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  • Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
    Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri.
    Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.

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    Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro

    In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
    Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.

    Angela Finocchiaro prima di Vibo

    La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore Mio fratello è figlio unico.
    Bene! Anzi, benissimo! Però…

    Teatro, questo sconosciuto…

    Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud – a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
    Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
    Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. E il teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.

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    Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)

    Tv o palcoscenico?

    A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici.
    Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
    Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
    Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio,  è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.

    Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no

    Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
    Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
    Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.

    Cultura e globalizzazione

    Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
    Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.

    2024, fuga dalla Calabria

    Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
    Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.

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    Il nuovo teatro di Vibo vuoto

    Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro

    Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.

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    Leonida Repaci

    Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
    Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: cosa resta al di là dei numeri

    Per noi “spettatori” diventa tedioso e abbastanza confusionario ascoltare un’ora e quaranta minuti di lettura del dispositivo che in primo grado condanna o assolve i 338 imputati di Rinascita-Scott. Immaginiamoci cosa deve essere per quegli stessi imputati che attendono il loro nome – chi con la A, chi con la Z – con rassegnazione o speranza, intrecciando gli sguardi con gli avvocati perché non sempre si capisce cosa effettivamente dica il dispositivo in questione.

    I numeri di Rinascita-Scott

    Questa più o meno la situazione dentro e fuori dall’Aula Bunker di Lamezia Terme, con gli occhi della stampa estera ma anche di quella italiana che vuole fare i conti e li vuole fare facilmente. Quanti sono i condannati? Quanti gli assolti? Cosa significa oltre 2000 anni di carcere o 4000? Poi, come spesso accade (soprattutto nei maxi-processi), si comprende che non tutti i condannati sono uguali e non tutti gli assolti sono uguali. D’altra parte, è uno dei motivi di confusione di Rinascita-Scott, soprattutto all’estero: quanto è significativo il processo dipende da chi – non dal quanto – si porta a giudizio.
    Ed in processi così grandi la differenziazione è complessa.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme che ha ospitato il processo Rinascita-Scott

    Nei grandi numeri di Rinascita-Scott ci sono certamente delle condanne importanti e le condanne sono la maggioranza. La cosa non sorprende, se si considera l’apparato accusatorio che mira a guardare l’insieme. Riportano i notiziari che 207 sono le condanne emesse nei confronti di capi e gregari delle ‘ndrine vibonesi. Tra questi sicuramente spiccano le condanne a trent’anni di carcere – sostanzialmente l’ergastolo – emesse nei confronti di Francesco Barbieri, Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Li si considera i capi-mafia, membri apicali della provincia ‘ndranghetista del vibonese, tra quelli rimasti a processo in questa sede. Ma sono comunque non pochi, 134, i capi di imputazione che vengono meno fra assoluzioni e prescrizioni.

    Nomi vecchi e nomi nuovi

    Regge dunque l’impianto accusatorio per, diciamo, due terzi. Si mirava, ricordiamolo, a inquadrare come vecchi e nuovi clan di ‘ndrangheta della provincia di Vibo fossero arrivati a riconoscersi e riconoscere una provincia vibonese, sostanzialmente autonoma dal “Crimine” di Polsi. Al centro il paese di Limbadi dove risiede quella parte della famiglia Mancuso, capitanata per lungo corso da Luigi Mancuso, che spadroneggia sul territorio e fa da “mamma”, come si dice in gergo ‘ndranghetista. Significa dunque che a subire le condanne sono stati – con tutti i caveat di quelle in primo grado e importanti diminuzioni delle pene richieste dalla procura – coloro che ci si aspettava le subissero. Individui, cioè, che in misura più o meno incisiva risultano affiliati ai vari clan della città e della provincia di Vibo.

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    Luigi Mancuso

    Se c’è una cosa che questo processo, sebbene non sia il solo ovviamente, ci sta insegnando è proprio il rapporto tra reputazione mafiosa di lungo corso e riconoscimento di nuovi gruppi criminali-mafiosi all’interno del gruppo di riferimento, cioè la ‘ndrangheta. Ecco perché ci sono, in Rinascita-Scott, nomi “vecchi” da Mancuso a Bonavota e Razionale. Ed ecco il perché di nomi “nuovi” – ossia meno conosciuti ai non addetti ai lavori o a chi vive lontano da quei territori – come Barba o Lo Bianco.

    Rinascita-Scott e i colletti bianchi

    Se ci si aspettava più o meno il successo dell’impianto accusatorio per quel che riguarda la mafia vibonese in senso stretto – d’altronde c’era già stata la pronuncia del processo abbreviato, che in appello ha confermato condanne per oltre 60 individui – quello che poteva incuriosire era il “trattamento” processuale dei cosiddetti imputati eccellenti, i colletti bianchi, protagonisti del processo forse più di tanti altri presunti mafiosi. Ed ecco che proprio qui arrivano delle sorprese.

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    Gianluca Callipo

    Sicuramente alcune sorprese positive per imputati come l’ex sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo e l’ex assessore regionale Luigi Incarnato, entrambi assolti. Così come per l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, condannato ad 1 anno e sei mesi a fronte di una richiesta di condanna a 20 anni di reclusione per reato associativo mirato al voto di scambio.
    Non avendo ancora le motivazioni per questo verdetto odierno è difficile immaginare cosa la Corte abbia escluso come indizio di colpevolezza in questi casi. Nel caso di Giamborino la Corte di Cassazione già nel 2020 aveva chiesto al tribunale di merito in ambito cautelare di colmare alcune lacune motivazionali riguardanti «la probabilità di colpevolezza, la sussistenza del vincolo sinallagmatico tra il Giamborino ed il sodalizio criminale nell’interesse del quale egli avrebbe agito, in cui si sostanzia il patto politico-mafioso, sorto con riferimento ad una specifica tornata elettorale».

    Il caso Giamborino

    Infatti i vari eventi riferiti non sembravano confermare la «serietà» e la «concretezza» dello scambio e anzi essere caratterizzati da «genericità». Questo, si badi bene, nonostante i gravi indizi di colpevolezza che facevano risultare «non peregrino ipotizzare che il Giamborino abbia goduto dell’appoggio del locale di Piscopio nella competizione elettorale del 2002». Si legge nel dispositivo che Giamborino è stato condannato per il reato all’art. 346 bis (traffico di influenze illecite) ma per altri reati contestatigli gli viene riconosciuta la formula assolutoria «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste». E ci si chiede se, dunque, quest’altra Corte di merito non abbia accolto quel consiglio della Corte di legittimità a essere più specifica del rapporto sinallagmatico e non ci sia infine riuscita in modo soddisfacente da provarlo oltre ogni ragionevole dubbio.

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    L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino

    Inoltre, sebbene sia pacifica la sua definizione giurisprudenziale, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – così come quello di voto di scambio –  rimane particolarmente ostico. E, pertanto, soggetto a grandi divergenze nella sua applicazione pratica. Risulta particolarmente complesso raccordare le varie condotte del colletto bianco, non affiliato, e ricondurle a un contributo volontario, specifico e consapevole al gruppo mafioso. E risulta ancora più complesso gestire in sede di merito quelle che sono doglianze di legittimità. Coordinarsi nel giudizio di merito come quello attuale con giudizi della Corte di Cassazione, che spesso intercettano questioni polivalenti nel tentativo di valutare situazioni a latere, per esempio legate alle custodie cautelari, è notoriamente materia complessa.

    Rinascita-Scott e gli undici anni per Pittelli

    Tra le notizie negative per gli imputati, sebbene con pene in parte ridotte rispetto alle richieste dei Pm, alcune dimostrano plasticamente la complessità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra queste spicca la condanna del colletto bianco per antonomasia di Rinascita-Scott, Giancarlo Pittelli. Ex senatore e politico, avvocato e uomo molto conosciuto nei suoi ambienti, Pittelli ha fatto parte in vari momenti anche delle logge massoniche locali, appartenenza che potrebbe aver amplificato la risonanza delle sue condotte.

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    Giancarlo Pittelli si è visto infliggere una condanna a 11 anni di reclusione

    L’avvocato-politico è stato condannato a 11 anni di carcere, a fronte dei 17 chiesti dalla procura. Ma questo sarà arrivato con non poca sorpresa a lui e ai suoi avvocati che da anni sono impegnati in ricorsi – ovviamente non solo loro – davanti alla Corte di Cassazione e al Tribunale del Riesame per chiarire la posizione dell’imputato, soprattutto per quanto riguarda la sua detenzione. Qui emerge la complessità di raccordare giudizi di merito con giudizi di legittimità che solitamente seguono.

    Millanteria o no?

    Già un anno fa, per esempio, la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dei legali di Pittelli contro una decisione del Tribunale del Riesame, aveva confermato la rilevanza ai fini cautelari di alcune condotte dell’avvocato-politico imputato ma non di altri indicatori di grave colpevolezza. Ribadiva, in sostanza, che per il concorso esterno in associazione mafiosa serve più della millantata o reale “messa a disposizione” del professionista.

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    La Corte di Cassazione

    Il Tribunale di Catanzaro, a cui la Cassazione aveva dunque rinviato il giudizio, nel gennaio del 2023 ha poi chiarito che la condotta dell’imputato di “messa a disposizione” fosse qualificabile come una millanteria del Pittelli. Ed ha altresì escluso che l’imputato abbia «usufruito o tentato di sfruttare particolari entrature, in ragione del suo ruolo, per agevolare la consorteria».
    Anche qui, in attesa delle motivazioni del verdetto, è difficile valutare cosa il Tribunale abbia considerato grave indizio di colpevolezza in questo caso da giustificare invece gli 11 anni di condanna. Rimarrà certamente argomento del contendere in appello.

    In carcere a lungo, poi l’assoluzione

    Da ultimo, giova ricordare che mentre si aspettano le motivazioni della sentenza passerà ulteriore tempo. Ci sono persone assolte in questo processo, per cui la procura aveva chiesto 18 anni di carcere per reati associativi – ad esempio il nipote acquisito che faceva da autista allo zio, boss, per capirci – che stanno in carcere dal dicembre 2019. Per quanto valgano scuse e monete di risarcimento, resteranno private di 4 anni di vita e probabilmente anche della propria reputazione. Questo processo, complesso, lungo, titanico per ragioni che sono certamente comprensibili da un punto di vista dell’impianto accusatorio, porta a una serie di storture di difficile gestione da un punto di vista del rispetto dei diritti umani e della necessità – internazionale, europea, italiana – di gestire i processi in tempi brevi e soprattutto non punitivi.

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    Il procuratore Falvo

    Si rimanda qui alle parole del procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che nota come, nonostante la scelta dei maxi-processi possa sembrare discutibile, a volte viene giustificata dalle dimensioni del collegio giudicante. Ovviamente riconoscendo quanto ciò porti ad ulteriori problematiche su altri processi e pronunce future.

    Realtà giudiziaria e storica

    Ed ecco dunque che mentre aspettiamo le motivazioni – e mentre qualcuno forse mosso dalla voglia inesorabile di più “punitività”, si lamenterà di quelle oltre 100 posizioni di assoluzione e prescrizione – invito a ricordare che delle condanne dei processi c’è da gioire solo fino a un certo punto. E che secondo il principio costituzionale di non colpevolezza fino a prova contraria, ciò che tutti noi possiamo fare fino al passaggio in giudicato di questioni così complesse come la mafia, è analizzare criticamente la realtà, giudiziaria quanto storica, di ciò che i processi e poi le sentenze effettivamente dicono.

  • Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Spennati e contenti. A quanto pare ci sarebbe da festeggiare per i turisti a Tropea dopo che Omio – piattaforma di prenotazione di treni, autobus e voli – ha rivelato come una pallina di gelato sulle spiagge della Perla del Tirreno risulti tra le più care d’Europa. Secondo la ricerca, che ha coinvolto 75 spiagge di 20 Paesi diversi – si spenderebbero di media, infatti, 3,50 euro.
    Per pagare di più toccherebbe andare nella ben più dispendiosa Francia a Tolone, Cannes, Marsiglia oppure, in alternativa, a Bournemouth nel Regno Unito. Negli altri 70 litorali sotto esame si spende o quanto nella località calabrese  – a Saint Tropez, Nizza, Positano, San Pietro-Ording (Germania) – o decisamente meno. Basti pensare che in templi del turismo di lusso come Capri o la Costa Smeralda il prezzo di una pallina di gelato è di parecchio inferiore a quello che Omio attribuisce a Tropea.

    Caro gelato, esulta il sindaco di Tropea

    Il mini salasso in questione però, si diceva, incontra i favori dell’amministrazione comunale. Che prima mette in dubbio l’attendibilità del dato – «non ci risulta» – poi lo dà per buono. E lo valuta così: «Non una bocciatura ma semmai una promozione».

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    Il sindaco di Tropea, Giovanni Macrì

    Il sindaco Giovanni Macrì, novello Elkann/Briatore de noantri per l’occasione, lo dice apertamente. Il dato «confermerebbe l’esatta e coerente direzione intrapresa da Tropea in questi anni: posizionarsi in alto nei mercati turistici, per la sempre maggiore qualità complessiva della proposta ricettiva ed esperienziale, inclusa quella enogastronomica ed artigianale di cui il gelato è forse il simbolo più forte». E pensare che qualcuno tende ancora ad associare l’enogastronomia di Tropea alla cipolla e non al gelato…

    Ciao poveri

    Quindi, largo ai sillogismi. «Se il gelato a Tropea risulta tra i più costosi d’Europa significa anzitutto che è anche uno dei gelati più buoni, per qualità delle materie prime e della preparazione artigianale delle nostre gelaterie», continua Macrì. Che poi si complimenta con i gelatai locali per l’ottima posizione nella classifica degli esosi.
    «La qualità – afferma – si paga sempre e Tropea continua a non voler essere una destinazione per tutti i target, per i tutti i gusti e per tutte le tasche».

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    La Tropea da cartolina

    Il sindaco vuole «selezionare la domanda dei visitatori e non ricercare o accontentarsi dell’indistinto sovraffollamento stagionale» Perché, se non fosse chiaro, fare in modo che chi ha poco in tasca ma vorrebbe comunque godersi il mare della Costa degli Dei non si faccia vedere da quelle parti è «doveroso ed auspicabile».

  • Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Condidoni, Mandaradoni, Paradisoni, Potenzoni, San Costantino, San Leo, Sciconi, sono le frazioni del comune di Briatico, in provincia di Vibo. Sulla carta, in tutto, sarebbero 3.727 i suoi abitanti. Nel 1951 erano 4.826, ma non è un paese spopolato. D’estate poi si affolla non solo di emigrati in viaggio sentimentale. Tanti turisti scelgono le sue spiagge e amano visitare pure le frazioni, specie in occasione delle sagre e delle faste religiose. Molti i tedeschi, riconoscibili perché formano delle file ordinatissime per pagare il piatto di frittura o i fileja, che devono apparirgli veramente esotici. Esotici come gli italiani, che non riescono a rimanere in una fila.
    Prima dei turisti qui, in tempi più remoti e con motivazioni diverse, sono giunti viaggiatori e studiosi per osservare da vicino gli effetti spaventosi del terremoto del 1783. E missioni filantropiche costituite per portare finanziamenti per la ricostruzione, realizzata con innovativi piani edilizi, che prevedevano strade regolari e piazze ampie, edifici bassi e leggeri.

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    Un’illustrazione sugli effetti del terremoto del 1783 in Calabria

    Conoscere la Calabria e i suoi abitanti da sempre ha richiesto un notevole impegno, un grande spirito di sacrificio. I viaggiatori stranieri del Settecento e Ottocento sono stati davvero eroici ad affrontare i sentieri a dorso di mulo, per vedere da vicino le voragini in cui erano scomparse intere città, ma anche i luoghi evocati da Omero, le città mitiche come Sibari, misteriose già per gli antichi romani.
    Poi è stato il turno di antropologi, fotografi, ricercatori come Gerhard Rohlfs, impegnato a catalogare e analizzare i dialetti. Cercava le tracce del greco antico e di quello medievale. Il professor Rohlfs ha scattato anche molte foto, dove si vede che uomini e donne si prestavano volentieri a mettersi in posa per lo straniero curioso.

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    Gerald Rohlfs con un contadino calabrese

    Poi, con motivazioni diverse, sono arrivati a Briatico i padri scalabriniani. Giovanni Battista Scalabrini era un sacerdote veneto, nominato vescovo di Vicenza. Impressionato e addolorato dal fenomeno migratorio, che era imponente in Veneto, Scalabrini pensò di fondare una congregazione religiosa, con la missione specifica di aiutare e assistere le comunità di italiani all’estero, perché nell’Ottocento e fino al secolo scorso tanti veneti, lombardi e piemontesi dovevano emigrare. In ogni angolo del mondo gli scalabriniani hanno posto le loro basi, per stare accanto ai loro conterranei e così hanno incontrato le comunità di calabresi, pure loro arrivati fino agli estremi confini del mondo, per costruirsi un avvenire migliore di quello che avrebbero dovuto subire a casa loro, in Calabria.

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    Giovanni Battista Scalabrini

    I padri missionari scalabriniani si sono resi conto da subito che, per aiutare e sostenere queste comunità, era necessario conoscere le tradizioni, le culture, le abitudini dei luoghi di provenienza, i paesi a migliaia di chilometri di distanza. Così hanno fondato dei centri di studio, uno a Parigi, uno a Roma, un terzo, nel 1979 a Briatico, che oggi è in provincia di Vibo Valentia. E a Briatico arriva padre Maffeo Pretto, nato a Cologna Veneta, in provincia di Verona, nel 1929. Non arriva da solo, a Briatico, ma con altri confratelli, perché Briatico ha diverse frazioni, ognuna con la propria chiesa, a cui le piccole comunità sono molto legate.

    Padre Maffeo inizia a studiare tutti i libri che trova, sulla Calabria. Li acquista, li raccoglie nella casa parrocchiale. Negli anni costituirà una biblioteca di oltre 15.000 volumi, di storia, antropologia, tradizioni popolari, letteratura. Inizia dai testi di Raffaele e Luigi Maria Lombardi Satriani, che hanno il palazzo di famiglia a San Costantino di Briatico. Coinvolge i ragazzi del paese nella gestione e nella cura di questo patrimonio, almeno quelli che decidono di non andare via.
    Ma intanto assolve ai suoi compiti di parroco, conosce le persone, le ascolta. Comprende la difficile realtà di questi piccoli borghi, intristiti dall’emigrazione, con un’economia povera, precaria.

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    L’antropologo calabrese Luigi Maria Lombardi Satriani

    Quando l’ho conosciuto padre Maffeo aveva circa settant’anni, era da venti anni a Briatico e la sua biblioteca aveva assunto ormai proporzioni ragguardevoli. Mi raccontò qualche aneddoto, sui tentativi di mettere assieme le persone, farle collaborare per raggiugere piccoli obiettivi di interesse comune. Cercava di cogliere sempre il lato positivo di quella fatica. Apprezzava l’attaccamento delle persone a quelle minuscole chiese, l’attesa della festa annuale con le luminarie e la processione come un evento centrale per la comunità. Non guardava dall’alto in basso queste manifestazioni, come spesso fanno i sacerdoti, specie quelli non particolarmente colti.

    Aveva iniziato a pubblicare i suoi studi sul cattolicesimo popolare, le tradizioni, le devozioni delle comunità di cui era parroco. Si trattava di dispense per i confratelli, pubblicazioni ad uso interno dei padri scalabriniani. Negli anni della sua formazione si parlava molto degli studi di don Giuseppe De Luca, un sacerdote lucano, che a Roma aveva fondato le Edizioni di Storia e Letteratura e l’Archivio della pietà. Appunto per salvare questo patrimonio di cultura orale, messo in pericolo dalla laicizzazione della società, dall’abbandono dei paesi, dall’emigrazione.

    Anche in Calabria qualcuno aveva deciso di rimediare. Infatti ci fu l’arrivo, a Briatico, nell’ufficio parrocchiale, nel giugno del 1986, del già irrefrenabile e incontenibile Demetrio Guzzardi, che stava avviando i primi passi della sua casa editrice. Non lo ha convinto subito, padre Maffeo, perché quel giorno Guzzardi, pur prendendo nota mentalmente dell’enorme biblioteca, doveva sposarsi, per questo motivo era a Briatico. C’ero pure io e tanta altra gente, a Sant’Irene di Briatico, uno dei luoghi del cuore della comunità ciellina di Calabria.

    Ma un mese dopo l’implacabile Guzzardi era di nuovo lì a convincere padre Maffeo che i suoi studi meritavano una veste editoriale, che sarebbero stati benissimo tra le prime collane di Editoriale progetto2000. E così hanno visto la luce La pietà popolare in Calabria, nel 1983, Santi e santità nella pietà popolare in Calabria nel 1993. Nel 2005 Teologia della pietà popolare. Questo sacerdote veneto schivo, riservato e metodico, ha trascritto tutte le cantilene, le storie raccontate ai bambini, le leggende dei santi che non hanno trovato posto nelle biografie ufficiali, le litanie e le tradizioni che affondano le proprie radici nella notte dei tempi.
    Infine un ultimo regalo alla comunità di Briatico, Briatico nella storia, nel 2007. Due grossi volumi, il primo dedicato al periodo feudale, il secondo al tempo moderno, fitti di documenti, storie e personaggi. Una enciclopedia che custodirà la memoria di Briatico. Anche dell’antica Briatico distrutta dai terremoti e ricostruita, per le future generazioni, come devono fare i buoni libri.

    Padre Maffeo ha trascorso i suoi ultimi anni nella casa dei padri scalabriniani di Arco, in provincia di Trento. Le sue precarie condizioni di salute non gli hanno permesso di rimanere da solo in Calabria. Assistito dai suoi confratelli ha concluso la sua vita terrena il 9 giugno 2021.

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    La sede del Sistema bibliotecario vibonese, cui aderisce anche il Comune di Cessaniti

    Prima di andare via dalla Calabria ha cercato il modo di lasciare in regalo a questa terra la sua biblioteca. La ha accolta Favelloni, frazione del comune di Cessaniti, vicino ai luoghi della sua missione trentennale. Un segno concreto del suo legame con questa terra e la sua storia.

  • RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    Una cosca che appartiene, a tutti gli effetti, al gotha della ‘ndrangheta. Hanno agganci ovunque i Mancuso, capaci di sfruttare quel volto “dolce” della ‘ndrangheta per blandire e colludere utilizzando la massoneria deviata come camera di compensazione. Ma, all’occorrenza, in grado di mostrare il volto più cruento. Sul loro territorio di appartenenza, la provincia di Vibo Valentia, non è inusuale anche l’utilizzo di esplosivi per gesti eclatanti. La prova è data, tra gli altri eventi, l’autobomba che uccide Matteo Vinci.

    Come tutte le importanti cosche della ‘ndrangheta, anche i Mancuso hanno costruito molta della propria forza economica grazie al business del traffico di droga. Dialogano da pari a pari con i narcos colombiani e, in generale, con tutto il mondo criminale del Sud America. Già quindici anni fa, nel 2008, una relazione della DIA afferma: «I Mancuso operano nel florido settore del traffico di cocaina, dove sono riusciti ad acquisire un notevole peso, assicurandosi un canale privilegiato con i cartelli colombiani, con i narcotrafficanti spagnoli, spingendosi sino in territorio australiano».

    I Mancuso e le altre cosche

    Un’inchiesta della Procura di Catanzaro, denominata Black Money, mostra la forza della cosca Mancuso di Limbadi, nel Vibonese, , a pieno titolo tra le più potenti famiglie della ‘ndrangheta di tutte le province calabresi. Nel Vibonese, non si muoverebbe foglia senza il placet dei Mancuso. Esplicativa, in tal senso, la sentenza che sancisce l’esistenza della cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona: «Tutte le cosche insediate sul territorio della provincia vibonese fanno capo all’associazione per così dire maggiore dei Mancuso la quale, nel riconoscere alle varie ‘ndrine minori la dignità di organizzazioni autonome e indipendenti, conferisce loro la legittimazione ad operare».

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    La Procura di Catanzaro

    La potenza economica e militare della cosca Mancuso emerge, inoltre, in alcuni procedimenti penali degli anni ’70 e ’80 che attestano i forti e diretti collegamenti con molte tra le altre cosche di ‘ndrangheta di maggior tradizione mafiosa dell’intera regione. In primo luogo, quelle storiche del reggino, specie della Piana di Gioia Tauro. Ma anche le cosche di più antico potere storicamente radicate nelle altre province. Fortissimi e stabili gli intrecci con le cosche della provincia di Reggio Calabria. In particolare, quelli con i Piromalli, i Mammoliti, i Pesce, i Mazzaferro e i Rugolo.
    La cosca Mancuso, in una regione all’ultimo posto in Italia nella graduatoria di reddito ed al primo in quella per tasso di disoccupazione, controlla i cantieri, muove gli autocarri, costruisce alberghi, apre negozi ed assume manodopera.

    Ciccio Mancuso vince le elezioni

    La storia criminale dei Mancuso ha inizio proprio con il loro coinvolgimento nella faida di San Gregorio d’Ippona, con il supporto ai Fiarè contro i Pardea. Siamo nel 1977.
    Ma sono gli anni ’80 a consacrare la forza del casato di Limbadi all’interno dello scacchiere ‘ndranghetista. È, infatti, il 1983 quando viene sciolto il comune di Limbadi, primo centro a subire questo provvedimento, sebbene ancora non vi sia una legge specifica per contrastare le infiltrazioni delle consorterie criminali nelle istituzioni locali.
    Lì, a Limbadi, l’allora capobastone Ciccio Mancuso risultò (da latitante) il primo degli eletti, spingendo il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini, a intervenire.

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    Ciccio “Tabacco” Mancuso

    Nel nuovo millennio, numerose le inchieste giudiziarie che mettono sotto la lente d’ingrandimento la cosca di Limbadi. Dall’indagine Dinasty, che tratteggiò le divisioni all’interno del clan, all’inchiesta Decollo, che invece ricostruì l’asse con i Pesce di Rosarno per il traffico internazionale di droga.
    Da ultima, ovviamente, l’inchiesta “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro sta ricostruendo i legami della cosca con il mondo istituzionale e con quello della massoneria deviata. Da qui, tra gli altri, il coinvolgimento dell’avvocato ed ex parlamentare, Giancarlo Pittelli.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    A tratteggiare il ruolo rivestito all’interno della ‘ndrangheta unitaria dalla cosca Mancuso sono numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti parlano del ruolo rivestito dalla famiglia originaria di Limbadi fin dagli anni ’70 e ’80. Gli anni, cioè, della prima e della seconda guerra di ‘ndrangheta, che cambiano il volto della associazione criminale calabrese.

    Tra gli altri, Francesco Onorato: «Dopo la morte di Paolo De Stefano, furono i Piromalli, in particolare Peppe Piromalli e anche Luigi Mancuso, i referenti di Cosa Nostra in Calabria. Quando dico referenti intendo dire che facevano parte di Cosa Nostra, come Nuvoletta, Zaza e Bardellino in Campania. Ciò mi fu spiegato da Salvatore Biondino. “Fare parte” significava che ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Per quanto riguarda gli omicidi Cosa Nostra, quando chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti».

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    Andrea Mantella

    Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, uno dei più importanti di quelli di ultima generazione nel Vibonese, afferma che diversi membri della famiglia Mancuso avrebbero il grado di “Medaglione”, uno dei più alti all’interno della struttura ‘ndranghetista. E diversi pentiti parlano del ruolo apicale che avrebbe rivestito Luigi Mancuso nel mandamento tirrenico, fungendo da anello di congiunzione tra le cosche del Reggino e quelle della provincia di Catanzaro.

    La riunione di Nicotera

    Non è un caso e, anzi, è indicativo del ruolo fondamentale rivestito dai Mancuso, il fatto che, nel progettare la strategia della tensione di metà anni ’90, la ‘ndrangheta, nel muoversi come si stava già muovendo Cosa Nostra, abbia scelto, per una delle riunioni più importanti (come sancito dal processo ‘Ndrangheta stragista) proprio il territorio dei Mancuso. È la riunione tra cosche di Nicotera Marina, svolta all’interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, legatissima a quella dei Piromalli, come provano diverse sentenze definitive quali Piano verde, Porto e Tirreno. Sulla riconducibilità del villaggio turistico ai clan vibonesi riferiscono diversi collaboratori di giustizia. Notoria l’infiltrazione delle cosche vibonesi nelle strutture ricettive di quell’area. Allora, come oggi.

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    La spiaggia di Nicotera

    Ragionevole, quindi, che si sia scelto il loro regno per  avere garanzie sul ruolo dell’importante riunione. L’assise criminale in questione ha avuto un altissimo valore strategico essendo, il suo oggetto, proprio la questione stragista. E non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria. Il che, peraltro, rappresenta una ulteriore prova storica della unitarietà della ‘Ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l’esterno si presentava unita e compatta.

    I Mancuso e la massoneria

    Le intercettazioni svolte hanno evidenziato l’interesse della famiglia Mancuso ad “avvicinare” politici, giudici, esponenti delle Forze dell’Ordine, al fine di ottenere vantaggi, soprattutto di carattere giudiziario o economico. Protagonista è Pantaleone Mancuso, uno degli esponenti più rilevanti della cosca, per la sua peculiare capacità di infiltrarsi, tramite terze persone, in qualificati ambiti sociali, professionali ed istituzionali. Grazie a tali capacità, la cosca ha accresciuto il proprio potere di controllo del territorio e la propria forza di intimidazione nei confronti della popolazione, conscia di essere soggiogata da un’organizzazione mafiosa non solo temibile militarmente, ma anche sorretta da trasversali appoggi esterni.

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    Pantaleone “Vetrinetta” Mancuso

    “Vetrinetta”, così viene appellato il boss, mostra di conoscere bene le dinamiche della ‘ndrangheta e, soprattutto, cosa sia diventata. Forse anche in virtù della sua stessa appartenenza alla massoneria: «La ‘ndrangheta non esiste più! Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, c’era la ‘ndrangheta! La ‘ndrangheta fa parte della massoneria! […] diciamo… è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose […] ora cosa c’è di più? Ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta! Una volta era dei benestanti la ‘ndrangheta, dopo gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori… e hanno fatto la massoneria! Le regole quelle sono… come ce l’ha la massoneria, ce l’ha quella! Perché la vera ‘ndrangheta non è quella che dicono loro… perché lo ‘ndranghetista non è che va a fare quello che dicono loro […] adesso sono tutti giovanotti che vanno a ruota libera, sono drogati!».

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    Si tratta di affermazioni intercettate di grande valenza, non solo per il contenuto ma, soprattutto, per la caratura del personaggio che le pronuncia, Pantaleone Mancuso: «Ancora con la ‘ndrangheta sono rimasti! È finita! Bisogna fare come… per dire… c’era la “Democrazia”… è caduta la “Democrazia” e hanno fatto un altro partito… Forza Italia, “Forza Cose”… bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e e bisogna cambiare tutte le cose. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo P4, P6, P9».

    Limbadi esplode

    Come detto, non è inusuale che, sul territorio della cosca, possano avvenire attentati eclatanti. Il 9 aprile 2018 viene ucciso in contrada Cervolaro a Limbadi Matteo Vinci con una bomba esplosa nella sua Ford Fiesta. Da sempre, sulla morte aleggia l’ombra della ‘ndrangheta e, in particolare, della cosca Mancuso che, secondo l’accusa, sarebbe stata interessata al terreno dei Vinci. Una nebbia mai diradata fino in fondo.

    Per l’attentato, infatti, sono stati fin qui condannati in primo grado, come mandanti, Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara. Dieci anni sono stati comminati nei confronti di Domenico Di Grillo, 73 anni, marito di Rosaria Mancuso, accusato di tentato omicidio per il pestaggio di Francesco Vinci avvenuto pochi mesi prima rispetto all’esplosione. Ma, in un altro procedimento, è arrivata l’assoluzione per i presunti esecutori materiali dell’omicidio.

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    L’auto di Matteo Vinci devastata dall’esplosione

    Una cosca monolitica, o quasi

    Oggi, quindi, i Mancuso sono una delle cosche più importanti della ‘ndrangheta, con un ruolo crescente su mercati lontani dalla Calabria, come la Lombardia o, come documentato dall’inchiesta su Mafia Capitale, su Roma. Potente perché quasi indistruttibile, con il fenomeno del pentitismo che non la scalfisce. O quasi.

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    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)

    Come Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, che aveva deciso di cambiare vita, di sganciarsi dalla cosca, da quell’uomo di cui si era invaghita, ma che adesso era diventato un cappio. Non sottoscrisse mai i verbali della sua prima e unica notte da donna libera. Tornò a casa, dal marito che, nel frattempo, aveva appreso di questa crepa nella vita di Tita. Morì un mese dopo, per ingestione di acido muriatico. Suicidio, secondo lo stesso Pantaleone Mancuso, che informò i carabinieri del fatto. Fu anche indagato per istigazione al suicidio. Punito per vari reati, si trova oggi al 41bis. Non per quello, però.
    Chi, invece, i verbali li ha sottoscritti è Emanuele Mancuso, il primo pentito con il cognome Mancuso della storia. Ha raccontato e sta raccontando le cose del clan che, come nelle tradizioni della ‘ndrangheta più alta, sono cose di soldi e di sangue.

  • Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.

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    La Tropea da cartolina

    Una mare di Museo a Tropea

    Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
    Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
    Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).

    Undici milioni di anni fa

    Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.

    Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea

    Una balena a Cessaniti

    È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.

    La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.

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    Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea

    Le giraffe di Calafrica

    Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.

    Il riccio di mare dedicato al direttore del museo

    Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.

    Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo

    Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.

    Lo squalo di 20 metri 

    Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
    La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
    Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.

  • Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    «Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
    Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.

    Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel

    Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».

    Il Paese soffre ma dice di arricchirsi

    La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».

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    Un sequestro di sigarette di contrabbando

    La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale

    Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.

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    Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi

    Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.

    Mafia Spa: più criminalità, meno crescita

    La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.

    Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».

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    Un altro grafico dal report di Bankitalia

    I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.

    Mafia Spa e pubblica amministrazione

    Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».

    Le conclusioni della banca centrale italiana

    Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».

  • Terzo polo bipolare: le giravolte di Azione e Iv

    Terzo polo bipolare: le giravolte di Azione e Iv

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    Lo chiamano Terzo polo: è la compagine nata dalla federazione del partito di Matteo Renzi con quello di Carlo Calenda. Qualche giorno ad un convegno di Renew Europe il primo ha annunciato che non vi è alternativa al “partito unico”. Il secondo ne ha tracciato l’orizzonte: entro primavera per un manifesto comune e a settembre una costituente del contenitore liberaldemocratico italiano. Con una postilla: «Se incominciamo a fare a chi più è liberale, i liberali rimangono un circolo di sfigati che fanno training autogeno tra di loro. Il circolo più è esclusivo meno persone ci sono dentro».

    Le ultime parole famose

    Insomma, al solito, l’ex europarlamentare del Pd e oggi senatore del Terzo Polo non le manda a dire. Così come è chiaro nel rapporto tra la sua forza politica ed il M5S.
    «Lo dico agli amici del Pd, c’è solo un modo per gestire i 5 Stelle: cancellarli!» twittava Calenda lo scorso luglio. «Penso che il M5s dovrebbe sparire» affermava ad agosto. Mentre lo scorso mese, alla domanda se andrebbe al governo con il M5S, ha risposto: «Manco morto». Un disamore politico corrisposto, questo. Il presidente del M5S, Giuseppe Conte, giusto qualche giorno fa ha dichiarato: «Dico al Pd che il M5S non starà mai con Renzi e Calenda».

    Con tutti tranne…

    Insomma, quello che ha dettato Calenda pareva un percorso lineare. Lo ha ribadito anche sui territori, tant’è che lo scorso marzo annunciò a Catanzaro: «Ci sarà anche una lista di Azione nella competizione elettorale per le amministrative di Catanzaro di tarda primavera (…) Siamo pronti a dialogare con tutti, salvo che con l’estrema destra e il Movimento Cinque Stelle (…) non ci alleiamo con i 5 stelle e con la destra estrema perché è contrario ai nostri valori e ai nostri principi. Non lo facciamo a livello nazionale, non lo faremo a livello locale».

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    Raffaele Serò

    Pochi mesi dopo alle Amministrative del capoluogo non vi fu traccia della lista di Azione. Divenne consigliere comunale, però, il segretario provinciale Raffaele Serò. Era nella lista Io scelgo Catanzaro della coalizione civica di Antonello Talerico, quest’ultimo poi approdato, invece, in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Entrambi sostengono la maggioranza di Nicola Fiorita (esprimendo anche un assessore in Giunta, Antonio Borelli), così colorita e variegata che contempla anche il M5S, con buona pace dei niet di Calenda.

    Donato in Azione

    Non è l’unico grattacapo per Azione nel capoluogo, patria del trasformismo politico e della liquidità (se non liquefazione) dei partiti.
    Ad agosto, dopo la scoppola elettorale alle Amministrative catanzaresi di giugno, il candidato sostenuto dalla Lega e da Forza Italia (e al ballottaggio anche da Fdi), Valerio Donato, già dirigente cittadino del Partito Democratico, ha aderito ad Azione, specificando di aver avuto una lunga interlocuzione «con i dirigenti nazionali e regionali di Azione».
    A dicembre, poi, insieme ai consiglieri comunali Gianni Parisi e Stefano Veraldi, Donato ha annunciato la costituzione del gruppo consiliare “Azione-Italia Viva-Renew Europe” con egli stesso come capogruppo.

    Alle spalle del segretario

    Piccolo particolare: il collega consigliere-segretario provinciale di Azione, Serò (loro avversario elettorale fino a pochi mesi prima), non è stato nemmeno avvertito. Tant’è che ha sbottato: «Nella mia veste di coordinatore provinciale di Azione con Calenda comunico che alcun gruppo di Azione è stato costituito in Consiglio comunale da parte di terzi. Pertanto, non si comprende l’iniziativa dei consiglieri Valerio Donato, Giovanni Parisi e Stefano Veraldi, autori di una nota stampa con la quale danno atto di avere costituito il gruppo di Azione, addirittura estromettendo il sottoscritto e senza consultare lo scrivente».

    Niente più gruppo

    Risultato: nell’ultimo consiglio comunale Donato (che nelle more si è anche auto-candidato come membro del Csm) e i suoi hanno comunicato che non ci sarebbe stata la costituzione del gruppo di Azione. Insomma, un gran caos. Ad acuirlo, i continui punzecchiamenti stampa dell’ex esponente Udc, Vincenzo Speziali, vicino al terzo polo, per cui il “fascicolo Catanzaro” andrà certamente preso in carico. Non pervenuta politicamente e numericamente Italia Viva. Il coordinatore cittadino Francesco Viapiana alle amministrative ha ottenuto, nella lista Riformisti-Avanti!, poco più di cento voti.

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    Calenda con Donato e Veraldi

    L’asse a Vibo

    Se la maggioranza variegata a Catanzaro farà storcere il naso a Calenda e disinteressare Renzi, figuriamoci il rassemblement vibonese.
    Alle imminenti elezioni provinciali il candidato sarà il segretario provinciale di Italia Viva Giuseppe Condello (sindaco di San Nicola da Crissa). A suo sostegno anche Azione, che vede come leader locale l’ex candidato a sindaco del Pd e oggi consigliere comunale Stefano Luciano (membro anche della segreteria regionale dei renziani).
    Luciano nell’assise vibonese ha costituito il gruppo “Al centro”  con i consiglieri comunali Giuseppe Russo, ex Pd ed ex Fi, e Pietro Comito, vicino al consigliere regionale di Coraggio Italia Francesco De Nisi.

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    Giuseppe Condello

    A sostenere Condello ci saranno oltre al Pd (con critiche al segretario provinciale Giovanni Di Bartolo e canoniche spaccature) anche il M5S, che a Vibo esprime due consiglieri: Silvio Pisani e l’ex candidato sindaco e candidato regionale Domenico Santoro, politicamente silente dopo l’ultima disfatta elettorale.
    La liaison tra Azione e il M5S nel vibonese non è una gran novità: l’attuale responsabile organizzativo dei calendiani è Pino Tropeano, candidato regionale dei grillini nel non lontano 2020.

    Terzo polo in Calabria: i renziani senza bussola

    Una nota di colore: nel 2021 Giuseppe Condello, sfidò alle regionali, da candidato del Psi, il segretario provinciale di Iv a Catanzaro, Francesco Mauro, alfiere di Forza Azzurri.
    Già, perché il coordinatore regionale di Italia Viva, l’ex senatore Ernesto Magorno, prima dichiarò di aver sostenuto Jole Santelli e, quindi, il centrodestra nel 2020 e poi si lanciò a favore della causa occhiutiana. «Pronto a essere candidato a presidente della Provincia di Cosenza. Data la mia disponibilità al presidente Occhiuto» dichiarò a fine 2021.

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    Renzi e Magorno in Calabria durante le ultime Politiche

    L’anno successivo incontrò il presidente della Regione insieme al presidente di Italia Viva, Ettore Rosato. «Per confermare il sostegno di #ItaliaViva all’azione del governo», dichiararono. Qualche mese fa, nuovamente, Magorno ha aggiunto: «Italia Viva è il primo partito a essere stato ricevuto da quando è iniziata questa consiliatura regionale, un dato non da poco che ci pone come validi interlocutori della Giunta regionale».
    Insomma, l’Italia Viva di Magorno è (al pari del capogruppo regionale del M5S, Davide Tavernise) il maggiore spot politico permanente della giunta Occhiuto.

    C’è chi dice no

    Di diverso avviso l’ex parlamentare grillina Federica Dieni. Giusto l’altro giorno, in riferimento alla pista di pattinaggio a Milano voluta da Fausto Orsomarso, ha dichiarato: «Ma c’è una voce di opposizione in consiglio regionale? Qualcuno che presenti un’interrogazione sulla opportunità di questa scelta? Ecco, se c’è batta un colpo».
    Non è la prima volta che Dieni lancia stoccate alla giunta e a Roberto Occhiuto, come quando gli disse: «Occuparsi del territorio non è una concessione». Non proprio in linea con i dettami magorniani.

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    Federica Dieni

    Terzo polo in Calabria, gli strascichi delle politiche

    Alle elezioni politiche dello scorso settembre il terzo polo si è fermato in Calabria al 4%, non eleggendo alcun parlamentare. I capilista alla Camera erano Maria Elena Boschi e, a seguire (appunto…) Ernesto Magorno. Già con il deposito delle liste nacque una polemica proprio nell’establishment vibonese che, sentendo odore di disfatta, mise le mani avanti: «Ci è stato spiegato che l’accordo nazionale prevedeva postazioni utili in Calabria solo per il partito Italia Viva di Renzi e pertanto non abbiamo potuto fare altro se non accettare con serenità quanto deciso, rinnovando l’impegno a favore del nostro territorio con la determinazione di sempre ad ascoltare e tentare di risolvere i numerosi problemi dei cittadini vibonesi».

    Si salvi chi può

    L’affondo dei calendiani sa tanto di sassolino dalla scarpa: «Siamo però con i piedi per terra e dunque affronteremo questa tornata elettorale tentando di guardare oltre il 25 di settembre nella consapevolezza che oggi gli amici di Italia Viva hanno una maggiore responsabilità sul risultato elettorale, posto che hanno avuto il grande privilegio di essere favoriti da un accordo elettorale nazionale che ha penalizzato in Calabria il partito di Azione, riducendone al minimo l’agibilità anche in termini di richiesta del voto». Insomma, si salvi chi può.

    Giada Vrenna, ex renziana di Crotone

    Terzo polo ma non troppo a Reggio Calabria

    E se a Crotone il coordinatore cittadino Ugo Pugliese ha sfiduciato Giada Vrenna, ormai ex consigliera comunale di Italia Viva, non va meglio nel reggino. Il sindaco f.f. di Reggio Calabria, Paolo Brunetti, risulta in quota Iv, mentre quello metropolitano, Carmelo Versace è di Azione. «Brunetti e Versace sono i più capaci, è stata effettuata una scelta saggia. Da parte mia, sarei onorata e orgogliosa di rappresentare la Calabria» disse la Boschi in campagna elettorale. Invece, nessuno slancio in termini di percentuale è venuto dal territorio, con perfidi detrattori che sussurrano: «I due sindaci hanno sostenuto il Pd». Insomma, terzo polo, che pasticcio!

     

  • STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

    STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

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    Nel 2020 scoppiava – oltre alla pandemia – la non meno diffusa indignazione dei calabresi per l’agghiacciante domanda posta da Raoul Bova nel corto-marchetta di Muccino per la Regione Calabria: «Dove vuoi che ti porto?». Giusto! Quell’errore grammaticale era assolutamente poco realistico. E io aggiungevo: sarebbe stato tristemente più veritiero un «dove vuoi portata?».
    Sia come sia, ne venne fuori un’insopportabile polemichetta sulla rappresentazione da cartolina, sui filtri ferocissimi, le coppole e i gilet, gli agrumi estivi e i fichi in spiaggia: segno che in tanti avrebbero preferito non tanto uno spot turistico ma un servizio in stile Report (tanto i turisti stanno comunque alla larga). Contenti loro, ma bisognava capire che una cosa è la promozione turistica, altra la denuncia.

    Tropea o tromba d’aria?

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    La Tropea da cartolina

    Tutta questa premessa per dire che l’Oscar per la cartolina trita e ritrita spetta e spetterà sempre a Tropea (al secondo posto: l’Arcomagno, ma ne parliamo un’altra volta). Tropea, trupìa, tempesta, temporale. Anche le tropee, così come le trombe marine, vengono “tagliate” dagli anziani del posto.

    Nella Calabria tirrenica «quando si approssima una tropea, venti improvvisi che in estate-autunno si scagliano a vortice dal mare sulla costa, il più anziano dei contadini la “taglia”, recidendo in tre parti un tralcio di vite. Si rivolge verso la tropea che avanza e in atto solenne, mentre taglia, pronuncia alcune parole rituali» (lo scriveva pure Orazio Campagna, in un eccezionale libro pubblicato nel 1982 e oggi abbastanza introvabile: La regione mercuriense nella storia delle comunità costiere da Bonifati a Palinuro). Ma in questo caso non si tratta di una vera e propria tromba marina. E allora torniamo a Tropea con la T maiuscola e ai suoi dintorni.

    La magia delle donne

    Poco più a Sud, nel circondario di Palmi, la tromba marina è detta cuda d’arrattu: in questo caso «le donne del luogo, guidate da una che ha poteri magici, corrono sulla spiaggia impugnando nella destra un coltello a punta, col manico d’osso bianco, e con esso sciabulìano ’u celu con larghi, decisi fendenti. Colei che le guida punta il coltello contro la tromba e le urla “Luni esti santu / marti esti santu / mercuri esti santu / juovi esti santu / vènnari esti santu / sabatu esti santu / dumìnica è di Pasca / cuda ’e rattu casca“; e ogni volta che dice “esti santutraccia nel cielo, sempre in direzione della tromba, una croce, subito imitata dalle altre donne; poi, quando arriva a “dumìnica è di Pasca / cuda d’arrattu casca“, vibra un fendente da destra a sinistra e un altro dall’alto in basso, squarciando così il mostro».

    Non solo cristianesimo

    E che c’è di strano? Nulla: se nelle invocazioni contro le trombe d’aria i marinai timorati di Dio (e ancor più di Satana) fanno uso, allo stesso tempo, di formule cristiane e di formule salomoniche, dobbiamo ricordare – sto scherzando ma non troppo – che a due passi da qui nacque e morì Antonio Jerocades, l’abate eretico e massonissimo. Anzi, uno dei primissimi “grembiuli” della Penisola.

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    L’abate Antonio Jerocades

    Insomma, lo scriveva – ahinoi – anche il verboso De Martino: ««Il momento magico si articola in raccordi e forme intermedie che concernono il cattolicesimo popolare e le sue accentuazioni magiche meridionali, sino al centro dello stesso culto cattolico». Frasetta adatta all’uditorio marxista del tempo, manca solo “nella misura in cui”. Ma la sostanza c’è. De Martino voleva dire, per farla un pochino pochino più semplice, che il teismo o è contemplato in forme integrali, che comprendano ogni sottospecie di pratica cultuale che vi si possa connettere, o perde coerenza e crolla. Ma, per carità, torniamo a Tropea.

    Tropea oltre Muccino

    No, scordatevi che io scriva delle bellezze naturali e storiche del luogo oppure della cipolla rossa venduta a peso d’oro (il pomo della concordia… La pietra filosofale? Oppure l’occultus lapis che si rinviene, appunto nelle interiora terrae?). Butterò soltanto un’informazione poco nota: al diavolo i pernottamenti di Garibaldi in almeno 366 luoghi diversi all’anno (almeno 367 negli anni bisestili ma, si sa, lui era più trino che uno), a me pare molto più interessante scoprire che nell’agosto del 1965 a Tropea ha dormito Georges Perec.

    Lo annotò nei suoi diari, come in un Tripadvisor privatissimo: «La spiaggia è assai lontana, molto bella, in basso; la camera è grande, persiane chiuse a causa del caldo». Ne tracciò persino una mini-planimetria (il foglietto, per la precisione, sta a Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Fonds privé Georges Perec, Lieux où j’ai dormi, 48.6.2, 14r). Questo per dire che si può rispondere a Muccino, eccome. Ma con argomenti di qualche auspicabile spessore. E certo, mi direte voi (?): Perec nel ’65 non era ancora nessuno, stava appena esordendo con Les Choses. Dici niente!, vi rispondo io.

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    Appunto dai diari di Georges Perec

    Massoni e sedie impagliate

    Ma abbandoniamo sia le cartoline sia i dagherrotipi: lasciamo stare Tropea, gli agosti calabri, e dirigiamoci verso l’interno, per tornare a Nord. A occhio e croce, la strada più difficile è quella che da quaggiù passa per Soveria Mannelli, e allora facciamola. Aggiriamo Girifalco, anche perché di massoneria ho già parlato troppo e non sarei il primo a ricordare che proprio in questo paese sorse la primissima loggia d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra: ah, la precocità!).

    Passiamo invece per Migliuso, amenissima frazione rurale della più lontana Serrastretta. A dividerle, una strada non proprio intuitiva. Ulivi, ulivi, ulivi, panorami meravigliosi e una trattoria dove – e poi se la prendono con Muccino! – dei bambini tornati da scuola suonano la fisarmonica; dove ordino un secondo senza contorno e la signora mi porta anche le patatine: «tanto… le dovevo fare per i bambini, le faccio pure per Voi». E dire che Serrastretta passerà alla storia più che altro per essere il paese degli impagliatori di sedie e, ancor di più, per aver dato i natali ai genitori di Iolanda Gigliotti in arte… vabbé, che ve lo dico a fare?

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    Sedie serratrettesi doc

    Incappucciati

    Ma non c’è tempo per riposare le terga sui manufatti locali… pieghiamo per Gimigliano e non c’è niente da fare, impossibile restare lontani da un po’ di sano anticlericalismo calabro e di esoterismo locale: qui nacque Tiberio Sesto Russilliano (o, meglio, Rosselli) il quale, senza farla lunga, nel 1519 pubblicò l’Apologia contro i chierici, ovvero l’Apologeticus adversus cucullatos (si, lo so, “cucullatos” sta per “incappucciati” ma non bisogna fraintendere, qui si riferisce proprio alla pretonzoleria). E qui nacque pure il cucullatissimo francescano (abbastanza eretichello) Annibale Rosselli, morto a Cracovia nel 1592, autore di un monumentale commento in sei tomi al Pimandro  attribuito a Ermete Trismegisto.

    Insomma, la Calabria centromeridionale non ha partorito solo Mino Reitano. Rimettiamoci in cammino: passiamo per Carlopoli, Castagna e per la bella frazione di Colla. I boschi si fanno mano mano più fitti e siamo già a Conflenti, Martirano Lombardo, Martirano non lombardo, San Mango d’Aquino, paesi arrampicati sopra gli orridi dell’ultimo tratto del Savuto o, per i più superficiali, sopra gli omonimi svincoli autostradali delle tratte più infelici dell’Italia d’oggi. Altra storia.

  • Disabilità e inclusione: una rivoluzione tutta calabrese

    Disabilità e inclusione: una rivoluzione tutta calabrese

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    Quante difficoltà devono affrontare i disabili e i loro familiari? E in Italia quanti diritti effettivi godono?
    Forse proprio la Calabria ha iniziato una piccola rivoluzione che, a partire da alcune situazioni critiche, potrebbe dare il via a una nuova epoca. Certo, la situazione non è rosea, a partire dai progetti individuali. Da noi, infatti esistono ritardi nell’applicazione della legge 328 del 2000. Le previsioni di questa normativa ora sono incluse nei fondi del Pnrr.

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    La sede regionale del Tar

    Tar e disabilità

    La magistratura ha dovuto dare la classica “strigliata” al sistema.
    Infatti, il Tar di Catanzaro ha dato una risposta a due famiglie annullando le note dei Comuni di Vibo Valentia e di Lamezia Terme.
    Un record, in questa materia delicata, grazie al quale i nostri giudici amministrativi tallonano le decisioni pionieristiche di Aosta e Catania.
    Nello specifico, parliamo dei genitori di due minori che nel 2019 avevano chiesto ai propri Comuni di adottare i progetti individuali per disabili. Questi progetti devono essere inoltrati dal Comune, in sinergia con l’Azienda sanitaria territoriale, per attingere ai fondi regionali.

    Vibo e Lamezia: due realtà nel mirino

    Vibo e Lamezia e le rispettive Asp avevano provato a sottrarsi. Ma il Tar di Catanzaro ha deciso altrimenti e ha ordinato a Comuni e Asp di concludere entro 90 giorni il procedimento.
    Queste due sentenze, tra le prime in Italia, sono finite in molti siti web specializzati in Sanità o di legali esperti in materia. I giudici hanno stabilito che i diritti dei disabili sono esigibili, quindi devono avere risposta immediata, pena la condanna.
    La Calabria sarà pure indietro nella tutela dei disabili, ma forse la magistratura è avanti. E ha qualche potere particolare: ad esempio, quello di nominare commissari ad acta. Insomma, non si scherza più.

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    Barriera architettonica a Vibo

    Io autentico: una onlus in lotta per i disabili

    La onlus “Io autentico” di Vibo, in prima linea nella tutela degli autistici, ha fatto il punto sui progetti per disabili. «Abbiamo avviato da tempo un intenso lavoro di sollecitazione e di affiancamento con diversi enti locali e sanitari, oltre che con la Regione. Abbiamo partecipato attivamente alla stesura del piano sociale regionale 2020-2022 della Calabria, Ciò non è tuttavia bastato fino a che il Tar quest’anno non è intervenuto contro Vibo e poi quello di Lamezia».

    Disabili: Vibo fila ma l’Asp arranca

    Da allora, il Comune di Vibo Valentia, vanta un primato: «È stato il primo in Calabria ad avviare la predisposizione e la realizzazione dei progetti di vita in modo sistematico col coinvolgimento dell’Asp. Finora, nel Vibonese sono attivi sessantatré progetti per disabili».
    E c’è di più: «l’Ambito territoriale sanitario di Vibo Valentia (16 Comuni) è quello più attivo. E non va male l’Ats di Spilinga, che comprende altri 17 Comuni. L’Asp di Vibo registra forti ritardi, difficoltà e inadempienze nei confronti del Comune, nonostante un protocollo operativo firmato proprio con l’ente comunale, nella gestione della progettazione, per carenza di professionisti».

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    L’Asp di Vibo Valentia

    Bene Cosenza, male Reggio, peggio Crotone

    Nel resto della Calabria, si segnala la provincia di Cosenza, dove sono in corso progetti nei Comuni di Rende, San Giovanni in Fiore, Praia a Mare e Scalea.
    A Catanzaro, invece, c’è da star certi che la recente sentenza del Tar contro Lamezia velocizzerà i procedimenti.
    La situazione resta difficile a Reggio, dove “Io autentico” era intervenuta in audizione lo scorso luglio presso la Commissione pari opportunità del capoluogo per avviare una collaborazione per le numerose istanze pendenti che tuttora, però, restano tali.
    Perciò «nei confronti del Comune di Reggio Calabria è pendente un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento. La provincia di Crotone, purtroppo, non è pervenuta».

    Cosa prevede la legge del 2000

    La legge n. 328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) prevede che, ai fini della piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare, si predisponga un progetto individuale per ogni soggetto con disabilità psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. Attraverso i progetti si creano percorsi personalizzati per massimizzare i benefici.
    Al riguardo, si legge sul sito web dell’Anffas (Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale): «Nello specifico, il Comune deve predisporre, d’intesa con la Asl, un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di necessita per la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione».

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    Un mezzo dell’Anffas

    Un diritto blindato

    Attraverso tale innovativo approccio si guarda al disabile non più come ad un semplice utente di singoli servizi. Ma lo si considera «una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere».
    Il progetto individuale, infatti, «è un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere».
    L’importanza e la centralità della redazione del progetto individuale è oggi ampiamente ribadita dal primo e dal secondo programma biennale d’azione sulla disabilità approvati dal Governo, che ne prevedono la piena attuazione, quale diritto soggettivo perfetto e quindi pienamente esigibile.

    Assistenza ai disabili

    Questo diritto è ancorato allo stesso percorso di certificazione ed accertamento delle disabilità ed è identificato quale strumento per l’esercizio del diritto alla vita indipendente ed all’inclusione nella comunità per tutte le persone con disabilità. Come previsto, in particolare, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità)».

    La buona scuola

    Oggi, la legge 112 del 2016 (disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, nota come legge sul durante e dopo di noi) individua proprio nella redazione del progetto individuale il punto di partenza per l’attivazione dei percorsi previsti dalla stessa.
    La redazione del progetto individuale per le persone con disabilità è ulteriormente ripresa anche dalla riforma della “buona scuola” del 2015.

    Il progetto individuale comprende vari aspetti. Innanzitutto, il profilo di funzionamento. Poi le cure e la riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, include il piano educativo individualizzato a cura delle scuole. Il Comune fa la sua parte, direttamente o tramite accreditamento, coi servizi alla persona. La strada è lunga ma proprio dalla Calabria è partita l’ennesima battaglia per il pieno riconoscimento di tutti i diritti già previsti dalla normativa per i disabili e per i loro familiari.