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  • Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Mentre l’Italia è flagellata da fenomeni atmosferici eccezionali, figli del cambiamento climatico, certo, ma anche dalla mancanza di cura del territorio, in Parlamento va avanti spedito il cammino del Ponte sullo Stretto di Messina con l’approvazione anche in Senato del relativo decreto legge. Nel frattempo, a Villa San Giovanni il movimento NoPonte ha organizzato un illuminante incontro. A relazionare, il professore Domenico Gattuso, ordinario di Pianificazione dei trasporti presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Chiari e puntuali i rilievi sul progetto del Governo. Con un elemento decisivo in più: le proposte alternative, credibili e circostanziate, per un collegamento efficace tra le sponde dello Stretto. In conclusione, anche un’idea per coinvolgere nella scelta i cittadini delle comunità interessate.

    Sono quattro i punti focali delle conclusioni di Gattuso riguardo il Ponte sullo Stretto:

    1. l’idea è debole perché presenta diverse criticità dal punto di vista strutturale, ambientale, di sostenibilità finanziaria;
    2. non accorcia i tempi di percorrenza del braccio di mare;
    3. la spesa da affrontare non rende vantaggioso per l’utenza il passaggio tra le due sponde;
    4. sarebbe invece molto più efficace, per i tempi e i costi di implementazione, rafforzare e arricchire il transito via mare.

    Ponte sullo Stretto: i rilievi di Gattuso

    Partiamo dai rilievi. Il progetto è vecchio (del 2011) e infatti non risponde alla normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. Né è dimostrata la sostenibilità dell’opera in relazione alla valutazione degli impatti dettata dall’UE di recente sul PNRR.
    Per quanto concerne l’investimento da effettuare, si quantificava nel 2021 in 6 miliardi di euro, nel DEF appena approvato lievita a 14,6 miliardi (13,5 + 1,1 per le opere ferroviarie annesse). Costi per i quali, si specifica nel documento, non sono stanziati fondi e neanche il PNRR prevede nulla.

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    Il professor Domenico Gattuso

    Il professor Gattuso sottolinea che i paragoni tra il Ponte sullo Stretto e altre opere simili già realizzate sono improponibili. È necessario, infatti, considerare alcune variabili fondamentali:

    • a) lunghezza;
    • b) larghezza e struttura dell’impalcato;
    • c) dimensioni e distanza tra i piloni;
    • d) profondità dei fondali;
    • e) presenza di rischi geologici, azioni del vento e di sismi, ecc.

    Le dimensioni contano

    I ponti a campata unica (come quello sullo Stretto) più lunghi al mondo sono il Çanakkale Bridge, in Turchia, di 2.023 metri e terminato nel 2022, e l’Akashi Kaikyō , in Giappone, di 1.991 metri e finito nel 1998. Ma c’è di più: quello ipotizzato in Italia prevede passaggio di traffico in gomma e ferroviario. Uno simile sta in Cina, il Tsing Ma, ed è lungo 1 km e 400 metri, non 3 km e 300 metri come il Ponte sullo Stretto.

    Altri problemi sono legati al progetto stesso, che non è adeguato alle nuove norme europee venute dopo il 2010. Quello definitivo, poi, manca del tutto.
    Restano numerose incognite da chiarire. Concernono forma e dimensione dell’impalcato, nonché l’altezza dal mare, prevista in 65 metri. Sarà sufficiente per il passaggio di navi da crociera e porta container o dovranno circumnavigare la Sicilia? Con quali costi? L’attracco a Gioia Tauro sarà ancora conveniente?ponte-stretto-gattuso

    Per i piloni si prevede un’altezza di 400 metri, mai vista prima, e strutture di ancoraggio gigantesche. Piazzare i giganteschi piloni richiederà un enorme movimento terra. Dove la collocheranno? In fondo al mare, devastando uno dei fondali più belli e ricchi di biodiversità al mondo?
    C’è un altro dettaglio che i cittadini di tutta l’area dovrebbero considerare, perché forse pensano di salire sul treno a Reggio, Villa o Messina e in un baleno essere dall’altra parte. Per raggiungere i 70 metri di altezza del Ponte sullo Stretto occorrono almeno 25 km per la ferrovia, spiega Gattuso, perché è prevista una pendenza massima del 3/1000. Quindi, raccordi a 25 km, non sotto casa.

    L’impatto ambientale e le novità del PNRR

    Veniamo all’impatto ambientale e alla sua valutazione. Le norme approvate per il PNRR prevedono 6 nuovi criteri, oltre a quelli in vigore in precedenza (teniamo presente che il vecchio progetto non ha mai superato la verifica d’impatto ambientale).
    Ecco i 6 criteri inseriti di recente:

    1. Investimenti volti alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
    2. Interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici;
    3. Interventi a favore di un uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
    4. Transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche alla riduzione dei rifiuti;
    5. Azioni per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo;
    6. Azioni per la prevenzione e ripristino della biodiversità e della salute degli ecosistemi.

    Il traffico sullo Stretto e il no di Gattuso al ponte

    Se consideriamo invece l’efficacia dell’opera, per il trasporto di persone vediamo quali sono i flussi di attraversamento.
    Quindici anni fa, il grado di saturazione del trasporto era appena del 15-20% nelle ore di punta. Probabilmente oggi sarebbe ancora peggio, dato il trend decrescente di traffico sullo Stretto. Tra il 1995 (fonte MIMS) ed oggi, si sono persi 3,4 milioni di passeggeri all’anno (-25%: da 13,4 a 10,0 Mn) e 1 di veicoli (-35,7%; da 2,8 a 1,8 Mn), soprattutto a beneficio degli aeroporti siciliani, passati nel decennio 2009-2019 da 11,3 a 18,0 milioni all’anno. Anche il traffico merci è in calo: meno 100mila camion (-11,1% dal 1995; da 900 mila a 800 mila), mentre è cresciuto molto il traffico via mare (con navi Ro-Ro): +23,4% su Palermo e +13,1% su Catania, solo negli ultimi cinque anni.

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    La Alf Pollack

    In sostanza, una componente significativa di traffico merci ha preferito il mare al percorso “stradale” passante per lo Stretto. Gli stessi operatori privati hanno attivato servizi marittimi sulla direttrice Sicilia-Campania, più vantaggiosi sia per le imprese che per gli autotrasportatori.
    E sono entrate in gioco navi a media e lunga percorrenza (Sicilia – Centro-Nord): la Superspeed 1, costruita in Danimarca, la Passenger/Ro-Ro, infine la Alf Pollak, nuova nave Ro-Ro – la più grande del Mediterraneo, costruita in Germania e consegnata al gruppo armatoriale italiano Onorato – con una capacità di trasporto di oltre 4.200 metri lineari.

    Pendolari e pedaggi

    Come andranno invece le cose per i pendolari Reggio-Villa verso Messina e viceversa? In termini di tempo non si avrebbe alcun beneficio: dal centro di Reggio a quello di Messina 45 minuti, non dissimile da quello con gli attuali catamarani. In più, evidenzia Gattuso, attraversare il Ponte sullo Stretto non sarebbe gratuito. Il pedaggio sarebbe almeno pari a quello attuale in nave: 40-50 € per un’auto, 160- 180 € per un pullman, 70-150 € per un camion, 460-750 € per un mezzo infiammabile.
    Gattuso sottolinea inoltre il rischio che il ponte possa allontanare le città dello Stretto dai traffici nazionali, agendo da tangenziale per i traffici di attraversamento con la marginalizzazione di Reggio e Messina.

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    Imbarcaderi a Messina

    Veniamo agli aspetti economico-finanziari. Il costo del ponte è oggi di 14,6 miliardi di euro, e non si sa nulla, tra l’altro, dei futuri costi di manutenzione. Non esiste project financing. L’investimento è a carico della collettività, con ricavi gestiti da privati in concessione. Bisognerebbe attualizzare gli indicatori economico-finanziari in termini di dati di ingresso (flussi decrescenti e costi crescenti). Atteso un peggioramento degli indici che già erano inconsistenti nel 2012. Le valutazioni dovrebbero seguire le procedure attualizzate dal Manuale UE che la Commissione ha elaborato nel 2014.
    Ai privati interesserebbero la gestione per il profitto che può determinarsi solo con pedaggi elevatissimi, altrimenti tutto cadrà sulle spalle dei cittadini italiani.

    Infrastrutture, crescita, ambiente e sicurezza

    E la vulgata secondo cui il ponte sullo Stretto «rappresenta un volano di crescita economica e sociale per la Sicilia e la Calabria»? Gattuso afferma che la più recente letteratura economica è pressoché concorde nel sostenere come non vi sia un nesso causale tra investimenti in infrastrutture di trasporto e crescita. Ciò non è avvenuto con l’alta velocità e uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Salerno–Reggio Calabria non ha avuto effetti sul PIL della Calabria.

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Per quanto concerne i costi esterni, la Via del mare è preferibile alla strada. ALIS, in uno studio del 2001, ha stimato che grazie ai servizi Ro-Ro e alle Autostrade del mare, sono stati eliminati dalle strade, in Italia, circa 1,7 milioni di mezzi pesanti. Quindi 47,2 milioni di merci sono state spostate sulle rotte marittime, abbattendo 2 milioni di tonnellate di CO₂. Il vantaggio economico per l’ambiente è stato stimato in 1,5 Md €. A questo si aggiunge una riduzione dell’incidentalità su strada, del rumore da traffico e del carburante consumato. Inoltre, le navi in costruzione oggi sono assai meno inquinanti rispetto al passato.

    Notevoli i rischi per il ponte se si parla di safety & security. Numerosi i problemi di safety: la circolazione dei veicoli in una carreggiata a 6 corsie in rettifilo, con scarso traffico, produrrà velocità elevate; intensità del vento e spinta laterale; oscillazioni possibili date le dimensioni di sezione trasversale; azioni sismiche imprevedibili; eruzioni vulcaniche e polveri; esplosione di veicoli con merci pericolose (vedi Bologna, 2018); omessa manutenzione (vedi ponte Morandi, 2018). Quanto alla security, sussisterebbero rischi di attentati (vedi Crimea nel 2022).

    L’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto

    Ecco invece l’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto, in poche mosse, in tempi rapidi e a costi di gran lunga inferiori.
    Innanzitutto, serve una flotta navale ben strutturata e dimensionata. Un traghetto a doppio portellone (come quelli attualmente in servizio) costa circa 50-60 milioni di euro, un catamarano da 250 posti circa 8-10. Inoltre su un traghetto dotato di binari può trovare posto un intero treno regionale senza necessità di scomporlo. Per una flotta di 20 traghetti e 10 catamarani sono necessari 1,2 miliardi di euro.

    Poi, il riassetto dei servizi marittimi sullo Stretto. Con un utilizzo combinato nave-treno per servizi locali-regionali avremmo traghetti catamarani per servizi passeggeri a maggiore frequenza.
    Infine, l’integrazione dei servizi di trasporto pubblico sulle due sponde. Da Messina Centro a Reggio Calabria Centro, con approdi adeguati e potenziati e stazioni marittime distribuite sulle due coste, in tutta l’Area metropolitana dello Stretto.aliscafo-ponte-strettp-gattuso

    Per ottimizzare l’impiego delle risorse bisogna raffrontare i costi, che fanno pendere nettamente la bilancia per il trasporto pubblico mediante treno, metropolitana, autobus, navi di ultima generazione. Solo per avere un’idea, 1 km di TAV costa 40-50 milioni di euro, 1 km di ferrovia a doppio binario elettrificato10-15 milioni. Un km di ponte sullo Stretto? 3 miliardi di euro!
    Per le tariffe per gli utenti serve considerare la distanza tra le due sponde e la necessità di instaurare una vera continuità territoriale, che non è effettiva se il costo del pedaggio, di qualsiasi genere, è quello attuale. Occorre quindi calcolare le tariffe da applicare come quelle dell’autostrada, cioè a 20 centesimi al km. E quindi: 2 € a persona, 4 € ad auto, 15 € a camion.

    Prima il dibattito (vero), poi il referendum

    La domanda finale che pone Gattuso richiede un cambio di prospettiva: «Serve una sola grande opera costosa e di dubbia utilità e fattibilità o è preferibile un insieme diffuso di opere e servizi abbordabili, utili e fattibili?».
    Una domanda retorica, per chi non ha pregiudiziali o interessi di altro genere. E a rispondere dovrebbero essere i cittadini interessati delle due sponde con un referendum, come reclama il professore.
    Una consultazione cui deve precedere un dibattito vero e diffuso. Approfondito, basato sui dati, sulle informazioni, non sul tifo da stadio o sull’ideologia.

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

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    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

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    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

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    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • Fondazione Lilli, l’amore per la ricerca e la grande fede di Natuzza

    Fondazione Lilli, l’amore per la ricerca e la grande fede di Natuzza

    Michele Funaro ha degli occhi che sanno parlare e una voce limpida. Racconta con sintesi puntuale (del resto è un ingegnere, ma con un taglio umanistico) i 19 anni di attività della Fondazione che porta il nome di Lilli, sua sorella. Scomparsa troppo presto. La famiglia ha trasformato questa grande perdita in un grande dono per le persone che lottano contro il cancro.
    Michele è il portavoce. «Ma il vero motore della fondazione sono le mie sorelle Maria Pia e Checca» -dice.

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    Da sinistra i fratelli Maria Pia, Michele e Francesca “Checca” Funaro

    In 19 anni sono stati devoluti 200mila euro in progetti di ricerca e borse di studio. «Partecipano prioritariamente i ricercatori dell’Unical ma anche della Magna Graecia di Catanzaro, qualcuno viene anche da fuori» – sostiene Michele Funaro.
    La Fondazione continua ad essere anche sportello informativo. Tante persone che si trovano ad essere spiazzate dinnanzi a una diagnosi del genere, chiedono informazioni per sapere come potere affrontare i diversi percorsi.
    Il convegno scientifico condensa gli sforzi di un anno intero. A giugno verranno – come di consueto – relatori del territorio e altri da fuori: dal policlinico Gemelli di Roma, dall’ospedale di Bologna. Sono in programma lectio magistralis per medici, infermieri, fisioterapisti.

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    L’Università della Calabria

    Intanto oggi c’è pure Medicina all’Unical. Sul punto dice: «Noi ci auguriamo che cresca sempre di più. In un certo senso l’abbiamo stimolata. Con l’assegnazione delle borse di studio ci siamo resi conto che tanti bravi ricercatori sono presenti anche qui, come biologi, chimici, alcuni nel settore farmaceutico. L’Ateneo di Cosenza è una realtà fertile».

    Musica e ricerca, le due anime di Lilli

    La Fondazione articola le sue attività sulla base di due aspetti importanti della vita di Lilli. Il tradizionale concerto di agosto – che finanzia larga parte dei progetti – rappresenta la sua anima gioviale e la grande passione per la musica. Da Pino Daniele, il suo preferito, fino a De Gregori e Bennato. L’altra anima di Lilli era quella della studentessa di Medicina, quindi amante della scienza. Ecco spiegato il senso del convegno annuale.
    Da futuro camice bianco lei sapeva perfettamente cosa stesse affrontando. Al contempo aveva il grande dono della fede.
    Una fede mai ostentata. E legata a Natuzza Evolo, la mistica di Paravati. «Molto spesso c’era una nuova cura sperimentale – racconta Michele -. Lei non ci credeva molto. Quasi casualmente arrivava a casa la telefonata di Natuzza. Parlava con Lilli per un quarto d’ora al telefono. Lilli usciva da quella stanza e diceva: sono convinta, partiamo».

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    Natuzza Evolo, la mistica di Paravati

    «Ho visto Lilli entrare in Paradiso»

    Chiaramente è un aspetto personale, però poi ha caratterizzato i primi anni di attività della Fondazione fino allo stop inevitabile imposto dalla pandemia. «Ogni anno, il 2 luglio, noi organizzavamo diversi pullman – ricorda Michele – da Cosenza a Paravati. Per ascoltare una messa. Una messa speciale. In alcuni frangenti i pullman sono arrivati a sette».
    Perché il 2 luglio? «Lilli muore a febbraio, a giugno ci chiama padre Michele insieme a Natuzza. Che disse di andare a Paravati per una Messa in Gloria il 2 luglio. Natuzza aveva avuto una visione: Lilli che entra in Paradiso. Rappresentata poi dalle vetrate che stanno nella Chiesa di Sant’Aniello a Cosenza. Noi ogni anno ricordiamo questo passaggio. Ultimamente lo facciamo con una Messa a Sant’Aniello. Dopo la Pandemia non abbiamo più organizzato i pullman».

    La colazione per gli ambulanti della Fiera

    Il pranzo della solidarietà era partito prima che il Covid imponesse nuove abitudini sociali. È ripartito quest’anno, una domenica al mese nella chiesa di Sant’Aniello. Un pranzo per chi è solo, non solo per chi ha bisogno. L’ultima di volontariato è stata una colazione offerta agli ambulanti della Fiera di San Giuseppe. «Abbiamo percorso questo chilometro e mezzo di fiera ogni mattina – spiega Michele Funaro – con l’aiuto di bar che ci hanno supportato, volontari che preparavano ciambelle e dolci, tè e latte caldo. Dare un buongiorno a chi porta colore alla nostra città ci sembrava un piccolo gesto da fare».

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    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Una rete del terzo settore

    La Fondazione Lilli si muove insieme ad altre esperienze del terzo settore. Per esempio Hasta cuanto podemos. un progetto nato prima della pandemia con la famosa asta delle maglie di calcio organizzata da Daniele e Federica Piraino. «Noi abbiamo sostenuto questa iniziativa a inizio anno con l’asta delle magliette. Fondi utilizzati poi per donare una piccola biblioteca all’ospedale civile dell’Annunziata». E «Collaboriamo con il Moci di Gianfranco Sangermano».
    In passato «abbiamo fatto cose anche con la Terra di Piero. Ci chiesero di ricordare Lilli. Infatti c’è un angolo del Parco Piero Romeo dedicato proprio a lei».

     

     

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    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.

  • I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    Già da diverso tempo l’Università della Calabria figura nelle posizioni di vertice della graduatoria mondiale della computer science e dell’intelligenza artificiale.
    Un risultato straordinario. Ancora di più se si pensi, solo per un attimo, che in Calabria per avere un’Università abbiamo dovuto attendere sino al 1970. Giusto per avere un’idea: ben 9 secoli di ritardo rispetto a Bologna (1088), più di 7 secoli rispetto a Napoli (1224), più di 5 secoli rispetto a Catania (1434).
    Un’eternità sul piano dello sviluppo sociale ed economico.

    Un record inaspettato

    La domanda è intrigante: com’è stato possibile scalare in soli 50 anni la classifica mondiale in settori così strutturati e trasversali come la computer science e l’intelligenza artificiale?
    A dispetto della sempiterna narrazione della Calabria miserabile e dei soldi pubblici sprecati in opere e attività inutili, l’eccellenza calabrese nella computer science e nell’intelligenza artificiale ha invece una storia bellissima di visione strategica e di creazione di capitale umano in aree fortemente svantaggiate.

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    Intelligenza artificiale e Computer science: i due primati dell’Unical

    Sergio De Julio: un pioniere a via Bernini

    Tutto iniziò in un luminoso appartamento di via Bernini 5, a Rende. Lì uno scienziato visionario e certamente un po’ folle, date le condizioni di partenza e l’assoluta inconsistenza del tessuto formativo, il prof Sergio De Julio, decise di creare il Crai (Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni in Informatica), insieme a partner istituzionali e privati altrettanto visionari.
    Fu uno dei primi casi di virtuosa collaborazione pubblico-privato sostenuta da finanziamento pubblico (il famigerato intervento straordinario) che investì sulla formazione di qualità (oggi si dice d’eccellenza, ma la sostanza non cambia) nell’informatica, che stava mostrando già allora i segni della sua implacabile trasversalità nel futuro delle tecnologie di produzione e in quelle della società nella sua più ampia accezione. De Julio ha avuto il merito di intuire 50 anni fa questa transizione digitale (altro che Pnrr) e di investire sulla formazione di giovani calabresi.

    Un miracolo calabrese

    Io, che ho avuto la fortuna di frequentare (in verità per pochi mesi, prima di partire per gli Stati Uniti) via Bernini e poi la villetta di via Modigliani, sono stato testimone di questo miracolo calabrese.
    Se provo oggi con la mente a ripercorrere quegli ambienti e quel clima di serietà, di rigore scientifico ma anche di straordinaria amicizia e umanità, rivedo in quelle stanze piene di computer tanti giovanissimi ricercatori dalle barbe incolte e dagli occhi pieni di entusiasmo e di lucida follia. Tanti ricercatori esteri.
    Chi partiva per la California, chi tornava da Vienna, chi pianificava il suo Phd a Berkley: insomma. era un ambiente esplosivo, assolutamente inedito per una Calabria abituata alle sonnolente domeniche in tv con Pippo Baudo e la guantiera di dolci da portare a casa della fidanzata. Ben altri ritmi e rituali.

    L’area di ingegneria dell’Unical

    I ragazzini terribili di Sergio De Julio

    Erano loro, i ragazzini terribili di Sergio De Julio, quelli che avrebbero segnato indelebilmente il successo mondiale dell’Unical nei settori dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.
    Provate a leggere i curricula di autorità scientifiche mondiali del calibro di Nicola Leone (attuale rettore dell’Università della Calabria), Manlio Gaudioso, Domenico Saccà, Domenico Talia, Pasquale Rullo, Sergio Greco, Giuseppe Paletta e chiedo scusa ai tantissimi altri che, colpevolmente, dimentico in questa sede.
    Troverete orgogliosamente citate, nelle righe dei loro esordi professionali, le esperienze maturate nel Crai insieme al professor De Julio, lucido e folle visionario.
    Un primato da difendere

    Perché quest’amarcord, vi chiederete. Domanda legittima. Perché è bene che le nuove generazioni di studenti che affollano le aule di informatica dell’Unical conoscano e apprezzino il capolavoro che è stato realizzato in Calabria. Che difendano il Dna di questo miracolo calabrese. Perché non ci si abitui al titolo di campioni del mondo e che continuino ad onorare la storia di questi, ormai ex, ragazzini terribili che hanno fatto la differenza in un’unità di tempo assolutamente breve e incredibile.
    Nella speranza, magari, di creare un nuovo nucleo di ragazzini terribili pronti a cogliere, affrontare e vincere le sfide del prossimo secolo.
    In Calabria, sissignore. Proprio dall’Università della Calabria. La nostra Università.

  • Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    Bianca, donna, cristiana: ma è Giorgia oppure la migrazione?

    «Ogni migrazione è un fenomeno che richiede risorse economiche, sociali e culturali, pertanto non tutti possono partire». Le parole di Maria Francesca D’Agostino, sociologa Unical che si occupa di migrazioni e cittadinanza globale, costringono a rivolgere uno sguardo più attento verso il fenomeno migratorio. Uno sforzo ancor più necessario adesso che il clamore mediatico ed emotivo riguardo la tragedia di Cutro si sta spegnendo, malgrado il mare continui a restituire corpi dei migranti naufragati.

    Una piccolissima parte di umanità

    «Chi riesce a partire – spiega Maria Francesca D’Agostino – rappresenta una piccolissima parte di quella umanità che avrebbe motivo di scappare». La domanda che l’Occidente e l’Italia devono porsi non deve riguardare il come gestire questi flussi. Ma, paradossalmente, perché siano così pochi quelli che arrivano, considerata la diffusione su scala globale di conflitti nuovi e vecchi e ingiustizia sociale.

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    Maria Francesca D’Agostino (Unical)

    «Se guardiamo le situazioni di conflitto – prosegue la studiosa – vediamo come questi non generino esodi, ma sfollamenti all’interno del paese in guerra. A poter scappare da luoghi di insicurezza sono generalmente appartenenti ai ceti medi, mentre i flussi migratori causati dalla povertà, spingono per esempio i contadini verso i margini delle megalopoli».

    La migrazione è una scommessa

    Va da sé che per scappare in quel modo si deve essere disperati. Tuttavia anche in questo emerge una sorta di stratificazione che marca le disuguaglianze.
    Per poter provare a sottrarsi all’orrore occorre avere le risorse necessarie, nel caso dei migranti di Cutro migliaia di euro.
    Perché mai attraversare il Mediterraneo affrontando tanti pericoli pur disponendo di adeguate risorse economiche allora? La risposta è da cercarsi nelle severe normative che sostanzialmente negano canali legali d’ingresso nel nostro Paese. La partenza è una crudele scommessa dove ci si gioca tutto quel che si ha, compresa la vita stessa, per provare a fuggire dal luogo dove non si può più stare.

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    Fiori sulla spiaggia della tragedia a Steccato di Cutro (foto Gianfranco Donadio)

    Migranti economici e rifugiati politici

    Ma da dove ha origine la chiusura sistematica che l’Occidente ha praticato verso i flussi migratori? Essenzialmente dalla distinzione, spesso arbitraria, tra migranti economici e rifugiati politici. L’ingresso dei primi ingresso era legato alle esigenze produttive dell’Europa; gli altri erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra, che prevedeva l’obbligo di accoglierli.

     

    Conclusa la Guerra fredda, si è scelto di tenere lontani anche i richiedenti asilo. Che così sono finiti confinati in campi profughi nei pressi dei luoghi di conflitto, con l’alibi di dare priorità al loro teorico rimpatrio a conclusione dei conflitti. «In realtà non si è quasi mai stati capaci di garantire loro il ritorno a casa per via del perdurare di conflitti. Ci si è limitati a parcheggiare enormi numeri di persone in luoghi di confinamento umanitario e periferizzazione sociale in aree di degrado totale», racconta Maria Francesca D’Agostino.

    Il grande inganno: la migrazione bianca, donna e cristiana

    Attorno al fenomeno complesso delle migrazioni è stato costruito con meticolosa pazienza e notevole efficacia un grande inganno. La convergenza di diversi interessi ha dato vita a una sorta di distorsione cognitiva collettiva. E così si è generalmente persuasi che la fortezza Europa e la trincea Italia siano sotto assedio e minacciati da un imponente esodo proveniente dall’Africa sub sahariana. «Se guardiamo i flussi migratori – spiega D’Agostino –  scopriamo che solo una piccola parte è rappresentata da rifugiati politici provenienti a Paesi dilaniati da conflitti. La maggioranza viene dall’Est Europa».

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    Donne dell’Est in cerca di un impiego

    Insomma: la migrazione che guarda all’Italia è bianca, cristiana e femminile. Dovrebbe essere maggiormente rassicurante, rispetto allo spauracchio costruito attorno all’uomo nero. Invece le dinamiche di respingimento, pregiudizio e razzismo restano intatte. È sempre la sociologa dell’Unical a spiegare che si tratta di donne provenienti dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Bulgaria. Devono affrontare situazioni analoghe ad altre forme di migrazioni, cioè sfruttamento lavorativo, disagio abitativo, impoverimento e marginalizzazione.

    Alla Piana dell’Est

    Condizioni che pure noi meridionali abbiamo conosciuto quando ad emigrare eravamo noi, «perché siamo tutti vittime di processi di sviluppo che producono disuguaglianze sociali. Anche sulle donne dell’Est Europa si riversa l’effetto delle politiche criminalizzanti che generano effetti di violenza razzista».

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    La Piana di Sant’Eufemia vista da Sud

    In Calabria, nella Piana di Sant’Eufemia per esempio, l’intero settore agricolo si basa sulla presenza delle donne dell’Est. Non basta loro avere un documento di soggiorno in regola, oppure essere cittadine europee per non essere trattate come minoranze non nazionali e dunque per scampare a forme di razzismo. Perché agli occhi di troppi italiani lo straniero resta un invasore e un abusivo.

  • Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Lo smemorato Occhiuto e quel Da Vinci a Reggio

    Roberto Occhiuto come Saverio Cotticelli? Tra il nuovo commissario alla Sanità (nonché presidente della Regione) e il vecchio qualcosa in comune sembrerebbe esserci: la memoria.

    Quella del generale dei Carabinieri era proverbiale e lo ha reso celebre in tutta Italia: aveva dimenticato di guidare lui la Sanità durante il Covid e di dovere, per questo, redigere un piano su come affrontare la pandemia. I primi, vaghi, ricordi erano riaffiorati soltanto in un’epica intervista della Rai, coprotagonista un fantomatico usciere mai inquadrato. Cose che capitano. Giorni dopo, sempre in tv, Cotticelli per giustificarsi avanzò un’ipotesi stupefacente: qualcuno poteva averlo drogato a sua insaputa per confondergli la mente. Promise anche di indagare su se stesso e pare che l’autoinchiesta si sia conclusa senza rinvii a giudizio.

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    Lo stupore di Saverio Cotticelli per il dettaglio dimenticato

    Occhiuto, favorito anche da un’età inferiore rispetto al predecessore, vuoti di memoria di tale portata ancora non ne ha avuti per fortuna. Né, siamo certi, chiamerebbe in causa misteriosi pusher invisibili come ninja per giustificare i suoi. L’ultimo è arrivato proprio nelle scorse ore. E dietro pare esserci, più che una sostanza psicotropa, un morbo che, prima o poi, colpisce chiunque in politica: l’annuncite.

    Occhiuto e il robot Da Vinci dell’Unical…

    Il presidente Occhiuto aveva lasciato la Cittadella per celebrare l’arrivo del robot Da Vinci all’Annunziata grazie anche alla neoistituita facoltà di Medicina dell’Università della Calabria. Giusto esserci, visto che si tratta di «un investimento realizzato dall’Unical, con risorse messe a disposizione dalla Regione». L’apparecchio, d’altra parte, permetterà senza dubbio di «qualificare l’offerta sanitaria della nostra Regione e abbiamo bisogno che i saperi delle università contaminino l’intero sistema sanitario».

    Ma è proprio quando il clima è di festa che il virus dell’annuncite si insinua nei corpi delle sue vittime prendendo il controllo dei loro ricordi e annebbiandoli. E l’entusiasmo intorno al Da Vinci non ha lasciato scampo ad Occhiuto. «L’installazione di questo robot – ha sottolineato ormai preda del morbo – dà la possibilità al sistema sanitario regionale di offrire gli stessi servizi garantiti in altre Regioni. Finora chi doveva subire un intervento alla prostata era costretto ad andare fuori dalla Calabria, proprio perché il nostro sistema sanitario era sprovvisto di questo robot che ormai è ordinariamente utilizzato sia per questo tipo di interventi ma anche per altri che riguardano, ad esempio, la chirurgia toracica, oncologica o ginecologica».

    Al Gom dal 2016

    Il robot Da Vinci, però, tutto è meno che una novità per la Sanità calabrese e Occhiuto dovrebbe saperlo. Esiste e lo usano da diversi anni con successo al GOM di Reggio Calabria. Si parla di una delle eccellenze del disastrato sistema sanitario della regione, abbastanza poche da non poter sfuggire a chi lo governa.

    In una lunga e interessante intervista del giugno 2018 su Strill.it l’urologo Pietro Cozzupoli raccontava quanto Da Vinci fosse stato utile all’ospedale da quando – a novembre del 2016 – era entrato in servizio. Funziona così bene che ad operarsi a Reggio arrivano anche da fuori della Calabria. Lo ha fatto tempo fa finanche il cardinale Robert Sarah, pur non mancando al Vaticano strutture verso cui indirizzarlo. E, proprio nei giorni scorsi, il Corriere della Calabria ha riportato la notizia di un intervento chirurgico in urologia robotica al Gom che ha salvato la vita di un paziente oncologico guineano arrivato fino a Reggio per operarsi con il Da Vinci.

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    Pietro Cozzupoli (foto CityNow.it)

    «Nella nostra struttura – spiegava il dottor Cozzupoli cinque anni faesistono già due equipe formate da quattro, cinque urologi in grado di eseguire interventi robotici e una equipe infermieristica con competenze multidisciplinari. Non solo, esistono già due altre equipe chirurgiche, di chirurgia generale e di ginecologia, che operano con il robot da Vinci. Perché il nostro robot è multidisciplinare, lavora su varie specialità».
    Ma quando il virus dell’annuncite è entrato in un organismo, non c’è chirurgo o robot che possa rimuoverlo.

  • Frank Gambale e  il grande jazz al Tau dell’Unical

    Frank Gambale e il grande jazz al Tau dell’Unical

    Ci sono un australiano, due francesi e un ungherese. Ma, soprattutto, c’è la grande musica in programma domenica 2 aprile alle 21 nel Tau dell’Unical. Il teatro dell’Università della Calabria ospiterà, infatti, il quartetto di Frank Gambale. Ossia un autentico mostro sacro del jazz contemporaneo.

    Frank Gambale e non solo: il resto del quartetto

    Non che i tre insieme a lui siano da meno. Ad accompagnare il chitarrista di Canberra ci saranno musicisti di indiscutibile talento e caratura internazionale. Primo tra tutti Hadrian Feraud, bassista francese che un genio come John McLaughin – col quale ha lavorato in passato – reputa una sorta di reincarnazione del mito di ogni bassista degno di questo nome: Jaco Pastorius. Detterà insieme a lui il ritmo un altro grandissimo: il batterista Gergo Borlai, che in carriera si è esibito, tra i tanti, con musicisti del calibro di Terry Bozzio, Scott Henderson e Al Di Meola. Dulcis in fundo, spazio alle tastiere per Jerry Lionide, uno che è salito per ben due volte – una sul gradino più alto – sul podio dei migliori pianisti del celeberrimo Montreal Jazz Festival.

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    Il Frank Gambale Quartet

    Un modello per i più grandi

    La star del concerto al Tau, però, non può che essere Frank Gambale. Basterebbe citare quello che dicono di lui artisti come il compianto (e un po’ calabrese) Chick Corea: «Tutto ciò che tocca con la sua chitarra diventa oro, lo è sempre stato. Frank è il mio chitarrista preferito». Oppure l’opinione di divinità delle sei corde come Pat Metheny: «Mi piacerebbe prendermi un mese di pausa e studiare con Frank Gambale». L’australiano, infatti, ha letteralmente inventato e dato il suo nome a un nuovo modo di usare il plettro e suonare la chitarra: la Gambale Sweep Picking Technique. Una piccola grande rivoluzione che ne ha fatto un esempio da seguire anche per un figlio d’arte come Dweezil Zappa: «Studiare la tecnica Sweep Picking di Frank Gambale mi ha permesso di suonare le parti più difficili della musica di mio padre che lui stesso non suonò».

    Frank Gambale al Tau dell’Unical

    Dagli anni ’80 ad oggi Frank Gambale ha pubblicato oltre 300 canzoni e una ventina abbondante di album, tutti con quello stile che Rolling Stone – la bibbia del rock, più o meno – ha definito «feroce» per intensità. Nella sua musica hanno trovato spazio il jazz e il rock, con incursioni nel funk e il rythm&blues e contaminazioni che richiamano sonorità latine e brasiliane. Un artista a tutto tondo, insomma, che con i suoi virtuosismi alla chitarra ha scritto pagine importanti e portato un vento di freschezza nella scena jazz (e non solo) degli ultimi decenni.

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    L’interno del Tau

    Non capita tutti i giorni di ospitare musicisti di questo valore alle nostre latitudini. Un motivo in più per non perdere il suo concerto domenica 2 aprile al Tau dell’Unical e la rassegna JazzAmore che vedrà il Frank Gambale Quartet tra i protagonisti. Costo del biglietto: 20 euro.

  • Silicon Valley Bank: crolla il mito ma cosa rischia la Calabria dell’innovazione?

    Silicon Valley Bank: crolla il mito ma cosa rischia la Calabria dell’innovazione?

    Inutile giraci intorno: il crack della Silicon Valley Bank ha creato sgomento. È caduto un mito e quando crollano i miti ti senti smarrito, incapace di elaborare una ragione, avverti la tua debolezza.

    È un po’ come quando perdi un grande amore. Negli ultimi 40 anni chiunque (e fra questi il sottoscritto) parlasse di start-up, di risk capital, di innovazione finanziaria, di nuova imprenditorialità legata ai follow up della ricerca universitaria finiva per citare la Silicon Valley Bank come eccellenza mondiale e come modello (best practice, dicono quelli bravi) da replicare nei contesti produttivi maggiormente orientati alla ricerca.

    Il crollo della Silicon Valley Bank ha determinato una immediata reazione negativa dei mercati

    Non vi era convegno, seminario, club deal o acceleratore d’impresa che prescindesse da lei: l’istituzione finanziaria californiana capace di dare credito alle idee d’impresa piuttosto che agli immobili da ipotecare in garanzia, come fanno le banche di casa nostra. E giù la raccomandazione (rigorosamente inascoltata) data a diverse generazioni di politici di creare istituzioni finanziarie (magari anche regionali) con la specifica mission (oh yes) di dare credito alle idee di ragazze e ragazzi, magari squattrinati, ma con una solidità visionaria e nuove ipotesi di prodotto, di modelli di consumo da lanciare sul mercato.

    Inutile ora cercare di capire le cause (tassi elevati, inflazione sottovalutata, aspettative in forte ritirata, il Metaverso che entra in conflitto con l’economia reale, la FED troppo ortodossa in materia monetaria, probabilmente un po’ di tutto ciò). Ci vorranno mesi, e forse anni, per un’analisi seria e credibile.
    Cerchiamo piuttosto di capire se è in crisi il modello della Silicon Valley. Anche perché, per quanto apparentemente lontana, questa evoluzione del modello dell’innovazione a tutti i costi potrebbe a breve presentare il conto, non proprio gradevole, a tutti i paesi dell’UE e, fra questi, soprattutto a quelli che hanno creato distretti industriali legati all’innovazione.

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    L’Università della Calabria, polo di eccellenza nel settore dell’innovazione

    La Calabria dell’innovazione

    E qui entra in gioca anche la nostra remota e lontana Calabria che, come noto, ha poggiato buona parte delle sue idee di sviluppo proprio sull’innovazione e sul ruolo delle università. Ripetiamoci: il problema non è solo il rischio di contagio del crollo finanziario in sé (le banche europee hanno portafogli diversificatissimi e non specializzati come nel caso della SVB). Risentiranno magari di qualche reazione emotiva in borsa ma i fondamentali dovrebbero tenere. Almeno si spera.

    Ad entrare in discussione potrebbe essere, piuttosto, il concetto stesso di distretto innovativo con filiere iper specializzate dove il valore è dato esclusivamente dal tempo necessario ad una linea di ricerca applicata di diventare prima brevetto, prototipo, business idea, progetto d’impresa e poi finalmente start up. Per dirla con gli americani (e sempre con quelli bravi) il time-to-market.

    Sono anni che suggerisco ai decisori politici di casa nostra, a volte amici a volte meno, di recuperare l’idea sempreverde della filiera integrata per allineare la politica industriale alle vocazioni territoriali e soprattutto di non confondere l’occupazione di breve periodo con il vero obiettivo di questa scelta.
    Il campanello d’allarme della californiana SVB significa, alle nostre latitudini, che la cultura dell’innovazione non deve trasformarsi in ossessione di mercato. Prodotti con cicli di vita troppo brevi, ad esempio, non diventano, meccanicamente, un fiore all’occhiello del sistema produttivo. Possono essere, al contrario, elementi di rigidità e di propensione alla crisi strutturale con effetti negativi a catena su occupazione, risparmio, domanda, investimenti.

    Questo non significa essere contro l’innovazione. Significa che il legame tra uomo e cultura, tecnologia e prodotto sta perdendo coerenza e logica.
    Non è caduta solo una banca. È caduta la Silicon Valley Bank.
    L’antropologia culturale dell’uomo veloce, multitasking a tutti i costi e virtualizzato nel metaverso potrebbe ricevere dal mercato un brusco richiamo alla realtà.
    Ma io no, non posso negarlo, ho perso un altro mito.

  • I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    Il 26 febbraio un’imbarcazione di migranti si è spezzata in mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, in Calabria. Sono 72 i morti accertati, tra loro donne e bambini, e il bilancio non è ancora definitivo. Il numero di naufraghi dispersi è imprecisato. Alcuni scafisti sono stati arrestati e sono in corso le indagini per accertare la verità su quanto è accaduto. Soprattutto si cerca di appurare cosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Il 2 marzo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato alla camera ardente per commemorare le vittime e all’ospedale per confortare alcuni superstiti.

    Steccato di Cutro e l’opinione pubblica

    La tragedia di Steccato di Cutro ha generato un’ondata di emozioni collettive contrastanti. Le accese discussioni sull’insuccesso dei soccorsi, le polemiche per le esternazioni del Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e, per converso, la generosità degli abitanti del posto intervenuti in aiuto dei superstiti, hanno attirato l’attenzione di testate giornalistiche, dei social media e delle televisioni nazionali e internazionali. La commozione per la sequenza di piccole bare bianche, a ricordare la morte di bambini e bambine innocenti, continua ad alimentare la sofferenza e l’indignazione nell’opinione pubblica italiana, moltiplicando le domande e gli interrogativi sulle eventuali responsabilità giudiziarie.

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    La bara di una delle bambine morte

    Affinché queste tragedie non si ripetano è necessario comprendere che il fenomeno migratorio non riguarda una massa indistinta di flussi, ma persone in carne ed ossa, con le loro storie, sofferenze, paure, con i loro progetti di vita, le loro aspirazioni per una condizione di vita migliore. Serve cioè uno sguardo capace di comprendere la complessità sociologica della migrazione, dove le storie personali si intrecciano a vari livelli con i grandi fenomeni storici.

    Gli studi sulle migrazioni

    L’AIS come associazione scientifica di sociologi e sociologhe crede che solo uno studio rigoroso e scientifico del fenomeno possa aiutare la sua gestione e il suo governo. Molti colleghi e colleghe sociologhe studiano da decenni questi movimenti di popolazione e sono nella condizione di mettere a disposizione del nostro paese e dei suoi cittadini le competenze tratte dallo studio scientifico dei problemi interni ed internazionali collegati ai fenomeni migratori, presenti non solo nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo.

    Molti hanno, ad esempio, indagato sul cammino doloroso che precede gli sbarchi (contrassegnato da una lunga odissea fatta di viaggi, privazioni, sfruttamento, violenze di ogni genere, a partire da quelle subite dai mercanti di esseri umani). Altri hanno studiato i meccanismi dell’accoglienza, i loro elementi positivi ed i loro limiti; altri ancora, su scala più vasta, hanno analizzato le politiche di integrazione sociale, politica e lavorativa dei migranti, documentando più volte le tante discriminazioni a cui essi vanno incontro, unitamente ai pregiudizi culturali o razziali che spesso tendono a stigmatizzare la loro presenza.ndrangheta-migranti-il-traffico-in-casa-che-taglia-fuori-le-ndrine

    Diversi sociologhe e sociologi hanno messo in luce le difficoltà che non pochi migranti incontrano a livello etico e politico-culturale, per la fatica del cambiamento richiesto dall’accettazione e condivisione delle regole e dei modelli di vita e di relazione propri di una democrazia, cioè da un contesto di vita e di relazione tanto lontano dalle loro precedenti esperienze socio-politiche. O ancora, hanno dedicato la loro attenzione all’analisi dei costi economici e dei vantaggi che l’arrivo e l’integrazione dei migranti comportano per paesi di accoglienza, il loro impatto sulle relazioni tra paesi di provenienza e di arrivo, così come tra i paesi dell’UE: in breve, si può dire che una gestione appropriata, non ideologica, ma attenta alle specificità del fenomeno migratorio riguarda il nostro futuro prossimo, insieme alla qualità della democrazia in Italia e in Europa.

    Steccato di Cutro e il momento della responsabilità

    Da tutte queste ricerche un altro aspetto appare evidente: la questione migratoria è così estesa da dover essere necessariamente affrontata in una prospettiva europea, superando la logica dell’emergenza e mostrando capacità di ascolto, memoria storica e lungimiranza culturale e politica. La solidarietà a favore di chi versa in condizioni di estremo bisogno, sebbene non disgiunta dalla fermezza verso ogni forma di illegalità o devianza, non può essere in nessuno caso un elemento di divisione interna dell’Italia.
    Viceversa, c’è bisogno, da parte di tutti e in primo luogo da parte delle classi dirigenti, di un’autentica e realistica assunzione di responsabilità, senza cedere alla paura o all’illusione di trovare soluzioni facili quanto ingannevoli.

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    Emigrati alla stazione di Milano

    Per fortuna, ad alleviare la fatica necessaria per affrontare questo fenomeno epocale, ci viene in soccorso la consapevolezza della nostra storia, visto che noi italiani siamo, fin dall’antichità, un paese di immigrati (come i greci o gli arabi nelle regioni meridionali) e di emigranti (come i veneti, i calabresi e i siciliani, che nel Novecento sono partiti verso tutto il mondo, affrontando tragedie e sacrifici enormi, analoghi a quelli dei migranti odierni). Quindi sappiamo che la grandezza dell’Italia è assai debitrice verso questa storia di migrazioni, una storia che ci ricorda che i migranti siamo stati e siamo tuttora (pensando ai giovani italiani che oggi vanno a cercare lavoro nel mondo) noi stessi, al pari di ogni essere vivente in cerca di accoglienza e soccorso nel bisogno, in una reciprocità senza fine che deve tradursi in scelte politiche conseguenti, se vogliamo davvero onorare la nostra identità.

    Muri e blocchi non funzionano

    Non possiamo nascondere l’evidenza: siamo in presenza di un fenomeno di portata globale che richiede cooperazione internazionale e che ci riguarda direttamente, in quanto la direzione dei flussi migratori provenienti da Est (Oriente) e da Sud (Africa), vista la collocazione geografia dell’Italia, rende il nostro paese un punto di attrazione privilegiato, oggi e negli anni a venire, per tanti disperati che fuggono da guerre, dittature, miseria, impoverimento e desertificazioni causate dal cambiamento climatico, o che cercano solo una vita più dignitosa per sé e i propri cari.

    Bloccare queste persone, impedendogli con la forza di partire, respingerli, rimpatriarli, è, prima ancora che una strada che si scontra con i valori fondativi della nostra convivenza civile e democratica, una soluzione irrealistica per il semplice fatto che nega la realtà: i processi storici globali non si possono fermare con i muri, bisogna lavorare per provare a regolarli, evitando che la ricerca di soluzioni velleitarie contribuisca ad avviare una catena di comportamenti che provochi altre vittime.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    Peraltro, lo spopolamento in atto nel nostro paese, la cui drammatica gravità ogni giorno che passa viene ricordata dagli istituti di ricerca (denatalità, squilibrio demografico e invecchiamento diffuso, problemi a catena nel mondo del lavoro e in quello pensionistico come pure nelle aule scolastiche, svuotamento di paesi, aree e intere zone dell’interno, con un trend in netto peggioramento) rende urgente l’elaborazione di adeguate e realistiche politiche di integrazione regolata.

    Una nuova politica europea dopo Steccato di Cutro

    Non possiamo accogliere tutti, alcuni vanno respinti per motivi di sicurezza, altri vanno redistribuiti in Europa (dove molti di loro vogliono andare, guardandoci solo come paese di primo transito). Altri, tanti, abbiamo il dovere e l’interesse di accogliere. In questo quadro le politiche amichevoli verso l’immigrazione, concordate in chiave europea, costituiscono l’unica via d’uscita ed è auspicabile che il Parlamento sia concorde in tale prospettiva. Nell’attesa della piena attuazione di queste innovative politiche di accoglienza e integrazione, è necessario respingere non i migranti ma le scelte perniciose che rendono più difficili, incerte e pericolose le operazioni di salvataggio in mare.
    La nostra storia, la nostra identità, la nostra democrazia, i sentimenti del nostro popolo e i risultati delle ricerche sociologiche ce lo chiedono ad alta voce.

    Il Presidente e il Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia

  • «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    Il carcere spesso è l’anticamera del cimitero. Per chi è condannato alla pena dell’ergastolo significa essere seppellito vivo. Io sono uno di quelli. Sono entrato in carcere all’età di 19 anni e non sono più uscito. Sono trascorsi 33 anni, ma non mi sono arreso. Perché il carcere può essere anche un luogo di riscatto. La mia esperienza personale mi dice che molto dipende dalla propria volontà e dalle opportunità che ti offre la società, e che lo studio può essere un potente dispositivo di integrazione.

    Oggi vorrei scrivere proprio delle opportunità offerte dalla società, e sotto questo aspetto, di quale terra straordinaria sia la Calabria, nonostante i tanti problemi che ci sono: povertà, criminalità, mancanza di servizi, lavoro etc. di cui nessuno tace l’esistenza. Tuttavia la Calabria è soprattutto altro, se penso alle persone fuori dal comune che “abitano” esercitando una professione nell’ambito di istituzioni e comunità locali calabresi.
    Una storia “altra” rispetto alla “narrazione parziale” che si fa di questa bellissima regione.

    Bisogna conoscere e vedere prima di parlare, giudicare, se proprio si deve giudicare, come insegnava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione. Un po’ come accade con chi è in carcere, dove non ci sono “i detenuti” o “i condannati” ma persone, individui con storie diversissime e un passato che non è solo reato, soprattutto persone che nel tempo cambiano. Calabria e carcere in un certo senso subiscono il pregiudizio di chi non sa ma ritiene di sapere, dimenticando la lezione di Socrate.

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    Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio

    Vorrei cominciare ringraziando chi mi ha citato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico del PUP dell’Università della Calabria che ha visto la partecipazione straordinaria della cara Fiammetta Borsellino su invito del rettore, professore Nicola Leone: il professore Raniolo che ho avuto il privilegio di conoscere (anche se da remoto) in occasione della mia presentazione sull’avanzamento della mia ricerca intrapresa nell’ambito del dottorato in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, certamente la più alta forma di condivisione, di inclusione dei detenuti. Il coordinatore del dottorato ha voluto ricordare che ho uno status di dottorando di ricerca, una delle opportunità ed esperienze inclusive più straordinarie nel panorama accademico italiano. “Straordinario” sottolineo, per le vicende che voglio raccontare parlando della Calabria e dei calabresi.

    Sono entrato in carcere con il titolo di licenza media inferiore; ho iniziato a studiare mentre ero in regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. A tale regime fui sottoposto a 21 anni d’età. Anticipo che sia la pesantissima condanna, sia le moltissime restrizioni detentive (e non solo) subite erano a mio parere giustificate nonostante la mia vicenda criminale è da ascriversi a una breve parentesi tardo adolescenziale. I fatti in cui ero rimasto coinvolto erano gravissimi, reati di cui oggi non mi capacito come proprio io sia riuscito a commettere.

    Il passato non si può cambiare ma si può fare qualcosa per riparare e per migliorare il futuro, contribuendo nei modi in cui ci è possibile, anche per non restare imprigionati in quel passato. Questo mi hanno fatto capire le persone a me più vicine, dalla famiglia a quelle che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio “viaggio senza fine” (giudici, avvocati, docenti, operatori penitenziari, volontari), quando hanno inteso che mi ero reso conto del male arrecato e della disperazione provata per l’impossibilità di tornare indietro.carcere-calabria-57-detenuti-in-attesa-laurea-superpasticciere-i-calabresi

    «Indietro non puoi tornare ma puoi ricominciare da dove hai lasciato» – mi dissero i miei familiari, gli unici che potevo vedere per un’ora al mese dietro un vetro. L’abbandono della scuola era stata una scelta che i miei avevano sempre avversato. Da ragazzo avevo fatto mio il detto che «saper fare è meglio che studiare» e così mi ero messo a lavorare nell’attività di famiglia.

    La mia condizione detentiva comportava una serie infinita di limitazioni ma non quella di poter leggere (si potevano detenere al massimo 3 libri, ma sostituibili). Trovai una frase di Aristotele: «Lo studio non ha bisogno d’altro che dell’intelligenza». Fu illuminante, realizzai che avrei potuto riprendere gli studi facendo la felicità dei miei genitori. L’inizio fu durissimo, non c’era nessuno a cui rivolgermi per le materie scientifiche. Ero un autodidatta, incontravo i docenti solo in occasione degli esami di ammissione, del diploma e poi per quelli universitari, sempre da dietro un vetro, fino a quando non mi hanno revocato definitivamente il regime ex art. 41-bis (durato circa 13 anni).

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    L’Università di Perugia

    Quando accadde ero nel carcere di Spoleto e iscritto all’Università di Perugia su “invito” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP); pensavo alla facoltà di Lettere e Filosofia, «meglio Giurisprudenza» mi disse il mio avvocato dell’epoca, l’indimenticabile professor Fabio Dean: «È una materia umanistica e tecnica che potrà essere utile per aiutare te stesso e gli altri», aggiunse, e con queste parole mi convinse. Con la revoca sopraggiunse il trasferimento al penitenziario di Palmi, in Calabria. Era la prima volta che mettevo piede su questa terra, onestamente ci arrivai con i “pregiudizi” che la fanno conoscere nel mondo. E invece…

    Invece scoprii che la civiltà, l’umanità, l’efficienza (anche in carcere) sono in Calabria.
    La vulgata vuole che il Sud prenda ad esempio il Nord… Forse solo a livello di infrastrutture, perché a livello di umanità, funzionalità ed efficienza le realtà calabresi che ho conosciuto non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi possono insegnare ed estendere le loro buone pratiche.
    Dopo un anno, da Palmi fui trasferito a Catanzaro invitato nuovamente dal DAP a iscrivermi all’università più vicina. Dovetti cedere.

    Il mondo accademico è stato molto attento nei miei confronti, i docenti dell’UniPG sempre disponibili, ma gli anni di isolamento mi avevano inibito nei rapporti interpersonali. L’iscrizione all’Università di Catanzaro non cambiò di molto le mie abitudini. I contatti li tenevano gli educatori del carcere (la dottoressa Arianna Mazza e poi il dottor Giuseppe Napoli), efficientissimi anche loro, i quali mi reperivano programmi e testi da studiare. Fissavano la data per gli esami che sostenevo in presenza dei docenti nel carcere di Catanzaro.

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    L’Università Magna Graecia di Catanzaro

    Ebbi modo di conoscere e partecipare ai corsi diretti dal professore Nicola Siciliani de Cumis, un gigante della pedagogia contemporanea, e di incontrare una delle direttrici penitenziarie più capaci che ho avuto modo di conoscere (la dottoressa Angela Paravati), pari solo al direttore del carcere di Spoleto (il dottor Ernesto Padovani) quanto a competenza, capacità organizzative e coraggio nell’assumersi le responsabilità nelle decisioni. Anche qui siamo di fronte allo “straordinario”.

    I contatti con l’UniCZ si intensificarono con la preparazione della tesi di laurea e l’esame finale. Seppi che il mio relatore sarebbe stato il professor Luigi Ventura, già preside del dipartimento di Scienze giuridiche, fuori dal comune anche lui come il suo staff di collaboratori.
    Con lui pensammo a una tesi multidisciplinare tra diritto costituzionale, europeo e penitenziario. Ne uscirà una tesi avanguardista sull’irretroattività dell’interpretazione sfavorevole in materia penitenziaria (in soldoni l’irretroattività dell’interpretazione dell’art. 4-bis OP che aveva creato l’ergastolo “ostativo giurisprudenziale”).

    Una tesi di laurea che vedrà la pubblicazione come Manuale sulla pena dell’ergastolo, e verrà premiata come migliore tesi di laurea dell’anno. Basterà dire che dopo 6 anni la Corte costituzionale (nn. 32/2020 e 17/2021) è arrivata ad affermare i principi ivi espressi come diritto applicabile nel nostro ordinamento, anche se non ancora in relazione all’ergastolo ostativo; per questo probabilmente bisognerà aspettare la Corte di Strasburgo, innanzi alla quale pende un ricorso, già dichiarato ammissibile, se lo accoglierà.

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    Il carcere di Parma

    Questo è il prodotto di una ricerca, uno studio realizzato in Calabria. È bene sottolinearlo.
    Dopo la mia laurea, come tutte le cose belle, la mia permanenza nella vostra straordinaria terra finisce. Vengo trasferito in Emilia Romagna, a Parma, dove in ambito penitenziario trovo ad attendermi il medioevo.
    Il carcere parmense era (oggi è cambiato) veramente indietro rispetto a quelli calabresi di mia conoscenza, solo che questa arretratezza mi permetterà di entrare in contatto con l’università. Con alcuni studenti detenuti, chiediamo di modernizzare culturalmente chi è detenuto e chi ci lavora.

    L’Università di Parma, o meglio una sua docente di punta, la professoressa Vincenza Pellegrino, organizza dei Laboratori di sociologia, e insieme investiamo nella creazione del Polo Universitario Penitenziario (PUP) reclamato dagli studenti detenuti già presenti. Partecipo ai Laboratori con studenti esterni e continuo nei miei studi. Sperimentiamo nuove forme di didattica mista verticale-orizzontale. È lei insieme alla professoressa Franca Garreffa dell’Università della Calabria, anche qui l’aggettivo “straordinarie” è d’obbligo, che mi guidano all’interno di questa nuova e indefinibile avventura del ‘dottorato’.

    Mi incontrano per preparare la mia candidatura e studiare nuove materie che mi aprono a nuovi mondi, nuovi modi di comprendere finanche il diritto, che illuminato da queste nuovi luci sociologiche mostra altre dimensioni, si arricchisce.
    Le professoresse Garreffa e Pellegrino sono le mie tutor del dottorato, insieme alla dottoressa Clizia Cantarelli, tutor del Pup di Parma. Sono loro i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, le mie braccia: senza di loro non potrei “muovermi”, esisto per interposta persona.

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    Studenti sul ponte Bucci all’Università della Calabria prima della pandemia

    È grazie a loro se posso fare questa esperienza, un sostegno che passa dal reperimento del materiale a quello dei contatti con docenti di altre università e con i membri del Collegio del dottorato dell’UniCal e della CNUPP presieduta dal professore Franco Prina sempre presente alle varie manifestazioni ed eventi che riguardano i Pup in Calabria. L’esperienza del dottorato mi ha regalato, oltre a queste donne eccezionali, anche una “classe”.

    Per la prima volta faccio parte di una “classe”, i miei colleghi dottorandi mi hanno quasi adottato, seppur più piccoli d’età, con la loro disponibilità e facendomi sentire ben accetto. A farmi sentire parte dell’Università della Calabria ci pensano persone come il professore Paolo Jedlowsky, che scoprirò essere uno dei più grandi sociologi contemporanei, capace di rispondere in maniera convincente anche alle mie domande più assurde. È sempre lui a volermi presente (anche se da remoto) all’inaugurazione del nuovo anno del dottorato, per sostanziare quell’uguaglianza nelle opportunità di cui parla la Costituzione. Piccole grandi cose che trasformano il carcere e danno un’altra dimensione di chi è detenuto e di chi detiene.

    Col progetto di dottorato mi trovo a essere, allo stesso tempo, ricercatore e ricercato, immerso nel campo di ricerca che è il mio ambiente, ricercatore che studia sé stesso e i suoi simili, e attraverso sé stesso la società in cui vive. Mi trovo a osservare le interazioni e la produzione di sapere come dispositivi trasformativi individuali e delle “istituzioni totali”, dei “miti”, dei “luoghi comuni”, e svelare quegli “artefatti culturali” che come potenti sovrastrutture impediscono, invece di favorire, i cambiamenti sociali.

    Concludo riflettendo sul fatto che ancora una volta la Calabria, in particolare l’Università di Cosenza, mi ha aperto a una possibilità inimmaginabile per me, per chi è in carcere, realizzando qualcosa che va oltre la prima, la seconda e la Terza missione cui è chiamata l’università, ponendola, probabilmente, tra gli atenei con i programmi più avanzati al mondo devo pensare perché in questo modo realizza per i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, come previsto all’art. 34 della nostra Costituzione.
    La Calabria, appunto, che da Pitagora in poi ha sempre qualcosa da insegnare.

    Claudio Conte