a trasmettere al Dirigente il programma degli eventi previsti in relazione alla nomina Vibo Città del libro» e «al contempo ha richiesto l‘attuazione di tutti gli atti relativi alla gestione dello stesso programma».
    Afferma ancora la dirigente: «Per la realizzazione delle manifestazioni è necessario procedere all’affidamento dei servizi essenziali per la riuscita degli eventi». Pertanto, alla luce della richiesta dall’Associazione CulturaIdentità, si provvedeva allo stanziamento del lauto contributo per un evento allegato alla delibera della giunta numero 54 dello scorso 22 marzo, la quale aveva ricevuto il placet di tutta l’amministrazione.

    Spunta La Gamba

    Piccolo particolare: il referente regionale di CulturaIdentità è Pasquale La Gamba, già vicesindaco nel 2010 (quando il fratello di Michele Falduto, Nuccio, era assessore) e attuale responsabile provinciale di Fdi. Cioè lo stesso partito dell’assessore e di suo fratello, già candidato regionale. Un particolare che, stando a rumors interni all’amministrazione, avrebbe mandato su tutte le furie la sindaca Limardo.

    Quando Spirlì era con Giorgia

    «Si svolgeranno nella città di Vibo Valentia due giornate che mirano alla promozione turistica culturale delle identità calabresi» si legge nell’allegato alla delibera di Giunta in riferimento al VI Festival di CulturaIdentità.
    Il cofondatore dell’associazione è l’ex presidente facente funzioni della Regione Nino Spirlì, che all’epoca era il responsabile regionale cultura di Fdi.

    Spirlì, Orsomarso & co, tutti alla corte di Giorgia

    Quest’ultimo, nel 2018 accolse così La Gamba: «#CulturaIdentità si arricchisce di un’altra elegante personalità, figlia di questa Terra di Calabria. Pasquale saprà nobilitare la nostra convinta lotta quotidiana contro l’arroganza e la volgarità, che stanno minando, ormai da troppo tempo, il ricco patrimonio Culturale e Identitario della regione».

    Sovranisti alla carica

    Una delle parole d’ordine dell’associazione è Liberare. Cioè: «Liberiamo la cultura dal regime di menzogne del politicamente corretto, dalle soggezioni conformiste della lobby radical chic e dalla globalizzazione dei cervelli”. L’altra è Riordinare, nel senso del ricominciare «dall’ovvio, dal normale, dall’ordine naturale delle cose. Rifiutiamo il finto umanitarismo livellatore, eterofobico».

    La Gamba family & Nesci

    Una ulteriore determina dirigenziale, sempre a firma Adriana Teti e sempre dello scorso 14 giugno, ha affidato direttamente, sempre su propulsione dell’assessore meloniano Michele Falduto, altri 15mila euro all’associazione culturale Elice per il primo premio Jole Santelli nell’ambito del Festival Calabria delle Donne, di cui è direttrice artistica la archeologa Mariangela Preta, moglie del citato La Gamba e consigliera per il patrimonio culturale della sottosegretaria al Sud in quota M5S, Dalila Nesci.

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    L’archeologa e la sindaca: da sinistra, Mariangela Preta e Maria Limardo

    Sul piede di guerra i consiglieri comunali di M5S, Pd, Progressisti per Vibo e Coraggio Italia. Questi gruppi chiedono in una nota: «Non essendo stata fatta una manifestazione di interesse, i rapporti tra l’assessore al ramo di Fratelli D’Italia e le associazioni hanno inciso su tali scelte?». Piccolo particolare: non hanno firmato il comunicato i due consiglieri comunali di Vibo Democratica Marco Miceli e Giuseppe Policaro. I due, guarda caso, sono, come Preta, consiglieri di Nesci. Tace, invece, la sindaca.

  • Scuole: lo beccano con l’auricolare al concorso per dirigente

    Scuole: lo beccano con l’auricolare al concorso per dirigente

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    Concorso col trucco, la Procura della Repubblica di Vibo Valentia invia l’avviso di conclusione delle indagini a due persone.
    L’inchiesta riguarda la selezione per dirigenti scolastici svoltasi nel 2017.
    In quell’occasione, un concorrente, tra l’altro impiegato della Regione, si era presentato alla prova munito di auricolare e microfono.
    Un comportamento anomalo, il suo, che aveva insospettito gli altri partecipanti, i quali si sono rivolti alla Polizia di Vibo.
    Le indagini, condotte dalla Squadra mobile e completate da successive perquisizioni domiciliari, hanno consentito di verificare che il candidato aveva effettivamente auricolare e microfono, attraverso i quali comunicava con una terza persona all’esterno.
    Gli inquirenti sono riusciti a identificare anche quest’ultima.
    Secondo l’accusa, il concorrente avrebbe dettato attraverso l’auricolare le domande della prova al presunto complice, che, a sua volta, avrebbe fornito le risposte e quindi consentito al “compare” di scalare le graduatorie.

  • Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

    Versace punta sulla Calabria: il nuovo spot a Capo Vaticano

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    Versace torna a casa e adagia la sua nuova collezione sugli scogli di Capo Vaticano, baciati dalle onde e dal sole di questo caldissimo inizio d’estate. Il 15 luglio saranno 25 anni dalla morte del fondatore, l’indimenticato Gianni Versace. Ed è proprio nella sua Calabria che la maison di moda torna per la nuova campagna pubblicitaria La Vacanza lanciata oggi sui canali wordwide.
    La location scelta è la spiaggia di Grotticelle di Ricadi, una meravigliosa insenatura di sabbia bianca e acqua color cobalto circondata dalle scogliere e dominata dal promontorio di Capo Vaticano.

    Versace sceglie la Costa degli Dei

    Foulard, costumi, tacchi vertiginosi, stampe colorate che si abbinano a nuove silhouette sartoriali: gli iconici codici della casa di moda sono incastonati nella bellezza selvaggia della Costa degli Dei ripresa in pochi essenziali dettagli. In sottofondo si sente il rumore del vento e quello della risacca. “Mesmerize, Tantalize, Versace” è uno dei refrain della campagna pubblicitaria la cui testimonial è la modella 21enne Iris Law, figlia dell’attore Jude Law. È lei il volto scelto da Versace per incarnare, negli scatti di Camille Summersvalli, sensualità e passione tra le acque cristalline di Capo Vaticano.

    https://www.facebook.com/watch/?v=551034449949713&extid=NS-UNK-UNK-UNK-IOS_GK0T-GK1C&ref=sharing

    La Calabria di Versace  contro i cliché di Muccino

    Quasi un remake di quanto già fecero Dolce&Gabbana, che diedero una visibilità internazionale alla loro Sicilia. Sulla stessa scia, la scelta di campo di Versace potrebbe imporre l’immaginario calabrese all’attenzione di una smisurata platea. Dopo la sponsorizzazione di Jovanotti che nelle scorse settimane ha girato il suo nuovo video della canzone Alla salute (diretto dal regista calabrese Giacomo Triglia) tra Scilla e Gerace, la Calabria pare vivre il suo momento d’oro. E riscattarsi da campagne pubblicitarie a pagamento, come lo spot di Gabriele Muccino commissionato dalla Regione Calabria e costato un milione e mezzo. In cui, più che promuovere il territorio, venivano riesumati stereotipi e cliché.

     

     

     

     

  • Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Non esiste “bottega” più oscura della produzione del carbone: lavoro gravoso, d’altura, e poco visibile. Ciononostante il mestiere di carbonaio e il prodotto del suo lavoro erano parte integrante della vita quotidiana di alcune comunità calabresi. Su quest’attività calava inoltre un alone di mistero: sarà per questo che ai carbonai e al loro mondo si ispirò la società segreta della Carboneria, nata agli inizi dell’Ottocento nel Regno di Napoli?

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    Carbonaie in un’incisione del Dizionario delle arti e de’ mestieri di Griselini del 1769

    Operai da fuori regione per il Carbone calabrese

    Agli inizi del Novecento la produzione del carbone era ancora una delle maggiori industrie forestali della regione. Ma, inutile dirlo, il tutto veniva portato avanti seguendo tecniche tradizionali e metodi primitivi. La quantità di carbone ricavata per ogni quintale di legna era molto limitata: «Pel faggio si ammette comunemente necessaria una quantità di circa 6 quintali di legna stagionata per averne uno di carbone, e per la quercia 5 quintali». Il rendimento era dunque del 16% nel primo caso e del 20% nel secondo. E la causa, secondo Nino Taruffi, era dovuta alla lavorazione all’aperto, mentre la carbonizzazione in forni chiusi avrebbe potuto portare il rendimento fino al 25/27%.

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    La legna da trasformare in carbone tra le Serre vibonesi (foto Mario Greco 2015)

    Nonostante ciò si trattava di un settore vivace e che richiamava anche lavoratori da fuori regione, come i 40 carbonai del circondario di Catania che giunsero nel Catanzarese nell’ottobre 1905 per tornare in patria a febbraio dell’anno successivo. Nel Reggino, nello stesso periodo, si mobilitavano tra gli 80 e i 100 carbonai della provincia. L’industria del carbone nel Reggino aveva meno forza rispetto alle altre province, ma già dalla fine dell’Ottocento faceva eccezione il distretto di Palmi, da dove «se ne esporta una notevole quantità per la Sicilia, ed i punti principali di smercio sono i comuni di Gioia Tauro e Bagnara».

    Gli ultimi uomini del fuoco e del carbone

    In genere veniva utilizzato per la carbonizzazione «molto del legname grosso di specie diverse e tutto il legname di sfrido nella fattura di tavole e traverse». I tagli avvenivano spesso in modo indiscriminato. Perfino molti alberi di sughero «vennero devastati per averne carbone e corteccia da concia».

    Ma ciò che gli osservatori di fuori regione avevano già rilevato più di un secolo fa circa la deforestazione della Sila avrebbe interessato poco gli speculatori. Il problema non era certo dovuto ai soli carbonai ma, come riporta lo scrittore Saverio Strati in un suo articolo del 1961, erano questi a pagarne lo scotto cadendo sotto la scure del pregiudizio: «Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra».

    Fuoco e pagliaio

    Le condizioni di lavoro erano durissime. Le difficoltà iniziavano con l’approvvigionamento della legna. Il carbonaio riceveva in consegna un pezzo di bosco da un appaltatore e doveva obbligarsi a consegnare un dato quantitativo di carbone a un determinato prezzo e in un tempo stabilito.

    Giunto sul posto, si preparava lo spiazzo per le carbonaie. Come prima cosa, si tirava su il pagliaio, che per molte settimane sarebbe stata l’abitazione del carbonaio, e spesso anche della sua famiglia, bambini compresi.

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    Il “pagliaro” con i carbonai e le loro famiglie

    Una casa «incerta come la loro esistenza», dice ancora Strati: «Coprono di rami d’elce, le cui foglie sono più dure che quelle della quercia, il pagliaio, e poi di terra pressata. Per letto rami frondosi, o felci secche. In un lato tre grosse pietre messe a modo di fornace, per contenere il fuoco, che d’inverno è sempre acceso».

    Il fuoco va “civato

    Poi iniziava la parte più delicata. Dopo aver tagliato, trasportato e raccolto la legna, bisognava sistemarla in forma circolare per realizzare la carbonaia, mettendo in basso i ceppi più grossi e man mano la legna più minuta. Al centro si lasciava una bocca circolare da servire per accendere il fuoco e per far fuoriuscire il fumo. Il tutto veniva ricoperto di terra. La combustione all’interno doveva avvenire senza fiamma, altrimenti la legna si sarebbe trasformata in cenere. Una grande perdita per il carbonaio.

    Il piccolo vulcano che ne nasceva andava controllato e “civàto, cibato, inserendo dal buco in alto nuova legna per mantenere il fuoco. Non meno faticosa era la fase di “scarico”. Sulla carbonaia si buttava tanta acqua e infine, rompendo il guscio di terra compattata, il carbone estratto doveva essere poi trasportato fino a valle con muli o, più spesso, a spalle.

    Carbone e ferriere nelle Serre calabresi

    Le selvagge e impenetrabili foreste delle Serre calabresi hanno fornito da sempre legname per le sporadiche ma significative attività metallurgiche, attestate in regione sin dal XI secolo. Ricca di legname e di acqua, la regione delle Serre ha visto nascere nella seconda metà del Settecento le ferriere di Mongiana prima poi quelle di Ferdinandea (oggi frazione di Stilo). Qui oltre ai minatori, ai fonditori e ai mulattieri trovavano spazio centinaia di uomini dediti alla produzione di carbone dal legno per alimentare queste industrie sempre bisognose di combustibile. Chiuse le ferriere, la produzione di carbone di legna continuò a rappresentare il sostentamento per un intero paese.

    Vivere di bosco

    Nella seconda metà dell’800 la popolazione del territorio di Serra San Bruno «vive pei boschi» e «se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione di massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza». Lo si trova scritto in un numero della “Nuova Rivista Forestale” del 1886. In realtà una migrazione massiccia c’era già stata quando, dopo la chiusura della fabbrica di Mongiana, quasi tutti gli armaioli e gli artigiani del ferro che dimoravano a Serra San Bruno partirono alla volta di Terni, allettati da un impiego sicuro.

    L’ondata migratoria spopolò il paese, in cui rimasero oltre ai bovari solo segatori, accettaioli e carbonai. Ma agricoltura e pastorizia garantivano a quelle genti la sussistenza soltanto per due mesi l’anno. Così la sussistenza famigliare era legata unicamente ai cosiddetti “lavori del bosco”: abbattimento degli alberi, taglio dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura dello stesso.

    Affari di famiglia

    I lavori boschivi si praticavano per contratto a «tanto al pezzo». In particolare, per il carbone si parlava di “tanto al cantaro” (85 chilogrammi). I carbonai di Serra San Bruno, al pari degli accettaiuoli, non formavano squadre di venti operai sotto la direzione di un capo e una mensa comune come avveniva nelle zone alpine, ma «le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia».

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    Gli ultimi carbonai di Calabria a Serra San Bruno (foto Mario Greco 2015)

    Gli ultimi carbonai di Calabria

    Ad assumere le lavorazioni erano di solito i carbonai «più anziani od intelligenti» che ovviamente tenevano per loro una percentuale relativa «alle loro particolari prestazione e responsabilità». Nella grande filiera del legno da carbone, i carbonai entravano in gioco subito dopo gli accettaiuoli. Preparata la legna e composta la carbonaia, i carbonai vi appiccavano il fuoco secondo il “metodo tedesco”, vale a dire dalla sommità di quest’ultima.

    Esclusi i mesi di «gran neve», la produzione del carbone dal legno d’abete o di faggio si protraeva per tutto l’anno. Oggi nelle contrade di Spadola l’attività di produzione del carbone secondo il metodo tradizionale è ancora praticata dalla famiglia Vellone e suscita la curiosità di studiosi e fotografi. Come Mario Greco, il cui reportage ha conquistato le pagine di La Repubblica.

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    Carbonai del Vibonese (foto Mario Greco 2015)

    «Costano meno le donne dei muli per il trasporto del Carbone»

    Il trasporto del carbone prodotto avveniva di norma a trazione animale, specialmente per mezzo di muli e somari. Anche se, come afferma Agostino Lunardoni sulla stessa rivista, «le donne fanno la concorrenza ai primi». Lo studioso stimava per il territorio di Serra San Bruno «da 700 a 800 povere contadine occupate esclusivamente al trasporto della legna da fuoco e del carbone, sia per loro uso sia per vendere». Ovviamente il loro guadagno era misero e oscillante dai 50 ai 70 centesimi al giorno.

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    Le portatrici di carbone nella foresta di Ferdinandea nel 1908

    Leonello De Nobili, nel suo studio sull’emigrazione in Calabria, nel 1908 afferma di non poter dimenticare «due donne che mi apparvero come anime dannate nella folta boscaglia di Ferdinandea, dileguarsi sotto il peso di enormi carichi di carbone (40 kg) che portavano, così sulla testa, fino a Serra San Bruno (circa 10 miglia) per la mercede di 50 centesimi». «Perché non adoperare i muli?», chiese quindi a un taglialegna, che rispose candidamente: «Costano meno le donne». Oltre alle fatiche del lavoro, le trasportatrici erano esposte a diverse forme di violenza.

    Elisabetta donna ribelle

    In Storia dello stupro e di donne ribelli, lo storico Enzo Ciconte narra la storia di Elisabetta. Era una giovane carbonaia che nel 1888 aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un giovane di Serra San Bruno. «La rapirò nel bosco quando di notte andrà pel trasporto di carboni» affermò il giovane rifiutato che «avendo pensiero di sposarla cercava obbligarla con oscenità».

    Un giorno mentre trasportava carbone insieme ad alcune compagne nei boschi secolari intorno alla Certosa, Elisabetta si trovò di fronte il giovane malintenzionato che «con la scure fece allontanare le altre e gittandola a terra le disse: o vuoi o non vuoi ti devo togliere l’onore ed Elisabetta gridando rispondeva: mi ammazzi ma non cedo». Fortunatamente l’accorrere di altre persone impedì all’uomo di usarle violenza.

    Carbonari e briganti

    Le buone maniere, in ogni caso, non erano certo la prassi. Nei boschi i carbonai non erano liberi di scegliere il luogo dove tagliare e impiantare le proprie cravunère. E oltre ai vincoli contrattuali e di proprietà intervenivano fattori “esterni” a condizionare il lavoro e la vita di questi lavoratori. Come noto, nei boschi silani a cavallo dell’Unità d’Italia i briganti facevano il bello e il cattivo tempo. Avendo interesse a che ampie porzioni di foresta facessero loro da nascondiglio, condizionavano la scelta dei luoghi dove impiantare le carbonaie, non senza ricorrere ad avvertimenti e violenze.

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    Carbonaio in Sila negli anni ’70, Dal volume “Serra Pedace nel mirino. Click sul passato”

    Come avvenne nel novembre 1864, quando alcuni carbonai di Piane (Francesco Guzzo, Pietro Prete, Salvatore Esposito e Antonio Pellegrino) intenti a far carboni nella contrada silana di Acqua del Corvo, si imbatterono in «otto individui armati di fucili a due colpi e di revolver» che uscendo dal bosco iniziarono prima a percuoterli e poi a sparare, uccidendone tre. Scrive Padula che «gli uccisori fossero briganti della banda di Francesco Albi della provincia di Catanzaro», e che dopo il fatto si spostarono in contrada Quaresima dove spararono a un altro carbonaio di Piane, Antonio Arcuri.

    Qualche anno dopo le uccisioni dei carbonai da parte dei briganti divennero oggetto di dibattito parlamentare grazie al senatore Guicciardi, già prefetto di Cosenza, che intervenendo a proposito di una legge sulla Sila ricordava che i briganti «in diverse occasioni commisero uccisioni di carbonai, perché questi non vollero limitarsi a fare il carbone nelle località e nella misura che loro era prescritta. I carbonai poi, difficilmente disobbedivano a tali prescrizioni perché l’autorità non aveva modo né di tenerli costantemente protetti, né di garantirli contro l’audacia dei briganti, i cui fatti crudeli e le cui sommarie esecuzioni incutevano un terrore a cui nessuno sapeva sottrarsi».

    Da Serra San Bruno a Serra Pedace

    Le tracce lasciate dal carbone ci conducono a Serra Pedace, uno degli storici Casali di Cosenza. Vista la vicinanza dei boschi silani, qui quello del cravunàru era uno dei mestieri più diffusi. Nella bella stagione gli uomini si spostavano per settimane nei boschi per attendere alle “cravunère”. Sistemavano le “catine” di tronchi disposti in forma circolare. Coprivano il tutto con le “tife” di terra, “civàndo” la carbonaia introducendo man mano la legna dallavùcca per raggiungere la combustione ottimale.

    Per la festa di San Donato

    Alla fine del duro lavoro il carbone era trasportato, a spalle o con i “traini”, in paese o a Cosenza per essere venduto. Non di rado a spostarsi erano intere famiglie. E la vita del paese rimaneva quasi come congelata, per riprendere normalmente al ritorno dei carbonari dai monti. La festa patronale di San Donato era fissata annualmente la seconda domenica d’ottobre. In questo modo potevano partecipare coloro che nei mesi estivi erano lontani dal paese. Rappresentava così molto più che una semplice celebrazione religiosa.

    E proprio la festa patronale segna in paese il mutare dei tempi. Gli ultimi carbonai sono scomparsi e non c’è più necessità di recarsi in Sila per lungo tempo nei mesi estivi. Anzi, l’estate è divenuta, come ovunque, un momento di ritorno al paese per i molti che lo hanno lasciato, e da alcuni decenni la festa è stata spostata ad agosto.

  • Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Alcune date vanno cerchiate in rosso. La prima è il 21 luglio 2012. Luigi Mancuso torna libero dopo 19 anni passati in carcere. La seconda: 19 dicembre 2019, scatta la maxioperazione “Rinascita Scott”. Lo «zio Luigi», il «Supremo», viene arrestato a Lamezia su un treno in arrivo da Milano. La terza: 6 novembre 2021, la sentenza in abbreviato porta 70 condanne e 19 assoluzioni. La quarta: 25 novembre 2021, Giuseppe Mancuso (“Peppe ‘mbrogghia”) torna in libertà dopo oltre 20 anni di carcere duro.

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    L’aula bunker di Lamezia dove si svolge il processo “Rinascita-Scott”

    Il nipote più anziano dello zio

    La sentenza rappresenta il primo step giudiziario della clamorosa inchiesta contro le cosche vibonesi voluta da Nicola Gratteri. Lo scorso 9 maggio sono state depositate le motivazioni scritte dal gup Carlo Paris e, benché Luigi Mancuso sia sotto processo con il rito ordinario e Peppe Mancuso non sia coinvolto, c’è un capitolo in cui si parla molto di loro due. Sono zio e nipote. Ma il secondo (classe 1949) è più anziano del primo (1954). Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Un capo carismatico

    L’indagine, scrive il giudice, ha svelato «i collaudati rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata». Luigi è il «più carismatico capo di tutta la ’ndrangheta vibonese, probabilmente il più autorevole di tutte le restanti cosche calabresi agli occhi del Crimine di Polsi». Un collaboratore storico, Michele Iannello, che ha fatto parte del gruppo di Mileto fino al 1995, in un interrogatorio del 2018 ha detto che già all’epoca Luigi e Peppe erano considerati i vertici della ‘ndrangheta vibonese. Secondo Iannello, Peppe aveva la dote del Crimine, Luigi una ancora superiore.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Non vuole «cose eclatanti»

    Un altro pentito, l’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, dice di aver conosciuto Luigi tramite suo cognato, il lametino Pasquale Giampà. È «quello che ragiona meglio». Ha «un livello altissimo di ‘ndrangheta». Ed «evita sempre le cose eclatanti tipo gli omicidi». Viene indicato come «il più giovane Capo Crimine» e già come tale lo dipingeva, nel 2001, il collaboratore Francesco Michienzi.

    I «tre punti della stella»e gli anni delle stragi

    Ancora più evocativo è Cosimo Virgiglio, uno che dice di sapere molto di presunti intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria: «So che a Gioia Tauro quando si faceva riferimento al capo dei Mancuso si intendeva Luigi Mancuso. Era considerato uno dei “tre punti della stella”». Gli altri due sarebbero stati Pino Piromalli (a Gioia Tauro) e Nino Pesce (a Rosarno). Una volta tornato in libertà, Luigi avrebbe riattivato, tramite i suoi emissari, i contatti con altri clan calabresi. In particolare, oltre che con i Piromalli, con i De Stefano di Reggio, i Coluccio di Siderno e gli Alvaro di Sinopoli. Zio e nipote, ai tempi dello stragismo, avrebbero avuto un ruolo di primo piano anche nelle trattative tra ‘ndrine e Cosa nostra.

    Il new deal del Supremo

    Ma è la «politica interna» del Supremo a cambiare la storia dei clan vibonesi. Riappacifica i vari gruppi sul territorio. Riavvicina i rami degli stessi Mancuso dopo le profonde spaccature del passato. Segna, così, «una nuova epoca per la cosca di Limbadi». Il giudice, a «riprova della notorietà della sua strategia “pacifista” e del suo ruolo di “Supremo” negli ambienti della criminalità organizzata e della massoneria», richiama diverse intercettazioni. Spesso si fa riferimento «all’autorevolezza di Luigi Mancuso, apprezzato sin da giovane per l’atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione».

    La gente paga spontaneamente il pizzo

    Una politica di «concordia» e «consenso» che ha avuto «effetti inimmaginabili». Come la «condivisione, da parte tutti i Mancuso e, in particolare, da parte di Giuseppe Mancuso (il nipote con cui in passato s’erano registrati contrasti), dei progetti criminali dettati dal boss». E come «l’assoggettamento “spontaneo” della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi Mancuso».

    Il dialogo tra Giamborino e Pittelli

    Giovanni Giamborino, presunto fedelissimo del superboss, la spiegava così al penalista ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli: «Ormai è finita la storia…non c’è niente per nessuno… perché se vi… come facevano loro… facevano un’estorsione… vanno da un imprenditore questi scappano dai Carabinieri…perché non hanno fiducia avete capito… perché oggi va uno, domani va un altro dopo domani va un altro… questi non sanno dove devono ripararsi e nel cerchio non vanno perché non c’è un garante…invece se va Luigi in un posto e che non va perché vanno loro a trovare lui… avete capito le devono avere sicurezza… hanno tutte cose».

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    Un incontro fotografato dai carabinieri del Ros tra Giancarlo Pittelli (a sinistra) e Luigi Mancuso (a destra, al centro Pasquale Gallone)

    Cinque anni di gelo tra i due boss

    I due (Giamborino e Pittelli, tra i principali imputati del rito ordinario) parlano anche dei rapporti controversi tra i due vertici della cosca. Il primo racconta dei dissidi tra zio e nipote, che non si sarebbero rivolti la parola per cinque o sei anni. Poi si sarebbero riavvicinati, mentre era in corso il processo “Tirreno” a Palmi, grazie all’intervento pacificatore di Nino Pesce.

    Un cadavere nel terreno dello «Zio»

    Lo aveva raccontato anni prima anche il pentito Giuseppe Morano: «Peppe era più anziano di Luigi, però Luigi come persona era più carismatico lì nella zona, era la persona più intelligente, era diciamo il cervello della famiglia Mancuso, invece Peppe era più il braccio armato, era più criminale Peppe, era una persona, cioè se doveva ammazzare una persona l’ammazzava, non ci pensava; insomma, ragionava meno di Luigi. Luigi invece era uno più pacifico; allora dice che per questo avevano litigato un po’, perché Peppe aveva combinato un po’ di cose, addirittura, ho saputo che aveva ammazzato una persona e gliel’ha buttato vicino ad un terreno di Luigi, mi sembra che si diceva, per questo pure il litigio è scoppiato più forte, dice che ha ammazzato uno e lo ha lasciato lì vicino al terreno, che poi hanno inquisito a Luigi per questo fatto».

    La scelta del «portavoce» sancisce la pace

    A testimoniare la ritrovata unità tra i due boss sarebbe in seguito il fatto che Luigi avrebbe scelto come braccio destro, e «unico portavoce» durante il periodo di latitanza volontaria, Pasquale Gallone. Si tratta del fratello di uno «storico favoreggiatore della latitanza di Giuseppe Mancuso». Che ora per il suo ruolo di fedelissimo del superboss è stato condannato in abbreviato a 20 anni di reclusione.

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    Giovanni Giamborino

    Il «tetto del mondo»

    Parlando con Pittelli, Giamborino spiega che Luigi è «il tetto del mondo», il «più alto di tutti» e, rispondendo a una specifica domanda dell’avvocato, il «numero 1 in assoluto». Il concetto viene ribadito anche al cugino, Pietro Giamborino, già consigliere regionale. Che chiede: «È riconosciuto numero uno?». Giovanni assicura: «Si… si… si…». Ma «tutto… tutto … unanime…? Pure i suoi stessi?». Sì, «tutto… tutto… in tutta Italia!».

    I destini incrociati e le parole del pentito

    Ora le cose sono cambiate. Lo «zio», stratega raffinato e abile mediatore, è alla sbarra. Il nipote, più anziano e forse anche più temuto, è fuori. Condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ha scontato il suo debito con la giustizia. «Ha un cimitero alle spalle», ha detto di lui il primo pentito dei Mancuso, Emanuele, in un’intervista esclusiva a I Calabresi. «Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa».

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    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)
  • L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

    L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

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    Diciamolo una volta per tutte e senza timore: di verdeggianti paesaggi e panorami mozzafiato non se ne può più. Abbattiamo, assieme a pregiudizi e stereotipi, anche la retorica visiva sulle bellezze della Calabria. Basta bergamotti in ogni dove, basta celebrazioni sui Bronzi, basta foto di mari e monti. Soprattutto basta borghi.

    Se la Regione è un po’ confusa, ma diciamo anche indecisa, tra il puntare sulla «valorizzazione delle aree industriali» di cui ha parlato Roberto Occhiuto a Expo Dubai, oppure sui «marcatori identitari distintivi» riproposti nelle scorse settimane alla Bit di Milano, rilanciamo la nostra controproposta per dare una scossa alla narrazione turistica della Calabria: gli horror tour.

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    Il lungomare Ginepri “interrotto” a Lamezia

    Piuttosto che continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, o ad accusare chi la polvere la solleva provando a spazzarla via, potremmo per una volta a volgere a nostro vantaggio il «carattere di mitomani» che Corrado Alvaro riconosceva ai meridionali come inesorabile eredità dei Greci.

    Ci sono sui territori tracce visibilissime, ma davvero poco sfruttate, che si possono unire fino a farne degli itinerari che rendono piccola piccola, quale effettivamente è, la retorica della riserva indiana cui siamo puntualmente sottoposti dagli osservatori esterni. Sempre tanto compiaciuti delle nostre quotidiane miserie quanto pronti a insegnarci come uscirne.

    Abbiamo già focalizzato alcune di queste brutture nella Locride. Ora, risalendo sulla statale 106 jonica e poi passando sull’altra costa, proviamo a indicarne delle altre. Nella consapevolezza che si tratti di un itinerario parziale e incompleto, ma pur sempre di un punto di partenza.

    Soverato: perla jonica e cementificata

    La cementificazione intensiva di Soverato, per dire, è un elemento che finora nessuno ha pensato di tramutare in motivo di attrazione. Se la chiamano «perla» come non più di altre tre o quattro località costiere della regione, e se per una settimana di agosto si chiedono affitti (in nero) a livello Elon Musk, allora facciamone altri di appartamenti. Coliamo più cemento e alziamo nuovi pilastri fino a nasconderlo del tutto, questo sopravvalutato orizzonte jonico, ché un po’ ha stancato.

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    L’urbanizzazione spinta di Soverato vista dalla Statale 106

    Gli esperimenti di architettura ultramoderna già realizzati sulle colline attorno a Squillace dimostrano che fare peggio di com’è oggi è difficile, ma ce la possiamo fare e magari ne avremo anche un profitto. Per esempio puntando sulle aree interne, come quelle che si trovano muovendo verso l’altra costa per una strada poco battuta, una sorta di “Due Mari” dei poveri.

    Cemento à gogo sulla collina che sovrasta il mare a Squillace

    La Calabria delle rotonde e delle pale eoliche

    Andando per provinciali e colline ben curate si passa in mezzo ad Amaroni, Girifalco, Cortale e Jacurso. E si contano decine di rotonde – che disciplinano un traffico inesistente – e centinaia di pale eoliche – che ancora non risolvono il caro bolletta. Così si attraversa senza annoiarsi l’istmo di Marcellinara, il famoso punto più stretto d’Italia. Poi si spunta a Maida, dove sorge uno dei centri commerciali più larghi della Calabria.

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    L’immancabile eolico tra lo Jonio e il Tirreno

    Lamezia tra zucchero e il porto d’Arabia

    Avvicinandoci alla principale porta d’ingresso della Calabria– che vabbè, è anche quella d’uscita per tanti nostri cervelli – si può osservare cosa abbiano lasciato certi sogni industriali degli anni belli. Come l’ex zuccherificio a ridosso della stazione di Lamezia, con annesso murales neorealista. O il famigerato pontile dove le navi che dovevano rifornire la mai realizzata Sir non sono evidentemente attraccate neanche una volta.

    L’ex zuccherificio di Lamezia

    Ora, invece che portarci le comitive ad ammirare tanta identitaria decadenza, vorrebbero fare da quelle parti un porto turistico intitolandolo a uno sceicco arabo. E tutti hanno ovviamente paura che la cosa finisca peggio di com’è andata con i pezzi di lungomare lametino che oggi, in un capolavoro di esistenzialismo non colto dai tour operator, collegano un nulla all’altro di questo tratto di costa.

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    Il pontile ex Sir a Lamezia Terme

     

    Il cemento da patrimonio Unesco a Vibo

    Lo stesso vuoto alberga in una struttura ammirabile all’ingresso di Pizzo. Sta subito sotto l’autostrada e non c’è, tra agrumeti e fichi d’india, nemmeno una via d’accesso per arrivarci e visitarne le cavità antropologiche. La medesima poco valorizzata bruttezza caratterizza un edificio che forse doveva ricordare una nave e che incombe sulla suggestiva insenatura della Seggiola. Invece poco più a Sud, a Vibo Marina, non si sono fatti intimidire e col cemento sono andati fino in fondo. C’è un quartiere, il Pennello, in cui l’abusivismo ha toccato vette di audacia così alte che meriterebbe di essere almeno proposto a patrimonio Unesco.

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    Il mega-albergo vuoto di Pizzo

    Salendo verso il capoluogo vibonese, poi, si può notare, senza che incredibilmente nessuna guida ne faccia vanto di fronte a manipoli di turisti dell’orrido, come a svettare sulla città non sia il castello Normanno-Svevo, nella zona dove probabilmente si trovava anche l’Acropoli di Hipponion, ma le quasi gotiche antenne radiotelevisive che qualche anno fa, invece di proporre un tour congiunto museo-tralicci, qualcuno si è spinto a sequestrare per fosche ipotesi di elettrosmog.

    Panorama con antenne a Vibo Valentia

    È inutile: non sappiamo proprio valorizzarci. Altrimenti non si spiega perché un cartello mancante in pieno centro a Vibo, che dovrebbe indicare l’itinerario di un parco archeologico in larga parte inaccessibile e infestato da erbacce e spazzatura, non diventa una Mecca del situazionismo o un luogo feticcio degli amanti del teatro beckettiano.

    Cemento “selvatico” lungo la Statale 18

    Il cemento anarchico della Statale 18

    La teoria delle potenzialità inespresse della Calabria continua procedendo lungo l’altra mitologica statale, la 18. Se avessimo avuto anche noi un Guccini sarebbe stata leggenda come la 17, la via Emilia e pure il West messi insieme. Ai lati di questa strada il cemento spunta dalla vegetazione come fosse selvatico. Genuino e autoctono, niente lo trattiene: è potente, anarchico e futurista al tempo stesso. C’è dentro tutto il Novecento e se ne possono ammirare diversi avanguardistici esempi andando in auto dal Vibonese verso la Piana. Ma purtroppo nessuno ha pensato a dei tour organizzati con accompagnatori che indichino a quali cosche di ‘ndrangheta sia assegnato ogni singolo chilometro.

    Soffrono di un imperdonabile abbandono turistico anche cattedrali mancate come la stazione ferroviaria di Mileto, un ibrido metallico tra post barocco e brutalismo, e la Fornace Tranquilla, una fabbrica abbandonata dove un ragazzo africano è stato ammazzato per una lamiera. Da anni, e ancora oggi, alla Tranquilla sono interrate tonnellate di rifiuti tossici. Altrove sarebbe meta di pellegrinaggi di dark tourism, noi invece l’abbiamo dimenticata.

    Come la ex statale 110, una strada che fin dai tempi dei Borbone univa le due coste alle montagne delle Serre e che a causa di alcune frane è chiusa da qualche anno. Un ignoto esteta ne ha decorato i margini con copertoni e bombole di gas. Incompreso, come le tante monumentali bruttezze che in Calabria abbiamo sotto la finestra e che facciamo finta di non vedere.

  • Attilio Nostro nuovo segretario dei vescovi calabresi

    Attilio Nostro nuovo segretario dei vescovi calabresi

    Cambio della guardia ai vertici della Conferenza episcopale calabra. Attilio Nostro, il vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, è diventato segretario della Cec. Monsignor Nostro subentra a Giuseppe Schillaci, il vescovo di Lamezia Terme, che lascia la Calabria dopo la nomina a presule di Nicosia.

    L’elezione di Attilio Nostro si è svolta nella sessione straordinaria dell’assemblea dei vescovi calabresi, riunitasi nei locali del Seminario Regionale “S. Pio X” di Catanzaro.
    «Dopo la preghiera comune, i vescovi hanno espresso a monsignor
    Schillaci auguri e felicitazioni per la nuova nomina e la loro gratitudine per la testimonianza di bontà e mitezza, di comunione fraterna e di fede che egli ha offerto negli anni in cui ha svolto il suo ministero episcopale in Calabria».

    I vescovi, riporta ancora la nota, si sono dedicati con grande attenzione alla preparazione alla prossima Assemblea della Conferenza episcopale italiana, all’andamento dell’Istituto teologico calabro, al Seminario regionale. Nel pomeriggio i vescovi hanno valutato alcune iniziative ecclesiali riguardanti la Chiesa calabrese e hanno concluso la loro riunione con la preghiera del Vespro.

  • Alfonsino Grillo, da portaborse pignorato a commissario da 6.000 euro al mese

    Alfonsino Grillo, da portaborse pignorato a commissario da 6.000 euro al mese

    Roberto Occhiuto ha un (Alfonsino) Grillo per la testa. Ormai pare abbastanza chiaro: il presidente della Regione brilla per stravaganza quando si tratta di nomine pubbliche di sua competenza. Quella di Antonio Grande (detto Anton Giulio per la haute couture) a commissario della Film Commission ha fatto storcere il naso a tanti; quella del suo capo di Gabinetto Luciano Vigna, che si cumula a quella di direttore della stessa Film Commission, ha resuscitato persino l’opposizione targata Pd. Sarà il clima pasquale.

    A queste tocca aggiungere la recente nomina del commissario del Parco delle Serre, Alfonsino Grillo. A dettarla, probabilmente, la fede politico-partitica (in particolare, il sostegno elettorale alle ultime regionali al ticket forzista Michele Comito-Valeria Fedele) e non particolari competenze tecniche. Grillo, difatti, ha svolto la professione di geometra (oggi non risulta iscritto all’albo) ed è laureato in Scienze politiche. Certo, nel 2002 la Giunta Chiaravalloti lo nominò nel cda del Parco delle Serre e da consigliere regionale fu componente della commissione Ambiente. Un background forse un po’ scarno a fronte delle tante eccellenze calabresi, anche giovani, costrette ad emigrare.

    Il Grillo cangiante: da Esposito a Mangialavori

    Ma il golden buzz (per dirla alla Italian’s Got Talent) per Alfonsino Grillo è scattato di recente, grazie all’abbraccio con Giuseppe Mangialavori e Forza Italia, dopo anni passati al seguito del catanzarese Baldo Esposito.
    Dopo l’esperienza da sindaco di Gerocarne nel 2007, Grillo è stato eletto consigliere regionale nella lista “Scopelliti Presidente” nel 2010 con 3.400 voti. Esperienza che non riuscì a replicare nelle due successive tornate, limitandosi a “reggere” le liste che porteranno nel 2014 e nel 2020 all’elezione del catanzarese Baldo Esposito, che ottenne il seggio anche grazie al suo apporto.

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    Mangialavori e Occhiuto durante l’ultima campagna elettorale

    Nel 2014 sotto la bandiera del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (compagine che vide Grillo assumere ruoli partitici di rilievo, in primis il coordinamento provinciale di Vibo Valentia) raccolse 3.610 voti (a fronte dei 6.400 di Baldo Esposito). Nel 2020 con la lista “Casa delle libertà” ne ottenne 2.654, mentre furono oltre diecimila quelli per l’ormai ex presidente della commissione Sanità. In quell’anno Grillo si “candidò” anche per ricoprire incarichi di sottogoverno regionale, senza successo.

    La condanna della Corte dei Conti

    Nel marzo del 2020, però, arrivò per Grillo la condanna della Corte dei Conti per il filone erariale di Rimborsopoli.
    Ben 62.570,98 euro di danno erariale per spese non ammissibili per gli anni da consigliere regionale 2011 e 2012. Per quelle del 2010 è arrivata, invece, la prescrizione.

    «Sotto il profilo formale, quasi tutta la documentazione non è riferita al Gruppo, ma all’on. Grillo, nella qualità di consigliere regionale», si legge nel testo della decisione. «Sul piano sostanziale è lapalissiano come l’erogazione di contributi alle varie associazioni presenti sul territorio non sia affatto riconducibile alle finalità istituzionali del Gruppo consiliare, ma agli scopi di promozione politica del consigliere Grillo», precisarono i magistrati contabili.

    Tra le spese, pagate con soldi pubblici per fini giudicati privati, figurano elargizioni per i festeggiamenti in onore di San Michele Arcangelo a favore del Priore della relativa confraternita di Arena, altre a favore dell’Associazione “Lira Battente” per una manifestazione, contributi a favore della Pro Loco di Zambrone e per la festa patronale di San Basilio a Cessaniti.

    Alla fine la condanna è stata pari all’80% del danno (il restante 20% rimane in capo al presidente del Gruppo consiliare per omesso controllo), ossia 50.056,78 euro. Permane, inoltre, ad oggi, il rinvio a giudizio per peculato disposto dal Gip di Reggio Calabria nel 2017 per quanto concerne gli aspetti penali.

    Portaborse e vitalizio: i “cuscinetti” alla condanna

    Con determina del 4 agosto 2020 a firma di Antonio Cortellaro e Romina Cavaggion – tra l’altro ex componente della struttura di Grillo quando era consigliere regionale – è arrivata la nomina da parte di Baldo Esposito proprio di Alfonsino Grillo quale “responsabile amministrativo al 50% del Presidente della III Commissione”. Un portaborse, insomma, nonostante il diretto interessato non ami sentirsi definire tale.

    Grazie a quella nomina ha ricevuto 7.984,64 euro lordi nel 2020 e circa 17mila nel 2021. L’erario, però, ha pignorato un quinto della somma per far fronte alla condanna della Corte dei Conti. Tutto legittimo e pazienza se pagare con un incarico fiduciario pubblico (intervenuto dopo la condanna) alla Regione un danno erariale alla Regione stessa può suscitare critiche da parte dei soliti maliziosi.

    Ma non è finita. Lo scorso 28 marzo Alfonsino Grillo ha chiesto il vitalizio per il mandato di consigliere regionale svolto dal dal 28 marzo 2010 al 22 novembre 2014. Vitalizio che si vedrà accreditare proprio dal 1 aprile per una cifra pari a 2.434,83 mensili lordi. Piccolo particolare: la somma del vitalizio è ridotta del 25%, ma solo perché Grillo ne ha chiesto la liquidazione anticipata. Ossigeno, quindi, per le tasche dell’ex geometra.

    Alfonsino Grillo, da commissario a presidente?

    Ma Alfonsino Grillo è tornato in grande spolvero a seguito del cambio di sponsor politico. Decisivo l’apporto elettorale a Michele Comito e Valeria Fedele, eletti nella lista di Forza Italia (anche se sub iudice, soprattutto la seconda, ineleggibile secondo il giudizio di primo grado del Tribunale di Catanzaro).
    Ad attendere Grillo, il Parco delle Serre e un discreto stipendio, nonostante i precedenti commissari svolgessero l’incarico a titolo gratuito. Il dirigente regionale Giovanni Aramini, voluto da Jole Santelli nel 2020, il funzionario Domenico Sodaro nel 2016 e il dottor Giuseppe Pellegrino nel 2018, voluti da Mario Oliverio, non percepivano il becco di un quattrino.

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile
    La luce trafigge il bosco del Parco delle Serre (dal sito ufficiale dell’Ente: foto Salvatore Federico)

    Diversa sorte toccherà a Grillo. Lui arriverà a ricevere oltre 6mila euro lordi mensili (36.308 euro lordi per i sei mesi di durata dell’incarico da commissario). Intanto, solo due giorni fa, l’Assemblea della Comunità del Parco (guidata dalla assessora leghista di Simbario, Melania Carvelli) ha inserito lo stesso Grillo nella rosa dei 5 nominativi in lizza per la presidenza dell’ente. Ma la strada non è proprio in discesa.

    La possibile sospensione e l’orientamento dell’Anac

    Come si è detto, permane a carico di Alfonsino Grillo l’accusa di peculato dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, nel filone penale dell’inchiesta “Rimborsopoli”. In caso di condanna, anche se non definitiva, per peculato il soggetto esterno all’amministrazione che abbia un incarico pubblico (come è quello di commissario/presidente del Parco delle Serre) va sospeso senza retribuzione (come sospesa è l’efficacia del contratto di diritto privato stipulato con l’amministrazione).

    Non solo, l’Autorità nazionale anticorruzione suggerisce al legislatore di estendere la disciplina delle inconferibilità anche in caso di condanna della Corte dei Conti per danno erariale.
    Tali condanne, si legge nella delibera, «portano dietro un giudizio di disvalore, dal punto di vista della lesione dell’immagine della pubblica amministrazione… analogo a quello delle sentenze di condanna emesse all’esito di giudizio penale». Ma se a Roberto Occhiuto va bene così, non sarà certo l’opposizione a farglielo notare.

    Uno slogan elettorale di Alfonsino Grillo particolarmente azzeccato
  • Province, cronaca di una morte (solo) annunciata

    Province, cronaca di una morte (solo) annunciata

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    Appena l’argomento, per qualche insondabile motivo, viene fuori in una discussione, la domanda scatta automatica: «Ma le Province non le avevano abolite?». A quel punto i più informati rispondono con il tono di chi la sa lunga: «Macché… hanno abolito solo le elezioni». Alla fine è così. Eppure delle Province si parla ancora. E se ne parla, con qualche ragione, molto male.

    Non è questione rimandabile all’antropologia dei campanili e nemmeno all’ormai discendente parabola anticasta. È che, evidentemente, anche nei suoi anfratti meno appetibili e più discussi, il potere attira sempre e comunque l’attenzione. Per comprendere le ragioni della lunga agonia di questi enti, intermedi e dunque transitori quasi per definizione, bisogna però andare oltre le gaffe e le liti spicciole a cui ci ha abituati la politica nostrana.

    Le Province dall’Italia preunitaria a oggi

    Senza addentrarsi in discussioni per feticisti dell’ingegneria istituzionale, è utile ricordare che le Province trovano fondamento nell’art. 114 della Costituzione, ma in realtà sono più vecchie della stessa Italia unita: le creò, quando ancora c’era il Regno di Sardegna (1859), Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno del governo La Marmora, mutuando il sistema francese dopo l’annessione di alcune parti della Lombardia.

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    Un ritratto di Urbano Rattazzi: fu lui a istituire le Province in Italia

    Da 95 sono poi arrivate a essere 110. Oggi nelle regioni ordinarie sono 76, più 14 città metropolitane. A cui si devono aggiungere 6 liberi consorzi (le ex province della Sicilia non trasformate in Città metropolitane), 4 province sarde, le 2 province autonome di Trento e Bolzano, 4 del Friuli Venezia Giulia che servono però solo alla geografia e alla statistica non essendo enti politici autonomi.

    In Calabria erano 3 fino al 1992. Poi in quell’infornata – che comprendeva Biella, Lecco, Lodi, Rimini, Prato e Verbano-Cusio-Ossola – rientrarono anche Crotone e Vibo Valentia. Poco prima dello scorso Natale è arrivato il rinnovo dei loro consigli provinciali, come pure di quelli di Catanzaro e Cosenza. In quest’ultima, come a dicembre anche a Crotone, ora è cambiato anche il presidente. A breve ce ne sarà uno nuovo pure a Catanzaro.

    Il consiglio ogni due anni, il presidente ogni quattro

    A proposito di elezioni, dal 2014 in poi (riforma Delrio) sono arrivate un po’ di novità. Tra queste il fatto che i consigli provinciali si rinnovano ogni due anni mentre il presidente ogni quattro. La giunta provinciale non esiste più. E a eleggere sia i consiglieri che il presidente sono sindaci e consiglieri comunali del territorio, il cui voto “pesa” in base alla popolazione del Comune di appartenenza. È un aspetto che sembra bizzarro, ma non è certo quello più paradossale delle “nuove” Province, enti in cui spesso il fattore politico va oltre la classica dialettica maggioranza/opposizione.

    Centrodestra alla riscossa

    I risultati di queste ultime votazioni, in Calabria, pendono molto verso il centrodestra. A Cosenza c’era stato un sostanziale pareggio tra i consiglieri. Poi la Presidenza è andata alla sindaca di San Giovanni in Fiore (area Forza Italia) Rosaria Succurro. Divisioni e disastri targati centrosinistra hanno chiuso la partita già prima del voto anche a Crotone, dove ha vinto il sindaco di centrodestra di Cirò Marina, Sergio Ferrari. A Catanzaro, nonostante le divisioni già striscianti e ora esplose in vista delle Comunali, i consiglieri restano in maggioranza di destra. Nei prossimi mesi si dovrà scegliere il successore di Sergio Abramo. A Vibo ha trovato conferma  il peso forzista, ma ne ha acquistato parecchio anche Coraggio Italia.

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    Rosaria Succurro, fresca di elezione a presidente della Provincia di Cosenza

     

    Reggio in attesa di funzioni

    Poi c’è Reggio, dove la Provincia ha ceduto il posto alla Città metropolitana. Da novembre, cioè dalla condanna di Giuseppe Falcomatà per il “caso Miramare”, la regge il facente funzione Carmelo Versace, che è un dirigente di Azione di Carlo Calenda. In teoria le Città metropolitane avrebbero anche più funzioni delle Province. Quella di Reggio è però l’unica in Italia a cui la Regione non le ha ancora attribuite, nonostante debba farlo per legge.

    Vibo e i conti che non tornano

    La Provincia di Vibo è famigerata per il disastro finanziario in cui è stata cacciata. Sta ancora cercando di uscire dal dissesto dichiarato nel 2013. Uno spiraglio di luce si era visto a novembre, quando la Commissione liquidatrice ha approvato il Piano di estinzione dei debiti: default chiuso con una massa passiva quantificata in 14,8 milioni di euro distribuiti a circa 1.200 creditori. A fine marzo però è venuto fuori che serve un nuovo Piano. Ci si è accorti che i prospetti contabili andavano aggiornati e che la massa passiva totale era in realtà di 25 milioni di euro. Dunque ne ce sono ancora altri 11 da liquidare.

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    Salvatore Solano stringe la mano a Papa Francesco

    La necessità di un aggiornamento l’ha segnalata alla Commissione lo stesso presidente della Provincia di Vibo, Salvatore Solano, finito nel processo “Petrolmafie”. Lui ha sempre dichiarato fiducia nella giustizi,a ma anche la sua totale estraneità alle accuse che gli vengono contestate. Forza Italia però, che pure lo aveva scelto nell’ottobre del 2018, lo ha scaricato politicamente.

    Catanzaro, da ente modello al rischio dissesto

    Problemi di natura diversa li ha invece Abramo, che si accinge a chiudere tra ben poche glorie il suo ciclo da sindaco e da presidente della Provincia di Catanzaro. L’ente che visse un’epoca descritta come d’oro con Michele Traversa e poi con Wanda Ferro era considerato infatti un modello di buona amministrazione. Fin quando, proprio con Abramo, è scoppiata la bolla dei derivati, operazioni di swap contratte nel 2007 (con Traversa) per oltre 216 milioni di euro e ora annullate in autotutela da Abramo. Che si ritrova con la grana dei ricorsi presentati al Tar dalle banche, e con il rischio del dissesto e di non riuscire a pagare nemmeno gli stipendi dei dipendenti.

    Sede_Provincia_di_CatanzaroSulle disgrazie politiche del centrosinistra un po’ ovunque e da ultimo a Cosenza, così come sull’esordio non felicissimo della presidente Succurro che ha subito assegnato un incarico (gratuito) al marito, non serve indugiare oltre. Può invece essere utile ragionare sui contorni del limbo politico-amministrativo in cui sono stati costretti questi enti, schiacciati tra Regioni e Comuni e menomati da interventi legislativi molto discutibili.

    Cinque miliardi in meno per le Province

    Partiamo dai tagli, iniziati già dal 2010 e dunque ancora prima della Delrio. Secondo uno studio della fondazione Openpolis ammontano a ben 5 miliardi di euro i trasferimenti statali decurtati negli anni. Con una conseguenza prevedibile: «Ciò ha portato ad una riduzione dei servizi e soprattutto negli investimenti (ad esempio infrastrutture di trasporto -65%)».

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    La sede dell’ex Provincia, oggi Città metropolitana, di Reggio Calabria

    La Calabria si contraddistingue per un forte accentramento verso la Regione delle funzioni che erano prima delle “vecchie” Province. Unica eccezione la Città metropolitana, che ne ha invece mantenute molte. Per farsi un’idea dell’importanza che invece hanno le poche funzioni rimaste oggi in capo alle “nuove” Province è sufficiente menzionare due settori chiave.

    Due settori chiave

    Innanzitutto la manutenzione dell’edilizia scolastica: si parla a livello nazionale di 5.179 edifici (che ospitano di 2,6 milioni di studenti), il 41,2% dei quali si trova in zona a rischio sismico. Nella nostra regione il 10,4% risulta vetusto, il 3,8% è in zona sottoposta a vincolo idrogeologico. E poi le strade provinciali, una di quelle cose che attirano su questi enti maledizioni e improperi perfino dai cittadini più morigerati. In Calabria le Province gestiscono 7.713 km di strade, molte delle quali in zone di montagna e disagiate: il 44,75% dei 2.578 km di strade della Provincia di Cosenza è sopra i 600 metri sul livello del mare, così come il 47,34% (su 1.690 km totali) di quella di Catanzaro, il 30,5% (su 818 km) di quella di Crotone, il 25% (su 875 km) di quella di Vibo e il 16,95% (su 1752 km) di quella di Reggio.

    Il paradosso delle nuove Province

    Dare risposte alle giuste rivendicazioni degli utenti, in queste condizioni e con pochi fondi a disposizione – le tasse principali che vanno alle Province sono quelle per Rc e trasferimento dei veicoli – diventa dunque complicato. E il problema del passaggio delle funzioni – e dei beni ad esse collegati – resta completamente irrisolto. La Delrio nasceva come norma transitoria verso il (poi fallito) referendum renziano del 2016 che avrebbe dovuto eliminare le Province dalla Costituzione. Invece quella legge, che doveva essere provvisoria, disciplina ancora oggi il funzionamento di questi enti.

    Nel frattempo la retorica dei tagli ha prodotto un altro paradosso: sono nati moltissimi nuovi enti (circa un migliaio tra unioni di Comuni, autorità di bacino, consorzi e quant’altro) proprio per aiutare i Comuni nella cogestione dei servizi. Un decennio di propaganda e di sperimentazioni normative sulle Province ha dunque generato un evitabile caos istituzionale. E un vuoto riempito solo dall’inettitudine delle classi dirigenti nazionali e locali.