Ci sono appuntamenti sul calendario che sembrano somigliare al titolo di uno di quei film apocalittici di fantascienza, per esempio “31/12/9999”. Invece questa data che non esiste, è scritta nero su bianco sul documento penitenziario che accompagna la detenzione di F. e indica il termine della sua carcerazione, cioè mai.
F. sconta la sua pena in un carcere della Sardegna e sarebbe dovuto giungere lunedì 13 febbraio all’Unical per conseguire la laurea Magistrale in Sociologia e Ricerca sociale. Per ragioni che ancora non sono note, però, dalla sua cella non è mai uscito.
L’Università della Calabria
Laurea e dottorato al 41 bis
Sono i misteri dell’ergastolo ostativo, la forma di pena che esclude il detenuto che si è macchiato di particolari reati dal poter usufruire dei benefici penitenziari come permessi o forme di riduzione della pena stessa. Eppure F. aveva ottenuto un permesso «per necessità» e la sensibilità del magistrato di sorveglianza aveva autorizzato anche la scorta a viaggiare in borghese e senza utilizzare le manette.
C. invece è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza del nord e anche per lui le porte del penitenziario non si apriranno più. Alcuni anni fa C. si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Catanzaro. Poi ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Unical.
I due sono studenti del Polo universitario penitenziario e rappresentano gli esempi di come, pure nell’abisso della reclusione più severa, le cose possano cambiare. I mille chiavistelli che separano le loro celle dal mondo di fuori sono rimasti serrati, ma gli orizzonti si sono allargati portando nelle anguste mura del carcere saperi, conoscenze e consapevolezze che prima mancavano.
Il diritto allo studio per tutti
«L’esperienza del Polo universitario penitenziario dell’Unical nasce formalmente nel 2018», spiega Franca Garreffa, sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e responsabile del Pup. Si tratta di un protocollo d’intesa attraverso cui l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnano a favorire il diritto allo studio delle persone detenute. In realtà le radici del rapporto tra l’Università e i luoghi di pena sono più antiche di almeno un decennio e risalgono a quando nel carcere di Rossano proprio F. e il suo compagno di cella G. espressero a una volontaria il desiderio di seguire gli studi universitari.
L’allora direttore del carcere, Giuseppe Carrà, contattò il sociologo Piero Fantozzi, che al tempo dirigeva il dipartimento di Sociologia e subito si avviò il percorso didattico. In quel cammino venne coinvolta Franca Garreffa, appena laureata con Renate Siebert discutendo una tesi sul carcere. I due detenuti conseguirono la laurea triennale nel giugno del 2015 sostenendo le loro tesi nell’aula dell’ateneo.
L’unica via di fuga
Proprio in quel periodo C. che intanto era recluso nel carcere di Catanzaro, chiese di potersi laureare anche lui recandosi in università e al diniego delle autorità decise di protestare iniziando uno sciopero della fame. Sarà a causa di questa protesta che dovrà rassegnarsi a discutere la tesi in carcere e poi al trasferimento al nord. Successivamente, a causa di imperscrutabili percorsi umani, l’estratto della tesi di laurea di C. che aveva come argomento l’ergastolo ostativo apparirà su una rivista il cui direttore era il figlio del giudice che gli aveva comminato proprio quella pena.
Ma se i libri diventano la sola via di fuga, allora tanto vale continuare a studiare ancora, fino al dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio riconosciuto nel nostro Paese, traguardo che C. raggiunge proprio con Franca Garreffa.
«Ho incontrato C. quando era già al nord – racconta la sociologa del Dispes – e mi sono messa in contatto con lui tramite alcune redattrici della rivista Ristretti orizzonti». Da lì comincia un percorso umano e didattico che ancora è in corso.
Una laurea al 41 Bis per riscattarsi
Le storie di F. e C. sono per molti versi drammaticamente simili. Da giovanissimi, entrambi poco più che ventenni, vengono arrestati e accusati di reati molto gravi e per questo condannati all’ergastolo ostativo e al regime del 41 Bis. Viene da domandarsi come si possa consegnare due persone, praticamente ancora ragazzi, a una pena così priva di senso e ampiamente considerata anche incostituzionale. A quell’abisso infernale F. e C. hanno dato uno scopo attraverso lo studio.
Una scritta contro il 41-bis in un quartiere popolare
«Tramite l’impegno universitario F. e C. e tutti i detenuti impegnati nei vari Poli universitari penitenziari non hanno solo riempito di senso il loro tempo, ma hanno cercato un riscatto per se stessi e per le loro famiglie», spiega la professoressa Garreffa, che intanto resta in attesa che a F. venga consentito, come annunciato, di tornare nell’aula di Arcavacata per la sua laurea magistrale. Perché il sapere non fa svanire le sbarre, né apre le serrature, ma rende gli uomini migliori.
Giovedì 2 febbraio, alle 10:30 per le scuole e alle ore 20:30 per tutti, verrà messo in scena al Tau (teatro auditorium Unical) “La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole” di Marcello Walter Bruno, interpretato dall’attore e drammaturgo Ernesto Orrico con musiche originali eseguite dal vivo da Massimo Garritano. Sempre il 2 febbraio, ma a partire dalle 17.00, verrà aperta al pubblico la mostra “Unical collage. 10 metri di ponte ricostruiti al Tau”.
Il Teatro auditorium Unical (foto Alfonso Bombini)
Mentre mercoledì 1 febbraio alle ore 12 sarà inaugurata, nel foyer del Teatro, della mostra collettiva “Star arts”, una collezione di scatti ideata e realizzata in collaborazione con l’Associazione Fotografica “Ladri di Luce” di Cosenza.
Si tratta di tre eventi promossi e organizzati dal dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria, l’infrastruttura di ricerca Star (Southern Europe Thomson Back-Scattering Source for Applied Research) e il progetto NoMaH (Novel Materials for Hydrogen Storage).
Durante la conferenza stampa di presentazione degli eventi sono intervenuti oggi: Riccardo Barberi, direttore del dipartimento di Fisica dell’Unical e responsabile scientifico di Star; Raffaele G. Agostino, vicedirettore del dipartimento di Fisica e responsabile sientifico del progetto NoMaH; Fabio Vincenzi, direttore del TAU; Caterina Martino, co-curatrice di “Unical Collage”; Daniela Fucilla, presidente dei “Ladri di Luce”; Ernesto Orrico e Massimo Garritano.
Marcello Walter Bruno, professore all’Unical e studioso di cinema e fotografia
Marcello Walter Bruno (Carolei 1952 – Lucca 2022) è stato professore associato all’Università della Calabria. Si è occupato di cinema, fotografia, comunicazioni di massa e teatro. Dal 1979 al 1989 è stato programmista-regista della RAI. Negli anni Novanta è stato direttore creativo dell’agenzia “La cosa pubblicitaria”. Ha collaborato come drammaturgo con Giancarlo Cauteruccio/Krypton e Ernesto Orrico e ha recitato il monologo di Paolo Jedlowski Smemoraz. Ha pubblicato i libri Neotelevisione (Rubbettino, 1994), Promocrazia. Tecniche pubblicitarie della comunicazione politica da Lenin a Berlusconi (Costa & Nolan, 1996), Il cinema di Stanley Kubrick (Gremese, 2017). Suoi saggi e articoli sono apparsi sulle riviste Alfabeta, Cinemasessanta, Il piccolo Hans, Duel, Segnocinema e Fata Morgana.
Ernesto Orrico ha lavorato con Teatro delle Albe, Scena Verticale, Teatro Rossosimona, Centro RAT, Teatro della Ginestra, Carro di Tespi, Spazio Teatro, Zahir, Compagnia Ragli. Ha scritto ‘A Calabria è morta (Round Robin, 2008), le raccolte di poesie Talknoise. Poesie imperfette e lacerti di canzone (Edizioni Underground?, 2018), Appunti per spettacoli che non si faranno (Coessenza, 2012) e The Cult of Fluxus per (Edizioni Erranti, 2014). Ha all’attivo diversi progetti di contaminazione tra musica e teatro tra cui The Cult of Fluxus e Speaking and Looping.
Massimo Garritano è un musicista e compositore. Ha all’attivo numerose incisioni discografiche tra cui: Doppio Sogno (Dodicilune Rec. 2014), Present (Manitù Rec. 2016), Talknoise (Manitù Rec. 2018). È autore di musiche per film muti, balletti, reading e spettacoli teatrali. Dal 2006 è assistente collaboratore per i corsi preaccademici del Conservatorio di Cosenza. Docente di chitarra jazz al Conservatorio di Potenza (2016, 2017), Cosenza (2017, 2018, 2019) e di composizione jazz al Conservatorio “Tomadini” di Udine (2019). Dal 2021 insegna al Conservatorio di Milano.
Prenderla con filosofia non significa affrontare le cose con troppa leggerezza. Almeno a Roccella jonica la pensano così. Qui un gruppo di ex studenti dell’Unical nel 2010 ha dato vita a una scuola estiva di alta formazione proprio in filosofia. Tutto così serio da portare nella cittadina marittima gente anche dall’estero. E questa volta non per il rinomato festival del jazz.
Remo Bodei è stato direttore della Scuola estiva a Roccella
Il prof Nizza
Angelo Nizza è uno dei cervelli che ha costruito questo presidio culturale. Oggi insegna storia e filosofia in un liceo di Oppido Mamertina. Il progetto nasce tra i cubi dell’Università della Calabria. Più precisamente nello studio di Mario Alcaro, allora docente nell’Ateneo di Arcavacata e direttore del dipartimento di Filosofia. Un manipolo di ragazzi brillanti butta giù un’idea che conquista anche il professore Giuseppe Cantarano. Complice il mare di Roccella e la capacità organizzativa di un gruppo affiatato, nel cuore della Locride arriva gente come Remo Bodei, nome noto della filosofia italiana. Allora insegnava alla prestigiosa Ucla di Los Angeles. Avrebbe diretto la scuola estiva per tanti anni. Un appuntamento fisso. Diventando cittadino onorario di Roccella. Un posto particolare. Dove approdano le carrette del mare coi migranti. E la gente è ospitale alla maniera greca.
Il professore dell’Unical Mario Alcaro si intrattiene con i ragazzi durante una vecchia edizione della Scuola estiva a Roccella
Scholé in trasferta
Alla morte del prof Mario Alcaro, la famiglia offre i soldi vinti con il premio Sila ai ragazzi di Roccella. Grazie a questa donazione nel 2011 nasce l’associazione culturale Scholè per dare continuità alla organizzazione della scuola estiva (oggi diretta da Bruno Centrone e Salvatore Scali) che raddoppia, diventando pure invernale. Le attività si moltiplicano. Compresi i seminari nelle superiori. Non solo in Calabria. Nel 2023 sono già in programma due trasferte a Mirandola in provincia di Modena e Civitanova Marche. «Fare filosofia con i ragazzi, – sostiene Angelo Nizza – approfondimento con relatori di altissimo livello leggendo direttamente i testi è un’operazione non solo culturale e didattica ma anche politica. Le scuole e l’università sono sotto attacco da 30 anni. Aziendalizzare è la parola d’ordine da abbattere».
Lezione all’aperto durante una della passate edizioni della Scuola estiva di filosofia
Un tè con Platone
Socrate e Platone non bastano. Arrivano corsi di fisica, latino e greco. L’Ora del tè è un appuntamento dedicato a letture e conversazioni su argomenti di varia natura, filosofia compresa. Un giardino consente di portare all’esterno gli incontri in primavere e in estate. Qualche film da proiettare e una fisiologica attività ricreativa completano l’offerta. Anche per aggiungere un po’ di spensieratezza. Non fa mai male.
Pochi soldi molta passione
Scholé si regge sull’autofinanziamento. «Se si organizzano attività – spiega il prof Nizza – il nostro progetto comunitario vive e prosegue, altrimenti è un problema. Tessera, contributo spontaneo, cene sociali consentono di fare le cose liberamente, senza dipendere da nessuno».
Durante il primo lockdown il meccanismo va in tilt. «Abbiamo rischiato di chiudere senza attività in presenza. Non basta il web che abbiamo pur utilizzato». L’unico contributo fisso viene dal Comune di Roccella. Un capitolo di bilancio è dedicato a Scholé. Non è una cifra altissima. Ma è già una gran cosa.
Il consiglio regionale per alcuni anni ha dato un contributo alla scuola estiva quando era presidente Nicola Irto. Oggi è tutto finito. E con i bandi della Regione pensati per grandi eventi è davvero difficile ottenere finanziamenti.
Arianna Fermani insegna Storia della filosofia antica all’Università di Macerata, è condirettore della scuola estiva a Roccella
Il legame con l’Università di Macerata
Un protocollo di intesa lega Scholé all’Università di Macerata. Dove insegna Storia della filosofia antica Arianna Fermani, condirettore della scuola estiva a Roccella. L’Unical, solo ateneo in Calabria ad avere facoltà umanistiche, non ha un rapporto formale con Scholé. Ma una serie di suoi prof tra cui Fortunato Cacciatore (altro condirettore della scuola estiva), Guido Liguori, Felice Cimatti, Luca Parisoli, Giuliana Commisso hanno dato, e in alcuni casi continuano a dare, il loro contributo. Tanti altri sono passati dalla suola estiva. Del comitato scientifico fa parte «Gianni Vattimo, uno dei padri del Pensiero debole, che ha soggiornato per un’intera settimana a Roccella jonica, vagando all’interno della cittadina e conversando con la gente. Ha percorso in macchina tutta la Locride». Racconta Nizza.
Fortunato Cacciatore insegna Teoria della Storia all’Università della Calabria, è condirettore della scuola estiva a Roccella
La filosofia diventa pop ma non è show
«Se per pop intendiamo popolare allora sì, siamo pop». Angelo Nizza ci tiene a precisare: «Un pubblico variegato partecipa alle nostre iniziative. Per esempio molti adulti frequentano il corso base di filosofia. Non serve essere già esperti di Hegel. Basta una sana curiosità e il gioco è fatto.
Non è un pubblico di soli specialisti. Così la filosofia parla a più persone possibile in un senso democratico; anche a chi nella vita si occupa di altro. Tutto senza puzzetta sotto il naso e arroganza da intellettuali.
Ci guadagnano tutti a Roccella. Non mancano le ricadute positive sul commercio. «La cultura innesca l’economia – sottolinea Nizza – e non il contrario. Fare alcune cose in un piccolo centro ha vantaggi relazionali. Penso ai fornitori, alla gente, la città, tutti i componenti di una comunità».
Studenti prendono appunti durante una sessione della scuola di filosofia a Roccella Jonica
Marx a Roccella jonica
Scholé ha un taglio chiaro, netto. Si capisce dagli argomenti trattati: una scuola estiva dedicata alla rivoluzione, un’altra a Marx. «È apartitica ma fortemente politica» – confessa Nizza: «Non è un festival di filosofia. Non è spettacolo, non è intrattenimento. Non c’è consumo, ma c’è uso. Uso che implica la cura, l’aver cura». Non è un caso se i prossimi appuntamenti sono dedicati a un pensatore rivoluzionario come Spinoza con un week end filosofico in programma dal 26 al 29 gennaio.
Gianni Vattimo, filosofo e teorico del Pensiero debole e Giuseppe Cantarano, prof dell’Unical, a Roccella Jonica
Caro collega Pino Certomà
Ci siamo quasi. La biblioteca di Scholé sta per partire. C’è una persona che ha contribuito più di tutti alla sua nascita. È Pino Certomà, originario di Roccella. Ha lavorato come assistente sociale nelle carceri. Abitava a Roma. Ha studiato la filosofia da autodidatta. Al punto da possedere una biblioteca piena di testi fondamentali della materia. Tornava ogni anno in occasione della scuola estiva. Partecipando attivamente agli incontri. Uno di casa a Scholé. Un «caro collega» come lo definì Gianni Vattimo. Oggi Pino non c’è più. La sua famiglia ha donato tantissimi suoi libri ai ragazzi di Roccella jonica. Altri sono stati regalati da Remo Bodei e Pietro Montani. Un bel gruzzolo che aumenta di giorno in giorno. Una specie di «resistenza culturale», dice Angelo Nizza. In una Calabria che ne ha sempre più bisogno.
L’inizio della stagione invernale riporta alle cronache notizie legate a frane, alluvioni e erosione costiera… Aspettate, forse meglio ricominciare poiché registriamo eventi già in autunno.
L’arrivo delle prime piogge riporta alle cronache… No, neanche così va bene poiché abbiamo avuto eventi alluvionali anche ad agosto.
In qualsiasi periodo dell’anno (ora sì che funziona), la Calabria, come molte altre aree dello Stivale, registra eventi naturali che provocano nel peggiore dei casi la perdita di vite umane, nel migliore solo la distruzione di abitazioni e strade.
In queste occasioni, la macchina della solidarietà si mette immediatamente in moto, le persone offrono aiuto fisico ed economico dimostrando vicinanza verso chi è stato meno fortunato. Contemporaneamente, i politici sfoderano (in modo proporzionale al livello dei danni registrati) il meglio della loro ars oratoria per promettere che tutto ciò non si ripeterà più (fino alla prossima dichiarata emergenza). Gli amministratori locali, spesso lasciati da soli a fronteggiare dinamiche e situazioni più grandi di loro, sbattono i pugni chiedendo fondi per ripristinare lo stato delle cose (fino al prossimo evento).
Lista di alcuni eventi naturali come alluvioni e frane avvenuti in Calabria negli ultimi anni
Scarsa conoscenza e speculazioni
Un piccolo esercizio di memoria aiuterebbe a comprendere che gli eventi naturali ed il cambiamento delle condizioni che noi definiamo “normali”rappresentano, in Italia come e più di altre aree geografiche, la norma e non l’eccezione. Questo perché la Terra è viva (se non lo fosse avremmo poche chance di sopravvivere), l’ambiente intorno a noi è dinamico. Processi come frane e alluvioni sono parte integrante e fondamentale del ciclo naturale.
Da un punto di vista geologico l’Italia è una catena giovane e ancora in fase di assestamento, con il 94% dei Comuni sottoposti a rischi naturali. Se a questo aggiungiamo un uso del territorio, sia in tempi antichi che recenti, che per mancanza di conoscenze (prima) e/o speculazione (dopo) non ha tenuto e non tiene conto di questo dinamismo e delle peculiarità e vulnerabilità del territorio, è facile trovarsi a cadenze regolari nelle stesse situazioni.
Un circolo vizioso
In questo scenario, l’unico strumento che abbiamo a disposizione per prevenire il verificarsi di eventi potenzialmente avversi è quello di conoscere il territorio, la sua struttura, morfologia e predisposizione a determinati cambiamenti. Per fare ciò abbiamo bisogno di persone qualificate come i geologi, capaci di leggere ed interpretare in modo corretto il territorio, e di database come le carte geologiche aggiornati.
Negli ultimi anni, politiche universitarie discutibili e progressivi tagli ai finanziamenti hanno portato alla scomparsa di molti dipartimenti di Geologia e Scienze della Terra, o nel migliore dei casi alla loro fusione con altri dipartimenti, riducendo di fatto la loro visibilità e ruolo di riferimento per gli studi del territorio. Questo, unito alla mancata attenzione e riconoscimento da parte sia della politica che della società civile della figura del geologo e delle sue capacità, ha contribuito alla riduzione del numero di iscritti di studenti nelle discipline di Scienze della Terra. Calo che porterà nei prossimi anni ad una progressiva riduzione di competenze sia a livello locale che nazionale in un circolo vizioso che, salvo investimenti sostanziali, potrà solo peggiorare.
Centoquarant’anni e non sentirli
Per quanto concerne le carte geologiche, pochi mesi dopo l’atto formale di unificazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) veniva istituita una giunta consultiva che doveva “discutere i metodi e stabilire le norme per la formazione della Carta Geologica del Regno d’Italia” che porterà nel 1881 in occasione del 2° Congresso Internazionale di Geologia tenutosi a Bologna di pubblicare “per cura del Regio Ufficio geologico” la prima edizione della Carta geologica d’Italia in scala 1:1.000.000. Dopo 140 anni, ci troviamo oggi nella situazione in cui in Italia non abbiamo ancora una carta geologica aggiornata in grado di rappresentare tutto il territorio nazionale.
17 marzo 1861, nasce il Regno d’Italia
Il programma di Cartografia Geologica nazionale CARG, lanciato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, rischia di fermarsi nuovamente per la mancanza di finanziamenti dopo che nel 2020 aveva ripreso dopo 20 anni di inattività per carenza di fondi. I fogli CARG rappresentano una banca dati fondamentale per la conoscenza del territorio e del sottosuolo necessaria per mappare le aree a rischio e metterle in sicurezza e procedere con una idonea pianificazione urbanistica. Come recentemente annunciato dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), «quella a rischio è un’importante infrastruttura di ricerca strategica per la Nazione che oggi rappresenta lo strumento più completo per leggere il passato e il presente del nostro territorio».
Per un pugno di euro
Il tutto per una cifra tutt’altro che esorbitante (5 milioni l’anno) rispetto alle conoscenze e benefici che ne deriverebbero, sebbene questo dovrebbe essere una priorità per il Paese a prescindere dal costo. A titolo di esempio, Francia, Germania e Inghilterra hanno una carta geologica che copre tutto il territorio e la stessa viene aggiornata regolarmente.
A livello nazionale, la copertura odierna della carta geologica CARG si attesta a poco più della metà del territorio: 348 carte geologiche su 636 totali.
La Calabria è tra le regioni con minore copertura con solo 15 carte geologiche completate (incluse due a cavallo tra Calabria e Basilicata) e due in fase di realizzazione rispetto alle 42 necessarie a coprire il territorio regionale.
Copertura regionale delle carte geologiche CARG in Calabria (Fonte Ispra)
Il ruolo delle Scienze della Terra
Solo conoscendo il territorio, la sua composizione e variabilità geologica è possibile una corretta pianificazione e gestione per proteggere la vita dei cittadini e anche le infrastrutture. Senza una pianificazione e sostegno finanziario e culturale, lavorando nel medio e lungo periodo per dotarsi degli strumenti e delle figure professionali necessarie per monitorare il territorio, i proclami post-evento hanno poca efficacia. Se non quella di rispondere, in emergenza, ad evento già avvenuto.
Quello su cui si deve lavorare è sostenere e valorizzare gli studi delle Scienze della Terra. Allo stesso tempo permettere di realizzare gli strumenti necessari a prevenire gli effetti legati ad eventi naturali. Ad esempio, mettendo in sicurezza le aree a rischio o limitando le stesse nelle situazioni in cui è necessario convivere con i rischi perché impossibili da risolvere a meno di non evacuare la popolazione spostandola su altri siti.
Lo sfasciume pendulo sul mare è ancora lì
Nel lontano 1904, quando le prime carte geologiche d’Italia erano da poco state realizzate permettendo di colmare un divario con le altre nazioni e conoscere il territorio anche da un punto di vista geologico, Giustino Fortunato (politico e storico italiano) definì, a ragione, la Calabria come uno «sfasciume pendulo sul mare». A più di cento anni di distanza, lo sfasciume pendulo è ancora lì intento, nella sua lenta ma inarrestabile evoluzione geologica. Purtroppo, gli strumenti per conoscerlo e monitorarlo sono spesso ancora gli stessi consultati da Giustino Fortunato. Dire che da allora ad oggi si sarebbe potuto fare di più è retorica.
La Calabria dei campanili è sempre pronta alle battaglie fratricide. Accade così che l’annuncio della nascita di una nuova facoltà di medicina presso l’Unical, susciti le urla di sdegno dell’università di Catanzaro, che pure non vedrà sguarnita la sua offerta formativa. A guidare il campanilistico malcontento catanzarese sono i politici della città, in modo del tutto trasversale, dalla parlamentare Wanda Ferro a Nicola Fiorita, che prima di diventare sindaco insegnava proprio all’Unical, passando per gli altri due ex candidati a guidare Catanzaro: Valerio Donato e Antonello Talerico.
L’Università della Calabria
Le preoccupazioni catanzaresi sono del tutto evidenti: fin qui una sola facoltà di medicina non trovava concorrenti nel raccogliere iscritti, da domani invece ci sarà da sgomitare, ma forse nemmeno tanto, se i numeri che circolano sono esatti e raccontano di una significativa quantità di studenti calabresi che si iscrivono a facoltà di medicina fuori dalla regione.
Una questione politica (e non solo)
Del resto è difficile non valutare positivamente l’aver gettato il seme che potrebbe alleviare la tragedia in cui versa la sanità calabrese, visto che una facoltà di medicina apre a futuri scenari importanti in termini di miglioramento complessivo della qualità dei servizi. Basti pensare al collegamento tra la facoltà e il nuovo – e ancora ipotetico – ospedale di Cosenza, che diventando policlinico universitario, godrebbe di competenze di primo livello. Poiché la cronaca certe volte vuole diventare ironica, a portare a casa il risultato della nascita di una nuova facoltà di Medicina è stato un presidente cosentino della Regione, di cui ancora si rammentano le parole di plauso per la chiusura di 18 ospedali.
L’ingresso del vecchio ospedale dell’Annunziata a Cosenza
E qui nuovamente si apre l’altra partita, apparentemente campanilistica, ma in verità del tutto politica. Infatti l’annunciata apertura della nuova facoltà di Medicina all’Unical rimette in discussione la scelta dell’area dove edificare il nuovo ospedale. Nel meraviglioso mondo della teoria il Comune di Cosenza avrebbe indicato la zona di Vaglio Lise, mettendo da parte la zona di Contrada Muoio che invece piaceva all’ex sindaco della città. Tuttavia il crudele mondo della realtà frappone non pochi ostacoli alla sua realizzazione, basti pensare che quei terreni sono della Provincia, e ancora non è chiaro se li abbia già ceduti allo scopo.
I cugini di Campagnano
All’orizzonte spunta un nuovo motivo per mettere in discussione la scelta fatta dal consiglio comunale di Cosenza: che senso avrebbe edificare un nuovo e moderno ospedale lontano dalla facoltà di medicina? Ed ecco che il rigurgito del mai sopito campanilismo tra Rende e il capoluogo è già pronto a riaffiorare.
La questione va assai oltre uno scontro tra campanili, perché con tutta evidenza la nascita di un nuovo ospedale comporterebbe la crescita tutt’attorno di servizi ed infrastrutture che porterebbero economie al territorio. Per Cosenza non si tratterebbe della perdita di un “pennacchio”, ma di opportunità materiali. D’altra parte non si è mai vista una facoltà di Medicina separata dal nosocomio.
La matrioska dei campanilismi
A ben guardare, quindi, la nascita di Medicina all’Unical riapre i giochi e pone prepotentemente Arcavacata in cima alle possibilità di scelta: un luogo baricentrico nella già concreta idea di area urbana, rapidamente raggiungibile perché servita dall’autostrada, senza contare che i terreni su cui l’ospedale sorgerebbe potrebbero essere quelli già in possesso dell’università. Tutte ragioni che razionalmente dovrebbero spazzare via altre ipotesi.
Il campanilismo è come una matrioska: c’è quello tra Cosenza e Catanzaro e più dentro quello tra Cosenza e Rende e più dentro ancora quello tra i politici che devono decidere.
Ma ci sarà tempo per le barricate e le grida, perché intanto il nuovo ospedale è solo una bella intenzione. E, come dice il proverbio ebraico, «mentre gli uomini progettano, Dio ride».
È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.
I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano
Antefatto: Trumper, un professore curioso
Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni. John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova. Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.
Il boato di Peteano
La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.
Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni
Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni. Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.
Una strage “minore”
La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.
I funerali dei tre carabinieri caduti
Il dirottatore
È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia. Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro. Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.
Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.
La pistola fumante
Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano
Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini. Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.
I depistaggi
Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.
Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.
Trumper il superperito
Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?
Almirante: tra doppiopetto ed eversione
Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli. Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.
Giorgio Almirante nei primi anni ’70
Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.
Trumper e Toni Negri
Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).
Toni Negri
L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio– di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.
Sono orgoglioso di essere “cittadino onorario” di Rende, di aver ricevuto da parte dell’Amministrazione e dal sindaco Marcello Manna un così importante attestato di stima per il mio contributo nel disegno della città, per avere svolto il ruolo di urbanista condotto di Rende dalla metà degli anni sessanta alla metà degli anni ottanta del secolo scorso.
Per mettere in chiaro il mio pensiero e contribuire ad affrontare la complessa realtà di Rende – l’unico vero giardino nel quale posso coltivare pensieri alti – è doveroso da parte mia affermare decisamente le mie valutazioni urbanistiche per migliorare gradualmente la città e favorire autentiche relazioni con Cosenza, la città dove sono nato. (Quanti cittadini di Rende sono nati a Cosenza?).
L’urbanista Empio Malara
Rende? Una città che si giudica dai suoi marciapiedi
Un esercizio che ogni abitante può compiere a Rende, nella città definita di sosta, è di passeggiare e ammirare le vetrine dei negozi. Peccato che a Rende e in particolare nella frazione di Quattromiglia – il quartiere più vicino all’Università – la maggior parte dei marciapiedi siano risicati, sconnessi, con pavimentazioni una diversa dall’altra. A ben guardare pochi sono i tratti di larghi marciapiedi che meritano di essere catalogati come tali. Se Rende la si potrà definire città di sosta dipenderà dall’amministrazione comunale se riuscirà a promuovere, di concerto con i proprietari degli immobili, quartiere dopo quartiere, frazione dopo frazione, il ridisegno dei marciapiedi: una città si giudica anche camminando sui suoi marciapiedi.
Franz Caruso e Marcello Manna, sindaci rispettivamente di Cosenza e Rende
Le relazioni funzionali tra Rende e Cosenza
Passando ora alle relazioni con Cosenza mi riferisco alle strategie territoriali intuibili leggendo le fredde zonizzazioni dei piani di Cosenza e Rende del 1974. Come giustamente ricordato da Francesco Forte nel suo saggio sulla grande Cosenza (2015), esse segnalavano già il rafforzamento delle relazioni funzionali tra Cosenza e Rende. Le varianti successive non ne hanno alterato il contenuto. La città reale e gli impeti edilizi auspicavano e auspicano politiche convergenti e l’attuale iniziativa del sindaco di Cosenza, Franz Caruso, con l’adesione del sindaco di Rende, Marcello Manna e del sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco, merita di essere sostenuta e seguita con molto interesse.
La programmazione culturale con Pina e gli altri
In particolare suscita attese la programmazione coordinata degli eventi culturali da parte dei responsabili dei tre Comuni con la partecipazione del delegato all’area urbana di Cosenza Pina Incarnato. C’è bisogno di nuove politiche culturali e urbanistiche, innanzitutto coerenti, e idonee a rigenerare e sostenere la vitalità e la creatività dei magneti urbani di città Alta di Cosenza e dell’Università della Calabria per realizzare gradualmente l’unione tra Cosenza, Rende e Castrolibero.
Rende senza Cosenza non è una città
Per essere chiaro, a mio avviso, la questione di fondo che interessa Rende è tutto sommato semplice, se vuole diventare città, una vera città, deve coniugarsi con Cosenza, altrimenti, nonostante l’impegno delle Amministrazioni, resterà un paese della provincia di Cosenza. La creazione dell’organismo di pianificazione strategico ed integrato di funzioni e servizi nell’ambito territoriale, promosso da Franz Caruso, può essere un primo gradino di una breve scala unificatrice che gli Amministratori di Rende e Castrolibero dovrebbero apprezzare e volgere a favore dell’unificazione a tutto vantaggio degli abitanti dei tre Comuni.
Cosenza vecchia centro propulsivo
Rende e Castrolibero sono di fatto entrambi “cosentini”. Entrambi se unificati a Cosenza potrebbero essere parti significative della più estesa città, avendo in comune il patrimonio da rivitalizzare di Cosenza vecchia (la loro antica capitale) e l’Università della Calabria da sostenere e incrementare. I bandi del contratto istituzionale di sviluppo del centro storico di Cosenza per il restauro e la riqualificazione paesaggistica dell’antica capitale sono stati tutti emessi. Il percorso di investimento e rigenerazione culturale è iniziato e può essere alimentato oltre che dallo Stato, dalla Regione Calabria, dalle amministrazioni comunali e dai privati.
L’Università della Calabria e, sullo sfondo, Cosenza, Rende e i monti della Sila
Una città unica che vale 100mila abitanti
Se si farà l’unificazione dei tre Comuni, l’accresciuta città di Cosenza, con più di 100mila abitanti, potrà provvedere con maggiore forza a valorizzare il più integro insediamento storico della Regione Calabria ereditato dal passato, e potrà con maggiori motivazioni coinvolgere l’Università della Calabria a partecipare attivamente alla crescita culturale della rinnovata città di Cosenza senza trascurare il vantaggio di risiedere nel territorio della città a cui l’università era stata assegnata.
Cosenza potrebbe essere capitale culturale ed economica della Calabria
Se si farà l’unificazione, la città di Cosenza potrà affrontare il compito di definire i rapporti con i Comuni dell’intorno circolare, con quelli a forte valenza turistica (mari e Sila) e con le città delle Regioni confinanti della sua provincia. Rapporti necessari e utili per ambire al traguardo di capitale culturale ed economica della regione.
Volevi sapere cos’era l’antropologia culturale e a cosa serviva l’etnologia? Volevi studiare le scienze umane più rivoluzionarie del ’900?
Infine, volevi conoscere “sul campo” le ricerche e le contraddizioni che queste discipline fecero esplodere nella “rivolta politica” sessantottina anche le aule polverose delle nostre Università?
Se stavi più giù di Roma – dove insegnavano Cirese, Lanternari, Tentori, o Tullio Altan – negli anni ’80 poteva capitarti di studiare Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università della Calabria.
Con il professor Luigi Maria Lombardi Satriani.
Lombardi Satriani: il papà dell’Etnologia calabrese
Lombardi Satriani arrivò all’Unical intorno al 1980. Era un docente giovane, ma già affermato presso le Università di Napoli, Austin (Texas) e San Paolo del Brasile. Grazie a lui, in Calabria la storia delle tradizioni popolari e il folklore – che ristagnavano nella filologia e nell’erudizione ottocentesca – si rinnovarono e diventarono Etnologia.
Ovvero diventarono un insieme di soggetti culturali, politici e sociali da indagare per il valore “contrastivo” della cultura popolare, “la cultura degli esclusi”.
Un’immagine recente di Luigi Maria Lombardi Satriani
Questa disciplina, da cenerentola degli studi si trasformò in «analisi delle culture subalterne, folklore inteso come cultura di contestazione, dislivello interno alla società, in contraddizione con la cultura e l’ideologia borghese dominante».
E perciò da assumere come «soggetto etnografico e politico degno di sguardo antropologico». Quella di Lombardi Satriani fu una rivoluzione epistemologica e politica che sovvertì gli studi tradizionali (Antropologia Culturale e analisi della cultura subalterna, Rizzoli, 1980), ed ebbe il merito di riportare il Sud e le sue culture popolari al centro di una nuova questione meridionale nell’era della modernizzazione.
Il mio incontro con Lombardi Satriani
Io ero tra i giovani che ascoltarono quel richiamo. Per me fu un’avventura esaltante, poiché buona parte di questo percorso di ricerca si compiva in quegli anni tra le aule del Polifunzionale dell’Unical, dov’ero studente di Filosofia.
Il Polifunzionale dell’Unical
Infatti, Lombardi Satriani fu prima docente e poi per qualche anno preside di Lettere e Filosofia ad Arcavacata.
Poi tornò a Roma, per rivestire la prestigiosa cattedra di Etnologia alla Sapienza, di cui è stato professore emerito sino alla morte, avvenuta a 86 anni qualche giorno fa. Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più prestigiosi e innovativi del nostro paese.
Il ricordo di un maestro
La copertina di “Antropologia Culturale”, un classico di Lombardi Satriani
Ma il professor Lombardi Satriani, è stato per me qualcosa di più; il mio primo maestro. Fui suo studente all’Unical e uno dei suoi primi laureati.
Purtroppo non sono ancora riuscito a ritrovare la foto del giorno della mia laurea, quando Luigi mi proclamò dottore e assegnò la lode e la dignità di stampa alla mia tesi. Poi mi volle poi tra i suoi allievi e fu il mio direttore al Dottorato in Etno-Antropologia. Fu successivamente presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze etno-antropologiche (Aisea). E io fui suo sodale per anni nella Sezione di antropologia e letteratura.
A quest’esperienza sono seguiti anni di incontri e ricerche comuni, convegni e confronti, in cui fu sempre sollecito di consigli e generoso in riconoscimenti, incoraggiamenti e critiche al mio lavoro.
Devo a lui, alle sue lezioni, ai suoi libri, l’essere diventato a mia volta antropologo, studioso e docente di Antropologia culturale ed Etnologia.
Un calabrese di mondo
Il mio debito verso il professore non è dovuto solo al suo immenso lascito di studioso e intellettuale, spinto a indagare «il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno».
Ma gli resterò per sempre affettuosamente legato anche per quel che accadeva fuori dall’ambiente accademico. Era un uomo di parola, un calabrese di mondo. Una persona affabile, curiosa e gioviale. Un conversatore brillante, una compagnia confidenziale e divertente. È stato uno dei pochi a cui ho aperto le porte di casa.
Per decine di volte, in anni di frequentazioni, finché ha potuto, è stato mio ospite con reciproco godimento di amicizia, stima e affetto.
Le cene d’estate con le lunghe chiacchierate sul terrazzo di casa mia a Paola, assieme a mia moglie e mio suocero (entrambi suoi lettori appassionati) e ai miei figli, sono rimaste memorabili. Ogni volta che ci incontravamo rievocavamo quei momenti spensierati e felici.
Rigore scientifico e meridionalismo
La vivacità della riflessione di Lombardi Satriani stava nella sua originalissima ampiezza e complessità di pensiero. Fu capace come pochi di coniugare il rigore filosofico e scientifico di ispirazione demartiniana nella sua ricerca sul campo, specie quella di ambito meridionalistico.
L’evocazione letteraria, persino narrativa, che praticò in anticipo sui tempi, resta il tratto tipico della sua scrittura di antropologo.
Una ricerca, la sua, sempre ricca di sfumature e rimandi letterari. Soprattutto, sempre attenta ad esplorare con rigore i mondi di confine della cultura e della ragione.
Ernesto De Martino
La sua introduzione all’edizione Feltrinelli (1980) di Furore Simbolo Valore di Ernesto De Martino, resta un esempio insuperato di efficacia interpretativa e di sintesi tra scrittura saggistica e letteraria.
Uno sguardo prismatico che lui considerava indispensabile per non trasformare la missione di «partecipazione, umanizzazione e appaesamento» svolta dalle nuove scienze etno-antropologiche, in una sequenza arida di dati e statistiche da compilare in saggio accademico, o in dimostrazione fine a se stessa. La temperatura dei suoi scritti era sempre calda e vibrante, colta e appassionata, umanamente partecipe. Mai finalizzata alla dimostrazione per i soli addetti ai lavori.
Marxista coerente e meridionalista “contro”
Lombardi Satriani fu nemico allo stesso modo del «passatismo nostalgico» e del «progressismo di maniera».
Fu inoltre distante sia da un limitante «abbarbicamento all’orizzonte paesano» sia da «fughe in avanti e furori ideologici» che prescindono dalla realtà, «dalla vita concreta e attuale degli uomini e delle donne». Mise al centro la vita e la cultura delle classi subalterne e ridiede forza alla critica gramsciana quando in Italia già andavano di moda revisionismo storico e riflusso nelle culture di massa.
Antonio Gramsci
Rimase saldamente storicista e marxista critico mentre nel mondo accademico nostrano andavano di moda i “cultural studies” anglosassoni di seconda mano e in molti ambienti si affermava la vulgata strutturalista dell’Antropologia culturale.
Infine, non ha mai cessato di stigmatizzare la lamentosità e i sofismi di certo meridionalismo paludato e distante, gli eccessi di verbosità di un certo intellettualismo antropologico, oggi riproposto in versione modaiola. Pagine morte che “senza mai spostare in avanti l’orizzonte e lo sguardo problematico, ripropongono senza vie d’uscita concrete, vecchi stereotipi”, e non fanno altro, parole sue, che “attardarsi inutilmente in atavici attardamenti”.
Nessun erede all’altezza
«In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani», ha scritto in un suo bel ricordo su RepubblicaMarino Niola «è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini».
L’unico conforto quando si perde un maestro come lui è pensare che ha messo al primo posto l’impegno di testimoniare con la ricerca. E ha consegnato il suo magistero ai successori come un dono da preservare e arricchire. Ma cosa resta di questo alto magistero nel mondo accademico e nell’Università calabrese in cui ha insegnato per anni?
Purtroppo molto poco. Nessuno è stato alla sua altezza. Chi si è intestato la sua eredità culturale è accademica ha compiuto una mediocre parabola personalistica e di potere. Ciò ha impedito la crescita di un settore di studi che resta fondamentale per la comprensione critica della Calabria, del Meridione e del Paese.
Un restringimento localistico che nulla ha a che vedere con la lezione di probità scientifica e di libera ricerca intellettuale che in Luigi Maria Lombardi Satriani hanno sempre avuto un difensore e un simbolo di autonomia e coraggio.
Anche per questo la sua lezione resterà con me per sempre, e a mio modo la terrò viva onorando il suo magistero e la sua memoria come si conviene per un mastro, vero.
La dea Iride amerebbe come proprie creature le meraviglie variopinte che accolgono i visitatori. Da lei prendono il nome le iris (viola, gialle, rosa, ciclamino) che costeggiano il viale d’ingresso dell’Orto botanico dell’Università della Calabria, l’unico (riconosciuto) della regione. La fioritura a maggio è nel suo pieno, ma il caldo fuori stagione rende i petali già un poco vizzi, quasi a chiedere alla dea dell’arcobaleno di gonfiare di pioggia le nuvole. L’Orto botanico è uno scrigno che racchiude bellezza (in superficie), biodiversità, sapere scientifico, cultura del territorio (a un livello più profondo). È, anche, un laboratorio a cielo aperto, in cui le piante alimentano l’attività di ricerca e l’osservazione può portare a scoperte sorprendenti.
L’ingresso dell’Orto botanico di Cosenza
L’orto botanico e la tutela della biodiversità
«L’Orto botanico è stato fondato nel 1981 per conservare la biodiversità, tutta l’attività di ricerca e divulgazione è orientata in questo senso», spiega Nicodemo Passalacqua. Botanico, è referente scientifico della struttura che da fine 2021 rientra nel Sistema museale universitario, come parte del Museo di storia naturale della Calabria (Musnob). La missione è quella di tramandare alle generazioni future la vita vegetale e animale delle colline di Arcavacata di Rende, a due passi da Cosenza, in cui habitat poco modificati dagli umani convivono con terreni un tempo coltivati. «Qui sono state messe a dimora piante autoctone, spesso a rischio, per far conoscere ai calabresi le varietà del territorio». Ma ci sono anche specie provenienti da altri territori, alcune anche esotiche.
Il botanico Domenico Passalacqua, referente scientifico della struttura
Zona speciale di conservazione
Va bene la conoscenza, ma tutelare la biodiversità è necessario. Perderla significa contribuire all’insicurezza alimentare ed energetica, aumentare la vulnerabilità ai disastri naturali, diminuire il livello di salute della popolazione, ridurre la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverire le tradizioni culturali. L’Orto botanico, tra l’altro, è considerato zona speciale di conservazione dall’Unione europea, per la presenza di una pianta primitiva, la calamaria (Isoetes) e di due insetti, la falena euplagia, che abita tra gli arbusti ai margini del bosco e il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), un coleottero che vive nel legno morto.
Il fungo sconosciuto
La biodiversità si declina anche nelle circa trecento specie di funghi che qui sono state osservate. Tra queste, un piccolo fungo sconosciuto al mondo, lo Psathyrella cladii mariscii (dal nome botanico della pianta palustre alla cui base è spuntato). Il falasco (Cladium mariscus) era stato prelevato dalle rive del lago dell’Aquila, vicino Rosarno, e piantato vicino all’ingresso principale dell’Orto, tra un roseto e la vasca con le ninfee. Alcuni anni dopo, alla base dei fusti della pianta è spuntato il piccolo fungo con cappello marroncino, mai descritto e classificato fino a quel momento. La rivista scientifica MykoKeys ha pubblicato la scoperta nel 2019.
Le piante a rischio custodite nell’orto botanico
Il viale delle iris costeggia l’orto degli ulivi, con gli alberi da frutto, anche esotici, come il giuggiolo e il melograno, e il giardino roccioso mediterraneo, con le sue colorate varietà di valeriana. Peccato per i tabelloni usurati dal tempo e dalle intemperie, resi quasi illeggibili. Più in là c’è una delle piante più minacciate d’Italia, la Zelkova sicula. «In Sicilia ci sono solo un centinaio di individui, un singolo evento accidentale, come una frana o un incendio, – spiega Passalacqua – può provocarne l’estinzione. Così l’hanno riprodotta e mandata agli orti botanici per la conservazione ex situ». Nell’orto delle cerze (dal nome dialettale delle querce) c’è invece una quercia a rischio di estinzione in Calabria, la farnia (nome botanico Quercus robur). «Si trovava alla foce del Crati e del Neto e stava con le radici sempre nell’acqua. Ora questi habitat hanno subito molte trasformazioni».
L’arboreto dell’orto botanico all’Unical
L’arboreto della Calabria
Le farnie si trovano nella parte più recente dell’Orto botanico dell’Unical, l’arboreto della Calabria, che custodisce, insieme alla biodiversità, anche la cultura del luogo. «Le specie arboree costituiscono il paesaggio e il paesaggio è un aspetto culturale». Oltre alle querce, ci sono aceri, carpini, frassini, carrubi, sorbi. Accanto al laghetto artificiale, già a secco in questo anticipo d’estate, si stende il viale dei gelsi, le cui foglie si usavano per nutrire il baco da seta, il cosiddetto bombice da gelso. In Calabria la gelsicoltura ebbe la sua massima espansione nel XV secolo fino agli inizi del XX. Poi una grave malattia colpì gli allevamenti dei bachi. All’estremità del viale dei gelsi si trova la cibia, una vasca che un tempo i contadini creavano per avere a disposizione l’acqua per innaffiare l’orto. La superficie è completamente ricoperta dalla lenticchia d’acqua, una pianta che dà al liquido un aspetto vetroso. All’interno della cibia dimora il tritone, un piccolo anfibio a rischio estinzione.
La ricerca sul corbezzolo
Più in alto, nel bosco della collina di Monaci, uno dei tre boschi custoditi dall’Orto, si trovano i corbezzoli (Arbutus unedo). I suoi frutti rossi e commestibili e le foglie sono state oggetto di uno studio che ha condotto il dipartimento di Farmacia per verificare l’attività antiossidante e inibitoria di due enzimi (alfamilasi e alfaglucosidasi) per il trattamento del diabete di tipo 2. I risultati sono stati buoni e sono stati pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Antioxidants. Si tratta di studi in vitro, però, solo un primo step. Per proseguire lo studio ed effettuare le sperimentazioni sugli animali servono risorse ma anche l’interesse.
falasco
calamaria (isoetes)
il giardiniere Antonio
De Giuseppe e un bonsai d’ulivo
farnia
gelso
Servono più risorse per l’orto botanico
Più risorse ci vorrebbero anche per la manutenzione dell’Orto botanico. «Uno di queste dimensioni, oltre otto ettari, avrebbe bisogno di 15 giardinieri, noi ne abbiamo solo due», aggiunge Passalacqua. Di questi, Antonio De Giuseppe è giardiniere dell’Orto dei Bruzi da vent’anni, lo conosce come le sue tasche. Il suo lavoro gli permette di osservare come il clima sia cambiato negli ultimi tempi. «Ora le piante hanno bisogno di molta più acqua, persino l’ulivo soffre il troppo caldo. Sono aumentate anche le malattie delle piante. In particolare, si sta sviluppando la cocciniglia, un parassita che un tempo veniva distrutto dal freddo invernale».
L’arte del bonsai
De Giuseppe è anche istruttore nazionale di bonsai e ne realizza utilizzando piante calabresi: pini, ginepri, ulivi, mirti. «Noi bonsaisti recuperiamo piante rotte o morenti, cercando di imitare gli stili che esistono in natura». Ha fondato un’associazione, Shibumi, che promuove l’arte giapponese della coltivazione di alberi in vaso e svolge attività di educazione ambientale, in convenzione con l’Orto botanico. Ogni tanto l’associazione organizza eventi, esposizioni. Occasioni, anche, per stare insieme e condividere l’amore per la natura.
La dragontea o erba serpentona
Il fiore che sa di cadavere
E la natura sa essere sorprendente e straordinariamente complessa. Come nella dragontea o erba serpentona (Dracunculus vulgaris Schott), una pianta bellissima eppure velenosa che cresce nel bacino del Mediterraneo. Nell’Orto botanico si trova vicino una le due piccole serre, tra il bosco della sorgente e quello dell’amore. Si chiama così perché un tempo, quando l’Orto non era recintato, gli studenti andavano lì ad appartarsi. La dragontea ha un fiore incantevole eppure disgustoso, per il suo odore di carne in putrefazione. Tant’è che attira moltissimo le mosche. Queste entrano nel fiore e rimangono imprigionate da due corone di peli, imbrattandosi di polline. Una volta uscite, saranno le mosche a impollinare i fiori femminili. La vita ricomincia anche così.
«Il sindaco è sospeso, il presidente della Reggina è stato arrestato, il rettore si è dimesso, la nomina del Procuratore Capo della Repubblica è stata annullata. E a questo punto, anche il vescovo si guarda intorno preoccupato». Solo alla fine di questo piccolo viaggio sentimentale nelle pene di Reggio Calabria scoprirete dove ho ascoltato questa battuta.
Tempi duri per Reggio Calabria
Appartengo a quella categoria di reggini orgogliosi di esserlo, legato ai luoghi del cuore che sono di tutti: l’anfiteatro che una volta era il Cippo, il cinema Siracusa che non c’è più e ci hanno messo un fast food, le immense magnolie della via Marina. Ho quindi una certa resistenza a parlarne male, anche se i tempi sono disastrosi, e dal resto della Calabria un po’ sottovoce si guarda a Reggio con l’aria di chi dice: sempre loro.
Reggio Calabria, il cinema teatro Siracusa
Sempre quelli che hanno ancora in testa la Rivolta oltre cinquant’anni dopo – fieramente divisi fra storici della rivolta popolare e nostalgici dell’eversione nera – quelli che piangono/rimpiangono Italo Falcomatà che appena eletto disse: «Noi siamo scalzi», una indimenticabile serie A con la Reggina durata dieci anni, la gloriosa “Viola” dei canestri, il primo comune capoluogo di Provincia commissariato per infiltrazioni mafiose, alti e bassi che nemmeno le montagne russe, il deficit che non c’è più, i cumuli di rifiuti che ormai fanno parte del panorama. Ma in piazza – come è successo domenica – vanno i tifosi, vogliono salvare la serie B.
Quelle due foto guardano avanti
Meno di una settimana fa i giornali locali hanno pubblicato una foto che mi ha colpito: c’era un teatro strapieno, era stata convocata la Consulta della cultura. Fra le tante decisioni annunciate, quella di circondare il Museo archeologico se si avvieranno i lavori per la sistemazione di Piazza De Nava, voluti dalla Sovrintendenza (progetto peraltro interessante).
Una città che discute del suo futuro non è una città finita, anche se sindaco, rettore etc. Poi, un’altra foto: le file dei ragazzi in gita fuori dallo stesso Marc. Il 2022 è l’anno del Cinquantenario per i Bronzi, e non si può sbagliare. Chiedo solo, da cittadino, che le auto non passino davanti al Museo.
Il Museo archeologico di Reggio Calabria
Falcomatà e il suo Pd
Che succede a Reggio? Beh, tutta la città ne parla, come nel migliore dei programmi di Radio 3. Del sindaco Giuseppe Falcomatà, che si è chiuso nella Fondazione intitolata al padre, cerca di mettere su una biblioteca di testi sul Meridione, sperando che la legge Severino venga superata, o aspettando solo che il periodo di stop si concluda, dopo la condanna per la concessione del Miramare.
Intanto è andato alla Villa, insieme al suo Pd, a ricordare il 25 aprile. L’ex vicesindaco, Tonino Perna, sta per pubblicare un diario sulla sua esperienza in Comune, e sicuramente non sarà lieve sul funzionamento della macchina comunale. Il centrosinistra, tranquillo come una palestra di kick-boxing, cerca un rimbalzo di popolarità e di passione. Ma le sezioni sono chiuse.
Giuseppe Falcomatà, sospeso dopo la condanna per il caso “Miramare” – I Calabresi
Castronovo e Princi: due personaggi che non stanno a guardare
La cronaca cittadina gira spesso intorno a due personaggi che potrebbero avere un ruolo forte in futuro. Uno è Eduardo Lamberti Castronovo, già candidato con la sinistra strapazzato da Scopelliti. Imprenditore della sanità in una Regione che dà alla Sanità il 70 per cento del suo bilancio, editore in video e ora anche direttore di Rtv, membro del Cda del Conservatorio musicale, proprio lui ha organizzato la Consulta della Cultura ed è fortemente critico con il Comune.
Cannizzaro e Princi
L’altra è Giusy Princi, vicepresidente del consiglio regionale ma per la città soprattutto ex preside di un Liceo Scientifico con sezioni sperimentali, una eccellenza assoluta del territorio. La sua discesa in politica ha ricevuto critiche solo per una parentela: la dottoressa Princi è prima cugina del deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro, celebre per le sue promesse sull’aeroporto (a proposito, aggiungiamo lo scalo alla lista con sindaco, rettore etc) e per la sua idea di costruire un autodromo in zona. Anche la sinistra avrebbe candidato volentieri Princi.
Che giustizia è mai questa (dalla Procura al povero Palazzo)
L’ingresso Sud della città costeggia il torrente Calopinace: il visitatore si trova sulla destra il palazzo del Cedir, dove hanno sede uffici comunali e, all’ultimo piano, la procura della Repubblica. In questi giorni si consuma in quelle stanze una vicenda grottesca: dopo quattro anni, il Consiglio di Stato ha annullato la nomina a Procuratore Capo di Giovanni Bombardieri, che nel frattempo si è distinto per le inchieste sulla ‘ndrangheta e per una costante presenza nelle iniziative sociali e di solidarietà, senza mai eccedere nel protagonismo. Si spera adesso nella saggezza del Csm. Ma è di fronte al Palazzo del Cedir che prende ruggine il monumento alla burocrazia del subappalto, alle mafie dei lavori pubblici, ai ritardi dello Stato.
Il Palazzo di Giustizia incompiuto di Reggio Calabria – I Calabresi
La ministra Cartabia si è impegnata recentemente con il presidente della Corte d’Appello Luciano Gerardis, le cronache locali registrano ogni mese un “primo passo” (simile a tante “prime pietre”), un avviamento dell’iter, lo sblocco del contratto. Intanto è un immenso cantiere chiuso. La chiesa vicina si ritrova chiusa per le infiltrazioni dell’acqua che arriva da un parcheggio mai aperto, la “Mazzini” aspetta di tornare una scuola, ma nel frattempo va in rovina. Servirebbe anche qui un girotondo di protesta, solo che ci vorrebbero migliaia di persone.
Il Mausoleo ritrovato a Reggio Calabria
E quanto sia estenuante il capitolo dei lavori pubblici (magari Perna ne parlerà nel suo libro) lo dimostra la storia degli scavi davanti alla stazione Centrale. Nel 2016 scoprirono la base di un Mausoleo, databile alla prima metà del primo secolo, una costruzione di altissima qualità, senza eguali nella Reggio romana. Il professor Lorenzo Braccesi ritiene che possa essere il luogo della sepoltura di Giulia, figlia in esilio dell’imperatore Augusto, la segnalazione è dell’archeologo Daniele Castrizio. E sei anni dopo, evviva, il cantiere riapre.
Reggio Calabria, i guai dell’Università e il relitto della Casa
L’Università “Mediterranea” sta cercando di ripartire dopo un’inchiesta fotocopia di quelle che hanno colpito altri atenei. Con particolari grotteschi e un certo profumo di impunità, come se tutti sapessero già quello che stava per succedere. Noi a Rc non possiamo essere da meno, se il grande capo di Forza Italia in Sicilia chiama il rettore invocando protezione per il genero «bravo ragazzo, ma già bocciato sei volte allo stesso esame», come ha scritto il Domani nei giorni scorsi.
La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
Lo scandalo di Reggio provoca qualche guaio supplementare, visto che era in discussione la creazione del campus a Saline, nei pressi di due cattedrali nel deserto come laLiquichimica e le officine meccaniche. En passant, ricordo che ci sarebbe da demolire anche l’orrendo scheletro della Casa dello Studente, costruita nel greto di un torrente.
Detto questo, la “Mediterranea”, come Unical e Magna Graecia, si stacca – come ha testimoniato anche Svimez – dall’ultimità che la Calabria conserva (non orgogliosamente) in molti altri settori. Ha un buon Job placement e ricerche di livello internazionale. Difendiamola.
La ragnatela dei luoghi utili
Reggio può contare per fortuna su una grande rete di associazioni, che spesso suppliscono al welfare che non c’è. I centri di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, il lavoro di ActionAid nelle scuole. Di Ecolandia non posso parlare perché sono miei amici, ma il riuso di un immenso fortino ottocentesco in una zona così difficile è un atto di eroismo.
Invece conosco solo una o due persone del gruppo che ha trasformato la scalinata di via Giudecca da luogo sporco e malfamato allo spazio aperto dell’incontro, senza un euro ricevuto dal Comune. Poi scendi verso il mare e trovi le porte aperte di Open, dove vendono e pubblicano libri e la sera fanno anche sedute di “yoga della risata”. Altri luoghi, il teatro rimesso a nuovo del Dopolavoro Ferroviario, e l’associazione che gestisce invece la stazione di Santa Caterina.
Si parla poco delle realtà e associazioni legati ad Agape, le case-famiglia, i centri anti-violenza, dove operano persone che hanno avuto una vita romanzesca che non possono raccontare. La palazzina confiscata e ora ristrutturata in via Possidonea dove a pianterreno c’è un laboratorio di sartoria, la bottega del commercio equo e solidale di via Torrione. Il Consorzio Makramé e associazioni come Reggio non tace, la Fondazione Civitas.
La scalinata della Giudecca
E quando in questi giorni è stata annunciata la creazione di un nuovo comitato antiracket, il mio pensiero è andato a quella signora che aveva aperto intorno al 2017 in via Torrione un laboratorio-forno di grani antichi, di prodotti senza glutine. Glielo bruciarono, il Comune offrì un altro negozio. Andò avanti qualche mese, ora ci passo sempre e lo vedo chiuso. Però mi piace prendere l’aperitivo in quel locale in via San Francesco da Paola, poco oltre il Duomo, il cui proprietario ha denunciato un tentativo di estorsione.
Reggio è così, è fatta a macchie. Ci sono tanti circoli culturali di valore nazionale, il Touring club che adotta i paesi. C’è un Planetario a due passi dalla Regione, dove una prof di nome Angela Misiano forma studenti che poi vanno a vincere le Olimpiadi di Astronomia. Visitare, prego. C’è il Castello, solo che spesso è chiuso: l’edicolante/libraio fa da ufficio informazioni e ogni tanto ne parla su Fb, ma al Comune nessuno lo ascolta.
Ci sono piccoli e accoglienti locali dove si cerca di fare cultura come Cartoline Club, proprio lì ho sentito quella battuta sul vescovo e mi è sembrata molto indovinata, perché questa Reggio deve imparare a ridere dei suoi lamenti. E ritrovare la sana rabbia dell’impegno, buoni esempi non mancano.
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