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  • L’attimo fuggente di Ordine: «Libri e buoni prof ti cambiano la vita»

    L’attimo fuggente di Ordine: «Libri e buoni prof ti cambiano la vita»

    «Questi dati disastrosi sulla lettura e sulla fruizione delle attività culturali sono direttamente proporzionali agli scarsi investimenti, in Calabria e nel Sud in generale, dedicati alla cultura e all’istruzione. Come si possono stimolare i giovani a leggere in una regione dove in molti paesi non esistono librerie, biblioteche, teatri e perfino edicole?». A parlare è Nuccio Ordine, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università della Calabria. Il suo è il punto di vista di chi dalla nostra terra – dove è nato, vive ed opera – gira il mondo per far capire, soprattutto ai giovani, il valore della lettura.

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    L’Università della Calabria
    Una regione che non legge

    Nelle scorse settimane su I Calabresi abbiamo parlato del grande balzo in avanti del libro, che si vende sempre più. Anche le librerie fisiche resistono, mantenendo la maggiore fetta di mercato rispetto ai siti di e-commerce. Eppure da queste parti in media, secondo Istat, si leggono poco o nulla giornali e libri. Librai, scrittori ed editori ci hanno detto che occorre partire dalle scuole, investire in politiche che favoriscano la lettura di qualità, non limitarsi ai dati nazionali sulla crescita del mercato editoriale. E un faro in Calabria andrebbe puntato anche sulla quota di studenti della scuola secondaria di secondo grado che non raggiungono un livello sufficiente di linguaggio (e competenze numeriche).

    «Dopo trent’anni di insegnamento a studenti di primo anno – afferma Nuccio Ordine – posso affermare che si legge sempre meno e che la conoscenza dei classici è purtroppo in calo. Il fenomeno non riguarda solo gli iscritti all’Unical: in tutto il mondo l’educazione globalizzata punta alla “professionalizzazione” e non alla formazione di una cultura generale». Ma a chi attribuire la responsabilità di questo fenomeno? Secondo Ordine, non a quelli che spesso finiscono sul banco degli imputati.

    «La colpa – spiega – non è degli allievi o dei professori della secondaria. È un approccio “pragmatico” che riduce spazio alle discipline umanistiche in generale per privilegiare la tecnologia e i suoi derivati. La soglia dell’attenzione si abbassa sempre più. I giovani, educati allo zapping, dopo pochi minuti hanno bisogno di cambiare canale. Ma quando incontrano bravi professori si rendono disponibili all’ascolto. Chiedono valori e possono lasciarsi infiammare da una poesia o un romanzo…».

    Leggere per capire se stessi e il mondo

    Ordine, 63 anni, dirige collane di classici in diversi Paesi e gode di grande fama internazionale, con riconoscimenti e numerose lauree honoris causa anche per la difesa del ruolo del professore (la buona scuola non la fanno i computer, è un suo slogan). Il suo bestseller L’utilità dell’inutile è stato tradotto in 22 lingue. Di una cosa è certo: bisogna far comprendere anche agli studenti che non si legge per superare un esame, ma per cercare di capire se stessi e il mondo circostante.

    Il professor Nuccio Ordine riceve un dottorato honoris causa dall'Université catholique de Louvain
    Il professor Nuccio Ordine riceve un dottorato honoris causa dall’Université catholique de Louvain

    «In un contesto globale – dice – dominato dai tagli alla scuola, all’università e a tutto ciò che ormai, nella propaganda utilitaristica mondiale, viene stimato inutile perché non produce un profitto immediatamente monetizzabile, letteratura, musica, arte, filosofia, ricerca scientifica di base vengono considerate lussi che lo Stato non può più permettersi. Le ricerche in questo settore parlano chiaro invece: più si investe in cultura e in istruzione, più l’interesse per la lettura cresce».

    I ritorni economici

    Già, gli investimenti. L’ultima rilevazione Eurostat su quelli per la ricerca e lo sviluppo in rapporto al Pil evidenzia come l’Italia non raggiunga la media europea. E la Calabria, come abbiamo raccontato su queste pagine, è ancora più indietro. «Non finanziare la ricerca di base, quella di lunga durata che nella storia dell’umanità ha dato grandi risultati, è frutto di una logica in cui si pensa che dare soldi ad una biblioteca, un archivio, museo, laboratorio sia sprecare soldi perché non hai un ritorno economico. È sbagliato».

    E quando gli chiediamo un esempio che confermi quanto sostiene, Ordine ne tira fuori uno illustre quanto poco noto ai più: lo stato del Kerala in India. «L’economista Amartya Sen, premio Nobel, ha riconosciuto nell’idea del governo di investire qui soprattutto nella sanità e nell’istruzione un fattore fondamentale nella crescita dello stesso Kerala in termini di redditi pro capite».

    Amartya Kumar Sen, Premio Nobel per l'economia nel 1998
    Amartya Kumar Sen, Premio Nobel per l’economia nel 1998

    Secondo Nuccio Ordine, «dedicarsi ad una lettura di un libro, alla visita di un museo o alla visione di un concerto è considerato improduttivo nella nostra società». Ma non si deve investire solo in cosa dà profitto o studiare per imparare un mestiere. «Uno dei punti deboli della nostra società – dice – è che il tasso etico delle professioni si sta abbassando in maniera vorticosa. Si sceglie un mestiere nell’ottica del mercato: per il guadagno, non per passione. È sbagliato applicare la logica dell’azienda allo studio e alla cultura. Tagliare il greco o la storia significa non avere più conoscitori di queste materie. La memoria ha giocato sempre un ruolo fondamentale: nell’Olimpo greco la dea della memoria, Mnemosine, è la mamma di tutti i saperi».

    La ricchezza dell’umanità

    Leggere, conoscere il passato, aiuta a costruire una società migliore per il presente e il futuro. Non tutti però se ne rendono conto, anzi. «Pensiamo alla Calabria. Sono calabrese – dice ancora il docente Unical – e fiero che nella mia cultura ci siano origini magnogreche, romane, normanne, bizantine, arabe, e poi spagnole e francesi. Ritengo che la pluralità delle religioni e delle culture, e più in generale la convivenza tra popoli diversi, non siano un ostacolo ma rappresentino la ricchezza dell’umanità. Contro una certa visione identitaria e pseudo-patriottistica giocano un ruolo molto importante la letteratura, la musica e tutti i saperi in generale».

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    Un gommone carico di migranti nel Mediterraneo

    L’attualità però racconta quanto l’intolleranza resti un problema, come risolverlo? «Purtroppo si tende a mettere i poveri (che hanno pagato le crisi economiche) contro i nuovi poveri (chi viene a cercare una dignità umana). Far credere che i migranti siano la causa della crisi economica è una delle cose più immorali e disoneste che possano esistere. Dovremmo insegnare ai nostri giovani: dovete essere fieri delle vostre origini, ma nello stesso tempo dovete imparare a valicare i confini della terra natale. Ulisse ce lo insegna: siamo fatti non per vivere come bruti ma per seguire “virtute e canoscenza” come dice Dante».

    Il riscatto nei libri

    In un mondo sempre più globalizzato, però, gli scenari tendono a riproporre dei modelli standardizzati. Nelle aree più ricche – dove ci sono più stimoli culturali e si investe di più – la media dei lettori è sempre più alta, come indicato dall’ultima rilevazione Istat sul benessere equo e solidale. «Per esperienza personale e quindi senza alcuna pretesa di offrire dati certi, ho potuto verificare che la qualità può trovare punte molte alte soprattutto nelle aree svantaggiate».

    Il sapere può quindi liberare dalle catene del sottosviluppo una terra come la nostra? Ordine non ha dubbi a riguardo. «In Sudamerica o in Calabria, per esempio, ho trovato ragazzi pieni di passione e di entusiasmo, animati da una voglia di conoscenza e di riscatto. Si tratta di “punte” che percepiscono lo studio e il sapere come una grande occasione per cambiare la loro vita. Per questo la scuola ha bisogno di buoni professori: per stimolare i giovani all’amore per la conoscenza. Ma oggi, purtroppo, si spendono miliardi per la tecnologia, mentre si disprezza la professione dell’insegnante (mal pagato e frustrato). Abbiamo dimenticato che solo i buoni professori possono aiutare gli studenti a cambiare la loro vita».

    Un centro unico al mondo

    Nuccio Ordine è anche presidente del Centro internazionale di studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. Dal 2015 ha sede nel palazzo Caselli a Cosenza, in virtù di una convenzione con il Comune. La biblioteca ha ricevuto un finanziamento con i fondi Cis stanziati per il centro storico bruzio, attraverso il segretariato regionale del ministero della Cultura. «Cosa possiamo fare in Calabria, un po’ periferia della periferia? Con un gruppo di studiosi del Rinascimento abbiamo pensato che fosse necessario dar vita a una biblioteca specialistica dedicata ai tre grandi filosofi meridionali che hanno condizionato il dibattito europeo sulla natura e sulla cosmologia. Due sono calabresi, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, e l’altro campano, Giordano Bruno».

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    La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo

    L’iniziativa, pur nobile, è stata accolta da qualche polemica negli anni. Secondo qualcuno, manco a dirlo, i soldi per il centro Telesiano si potevano impiegare per qualcosa di più utile a contrastare l’abbandono della città vecchia. Ma Ordine non ci sta e rivendica il valore del progetto: «La nostra idea – spiega – è di comprare in riproduzione digitale tutte le opere originali dei tre filosofi. E poi comprare tutta la bibliografia secondaria (saggi, articoli, traduzioni) di Telesio, Bruno e Campanella sparsa nelle biblioteche di tutto il mondo e in tutte le lingue. Così da averla in unico luogo, qui a Cosenza. Il segretariato regionale del ministero ha apprezzato il progetto e lo ha fatto suo. Potremo portare a termine la biblioteca. Quando avremo tutto pronto, potremo finanziare borse di studio, ospitare dottorandi, far venire qui studenti da Harvard o da Oxford. In nessuna città del mondo troveranno ciò che abbiamo qui a Cosenza».

    Il professor Nuccio Ordine si è spento oggi, 10 giugno 2023, all’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza dove era ricoverato da alcuni giorni. Aveva rilasciato questa intervista al nostro giornale a dicembre del 2021.

  • L’Unical nella Calabria che arranca

    L’Unical nella Calabria che arranca

    Gentilissimo direttore,
    colgo con piacere l’invito rivolto dalla redazione alla comunità accademica a prendere parte alla discussione iniziata con l’intervista al collega Bianchi dal titolo “L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa”. Il collega bianchi affronta finalmente il tema della ricaduta sul territorio calabrese delle nostre tre università.

    Il mio punto di osservazione è sicuramente diverso da quello di Bianchi, perché più circoscritto. Non mi avventurerò, qui, in campi che non sono i miei, e dunque limiterò il mio intervento alle ricadute sociali e culturali dell’Università della Calabria sul suo territorio di riferimento, e cioè prevalentemente Cosenza e Rende. Pertanto, non entrerò nel merito del dissesto idrogeologico, dell’erosione del mare, della depurazione insufficiente nel Tirreno cosentino, dei servizi turistici pessimi, della viabilità al collasso, della difficoltà di effettuare una raccolta differenziata efficace ed efficiente, del degrado in cui è ridotta Cosenza (con sporcizia, cumuli di rifiuti ovunque), con l’ospedale dell’Annunziata che non raggiunge i Lea (Livelli essenziali di assistenza) ed è perennemente al collasso.

    Si tratta di cronicità sulle quali ovviamente l’Università della Calabria non ha responsabilità dirette, ma sulle quali credo che l’Unical dovrebbe far sentire la propria voce, anche eventualmente denunciando pubblicamente l’assenza di ascolto da parte della regione, qualora vi sia. Poiché la cultura è il motore della società, e l’assenza di cultura ne è il freno, l’imbarbarimento della società è chiaramente legato all’analfabetismo e all’analfabetismo di ritorno. E quindi, come si può da anni continuare a girare lo sguardo altrove quando leggiamo che uno studente calabrese delle scuole superiori su tre non ha le cognizioni minime per superare la licenza media.

    I test Ocse-Pisa, allineati alle prove invalsi, collocano la Calabria agli ultimi posti per competenze alfabetiche. Cosenza è la peggiore. I test nazionali invalsi confermano i dati Ocse-pisa. Le liste annuali di Eduscopio della Fondazione Agnelli, da anni, non vedono un liceo di Cosenza e di Rende tra le migliori scuole della Calabria. Di fronte a questo collasso sociale, le istituzioni sono mute mentre di anno in anno la situazione calabrese peggiora.

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    L’Università della Calabria

    Parecchi anni fa ero al Politecnico di Vienna: mi aveva colpito un manifesto affisso ovunque che riguardava un convegno dedicato ai risultati delle indagini Ocse-Pisa. Il politecnico di Vienna si interrogava, invitando numerosi esperti, su come migliorare la performance (già alta) delle scuole. Nulla di ciò ho mai visto all’Università della Calabria. Le iniziative che vedono una collaborazione tra Unical e scuole, moltiplicatesi negli ultimi anni, con tutta evidenza hanno fallito l’obiettivo di sollecitare una didattica di maggiore qualità. Hanno solo avuto il merito di aumentare gli iscritti. Ma non è la quantità cui l’università dovrebbe guardare, ma la qualità dei suoi studenti. le istituzioni, dunque anche l’Università, sono silenziose.

    E la qualità degli studenti in ingresso è davvero bassa. Lo sappiamo tutti noi che insegniamo all’Unical, ma tutti si guardano bene dal parlarne. Inutilmente, in ogni contesto, puntualmente sollevo il problema della selezione degli studenti, per troppo tempo legata al voto di maturità che, a Cosenza e a Rende, troppo spesso non ha alcuna correlazione con la preparazione degli studenti. Puntualmente mi ritrovo intorno un silenzio assordante, quando non addirittura reazioni che volutamente fraintendono il mio pensiero attribuendomi la volontà di respingere certi studenti, limitandone l’accesso. Ma invece è proprio il contrario, perché di studenti intelligenti e con voglia di fare l’Unical è piena, ma bisogna avere il coraggio di certificarne l’impreparazione per consentire loro di avere un “colpo di reni” e recuperare. Invece si preferisce far credere loro di avere una adeguata preparazione di base, abbassando la soglia dei test di ingresso rispetto alle altre università in modo da non “spaventarli”, non assegnando loro il debito che meritano. E così, l’Unical rinuncia a recuperare troppi studenti che avrebbero tutte le capacità per emergere, ma che invece si perdono perché privi di obblighi.

    Il dibattito interno all’Unical è da tempo sopito, e non certo a causa della pandemia. Prova ne è l’assenza di interventi su questo dibattito così importante aperto da Bianchi. Negli anni ho cercato di stimolare qualche discussione sulla piattaforma d’ateneo ponendo l’accento su diversi problemi: da ultimi il disastro sanitario e gli scandali a sfondo sessuale che hanno interessato anche l’Unical, oltre che il livello degli studenti in ingresso. Non è servito a nulla, se non a scatenare reazioni scomposte che mai avrei voluto leggere su una piattaforma universitaria. Si potrebbe affermare che l’università è specchio della società. Ma l’Università forma la classe dirigente, e deve sempre dare l’esempio. O, almeno, dovrebbe.

    Ingrid Carbone

    ricercatrice Università della Calabria

     

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    Abbiamo pubblicato volentieri il contributo di Ingrid Carbone, ricercatrice dell’Unical e anche valente pianista. L’autrice evoca criticità anche gravi e diffuse in Calabria ma non tutte sono riconducibili al ruolo dell’università ed alle sue responsabilità. Tuttavia quanto denunciato dalla professoressa Carbone merita un approfondimento che, come è nostro costume, si fonderà attraverso una ricerca scrupolosa sul campo e ascoltando i diversi interlocutori che quelle criticità conoscono per esperienza diretta.

  • Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Caro Direttore, caro Franco,
    ho seguito la discussione sulle università calabresi che ha preso il via sul tuo giornale fin dall’intervista a Sandro Bianchi, e poi si è sviluppata con interventi che hanno arricchito il quadro con ulteriori elementi e da diverse angolazioni.

    Mi è parso di capire che se l’aspettativa era alta, sul ruolo e l’incidenza che il sistema universitario calabrese avrebbe potuto-dovuto avere rispetto alle condizioni sociali e culturali oltre che politiche, oserei aggiungere antropologiche, della nostra regione, tale aspettativa, da quel che leggo è rimasta in buona misura disattesa. Il rettore emerito Gianni Latorre è più cauto e sottolinea gli aspetti positivi e per talune considerazioni che svolge dirompenti: lui conosce bene l’Unical e la vischiosità dei tanti anfratti in cui si cela la nostra identità, il nostro essere cittadini calabresi, con tutte le ambasce, i condizionamenti, i retaggi.

    Se posso aggiungere la mia voce alle tante, e mi auguro anzi auspico si moltiplichino, inviterei a rimuovere le valutazioni che, sottotraccia o esplicitamente, attribuiscono o attribuivano virtù taumaturgiche alla nascita, al sorgere, allo stabilizzarsi del mondo accademico qui da noi. E non è una diminutio o una sottovalutazione, la mia posizione, quanto l’evidenziare che cinquant’anni di vita di una istituzione – che per lo stesso fatto di irrompere in un quadro preesistente fatto di relazioni, patti, accondiscendenti e mutui laisser vivre, ha comportato sconvolgimenti nel concepire la vita associativa – sono poca cosa. Poca cosa per mutare o curvare secoli di indolenza, autosufficienza, più presunta che reale, un predominio della politica o per dir meglio del politichese sovra ogni altro comparto.

    È questo mio dire una giustificazione o addirittura un’assoluzione delle università calabresi, in primis dell’Università della Calabria, che meglio conosco rispetto alle altre, e che nacque, appunto come università regionale, anticipatrice della riforma, a numero chiuso e residenziale, con la missione di servizio al territorio da assolvere-tutto scritto e sottolineato nel suo Statuto? Certamente no, e lo dico dalla prospettiva e a posteriori, di chi ha vissuto fra i cubi di Arcavacata per quasi cinquant’anni, sovente occupando posizioni dentro gli istituti di gestione e di governo. Non perché i suoi doveri istituzionali Unical li ha ottemperati egregiamente e doverosamente per quanto attiene ricerca e didattica (inutile dilungarsi qui: è sufficiente constatare le migliaia di laureati nostri cosa fanno e i report delle ricerche contenuti nei files accreditati). E nemmeno perché non abbia spinto, motivato e proposto tante e tante volte e nei modi più diversi tavoli e incontri, contatti e relazioni con il mondo della politica e delle professioni, della produzione e del commercio. Anche qui ha fatto, lo ha fatto a lungo.

    Il muro, le resistenze, l’opacità e la viscosità che ha incontrato, laddove il fondatore Beniamino Andreatta aveva immesso elementi di forte e dichiaratamente impattante stridore per provocare una shocking wave in grado di risvegliare un corpaccione dormiente, non erano facili scalfire. Non lo era nemmeno, però, introiettare per molti versi e in diversi ambiti un modo di fare, un ritrarsi, un ‘autogiustificarsi’ quasi omologatorio al sistema circostante.

    Non è questa, ovviamente, la sede per ricordare episodi, fatti, accadimenti, che si sarebbero potuto dipanare in altri modi, che forse avrebbero potuto condurre a soluzioni di interesse generale più ampie e profonde, ma forse si può, qui, iniziare a fornire un quadro di lettura, una traccia almeno, di come e perché altrove, un qualsiasi altro altrove, dove però ci sono città di dimensioni medio-grandi, ospedali funzionanti, servizi efficienti, infrastrutture adeguate, modelli organizzativi di condivisione, ritrovo, scambio, dove c’è un sistema imprenditoriale che dà e riceve secondo un patto non per forza di cose scritto, dove il weberiano ‘controllo sociale’ mostra ancora segni di vitalità in vece dell’ossequio dell’appartenenza, in questo altrove, dicevo, le università, l’università rappresenta e costituisce un elemento aggiuntivo e premiante, un valore supplementare al contesto. Senza reclamare o invocare predomini della politica su tutt’il resto, senza, per converso, trincerarsi dietro paraventi di autonomia.
    Si può lavorare per tutto questo?

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Gentilissimo direttore,
    ho seguito con molto interesse il dibattito apertosi su I Calabresi inerente il ruolo che le università hanno nello sviluppo del nostro territorio e, dunque, sull’importanza di quella che viene definita “Terza Missione”: su come, cioè, gli atenei possono e devono svolgerla, interpretarla, interagendo con la società civile ed il mondo imprenditoriale, i cittadini.
    Mi permetta da cittadina calabrese che si è laureata presso l’Università della Calabria, ha lavorato e fatto impresa nella propria terra e che oggi ha l’onore di rappresentarla tra i banchi della Camera dei Deputati, di condividere con Lei ed i suoi lettori qualche appunto mentale sull’argomento e raccontarle anche alcune esperienze personali ad esso correlate.

    Serve più dialogo

    Il ruolo delle università, va da sé, – ma è comunque giusto ricordarlo – è assolutamente centrale per la crescita culturale, sociale ed economica dei territori. Per questa ragione le istituzioni – locali soprattutto ma anche centrali – dovrebbero a mio avviso potenziare maggiormente il dialogo con gli atenei e tessere un lavoro di contaminazione costante al fine non solo di tracciare le migliori e più aderenti politiche per la crescita del territorio in questione, quanto anche adoperarsi per consentire a tutte le fasce della popolazione, in particolar modo quelle più fragili, che oggi si sentono distanti e disamorate dalle aule universitarie, che addirittura considerano quasi controproducente l’accesso al sapere, di far propri quegli strumenti, pratici e cognitivi, che consentono una crescita personale e professionale tale da aggredire e non subire il mondo ed il mercato del lavoro.

    La cultura collegata alla comunità

    Da sottosegretario di Stato ai Beni Culturali nel Conte II, ho voluto fortemente coinvolgere l’Università della Calabria nella progettazione degli interventi per la riqualificazione del centro storico di Cosenza attraverso il Contratto istituzionale di sviluppo. Proprio per questo motivo ho chiesto all’Unical di sviluppare un progetto per la creazione di un incubatore per le imprese culturali e turistiche – che avrà sede all’interno dell’ex Convitto nazionale Telesio – con l’obiettivo di stimolare, attraverso la formazione e la diffusione della cultura di impresa, partendo dai bisogni del centro storico, nuove imprese di servizi proprio per la cultura e il turismo in grado di intercettare il mercato nazionale ed internazionale.

    La motivazione è semplice: l’università con il suo background nel campo della ricerca e dello sviluppo, non solo di spin-off, ma anche di startup innovative, è il soggetto più indicato per realizzare un percorso che colleghi i luoghi della cultura di Cosenza innanzitutto alla comunità cittadina, e del centro storico in particolare, e di tutti i cittadini dell’area urbana.

    Serve volontà politica

    La volontà politica, dunque, all’interno delle istituzioni, ad ogni livello, è fondamentale per innescare una collaborazione concreta e proficua con le università rafforzandone la capacità di connettersi al territorio e trasferire saperi, strumenti ed opportunità. In tal senso, con l’ultima Legge di bilancio varata dal Conte II, quella per il 2021, si è dato vita agli ecosistemi dell’innovazione per le regioni del meridione d’Italia, con l’obiettivo di stimolare la creazione di veri e propri hub dell’innovazione tra soggetti pubblici, le università e i privati, ovvero aziende nel campo dell’ICT, startup e imprese tradizionali.

    Guardare oltre le mura delle proprie aule

    È fondamentale, infatti, incentivare il dialogo tra pubblico e privato, soprattutto in una regione come la nostra che soffre ancora oggi di insani campanilismi, spinte individualiste e divisive. Se, dunque, la “politica” ambisce ad essere definita tale, quella cioè con la “P” maiuscola (io per prima finché vorrò portarla avanti attivamente), deve altresì impegnarsi per trovare la strada giusta e stimolare gli atenei calabresi a guardare oltre le mura delle proprie aule.

    Così come è responsabilità delle università accelerare sui percorsi della Terza Missione non solo lavorando in sinergia tra di loro, ma pensando alla Calabria come un territorio “unico” dove, potenzialmente, ogni giorno, potrebbero nascere progetti ed idee che, magari, hanno solo bisogno di trovare riferimenti seri per crescere e far crescere il contesto intorno a loro. Solo così, ritengo, avremo una Calabria fertile di saperi condivisi e solo così le nostre università potranno continuare a crescere e raggiungere traguardi sempre più alti nel campo dell’offerta formativa, della ricerca e del sapere umano.

    Anna Laura Orrico
    Deputato M5S – ex sottosegretario ai Beni Culturali

     

  • Se cresce l’università ma non la società che vittoria è?

    Se cresce l’università ma non la società che vittoria è?

    Il dibattito sul rapporto tra le università calabresi – in particolare la principale: l’Unical – e il territorio circostante continua. Due giorni fa era stato l’ex rettore Latorre a inviarci una lettera in cui spiegava come, a suo avviso, l’ateneo di Arcavacata avesse vinto la sua scommessa. Oggi – potete leggerla sotto – arriva la replica del suo collega Alessandro Bianchi, che il dibattito l’aveva avviato in prima persona rispondendo alle domande del nostro Pietro Spirito pochi giorni or sono. Bianchi non fa un passo indietro, il problema del mancato dialogo tra il mondo accademico e la realtà politica, sociale, economica e culturale resta: la prova tangibile è una Calabria che, pur ospitando un’università che continua a crescere, di tanta crescita beneficia e ha beneficiato ben poco.

    Questo giornale vorrebbe che quel dialogo partisse per davvero, convinto che il ruolo della stampa debba essere quello di stimolare il confronto pubblico affinché una comunità si sviluppi. Non si tratta di attaccare questa o quella istituzione per il gusto di farlo, ma di contribuire tutti insieme alla crescita, culturale e materiale, della Calabria.
    Anche per questo ci saremmo aspettati che al dibattito partecipassero non solo due protagonisti del recente passato come Bianchi e Latorre, ma anche chi oggi fa vivere e governa le nostre università e le nostre istituzioni. Niente di tutto ciò finora, solo silenzio e qualche sparuto post su Facebook. Restiamo fiduciosi però, convinti che per risorgere la Calabria abbia bisogno di tutti: di un giornale rompiscatole ma aperto ai contributi di tutti, di accademici un po’ meno isolati nel loro fortino, della società civile e della politica.

    *****

    Caro Rettore Latorre, carissimo Gianni,
    ho letto con attenzione le tue considerazioni sull’Università della Calabria e non posso che condividerle avendo già detto – ma lo ripeto volentieri – che l’UNICAL, muovendo da una favorevole condizione di partenza, «ha saputo costruire una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale». E sono d’accordo anche su quanto dici a proposito dei successi che ha conseguito nel settore della cosiddetta Terza Missione.

    Detto questo devo osservare che il nodo su cui ho argomentato nelle mie risposte alle questioni sollevate da Pietro Spirito è del tutto diverso e non ha a che vedere con la qualità dell’UNICAL, bensì con il ruolo svolto dalle tre Università calabresi in rapporto alla realtà economica, sociale e culturale della Calabria.
    Allora se mi viene chiesto in che misura le Università calabresi hanno interagito con la politica, l’industria, la società civile e le associazioni che il territorio esprime, non posso che rispondere che questa interazione è stata del tutto marginale perché questa circostanza mi sembra di una evidenza palmare.

    C’è una qualche dimostrazione del fatto che uno di questi stakeholders abbia avuto dei benefici grazie al rapporto con le Università? O che la Calabria nel suo complesso se ne sia giovata se non per l’ovvia circostanza che molti giovani calabresi non sono stati costretti ad emigrare per studiare?
    Se qualcuno conosce questa dimostrazione sarei lieto di sentirgliela enunciare.
    È colpa delle Università? Direi molto più della Regione che, come ho già detto, «non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale». Che di fronte ad un simile atteggiamento le tre Università – non solo l’UNICAL – abbiano «teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari» è comprensibile, ma di fatto è quello che è avvenuto cosicché è venuto meno un apporto fondamentale di idee, di proposte, di progetti di cui la Calabria aveva – ed ha ancora – un disperato bisogno.

    Peraltro sottolineo di aver detto che questo atteggiamento è stato delle Università calabresi e non solo dell’UNICAL, mentre non ho detto che l’UNICAL non è riuscita a «generare una ricaduta positiva sul territorio». Questa è un’affermazione che sta nell’apertura dell’intervista – che comunque condivido – ed è riferita a tutte e tre le Università, così come non ho detto che l’UNICAL “fatica a guardare oltre se stessa”, che è il titolo editoriale, perché – anche in questo caso – ritengo che questa fatica appartenga a tutte e tre le Università.

    Quello che sicuramente ho detto è che l’UNICAL ha avuto un atteggiamento di distacco nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo si andavano formando, quasi che questo rappresentasse «un delitto di lesa maestà» e che questa «è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale». Non ho da esibire fatti a conforto di questa affermazione, ma posso dire che è la netta sensazione che ho percepito nelle occasioni di incontro e confronto che, da docente e da rettore, ho avuto per molti anni con l’UNICAL. Purtroppo sono convinto che questo atteggiamento abbia impedito la formazione di un sistema universitario regionale, questo sì utile a costruire una forte interazione con le altre componenti del territorio calabrese.

    È la sfida che richiami a conclusione della tua nota, ma se torniamo al nodo della questione sollevata da Spirito è una sfida che va giocata non solo guardando al proprio interno ma alla comunità economica, sociale e culturale della Calabria. In altre parole quello che oggi interessa più che mai non è se le Università calabresi hanno avuto successo e continueranno ad averlo – i fatti dicono che in una certa misura è così – ma se con il loro agire sono in grado di fornire un contributo fattivo al successo della Calabria, vale a dire a farla uscire dalla condizione di marginalità economica, sociale e culturale nella quale ancora versa.
    Con la stima di sempre

    Alessandro Bianchi
    ex rettore Università Mediterranea

  • «La strada è in salita, ma l’Unical ha vinto la sua scommessa»

    «La strada è in salita, ma l’Unical ha vinto la sua scommessa»

    Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un’intervista all’ex ministro, già rettore dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, Alessandro Bianchi sul ruolo degli atenei locali nello sviluppo della Calabria. Bianchi attribuiva all’Unical una tendenza all’isolamento rispetto al territorio e le altre istituzioni, accademiche e non, calabresi. Una tesi, questa, che ha ripreso a distanza di poche ore anche il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi, con una lettera ospitata sulle nostre pagine. Di parere opposto, invece, è Giovanni Latorre. Professore Emerito di statistica e già rettore per 14 anni – dal 1999 al 2013 – dell’Ateneo di Arcavacata, Latorre offre ai lettori un punto di vista differente, quello dell’osservatore interno, che siamo lieti di pubblicare per ampliare il dibattito sul tema.

    Caro Professor Bianchi, caro Sandro, quando presi servizio all’UniCal, precisamente il 15 dicembre 1972, ero certo che la nascita di una Università in Calabria, con la gestazione progettuale che aveva avuto la sua legge istitutiva e con la leadership di una personalità del calibro di Beniamino Andreatta, avrebbe avuto per la regione un effetto palingenetico. A 50 anni (quasi) dalla sua nascita, senza eccedere nell’autocompiacimento, anzi tenendo ben presente quali sono i suoi punti di debolezza, a mio modo di vedere quella scommessa di costruire una Istituzione ben più che dignitosa in quasi un cinquantennio è da considerarsi vinta. E appare evidente il positivo impatto culturale e socio-economico che l’UniCal ha avuto sul territorio, ovviamente nei limiti che un ateneo può offrire.

    La sola presenza di una buona università, senza adeguati investimenti di Stato e Regione sulle infrastrutture e politiche per lo sviluppo, non può certo bastare a colmare il deficit territoriale. Ad esempio, Sicilia, Puglia e Campania annoverano università pluricentenarie, ma ciò non è certo bastato a colmare il loro deficit di sviluppo. Esse restano affette da problematiche economiche e sociali non dissimili da quelle della Calabria: Pil pro-capite 2020: Campania e Puglia 18.900€, Sicilia 17.900€, Calabria 17.300€, Lombardia 39.700€; Tasso di Occupazione 2020: Campania 45.3%, Puglia 49.4%, Sicilia 44.1%, Calabria 45.6%, Lombardia 72.6%). Ecco perché sono rimasto a dir poco perplesso da alcune tue affermazioni in una recente intervista che articolava un ragionamento sui rapporti degli Atenei calabresi con il territorio: affermazioni secondo le quali l’UniCal non sarebbe riuscita a «generare una ricaduta positiva sul territorio» o che essa «… fatica a guardare oltre se stessa…» ovvero che sia stata «… tesa a rinchiudersi nei suoi confini culturali e disciplinari…».

    Lasciamo parlare i fatti, partendo dalle missioni istituzionali, cioè didattica e ricerca. Ad oggi circa 100.000 giovani calabresi, molti dei quali non avrebbero avuto la possibilità di accedere all’istruzione universitaria, si sono laureati in UniCal. La loro performance nel mercato del lavoro è apprezzabile, specie se rapportata alla fragilità dell’economia regionale (vedi, ad esempio, i dati del sito Alma Laurea). Il sogno di Andreatta era che l’UniCal formasse la futura classe dirigente calabrese; segnalo, a riguardo, due eventi “bandiera”: oggi due tra le massime istituzioni della Calabria, la Regione e la stessa Università della Calabria, sono presiedute da due brillanti ex laureati UniCal, l’onorevole Roberto Occhiuto ed il professor Nicola Leone.

    Inoltre, al di là dell’indagine CENSIS/La Repubblica, che colloca la nostra istituzione ai vertici della graduatoria dei “Grandi Atenei” italiani (quelli con una popolazione studentesca tra 20.00 e 40.000 studenti) sulla base della valutazione della qualità dei servizi offerti agli studenti, c’è da considerare la ben più importante valutazione dell’ANVUR. La commissione di esperti di valutazione, dopo una visita all’Ateneo durata 5 mesi, ha valutato l’attività didattica e la ricerca scientifica dell’UniCal ed ha attribuito il giudizio “pienamente soddisfacente – B”, collocandola nella fascia delle migliori università del Paese (a livello nazionale, nella categoria dei “Grandi Atenei” in cui si colloca l’UniCal, solo Parma ha ottenuto un giudizio superiore al livello B).

    Ma l’Unical non è solo didattica e ricerca. Notevoli sono anche i risultati della cosiddetta terza missione, ovvero della trasformazione dei risultati della ricerca in innovazione e in sviluppo economico. Nel Technest, l’incubatore di imprese innovative dell’Ateneo, dalla sua nascita sono stati prodotti 120 brevetti, in parte ceduti, attualmente ne restano circa 60 in portafoglio. L’incubatore UniCal oggi ospita 48 aziende SpinOff (create da nostri ricercatori o studenti, con un fatturato annuo di 6 milioni di Euro). A queste ne vanno aggiunte altre dieci che, conclusa l’incubazione, sono ormai fuori dal nostro Ateneo e affrontano la sfida del mercato con le proprie forze.

    La presenza dell’Università della Calabria è stata decisiva anche per l’affermazione di poli per l’innovazione e distretti tecnologici in Calabria. Diverse aziende, nazionali e internazionali, hanno nel tempo deciso di impiantarsi nei dintorni dell’Università per meglio interagire con i gruppi di ricerca UniCal, costruendo un ecosistema con una significativa visibilità nazionale specie in alcuni settori, quali l’ICT e il terziario innovativo. L’UniCal ha inoltre saputo catalizzare l’attenzione di numerosi investitori, il più recente dei quali è Mito Technology, che ha messo a disposizione delle start-up nate nell’orbita dell’Ateneo un fondo di investimenti di 40 milioni di euro.

    A valorizzare ulteriormente i risultati, sin qui sinteticamente elencati, contribuirebbe, anche, un’illustrazione del quadro delle risorse finanziarie, nazionali e locali, di cui è destinataria l’UniCal. Ma la discussione ci porterebbe molto lontano. Basti solo dire che per il finanziamento statale non viene tenuto in considerazione il costo notevole che l’Ateneo sopporta per le provvidenze del Diritto allo Studio, tra cui la principale è riconducibile alla bassa tassazione media dei nostri studenti legata alla fragilità economica delle loro famiglie. Mentre per quanto riguarda le fonti finanziarie (pubbliche e private) locali è facile osservare che la loro esiguità è legata al ritardo economico complessivo della società calabrese. Ciò nonostante, forse unica istituzione nella nostra regione, l’UniCal ha saputo raccogliere la sfida della competizione ed in molti settori primeggia sia a livello nazionale che internazionale.

    In conclusione, sono sicuro che molta strada dovrà essere ancora percorsa, e, certamente, sarà in salita. La sfida che le Università calabresi dovranno raccogliere è quella della creazione di un Sistema Universitario Regionale che possa, con lo sviluppo delle tante potenziali sinergie, raggiungere quei traguardi di efficienza imprescindibili in una prospettiva futura di risorse sempre scarse rispetto alle necessità. In questo quadro la lungimirante partnership tra l’UniCal e l’Università Magna Graecia di Catanzaro per la realizzazione di un corso di laurea altamente innovativo come quello in Medicina e Tecnologie Digitali, recentemente inaugurato, lascia ben sperare per il futuro.

    Giovanni Latorre
    Professore Emerito di Statistica, già Rettore dell’Università della Calabria 1999 – 2013

  • IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    La Calabria e la cultura non si incontrano. Neanche dopo che i fuochi fatui della propaganda elettorale si sono spenti. Restiamo ai fatti, a quelli di oggi. La politica non crede che il futuro di questa regione abbia a che fare con la “Cultura”. Che sarebbe anche quella cosa con la quale, in una democrazia degna di questo nome, si smette di essere sudditi e clienti e si diventa cittadini attivi e consapevoli. E non di rado, dato che la cultura «non è cosa libresca e astratta», ma appartiene «al mondo della vita ed è in grado di produrre effetti politici e di muovere l’azione storica» (A. Gramsci), è quindi anche “lavoro”, e col lavoro, persino in Calabria, si mangia. E invece no.

    Nessuno si meraviglia se manca l’assessore alla Cultura

    Dall’organigramma comunicato dal nuovo presidente della giunta regionale Occhiuto, a mancare è proprio un assessorato e un assessore regionale che nel nome in ditta abbiano proprio il sostantivo identificativo di “Cultura” (e non i suoi surrogati di marketing). Idem, è notizia di alcuni giorni fa, la scelta amministrativa fatta dal nuovo primo cittadino di Cosenza, Franz Caruso, che nella città di Bernardino Telesio, quella che un tempo ebbe fama di “Atene delle Calabrie”, ha pensato bene a sua volta, almeno per ora, di fare a meno di un assessore responsabile alla cultura a alle politiche culturali.

    E questo in una città capoluogo, al centro di una vasta area urbana a cui risponde anche una popolazione universitaria, quella dell’Unical -la prima università- campus fondata in regione-, oggi seconda (dati Censis 2018) tra i grandi atenei statali italiani con circa 30.000 studenti e un migliaio di professori.

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    L’Università della Calabria
    Una strategia bipartisan

    Complimenti quindi per la scelta lungimirante e di grande efficacia strategica per il futuro della Calabria. Cultura: se ne fa a meno. Con accordo e spregio bipartisan che mette sullo stesso piano schieramenti politici, sulla carta, di diverso orientamento.
    La Calabria ha certo molte urgenze da risolvere. Altri problemi, molto compromettenti, si sono accumulati in decenni di malgoverno e di incuria. Sono sotto gli occhi di tutti, e tutti ne paghiamo caro il prezzo. Ma la crisi delle politiche culturali e lo stato di paralisi della cultura amministrata dai poteri pubblici in Calabria non può essere considerato il livello meno compromettente e preoccupante della crisi complessiva che attraversa da decenni la società regionale.

    Lavoratori della cultura in ginocchio

    Chi lavora nel teatro, nei musei, nello spettacolo, nella musica, nell’arte, nell’editoria e nell’associazionismo culturale, nelle attività di produzione di beni e servizi per la cultura, settori già colpiti e messi in ginocchio a causa della pandemia, spesso in Calabria si trova a combattere solo per la sopravvivenza, mentre si arranca da anni a colpi di immagine e di interventi spot privi di visione, tra indifferenze, favoritismi e inadeguatezze croniche e umilianti da parte di politica e istituzioni.

    Protesta dei lavoratori dello spettacolo a Cosenza
    Della cultura si può fare a meno qui

    Fare a meno di assessori con deleghe specifiche (e dunque anche del sostegno di adeguate strutture amministrative) sancisce in fondo solo un dato di fatto, una realtà, che è nota e non da ora a chi è impegnato nel settore. Della cultura in Calabria si può fare a meno, senza troppi rimpianti.

    Se non è questo il sottotesto, è dissimulazione pura. Perché anche quando un assessore e un assessorato in grado di programmare e decidere ci sono, quando si passa al confronto tra i designati di parte politica, amministratori ed enti pubblici – Regione in testa-, e i cosiddetti operatori accreditati (i famigerati stakeholders), nella prassi quello che accade in questo mondo, e tra le pieghe non sempre trasparenti del suo fitto sottomondo, riguarda cose che spesso hanno davvero poco a che fare con la cultura. Quello che normalmente capita da anni nella conduzione di questo settore e nella definizione di leggi, provvedimenti, regolamenti, obiettivi e strategie, volumi di spesa e destinatari, dimostra che l’intero settore viaggia da tempo in ordine sparso. Manca del tutto una politica per la cultura.

    Troppe rendite di posizione

    Quello che accade segue troppo spesso le traiettorie di convenienze, rendite di posizione e discrezionalità procedurali che non rispondono sempre, come si dovrebbe, a valori culturali solidi, a competenze e professionalità certificate, e men che meno da processi originati da conoscenze e da confronti di partecipazione civile e democratica alla vita culturale di questa regione.

    La Calabria, come nella Sanità, nella scuola e nelle politiche del lavoro, con i suoi numerosi ritardi e tare, è una regione opaca, che ancora non favorisce processi fondamentali di elaborazione e sviluppo di politiche pubbliche per la cultura in grado di promuovere le libertà, il civismo, l’innovazione di qualità e quindi il cambiamento culturale necessario nella società. Pochi settori della vita regionale come quello della cultura hanno invece necessità e bisogno urgente, oltre che un decisivo impulso in termini di immaginazione, di competenze e professionalità, di essere anche urgentemente illuminati da criteri autentici di pubblica utilità e da azioni di legalità e trasparenza.

    Capitali della cultura (per tre giorni)

    Bisogna, per esempio superare, definitivamente la logica dell’evento, dei cosiddetti “Fiori all’Occhiello”, delle “Capitali della Cultura (per tre giorni)”, dei “Festival di Qualcosa” e dei “Premi Importanti”, che finora ha contraddistinto con inutile monotonia e indifferibile conformismo le politiche culturali di questa regione.

    Una sequela di eventi, premi e festival, sovente dai contenuti culturali incerti, rigonfiati da risorse spropositate e rigorosamente sponsorizzati da politici regionali in cerca d’autore, poi i tanti festivalini che prosperano, con largo utilizzo di denaro pubblico, le effimere fiammate estive della premiopoli in cui fanno passerella i personaggi che vediamo ogni sera accendendo il televisore, a che (e a chi) servono? Gli strombazzati e alquanto incerti “attrattori turistico culturali”, i fantasiosi e misconosciuti “marcatori identitari”, gli eventi identitari al morzello e al sugo di capra, sono altrettanti cattivi esempi di intervalli pubblicitari che il giorno dopo, risolto il clamore mediatico, lasciano le cose come stanno e dove stanno. Il vuoto, il nulla.

    Lo scrittore Corrado Alvaro
    Parlano di Alvaro senza averlo mai letto

    In Calabria la dimensione pubblica della cultura resta confinata in una dimensione di intrattenimento per escursionisti da riserva indiana, o peggio immersa nella fuffa di un baraccone itinerante con offerte da avanspettacolo televisivo per turisti da pro loco estiva. Nessuno pensa che la dimensione pubblica della cultura debba riguardare invece, più concretamente, i diritti che garantiscono l’accesso a beni e servizi fondamentali per i diritti di cittadinanza, a sostegno di studenti, anziani, giovani e famiglie, da destinare ad aree di crisi, a piccoli centri e a comunità fragili.

    Per la salute di questa regione sarebbe urgente, piuttosto che indire l’ennesimo bando per alimentare la macchina festaiola dei “Grandi Eventi” (sic), potenziare il languente sistema delle biblioteche, dei sistemi bibliotecari e dei centri di lettura. Nella regione che a ogni piè sospinto si vanta di Alvaro senza averlo mai letto, (per non parlare poi di Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone ed altri, solo per restare al passato) siamo ben lontani da queste urgenze civili.

    In fondo alle classifiche di lettura

    E questo vuoto di politiche per la cultura a cui corrisponde il mancato adeguamento dei servizi primari per la cultura, è tanto più grave per le sorti civili e per il futuro prossimo di questa regione se solo consideriamo un punto di crisi che è di per se sufficiente a gettare una luce sinistra sul futuro prossimo della nostra collettività regionale: la Calabria è da anni invariabilmente in fondo a tutte le classifiche di lettura e di accesso al libro e ai consumi culturali (come teatro, musei, mostre e cinema).

    Solo il 28,8% dei calabresi ha comprato un libro (1 libro!) nell’ultimo anno, non solo per effetto della pandemia. Una conferma. Dato che la Calabria con il 69,3% è terza (a contenderle il podio del non invidiabile primato solo Campania e Puglia) nella più alta percentuale assoluta dei “non lettori” in Italia. Gente che in 12 mesi non ha mai aperto un libro e che non avverte il bisogno di farlo, neanche nel tempo libero, e quel che è peggio si tratta di una fascia di popolazione che va dall’età scolare, i 6 anni (sic!), sino agli 85 (dati Istat 2018).

    Il contesto sociale gioca un ruolo decisivo

    Altra aggravante per la nostra regione è che l’insieme dei non lettori è composto in misura prevalente da persone con un basso livello di istruzione e che l’incidenza è maggiore nei piccoli comuni, e tra gli uomini e tra coloro che hanno ridotte disponibilità di reddito. La scarsa confidenza dei nostri corregionali con i libri è spiccatamente associata dunque al contesto urbano e sociale di appartenenza: l’incidenza di persone che non hanno mai letto negli ultimi 12 mesi raggiunge infatti il 63,2% nei piccoli centri e nei comuni fino a 2.000 abitanti.

    La scuola e persino l’università non se la passano meglio: il 52,3% dei bambini di 6-10 anni e il 47% di quelli tra 11 e 14 anni non hanno letto altri libri al di fuori dei testi scolastici e non hanno praticato alcuna forma lettura se non per motivi di studio. E considerando anche il divario di genere, lo scarto maggiore tra i due sessi (ben 24,4 punti percentuali) si registra tra i 20-24enni, dove le “non lettrici” sono più di una su tre (il 37,2%) mentre i “non lettori” sono il 61,5%.

    Verso il peggio

    Quel che più allarma è l’inarrestabile tendenza al peggio: negli ultimi anni in Calabria si è registrato un calo progressivo di fruitori di libri e di centri di lettura. Nel 2016 la percentuale fu del 28,8, nel 2014 del 29,9 e nel 2013 del 34,5%. La quota di famiglie che possiedono libri nel 2017 erano l’89,4%, ma dal 2009 in poi il 10% di famiglie calabresi ha stabilmente dichiarato di non avere libri in casa. Commentando questo dato Guido Leone, dirigente tecnico dell’Urs (Ufficio scolastico regionale) ha stimato che «la Calabria è la prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non possiede libri in casa. Mentre il 16,4% ne possiede da uno a dieci, il 14,9% da undici a venticinque, e solo il 4,1% più di quattrocento».

    La cultura non è un optional

    Di fronte a questo dramma piuttosto che far finta di niente e tirare avanti con i soliti spottoni mediatici e gli eventi ad effetto “vacanze intelligenti”, è necessario che la politica prenda atto dell’insostenibilità del divario ormai profondissimo e del danno civile che ne deriva, provvedendo con urgenza ad allargare e riqualificare le politiche per la cultura e il circuito territoriale dei servizi culturali. Se vogliamo che il libro e una dimensione democratica e civile di cultura sopravviva e cresca nelle biblioteche pubbliche, nelle librerie, nelle case e nelle piazze dei calabresi. Tutto questo accadeva peraltro quando un figurante di assessore alla cultura ancora c’era.

    Oggi si pensa addirittura di farne tranquillamente a meno. La cultura non è un optional, non è nemmeno divertimento circense o sagra estiva: è quello che siamo, ed è quello che, nel bene e nel male, possiamo diventare e diventeremo tutti, come individui, come società, come democrazia. Vale anche i politici e gli amministratori calabresi. Che sarebbe il caso che qualche libro in più, dando il buon esempio, lo leggessero. Un assessore ci vuole. Un Assessore alla Cultura. Bravo e competente. E occorre immaginare urgentemente buoni progetti e un futuro decente.

    Marcatori identitari per le solite sagre

    E occorre anche spendere e spendere bene per la cultura. Indipendentemente dalla crescita del Pil. Non per fumisteriosissimi “attrattori culturali” (doppioni, nel migliore dei casi, del marketing turistico), e non per definire in una sorta di menù à la carte fantomatici “marcatori culturali identitari”. Non per abboffare l’estate di inutili e costose vetrine, non per le solite sagre culturali copiate dalla televisione, ma per aiutare i calabresi, magari con un libro in mano, dentro a un museo, in una mostra, in un concerto di musica decente, davanti a un gruppo di attori che animano un teatro, a capire meglio a che punto sono della loro vita, e dello loro scelte.

    È con i libri che si fa la cultura, non senza. E’ urgente e necessario, perché rende i calabresi cittadini più attivi, più democratici, più liberi, più consapevoli e persino felici. O invece non è proprio questo che si ritiene superfluo? Ed è forse per questo che meglio di un nuovo assessore alla cultura, c’è un nuovo, e tanto facebukiano, assessore agli “attrattori culturali”?

  • Stasi: «Unical e territorio? Così non va bene per niente»

    Stasi: «Unical e territorio? Così non va bene per niente»

    Il dibattito sul rapporto tra le nostre università e il territorio, aperto da I Calabresi nei giorni scorsi con l’intervista all’ex rettore Bianchi e il video editoriale del nostro direttore Francesco Pellegrini, si arricchisce di un nuovo protagonista: Flavio Stasi. Il sindaco della terza città per abitanti della Calabria, ex studente Unical, ci ha inviato una nota che pubblichiamo integralmente, nella quale evidenzia la difficoltà dell’ateneo di Arcavacata a ricercare un dialogo fuori dalle sue mura.

                                                               ***

    Il 12 novembre scadono i termini per uno degli avvisi più interessanti degli ultimi mesi, promosso dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, sul tema degli Ecosistemi dell’Innovazione nel Mezzogiorno. Il bando finanzia progetti che uniscono la ricerca innovativa alla riqualificazione e rifunzionalizzazione di siti degradati o inutilizzati, per un ammontare da 10 a 90 milioni di euro a progetto: si tratta di cifre importanti finalizzate a coprire un periodo di 36 mesi.

    I soggetti a dover candidare i progetti all’Agenzia per la Coesione Territoriale, i cosiddetti “proponenti”, sono gli organismi di ricerca, ma in partenariato obbligatorio (almeno tre soggetti) con enti locali e altri soggetti pubblici o privati. È evidente come tale forma di partenariato spinga gli organismi di ricerca, a partire dalle Università, a relazionarsi con il territorio per proporre idee progettuali integrate, utili, lungimiranti, che generino uno sviluppo reale.

    Immagino che, per un bando del genere, molti siano stati gli stimoli e le proposte giunte sui tavoli di ogni ateneo, quindi anche della nostra università, l’Università della Calabria, da più soggetti ed in più ambiti.

    Il sito Enel di Sant’Irene

    Tra questi riteniamo debba essere tenuta in assoluta considerazione l’idea progettuale proposta anche dal nostro Comune sulla rifunzionalizzazione del sito Enel di Sant’Irene, e in particolare dell’area e della struttura occupata un tempo dai vecchi gruppi termoelettrici, attualmente in fase di coibentazione e smantellamento. Anche di questo si è discusso con Enel in queste settimane, e si è giunti alla condivisione di un’idea concreta sullo sviluppo di tecnologie per la filiera dell’idrogeno che non solo aprirebbe uno scenario innovativo, sostenibile e perfettamente integrato di riutilizzo del sito, ma valorizzerebbe anche alcuni tra i più avanzati segmenti di ricerca dell’Unical.

    La scissione degli atomi a Corigliano-Rossano

    Un’idea progettuale che prevede, dunque, investimenti per allestire nella centrale un importante centro di ricerca che si occupa di produzione energetica ad alto rendimento tramite l’utilizzo di nanomateriali bidimensionali, scissione degli atomi di idrogeno mediante l’utilizzo di grafene, efficientamento dei sistemi di immagazzinamento energetico mediante nanotubi di carbonio eccetera, e con un partenariato importante: la terza città della Calabria, Enel Produzione, Unical e Cnr.

    L’Ateneo dei soliti noti

    Il problema è che all’appello manca il soggetto principale: l’Università della Calabria. Sono stato uno studente Unical, ne sono sempre stato orgoglioso e sento che l’Ateneo può fare tanto per il territorio, ma solo se si apre, se non si avvita sul Ponte Bucci e le solite suole che lo calpestano (e non parlo degli studenti). La ratio di questa selezione credo sia proprio quella di individuare idee integrate col territorio nella sua complessità ed ampiezza, attraversandolo geograficamente ma anche socialmente, aprendosi quindi, come specificato nel bando, agli enti locali che più di altri enti conoscono luoghi (da riqualificare) e prospettive (da sviluppare).

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    L’Università della Calabria
    La governance dell’Unical ha già deciso

    Ed invece – ad un certo punto – ho appreso attraverso voci di corridoio universitarie che la governance di Ateneo aveva già deciso, praticamente fin dall’inizio, di partecipare al bando con una sola proposta avendo già stabilito anche con quale proposta, scoraggiando di fatto dipartimenti ed altri istituti legati all’Università nel perseguire altre strade. Peraltro, il bando non impone all’Università la partecipazione a una sola proposta progettuale. In altri termini, si possono presentare più proposte per dare la possibilità alla Commissione ministeriale di valutare quelle più rispondenti ai requisiti del bando e quelle più promettenti per lo sviluppo del territorio. Sempre le solite voci di corridoio rivelano che il timore sia proprio quello di mettere in competizione più proposte provenienti dallo stesso Ateneo, con il rischio di affossare quella su cui è già stata presa, di fatto, una decisione.

    Unical, così non va bene per niente

    Conoscendo chi governa l’Unical oggi, non ho dubbi sul fatto che, se effettivamente tali scelte sono state effettuate, queste siano le migliori possibili per l’Unical, ma lo dico con grande chiarezza da sindaco di una città importante, da cittadino e da ex studente: così non va bene per niente.

    L’Unical deve dialogare con il territorio

    L’era post-pandemica, nella sua drammaticità, sta aprendo possibilità di sviluppo inedite negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno, e sta imponendo a tutte le istituzioni (comprese quelle universitarie) approcci e modalità di pianificazione e progettazione inedite: questa è una delle sfide principali del Perr nel Mezzogiorno, e la nostra università non può sentirsi esentata dal dover rispondere a queste nuove esigenze, anche e soprattutto di relazione, integrazione e supporto del territorio.

    L’approccio dell’Unical preclude la competizione tra idee

    Un ecosistema dell’innovazione è un luogo di contaminazione tra Università, centri di ricerca, istituzioni e settore privato. Nel massimo rispetto dell’autonomia di ogni ente, relativamente ad una selezione del genere trovo francamente inadeguato e fuori dal tempo l’approccio della nostra università, che sembra abbia scelto – senza alcun confronto e senza neanche un minimo di selezione interna o esterna – una confezione, e non un’idea di ecosistema dell’innovazione. Una scelta del genere sta precludendo, di fatto, la competizione positiva tra idee progettuali e percorsi di sviluppo, una preclusione che se è ormai inaccettabile nei luoghi “tradizionali” delle istituzioni, figuriamoci nei luoghi della cultura, della ricerca e dell’alta formazione.

    Bisogna aprire una riflessione sull’Unical

    Sia chiaro, il mio non è un attacco: dopo la mia città, credo che la “mia” università sia il soggetto che più di tutti difenderei a spada tratta ad ogni latitudine, ma credo sia ormai improcrastinabile, anche alla luce della fase di “ripresa e resilienza” che il Mezzogiorno si appresta ad affrontare aprire una riflessione sul rapporto tra l’Ateneo ed il territorio complessivamente, partendo proprio dal rapporto con gli enti locali.

    Ci appelliamo all’agenzia per la coesione territoriale

    Per quanto riguarda il bando, credo che l’Agenzia per la Coesione Territoriale debba prendere atto della difficoltà da parte di potenziali proponenti di idee progettuali ad acquisire la disponibilità delle università, facendo venir meno – lo ribadisco – la sana concorrenza tra progetti utile ad individuare e finanziare i migliori, col rischio che anche questo percorso rappresenti un’occasione persa per il Mezzogiorno e la Calabria.

    Così come l’assenza di risorse umane e del know-how necessari, per gli enti locali del Mezzogiorno, alla redazione di progettualità in grado di interpretare correttamente ed intercettare i fondi ed il principio di sviluppo del Pnrr, anche questa è una condizione di partenza nota che richiede, quindi, interventi tempestivi.

    Flavio Stasi
    Sindaco di Corigliano-Rossano

  • L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    Tra qualche mese saranno passati cinquanta anni dalla decisione di istituire l’Unical,  l’Università della Calabria. Mezzo secolo è un tempo più che congruo per fare il punto sulle modalità con le quali si è determinato il rapporto tra territorio e cultura accademica. Ne parliamo con Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi e, dal 1999 al 2006, rettore dell’Università Mediterranea, istituzione con una storia di ormai quaranta anni.

    Era il 1972, e qualcuno fece una scommessa: Beniamino Andreatta e Paolo Sylos-Labini crearono, ad Arcavacata di Rende (ai confini di Cosenza), l’Università della Calabria, che nel 2019 ha conquistato il secondo posto, dopo Perugia, nella graduatoria stilata dal Censis dei grandi atenei statali italiani (da 20 mila a 40 mila iscritti). La valutazione ha riguardato i servizi, le strutture, le borse di studio offerte agli studenti, la comunicazione e l’internalizzazione.

    Da allora le università calabresi si sono ritagliate isole d’eccellenza nelle discipline del futuro, come l’Intelligenza Artificiale, ma non sono riuscite, almeno sinora, a generare una ricaduta positiva sul territorio. Nella società contemporanea, che è sempre poi guidata dalla conoscenza e dai saperi, i legami tra società locale ed istituzioni universitarie sarebbero preziosi per innescare processi di sviluppo: nell’economia per promuovere imprenditorialità ed innovazione, nella società per orientare la discussione culturale e la consapevolezza dei cittadini. Cerchiamo di capire perché non si è saldata la cultura accademica prodotta dalle Università con il territorio calabrese. L’opinione di Alessandro Bianchi è preziosa per la sua esperienza diretta alla direzione della Università Mediterranea.

    Attraverso quali strumenti le Università calabresi hanno interagito con i diversi stakeholders del territorio (politica, industria, società civile, associazioni)?

    «In generale direi che l’interazione è stata molto marginale sia con il mondo produttivo che con la società civile, e le ricadute sul funzionamento delle Università di modesta consistenza. Un caso a parte quanto riguarda il versante della politica, ma solo perché le interazioni sono state indispensabili con le amministrazioni locali, in particolare quelle comunali, perché legate alla realizzazione delle nuove sedi che per tutte e tre le Università hanno comportato lavori complessi e di lunga durata.

    Un rapporto che poco a che fare con quello che dovrebbe essere un legame strutturale tra Università e Territorio che, a mio parere, non si è mai costruito per una duplice responsabilità: delle Università, che hanno teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari; e della Regione, che non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale».

    Quali sono i punti di forza e di debolezza che l’Unical ha espresso nel corso della sua decennale esperienza?

    «L’esperienza è stata molto più che decennale soprattutto per UNICAL e Università Mediterranea che nascono nei primi anni Settanta. Per UNICAL il punto di forza è sempre stato quello contrassegnato dal suo stesso atto di nascita: un’apposita legge istitutiva, il requisito statutario della residenzialità, una sede appositamente costruita, finanziamenti cospicui per le diverse attività, un corpo docente fondativo di alta qualità. Poi su questa solida condizione di partenza ha saputo costruito una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale.

    Il punto di maggiore debolezza è stato nell’atteggiamento di distacco tenuto nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo sono nate, quasi che queste nascite rappresentassero un delitto di lesa maestà. Questa è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale.

    E quelli della Mediterranea?

    La Mediterranea ha vissuto una vicenda completamente diversa, molto controversa fin dalla nascita (la legge istitutiva della UNICAL diceva che doveva essere l’unica Università in Calabria): è stata avviata come semplice Istituto Universitario di Architettura ed ha avuto per lungo tempo sedi molto precarie e scarsi finanziamenti. Tuttavia ha saputo emergere progressivamente grazie all’azione esercitata da tre rettori che si sono susseguiti dai primi anni Settanta fino a metà degli anni Duemila.

    Antonio Quistelli, che anche grazie al supporto di una personalità insigne come Ludovico Quaroni, ha saputo attrarre a Reggio Calabria una moltitudine di docenti di grande prestigio soprattutto nelle aree scientifiche dell’architettura, della storia e dell’urbanistica, che per molti anni hanno fatto acquisire una posizione di primo piano alla Facoltà di Architettura. Rosario Pietropaolo che ha svolto un lavoro analogo per la Facoltà di Ingegneria e che ha saputo portare a compimento, superando difficoltà di ogni genere, la realizzazione della nuova sede universitaria.

    Il sottoscritto, che si è giovato del solido retroterra costruito dai suoi predecessori per proiettare l’Università in una dimensione nazionale e internazionale giocando sul rapporto con l’area mediterranea (a cominciare dalla denominazione Mediterranea da me introdotta). È stata una scelta vincente, testimoniata dalla rete di relazioni con molte delle principali università della Riva Sud oltre che della Spagna e della Francia, e dalla continua presenza nelle sue iniziative scientifiche e culturali di personalità del calibro di Asor Rosa, Umberto Eco, Gustavo Zagrebelski, Gil Aluja, Francesco Rosi, Bernardo Secchi, per citare quelli di maggiore spicco. Non a caso il punto di debolezza della Mediterranea è stato l’aver abbandonato quella dimensione e quella tensione culturale, il che l’ha riportata nel ristretto di una dimensione locale».

    Perché le forze della cultura non sono state in grado di far maturare un capitale di legalità indispensabile per la modernizzazione della Calabria?

    «Credo che le ragioni vadano trovate nel fatto che le forze della cultura esterne all’Università, pur potendo annoverare punte prestigiose, sono poche e molto fragili, mentre quelle presenti all’interno delle Università hanno preferito rimanere chiuse nei loro fortilizi al riparo dalla pervasività del mondo illegale che ha continuato ad essere dominante nella società calabrese.

    La dimostrazione che un diverso comportamento avrebbe potuto cambiare le cose è rappresentato dal fenomeno Progetto Calabrie, una associazione nata dalla convergenza di un pugno di docenti dell’Unical e della Mediterranea, che puntò ad assumere la guida della Regione con una proposta innovativa sulla quale raccolse consensi vasti e diffusi. Ma la politica ufficiale avvertì il pericolo e oppose una resistenza intransigente, sicché il progetto naufragò».

    Quali sono le azioni che devono essere poste in campo per rivitalizzare il patrimonio culturale delle Università calabresi in rapporto con il territorio?

    «A questa domanda non so rispondere perché per farlo bisogna essere all’interno e al governo delle strutture universitarie per fare scelte comunque non facili anche perché il cosiddetto territorio non mostra grande attenzione per le Università. Certamente non lo mostra la Regione; in misura maggiore lo fanno singoli Comuni, ma sempre con rapporti episodici e di scarsa consistenza».

    Avrebbe senso costruire una rete delle Università meridionali per rilanciare un pensiero e una cultura meridionalista?

    «Avrebbe certamente un senso ma direi di più, direi che è una necessità stringente anzitutto per equilibrare i rapporti con le Università del Centro-Nord, oggi totalmente sbilanciati a favore di queste ultime. Da lì si potrebbe partire per affermare un pensiero e una cultura meridionalista.
    Ma sul punto sono del tutto pessimista perché non vedo un solo segnale in quella direzione, mentre ne vedo molti in quella opposta della difesa dei propri localistici interessi».

    Cosa potrebbero fare le Università calabresi per sostenere gli sforzi del PNRR?

    «Nella situazione attuale assolutamente nulla. Si sarebbero dovute fare avanti già da molto tempo, ora i giochi sono in fase avanzata e non ci sono spazi per azioni significative. Né, bisogna dirlo, qualcuno dal centro ha chiesto un qualche coinvolgimento delle Università calabresi. Possiamo solo auspicare un loro coinvolgimento nella fase attuativa dei progetti, ma anche questo dipende dai comportamenti che assumerà la Regione».

    Quanto ha pesato e pesa il deficit infrastrutturale anche per lo sviluppo della cultura e delle Università in Calabria?

    «Ha pesato moltissimo nel periodo a partire dal dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Duemila, durante il quale la carenza di infrastrutture e dei connessi servizi ha reso difficoltosa la mobilità verso l’esterno e all’interno dell’intero territorio calabrese, che per questo aspetto ha rappresentato un caso estremo anche rispetto al resto del Mezzogiorno. Di questo le Università hanno certamente risentito in modo negativo. Negli anni più vicini la situazione è in qualche misura migliorata (penso al completamento della infinita Salerno-Reggio Calabria) ma le carenze restano enormi.

    Che dire dei cinquanta anni trascorsi senza dare soluzione adeguate al porto di Gioia Tauro? O al collegamento ferroviario Lamezia-Catanzaro? O all’aeroporto di Crotone? O all’attraversamento (non al Ponte) dello Stretto? O alle autostrade del mare? O, più di recente, alle reti di connessione telematica? Il punto è che una attenzione e una progettualità per il territorio calabrese non esiste a livello centrale a motivo della prevalenza della questione settentrionale, né a livello regionale per la inadeguatezza della classe politica».

  • Cosenza e Rende, un’Atlantide di cemento da lasciarsi alle spalle

    Cosenza e Rende, un’Atlantide di cemento da lasciarsi alle spalle

    Torno sul tema della città storica, e, ancora una volta, prendendo Cosenza come riferimento a noi più vicino, la riflessione si muove non solo intorno alla politica urbanistica messa in atto o meno, per la sola città storica, ma quella più generale per tutta la città, ossia come sono stati gestiti, negli ultimi cinquant’anni, gli equilibri abitativi, la politica per i servizi, per gli spazi pubblici, le attrezzature, la mobilità, privilegiando soprattutto le aree di nuova edificazione e abbandonando progressivamente quelle storiche.

    Occorre, perciò, andare indietro di un po’ di anni per capire cosa è accaduto tra Cosenza e Rende, in questa odierna sconfinata “Atlantide di Cemento”, resa oggi infuocata da temperature ormai disumane, fomentata da una scellerata espansione edilizia su cui ha poggiato una intera economia regionale, non solo locale.

    Dal campus alla speculazione

    Subito dopo l’istituzione dell’Università della Calabria, nel 1968, viene subito indetto un concorso internazionale di progettazione, con una prestigiosa giuria. È molto importante ricordare, tra i partecipanti al concorso, la proposta progettuale del gruppo guidato da Italo Insolera, che controcorrente, propone il campus dislocato nella città storica di Cosenza, ma con un sistema territoriale che avrebbe interessato tutta la Valle del Crati: un pezzo di modernità con il cuore nell’antico.

    Invece la giuria decreta vincitore il gruppo guidato da Vittorio Gregotti. Nasce così la prima università italiana con un grande campus sulle brulle colline di Arcavacata di Rende, fino ad allora abitate solo da greggi di pecore, un nuovo segno architettonico lungo un tracciato rettilineo di oltre 2 km, senza dubbio un originale presenza architettonica nel paesaggio.
    Insieme all’Autostrada si tratta dei due segni più moderni in una Calabria immobile in quegli anni, segni che tuttavia hanno scatenato la più massiccia speculazione edilizia e consumo di suolo, tra Rende e i luoghi limitrofi, lungo tutto l’asse centrale della Valle del Crati, altrove non rintracciabile, per l’ingente quantità di metri cubi di cemento ed esplosione urbana senza alcun limite.

    La politica miope

    Dunque, il primo “torto” la città storica di Cosenza, lo subisce da una miopia politicascambiata per lungimiranza – che gioca la carta del nuovo a tutti i costi, immaginando ciò volano di sviluppo, mentre la storia e la memoria sono “roba da archeologi” tuttalpiù. E così si dà avvio a quel grande equivoco della crescita edilizia, su cui si è fondata buona parte della nostra economia, ma anche, oggi, del nostro disastro ecologico e dell’oblio della memoria antica.

    Qualche anno dopo Empio Malara, eccellente architetto milanese di origini rendesi, tenta un originale disegno urbano della nuova Rende, già oggetto dei fenomeni espansivi indotti dall’Università. Nel disegnare alcuni nuovi quartieri, e una fisionomia di città moderna che tenga conto del Campus, immagina, da bravo planner visionario, un dialogo urbanistico e culturale con la città alta di Cosenza, pensando che proprio l’università avrebbe potuto esserne l’anello di congiunzione.

    La guerra dei campanili e le sue vittime

    Ma la politica, che guarda soprattutto agli interessi elettorali, prima che dei cittadini, rimane arroccata su posizioni campaniliste e nessun dialogo sarà capace di porre in essere un ragionamento di città policentrica della Valle del Crati, in cui la storia potesse avere un ruolo da protagonista di una nuova stagione insediativa, seppure eccentrica per geografia. La competizione a sottrarre cittadini l’una all’altra sarà l’attività meglio praticata in quegli anni, il frutto è oggi l’asfittica definizione, burocratica, di “Area Urbana” Cosenza-Rende e dintorni, ovvero un indefinito, indefinibile confine senza soluzione di continuità, in cui tutto, ovvero il dilagare del costruito, è consentito in nome di una presunta “forza” dei numeri anagrafici e dei metri cubi.

    Il risultato? Cosenza e Rende alte, tra tutte, sono due luoghi pregevoli, di dimensioni differenti, ma fantasmagorici, in abbandono e su cui scarsissime azioni intelligenti si sono concentrate negli anni.
    Non è intenzione di chi scrive esaurire, solo in queste note, la complessa questione che si trascina da anni di come sia possibile il recupero dei patrimoni storici nel meridione, ma senza dubbio è interesse dimostrare che sono mancate e mancano le volontà politiche, le capacità amministrative, l’inventiva e la necessaria sensibilità progettuale, e che molti sono gli errori di visione commessi in queste lunghe decadi di modernità malata.

    Come salvare le città storiche

    Leggi regionali e provvedimenti sbagliati, come uno degli ultimi bandi della Regione Calabria, dedicato ai fantasmagorici “borghi” dietro ai quali si celavano equivoci e inesattezze, premesse sbagliate, carenti di una strategia complessiva per le città storiche, forse con il solo interesse di erogare risorse a pioggia con la solita finalità elettorale.

    Ci vuol ben altro per salvare le città storiche. Tra le priorità, occorrono azioni coordinate e continue, duplici tra pubblico e privato, di manutenzione ordinaria, quotidiana, il dare supporto progettuale, amministrativo, ai privati che intendono restare, istituire uffici permanenti di supporto alla progettazione, con contratti a giovani laureati, in una sinergia tra Comune e Sovrintendenze, riattivare le iniziative commerciali, ma soprattutto quelle culturali e creative, spostare nelle città storiche “fabbriche” di innovazione e creatività, centri per l’arte con residenze internazionali per giovani artisti, demolire gli edifici fatiscenti, ad opera degli stessi privati inadempienti o con surroga del comune, fare spazio a luoghi pubblici collettivi, servizi diffusi, nuovi e coerenti interventi di manutenzione e sostituzione degli edifici, mobilità dolce e tanto altro ancora.

    In nessun programma elettorale, in nessuna compagine amministrativa si intravedono sguardi e slanci in questa direzione, sarà bene che le prossime elezioni di Cosenza siano una importante occasione per riaprire questa – e altre – significative discussioni sulla città e sul suo futuro.
    La vera sfida è coniugare smartness con la storia, non rimuoverla!