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  • Interdisciplinarità, all’Unical lo studio è senza frontiere

    Interdisciplinarità, all’Unical lo studio è senza frontiere

    Le cose sono complesse, rassegniamoci, nessuna scorciatoia torna utile per capire e forse trasformare i fenomeni dentro cui siamo immersi. Dobbiamo avere uno sguardo molteplice, capace di coniugare efficacemente approcci scientifici diversi e certe volte neppure prossimi. Questo vuol dire affrontare il tema dell’interdisciplinarità, andare oltre i “confini”, come li chiama Sonia Floriani, sociologa e anima del laboratorio sulla Interdisciplinarità che ha preso vita nelle stanze del Dispes.

    Interdisciplinarità per andare oltre i confini

    I confini di cui parliamo sono la linea di separazione tra le scienze, che si deve avere il coraggio di superare andando oltre. Ecco, andare “oltre” diventa la parola chiave di questo laboratorio. Lo hanno assai desiderato e organizzato Giap Parini, direttore del Dispes, e la stessa Floriani, sensibili entrambi alla necessità di spiegare con efficacia i tempi che affrontiamo.
Attorno a questo compito lavora, dallo scorso anno, una pattuglia di ricercatori sociali, che prendendo in prestito il concetto di confine hanno usato la parola I-Limes come suggestivo acronimo di Laboratorio di Idee, Metodi e Studi.

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    Da sinistra: Vincenzo Carrieri, Sonia Floriani e Giap Parini

    Questa volta il campo si allarga. A discutere non sono solo studiosi di Scienze sociali, ma vengono chiamati rappresentanti di quelle che normalmente vengono definite “scienze  dure”. È il caso di Riccardo Barberi, fisico sperimentale, anzi studioso di fisica applicata. Non si tratta di un dettaglio, avendo Barberi una certa spiccata sensibilità verso la concretezza del mondo reale. Ed è con i piedi ben piantati per terra che Barberi spiega come l’interdisciplinarità non sia affatto una cosa rivoluzionaria. È, al contrario, una semplice necessità sociale dettata dal bisogno di uscire dalle “gabbie” dentro cui ci siamo rinchiusi inseguendo il mito delle specializzazioni.

    L’iperspecializzazione obbligata dal sistema produttivo finisce per essere asfissiante. Così aprirsi alle altre forme di sapere diventa una boccata d’aria necessaria.
Con la semplicità di chi è avvezzo a risolvere cose complesse, il fisico spiega come probabilmente la cosa più interdisciplinare oggi siano le Large Language Model, capaci di parlare tra loro e dunque intersecare i saperi, ancora per fortuna sotto il controllo umano.

    La Costituzione, le leggi e la fabbrica del consenso

    Il concetto di “confine” resta ad aleggiare nell’aula che ospita il seminario. Nelle parole di Donatella Loprieno, però, assume subito il suo senso più oppressivo: quello di separazione e distanza. Non è casuale: Loprieno è una costituzionalista storicamente impegnata, tra le altre cose, sul fronte dei diritti dei migranti.

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    Donatella Loprieno, Riccardo Barberi e la modetratrice Valeria Tarditi

    «I costituzionalisti si occupano di una materia fatta di sogni», spiega la docente, richiamando La tempesta di Shakespeare, perché le Costituzioni si fondano sul desiderio di una vita più giusta per tutti, ma oltre la bellezza utopica subito le sue parole ci precipitano nell’abisso delle violazioni dei diritti della persona, del migrante come individuo spogliato di ogni forma di umanità, del buco nero della “Detenzione amministrativa”, cioè del carcere senza reato, senza processo, senza avvocati, un inferno destinato solo agli stranieri, uno strumento che divide gli esseri umani tra chi ha diritti e chi è “schiuma della terra”.

    Come una costituzionalista osserva questo mondo usando le lenti della interdisciplinarità? Domandandosi come sia stato possibile che una istituzione così repressiva, chiaramente incostituzionale, sia diventata normale, incontrando anche un vasto consenso tra le persone. Significa utilizzare gli strumenti della comunicazione persuasiva, della manipolazione dell’opinione pubblica, della psicologia delle masse e comprendere che certe scelte vanno oltre la durezza dei codici.

    La potenza delle parole e i confini come luoghi di passaggio

    Anche le parole sono interdisciplinari, sul loro uso flessibile sarebbero stati d’accordo Wittgensein e Gramsci. E da questo punto di vista Andrea Lombardinilo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, le utilizza come veicolo per visitare spazi, tempi e protagonisti. Parte da Castoriadis, dal mondo dell’immaginario, e transita rapido attraverso John Coltrane, Miles Davis, Duchamp e Leopardi, Vico e altri. Nel frattempo sulla Lim alle sue spalle compare una scena del film Mission.
    Lombardinilo è come un abile seduttore. E nel suo muoversi dentro il sapere, che deve essere declinato per forza al plurale, ci offre il biglietto per un viaggio che più interdisciplinare non si può.

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    Marcello Walter Bruno

    A chiudere il viaggio un’ultima struggente suggestione, quella che viene dalle parole dell’autore ed attore Ernesto Orrico e del fisico Peppe Liberti. Orrico legge alcune parti de La fuga di Pitagora di Marcello Walter Bruno e Liberti evoca il ricordo di un intellettuale che di confini tra i tanti saperi ne aveva varcati parecchi. Anche perché, come suggerisce Parini, «i confini sono luoghi di passaggio e conviene usarli bene».

  • Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Ci sono libri che sono figli di altri libri. Ripercorrono uguali sentieri, ma con occhi nuovi, perché le cose cambiano e anche in fretta. È il caso de La partecipazione politica (Il Mulino), l’ultimo lavoro di Francesco Raniolo.
    Con autoironia l’autore avverte che è come il «tornare sul luogo del misfatto» dopo circa vent’anni dalla prima edizione. Vent’anni sono ere geologiche per chi osserva i mutamenti politici e Raniolo – che insegna Scienze politiche all’Unical ed è coordinatore del dottorato in Politica, cultura e sviluppo – è tornato a rivolgere lo sguardo verso i modi che caratterizzano la partecipazione politica. «Il tempo che separa i due libri accompagna un ciclo di vita», spiega Raniolo e in questo non breve periodo è accaduto di tutto. In Scienze politiche si chiamano “giunture critiche”, o semplicemente crisi.

    I tempi cambiano

    Ma il punto è che in certe fasi storiche si presentano in forma multipla, quasi uno sciame. Sono chiamate poli-crisi. Si tratta di fenomeni complessi che attraversano le società generando incertezza. Sono rappresentate da mutamenti profondi, crisi economiche innanzitutto, migrazioni di massa, guerre e terrorismo internazionale, perfino una pandemia. Tutto ciò non poteva non riflettersi su forme e intensità della partecipazione e sulla qualità della democrazia. Questa è rappresentata dall’esistenza di spazi di dibattito, talvolta di conflitto, che ne costituiscono una componente cruciale. In sintesi, sono le distinte “arene” all’interno delle quali viene esercitata la democrazia. Per questo osservare come queste arene siano cambiate è fondamentale.

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    Francesco Raniolo

    Raniolo dedica grande attenzione a questi spazi, sia istituzionali che collegati alla società civile o ai media, ma presenti pure nelle pieghe della comunità e nei movimenti di protesta, essendosi questi rivelati incubatrici di mutamenti e innovazioni.
    Nei territori spesso troviamo aggregazioni di persone, accomunate da interessi condivisi e da valori, che hanno dato vita a pratiche sociali tese a creare beni comuni e a sviluppare reti di solidarietà. Le riflessioni del docente riportano alla mente il ruolo solidale svolto, ad esempio a Cosenza nel corso della pandemia, da realtà come La Terra di Piero, che ha provato a soddisfare i bisogni essenziali affrontando fragilità sociali diffuse in molti quartieri della città. Si è trattato di un ruolo di supplenza, laddove le istituzioni e la politica erano distratte o semplicemente non efficaci.

    Raniolo e i partiti di oggi

    In realtà i movimenti e le esperienze che da lì scaturiscono dovrebbero spingere i partiti a «rinnovarsi, nel tentativo di ricucire quel patto mitico che dovrebbe legarli ai cittadini, che restano le molecole della Polis».
    Il libro di Raniolo significativamente ripropone i passaggi chiave che potrebbero riattivare la partecipazione e cioè l’allargamento decisionale sulla scelta dei leader e delle linee programmatiche, lo spazio al pluralismo delle voci protagoniste del dibattito, la presenza diffusa di reti che collegano i partiti al contesto, la capacità inclusiva delle pratiche politiche.

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    Elettori del Pd alle primarie del 2023

    Nel meraviglioso mondo della teoria questi passaggi dovrebbero funzionare, ma calati nel terribile mondo reale non tanto. Per esempio, si pensi all’incapacità dei partiti di trasmettere le domande e sfide che giungono dalla società . Per Raniolo l’esempio probabilmente più significativo riguarda l’esperienza delle primarie, «che non hanno retto al tempo e ai conflitti interni, finendo per essere neutralizzate, riassorbite dalla competizione tra leader».
    Altre forme di inclusione che hanno visto il fallimento sono le famose “parlamentarie”, del M5S, esperienza tutt’altro che inclusiva che si costruiva sull’inganno della Rete come nuovo e prefetto luogo della democrazia. Oggi le forme di inclusione sperimentate si sono rivelate modi per legittimare i leader e non per allargare la base partecipativa, perché sono prevalse le logiche funzionali a dinamiche di potere e di autoreferenzialità.

    Il fantasma della partecipazione politica

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    La copertina della nuova edizione de “La partecipazione politica”

    Ma cosa sono oggi i partiti? Quanto resta attuale la definizione offerta da Maurice Duverger che li immaginava come comunità? Raniolo sa bene che dai tempi in cui scriveva l’intellettuale francese ogni cosa è diversa. Tuttavia resta dell’opinione che «i partiti non possono rinunciare tanto facilmente ad essere comunità di destino, un equivalente laico dell’esperienza religiosa».
    Tra i cambiamenti intervenuti c’è stata la scomparsa dei luoghi tradizionali di confronto e la presunzione, da parte dei partiti, di sostituirli efficacemente con i media che rimbalzano la figura dei leader. L’effetto è stato una ulteriore atomizzazione dell’elettorato, cui oggi viene fornita l’illusione della partecipazione stando comodamente seduti sul divano guardando la televisione o chattando sui social. Forme di esperienza solitaria, che sembrano dare ragione alla Thatcher quando affermava che non esiste la società, ma solo individui.

    La democrazia se la passa male

    Questa deriva assunta dai partiti rappresenta una più marcata separazione tra essi e i cittadini ed è l’opposto di quanto necessario alla vivificazione del rito della partecipazione. Una delle conseguenze di questa atomizzazione è il sopraggiungere di una fragilità sociale sulla quale si avventano con successo forme di populismo.
    «Il populismo in passato ha avuto un ruolo importante nel percorso graduale e contorto (perché implicava anche tappe autoritarie come in America Latina) verso la democratizzazione delle società – spiega Raniolo – ma oggi riflette un malessere profondo della democrazia. Una tappa nel processo di de-democratizzazione o di deterioramento della qualità democratica».

    Raniolo e i populismi

    Il populismo di oggi ha anche diverse facce. «Una – spiega ancora Raniolo – è quella che possiamo definire includente o rivendicativa, volta all’allargamento dei diritti, l’altra più rischiosa è quella che chiamiamo identitaria o escludente».
    Accanto al populismo che vuole espandere democrazia autentica e diritti c’è un populismo sovranista. Risponde al disagio sociale e alle paure individuali generate dalle crisi promettendo di serrare i ranghi e maggiormente si offre non solo all’identificazione con un leader (in alcuni paesi manifestamente autoritario, si pensi all’Ungheria di Orbán), ma anche al trasferimento di delusioni e paure su capri espiatori interni o esterni.

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    Il primo ministro ungherese Viktor Orbán

    Questi sentieri conducono verso democrazie illiberali e irresponsabili. Ma sono purtroppo i sentieri più facili e perciò più seducenti, perché le sfide che attendono le democrazie sono cruciali e riguardano l’attuale frammentazione del tessuto sociale, la radicalizzazione delle domande, ma anche le forme del comunicare che con il web scivolano facilmente nella manipolazione dell’informazione, fino a quello che nel libro viene indicato come “totalitarismo digitale”.
    La posta in gioco è altissima e non pare che le leadership dei partiti siano attrezzate ad affrontarla nel modo più giusto. Forse abbiamo bisogno di un nuovo protagonismo dei cittadini.

  • Meec: all’Unical il futuro green è già arrivato

    Meec: all’Unical il futuro green è già arrivato

    Il Master del Dimes – Dipartimento di Ingegneria informatica, Modellistica, Elettronica e Sistemistica dell’Unical – sarà presentato oggi, 4 aprile, nel Palazzo della Provincia di Cosenza. Tanti gli ospiti dell’evento dedicato al progetto di alta formazione in mobilità elettrica ed economia circolare e rivolto ai professionisti del futuro green già dietro l’angolo.
    Il Meec è il primo master di secondo livello in mobilità elettrica ed economia circolare per neolaureati e lavoratori.
    La prima edizione accoglierà fino a trenta partecipanti e, in base a una graduatoria di merito, verranno subito erogate (in tre tranche), borse di studio di 20mila euro ciascuna per dodici corsisti.
    Ai partecipanti sarà conferito il titolo di “esperto in gestione di sistemi e strutture per la mobilità elettrica e l’economia circolare”.

    A chi si rivolge il Meec

    Il percorso formativo nasce da un progetto del Dimes dell’Università della Calabria, nel contesto dei patti territoriali per l’alta formazione, finanziati dal Mur, ed è rivolto a laureati in ingegneria, matematica, fisica, economia, economia aziendale, finanza, statistica e informatica, chimica.
    Un ruolo attivo è svolto dalle imprese: attraverso la partecipazione ai moduli formativi e attraverso gli stage aziendali, ma anche per l’assorbimento di nuovi profili professionali, necessari all’evoluzione di un mondo a misura di veicolo elettrico. Un mondo che ha bisogno di diffusi e innovativi sistemi di carica, delle competenze per la manutenzione e la riparazione, di professionisti con competenze adeguate in materia di riciclo.

    I partner del progetto

    La partnership del progetto è di quelle che innescano rapporti immediati con le imprese, nel segno della mission dei Patti territoriali. Si tratta della Motus-E, la prima e principale associazione italiana costituita per accelerare il cambiamento verso la mobilità elettrica.
    In Motus-E fanno sistema, insieme con gli atenei, i principali marchi automobilistici, le industrie, i fornitori di energia, le imprese di servizio, i movimenti di opinione sulla sostenibilità ambientale.
    L’evento di presentazione del Meec 2023/2024, è anche l’occasione per fare il punto nazionale ed europeo sulla doppia tematica: la circolazione elettrica e il modello di produzione e consumo basato sul riciclo.

    Gli interventi previsti

    I lavori saranno aperti dai saluti istituzionali di Rosaria Succurro, presidente della Provincia di Cosenza. Seguirà l’intervento del direttore del master, il docente Unical Gregorio Cappuccino, che presenterà l’intero progetto con un intervento dal titolo: “L’Unical e il patto con il territorio”. Per il governo regionale, l’assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì, interverrà sul tema: “La Regione a sostegno delle imprese e dei cittadini calabresi per la transizione ecologica”.
    Previsti i contributi del docente Unical Piero Guido, co-responsabile del master, “La mobilità del futuro in Calabria è già realtà” e dei rappresentanti della partnership: Fabio Pressi, “Motus-E: l’unione fa la forza”; Francesco Naso, “Il ruolo della formazione tra le opportunità e le sfide della E-Mobility”.

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    Rosaria Succurro

    Il dirigente regionale delle Ferrovie della Calabria, Aristide Vercillo Martino, farà il punto su “ASSTRA e la sfida della mobilità elettrica in Calabria”. In conclusione una storia di successo, quella della tenuta di “Serragiumenta” di Altomonte. Paolo Canonaco sarà testimonial di una Calabria votata alla produzione enogastronomica biologica, al turismo esperienziale, allo sviluppo di realtà produttive totalmente alimentate da energie rinnovabili.

    L’importanza del Meec

    Varia e complessa la tematica al centro del progetto Unical. «Mobilità elettrica non significa soltanto il veicolo ad uso aziendale o privato, dall’automobile, alla navetta, alla bici. C’è tutto un altro versante che riguarda i vari settori dell’economia; basti pensare alle macchine, agli attrezzi, ai mezzi off road per la lavorazione in agricoltura e nelle industrie», spiega l’ingegnere Gregorio Cappuccino, docente di Elettronica del Dipartimento di ingegneria informatica, modellistica, elettronica e sistemistica.
    «In questo nuovo orizzonte si sta muovendo anche il settore pubblico. Gli autobus elettrici hanno una crescente diffusione, del tutto inattesa; i droni verranno utilizzati molto presto, appena sarà licenziato il relativo regolamento, per il trasporto di medicinali e di sacche ematiche da un ospedale a un altro».

    Intorno al Meec c’è un ampio progetto per creare un learning gateway fisico del settore, cioè un punto di riferimento e di scambio per le best practices.
    «Il cambiamento, oltre ad essere un dato di fatto, è un’esigenza di mercato. Il futuro – dice ancora l’ideatore e responsabile del master, – è il recupero delle batterie dalle apparecchiature elettroniche e dagli autoveicoli e per arrivare preparati dobbiamo essere in grado di sfruttare a pieno il valore del riciclo. In questo campo si sta investendo moltissimo e sono interessati anche gli operatori locali. Per tutti questi motivi c’è assoluto bisogno di professionalità ben formate, con competenze tecniche, normative e manageriali».

    Come e quando iscriversi

    Le domande di richiesta di partecipazione al Meec devono essere inoltrate entro il prossimo 30 aprile. Le borse di studio copriranno i costi di iscrizione (pari a 1.900 euro a iscritto, mille per gli uditori), per circa metà dei corsisti, fornendo un sostegno finanziario importante agli studenti e offrendo loro un ulteriore incentivo all’accesso alla formazione di alto livello.
    Tutte le informazioni utili possono essere visionate cliccando qui.

  • Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il “caso” Nello Costabile: così Catanzaro vince anche il derby della cultura

    Il 18 dicembre, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, il regista cosentino Nello Costabile è stato insignito della laurea honoris causa in Cinema, Fotografia e Audiovisivo. Prendendo in prestito il gergo calcistico, potremmo dire che è il secondo derby tra Catanzaro e Cosenza che hanno vinto i giallorossi quest’anno. Certo non parliamo di una partita di pallone quanto, se così possiamo definirla, di una competizione culturale. E l’ABA ha prevalso sull’Università della Calabria, che pure può vantarsi di aver istituito in Italia il secondo corso di laurea in DAMS dopo quello di Bologna. Restando alla metafora calcistica potremmo dire che qualcuno, per comodità o poca lungimiranza, gioca a Subbuteo mentre altri guardano a sfide internazionali, dando i giusti riconoscimenti alle nostre eccellenze.

    Perché una laurea a Nello Costabile

    La laurea honoris causa è arrivato per l’impegno profuso dal Maestro Costabile per l’affermazione del teatro professionale in Calabria e per il lavoro svolto a livello nazionale ed europeo. Il titolo accademico onorifico trova, infatti, riscontro nella seguente motivazione: “Per gli studi e le ricerche sulla regia contemporanea, sul gesto come elemento trasversale tra i generi, sulla maschera di Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte. Per la sua instancabile attività a favore della ricerca e della formazione teatrale che da oltre 40 anni lo vede impegnato nella creazione di un teatro d’arte per le giovani generazioni e l’area della disabilità non solo nella nostra terra, ma in un più ampio contesto europeo con rapporti di collaborazione con network teatrali di rilevanza transnazionali”.
    Eppure questo riconoscimento poco spazio ha trovato sulle pagine dell’informazione regionale, a conferma di quanto il nostro teatro e le sue maestranze vengano marginalizzate, ignorate e sottovalutate.

    Il precedente

    Nello Costabile ironizza dicendo che questo è un cerchio che si chiude e ricorda che all’inizio della sua carriera, nel 1977, proprio Catanzaro gli aveva conferito il IX Premio Nazionale di Teatro, Musica e Poesia per il miglior testo e la migliore regia per lo spettacolo “Maschere e diavuli- Frammenti di un teatro popolare”.
    Ma la carriera del Maestro tutto può dirsi meno che conclusa. Nello Costabile continua il suo lavoro di ricerca sulle relazioni trasversali tra le discipline dello spettacolo dal vivo, un lavoro artistico, di regia e di pedagogia che si sviluppa in un continuo confronto tra tradizione e nuove tendenze della scena, guardando al teatro di figura, alla maschera, alle arti visive, al nuovo circo, alla danza, alle nuove tendenze musicali, alla riscoperta della marionetta, tutto in  un possibile incontro con le nuove tecnologie.

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    Uno scorcio dell’ABA di Catanzaro

    Possiamo considerare la lunga esperienza professionale di Costabile come parte di un patrimonio immateriale della nostra cultura e in virtù di quanto afferma François Jullien, non dobbiamo pensare che si tratti di valori immobilizzati, quanto di un qualcosa che possa servire da trait d’union tra la tradizione e il futuro culturale da costruire. Il patrimonio culturale deve dialogare con il presente per costruire un futuro, questo è possibile a patto che le istituzioni ne favoriscano il confronto. Allora Costabile può essere quel ponte tra la storia del teatro fatta dai grandi maestri delle avanguardie europee degli anni ’70 del ‘900 con un presente non ancora storicizzato e difficilmente classificabile.

    Nello Costabile e la sua carriera

    Il direttore dell’Accademia, Virgilio Piccari, insieme ad un’ampia commissione di docenti e rappresentanti degli studenti, ha conferito il diploma al regista calabrese riconoscendo il valore della storia professionale del maestro. Ripercorrere le tappe di una lunga e proficua carriera risulta difficile nel ristretto spazio di un articolo, ma già una sintesi sottolinea la ricchezza di una vita dedicata al teatro.
    Tra i maestri di Costabile è doveroso menzionare la regista teatrale e cinematografica francese Ariane Mnouchkine e la sua conseguente formazione presso il Théâtre du Soleil, il maestro Peter Brook dal quale ha appreso i fondamenti della messa in scena, del lavoro con la maschera e l’importanza dell’uso del corpo per il lavoro dell’attore.

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    Jerzy Grotowski

    Nel 1975 l’incontro con Jerzy Grotowski nel Laboratorio di Wroclaw in Polonia, e per la Biennale di Venezia partecipò al “Progetto speciale Jerzy Grotowski, lavorando con Ludwik Flaszen, co-fondatore insieme a Grotowski del Teatro Laboratorio.
    Fu proprio alla Biennale Teatro di Venezia che avvenne l’incontro con il Living Theatre. Da qui l’amicizia e il lungo rapporto di collaborazione con Julian Beck e Judith Malina, tanto da rivestire il ruolo di delegato della compagnia all’organizzazione della tournée in Italia. Grazie al rapporto con il Living, nel 1976 organizzò a Cosenza il “Progetto di contaminazione urbana” al quale partecipò anche l’importante compagnia argentina la Comuna Baires.

    Gli anni di Giangurgolo

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    Nello Costabile nei panni di Giangurgolo in un’immagine d’epoca

    Due anni prima, nel 1974, per la Rai il regista Enrico Vincenti, che stava realizzando una serie di cortometraggi sulle maschere della Commedia dell’Arte, gli chiese di partecipare recitando la maschera del Calabrese, Capitan Giangurgolo, assente dalla scena dal 1650. Nello stesso anno interpretò la maschera nello spettacolo Bertoldo a corte di Massimo Dursi, sempre con la regia di Vincenti. Gli  studi e le ricerche degli anni successivi su Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte fanno oggi di Nello Costabile il più importante studioso di questa maschera, come gli viene riconosciuto da due esperti internazionali di Commedia dell’Arte quali Arianne Mnouchkine e Carlo Boso.

    Nello Costabile è stato tra i fondatori della prima compagnia professionistica calabrese, la Cooperativa Centro RAT, che ha anche diretto fino al 1979. in quell’anno, poi, il Comune di Cosenza gli ha offerto la direzione del Teatro Comunale “Alfonso Rendano”, di cui è stato il primo direttore artistico.
    Con l’entrata in attività del Consorzio Teatrale Calabrese – Teatro Stabile Regionale ha ricoperto il ruolo di primo direttore. Dopo aver diretto compagnie, teatri e vari festival da oltre un ventennio si dedica, esclusivamente, alla regia e ad attività di educazione e pedagogia teatrale per le nuove generazioni e per ragazzi e giovani con disabilità e disagi sociali.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Nello Costabile e la Francia

    La sua solida conoscenza delle reti professionali, delle istituzioni e delle politiche culturali a livello europeo gli ha permesso di essere coinvolto anche in vari progetti e collaborazioni internazionali. In particolare con la École Supérieure Internationale d’Art Dramatique di Versailles, con l’Insitut de Teatre di Barcellona, il Théâtre de la Semeuse di Nizza e la FC-Produções Teatraidi Lisbona.
    È tra i fondatori e consigliere di amministrazione dell’Union Europèenne du Nouveau Théâtre Populaire, network europeo di festival, compagnie e scuole teatrali di Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Finlandia, con sede presso il Comune di Versailles. Il network si occupa di cooperazione per la formazione, la programmazione e la creazione nelle arti della scena a livello internazionale.

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    L’edificio che ospita la Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille

    In Francia Costabile ha ottenuto importanti riconoscimenti accademici. Tra questi, la Laurea in Arti dello Spettacolo–Studi Teatrali dall’Università di Rennes; la Laurea magistrale in Arti della Scena e dello Spettacolo dal Vivo-Progetto culturale e artistico internazionale dall’Università di Parigi 8, Vincennes/Saint Denis; il Diploma di Stato di Professore di Teatro, rilasciato dalla prestigiosa Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille, sotto la tutela del Ministero dell’Educazione Nazionale Francese.
    Nel 2013, l’Ambasciata della Repubblica d’Indonesia in Italia gli ha conferito il riconoscimento ufficiale di Ambasciatore Culturale per la Promozione in Europa del teatro-danza balinese.

    Passato, presente e futuro

    Nella ristretta bibliografia sul teatro calabrese è triste constatare quanto nessuno, neanche a livello accademico, si sia occupato della storia del teatro dagli anni ’70 in poi. E se da una parte è vero che la Calabria risente della mancanza di una tradizione teatrale, dall’altra c’è tutta una storia, quella dell’incontro con le avanguardie degli anni ’70, che è stata completamente trascurata.
    Un colloquio con il teatro di quegli anni potrebbe raccontarci molto sui processi storici di un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Proprio per questo un dialogo con Nello Costabile potrebbe essere il nostro sguardo diretto su un passato che tanto potrebbe raccontarci su quello che siamo diventati. Gustav Mahler affermava che «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri», noi invece semplicemente ignoriamo il passato, non guardiamo al presente. E difficilmente riusciremo a costruire un futuro culturalmente partecipato.   

                  

  • Spaesati, dimora per vite mobili

    Spaesati, dimora per vite mobili

    Alcune foto valgono più di mille parole. Più di mille battute si dice(va) nelle redazioni giornalistiche dell’era cartacea. Una in particolare resta nell’immaginario di una regione e di un Sud dove l’esodo prosegue la sua corsa con numeri drammatici: la stazione dei pullman di Cosenza presa d’assalto da chi accompagnava giovani e meno giovani in cerca di un futuro, di studio o lavoro, altrove. Il rito della spartenza, termine ormai entrato nel vocabolario quotidiano, rappresenta sia la sofferenza di chi lascia un pezzo di vita qui, sia la lacerazione di chi rimane. Spartenza è una delle parole che abitano Spaesati (Il Mulino, 2023), libro scritto da due scienziati sociali come Massimo Cerulo e Paolo Jedlowski. Ma non se ne fa un uso pietistico e meridionalistico. Tutt’altro.

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    Massimo Cerulo è professore ordinario di Sociologia generale all’Università “Federico II” di Napoli

    Se partire è un po’ morire, non farlo rischia di essere peggio. Certo, il concetto di restanza dell’antropologo Vito Teti ha trovato un seguito numeroso nei tanti teorici (spesso accomodati bene) della Calabria felix. Massimo Cerulo – professore ordinario di Sociologia all’Università “Federico II” di Napoli che insegna pure all’Université Sorbonne Paris Cité – smonta questa retorica nata attorno alla restanza: «Una visione troppo romantica» con la tendenza a giustificare l’ingiustificabile di un Sud che «ci ha ostracizzati, cacciati via, asfissiati».
    «Forse la spartenza è stata una fortuna» – scrive di se stesso. E cosa ne facciamo della terra dei padri come recita uno slogan prêt-à-porter in voga quaggiù? Al Sud «ci si può tornare. Poi è necessario ripartire, abbandonarlo. Senza voltarsi indietro». Può sembrare impietoso. In parte è così. Qualcuno doveva pur rimodulare l’illusione prodotta dal Pensiero meridiano di Franco Cassano. Non siamo in presenza di un antimeridionalista militante come Giorgio Bocca. Cerulo, al contrario, confessa il suo amore senza limiti in un passaggio del libro, quando «il treno arriva a Paola… In un tardo pomeriggio di maggio, sul mare… Il Sud ti esplode in petto». Non serve aggiungere altro.

    Meravigliosi ossimori

    Eccoli i meravigliosi ossimori del meridione, i paradossi a cui si aggrappano le eccezioni che confermano la regola. Si pensi al milanese Paolo Jedlowski, coautore del libro, professore ordinario di Sociologia generale all’Università della Calabria fino a poco tempo fa. Sua moglie, la sociologa Renate Siebert, vive a Roma. Il resto della sua famiglia sparsa tra l’Italia e la Francia. La sua vita da prof sempre in movimento. Inevitabile chiedersi dove è casa? Una domanda tipica delle vite mobili analizzate nel libro. Che non sono quelle dei viaggiatori, dei migranti, dei turisti. Ma di chi abita spazi e tempi diversi, fuori dalla stretta esigenza del piacere o della necessità. Orizzonti disintegrati al sapore della spaltung (scissione) freudiana.

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    L’ultima lezione (sul suo amato Walter Benjamin) del prof Paolo Jedlowski all’Università della Calabria

    Un po’ come per i nomadi casa è «l’insieme di memorie condivise», il «racconto». Il Racconto come dimora, guarda un po’, è proprio un libro dello stesso Jedlowski dedicato alla monumentale Heimat del regista tedesco Edgar Reitz. E Nostalgia di terre lontane è il titolo di un episodio di quella saga in celluloide. Ci ricorda che casa non è per forza un concetto stanziale, vicino, prossimo. Almeno per chi vuole vivere molte vita in una sola, come fa notare Cerulo, editorialista dell’Huffingtonpost.it. Gli inglesi dicono larger than life.

    Vivere “tra”, spaesati in un perenne stato d’eccezione non è per niente facile. A volte si cerca rifugio, ci si sente a casa in una biblioteca, nel solito bar in aeroporto, in una caffetteria della stazione. Luoghi terzi – ampiamente studiati dal prof della “Federico II” – in cui ritrovare le coordinate, sopravvivere alle apocalissi culturali, alle microfratture del senso. In uno degli ultimi capitoli Massimo Cerulo ricalibra lo spaesamento di Ernesto de Martino, adattandolo alle vite mobili. Crisi della presenza e ricomposizione si alternano anche qui, dove la grammatica dell’andirivieni riconfigura certe esistenze inquiete per natura e per scelta.

    “Spaesati”, un libro di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo (Il Mulino, 2023)
  • Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    La Moltitudine esiste e nei giorni scorsi ha scelto come luogo di raduno il Centro storico di Cosenza. Giovani e vecchi, studenti e professori, bambini e famiglie, ultras e volontari, hanno dato vita alla terza edizione della Summer school dell’Unical che si è svolta tra le antiche pietre della città. La scelta è ovviamente assai più che simbolica, esprime per intero una idea differente di abitare gli spazi urbani, un progetto che “insorge” direttamente dal basso, essendo la politica istituzionale rimasta a guardare e forse nemmeno a fare quello. Ne è uscita una foto senza ritocchi, in cui la bellezza che resta fa i conti con la minaccia sempre più reale del degrado.

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    Alunni del quartiere storico Spirito Santo

    Il centro storico dunque è stato scelto come luogo d’incontro tra la città e l’Università, che come avvisa Mariafrancesca D’Agostino, sociologa dell’Unical «rischia un atteggiamento autoreferenziale, mentre deve riscoprire il suo ruolo di promozione di saperi critici, diffusi e condivisi». Abitare il centro storico, riempirlo di contenuti, parole, dibattiti e progetti «rappresenta uno sforzo per battere una visione rassegnata, che non sembra immaginare salvezza per la città vecchia», spiega cui guardare la sociologa. In realtà la prospettiva da cui guardare deve essere assai più ampia, perché il destino della parte antica della città, non può essere separata da quella della città intera e perfino dell’area urbana, «perché pensare all’uso degli spazi urbani, alla loro fruizione, alla loro valorizzazione attraverso la presenza reale delle persone, vuol dire immaginare uno sviluppo sostenibile in grado di dare futuro alla città».

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    La sociologa dell’Unical, Mariafrancesca D’Agostino (a sinistra)

    Il Comune grande assente

    Alla costruzione di questa esperienza fatta di confronto politico e allegria c’è stato un grande assente: il Comune di Cosenza. «Prima della vittoria del centro sinistra – dice la D’Agostino – al comune avevamo una giunta che pensava in termini di grandi opere, una visione che era incompatibile con la nostra idea di sviluppo», L’arrivo di Franz Caruso a Palazzo dei Bruzi poteva cambiare le cose e invece no. Uno dei motivi della mancata interlocuzione è lo scontro che mesi fa si è consumato tra Massimo Ciglio, preside dell’Istituto comprensivo dello Spirito Santo, che dell’esperienza della Summer school è stato protagonista e lo stesso sindaco. Lo scontro riguardò l’uso dello slargo su via Roma, chiuso da Occhiuto al traffico e poi riaperto alle macchine da Caruso. In quella occasione il preside manifestò contro la decisione dell’attuale sindaco e da questi fu denunciato. «Date queste premesse – racconta la sociologa dell’Unical – era difficile immaginare una interlocuzione con l’amministrazione che aveva criminalizzato uno dei protagonisti dell’esperienza della Summer school».

    Un altro momento della Summer school

    Contro la marginalizzazione

    In realtà il mancato confronto potrebbe avere ragioni più profonde, visto che è Stefano Catanzariti a spiegare come sembri che a «Palazzo dei Bruzi manchi qualunque forma di visione riguardo il centro storico e la città intera»
    Il centro storico, da questo punto di vista appare come lo specchio del resto della città, «perché il suo abbandono è il segno più evidente di una assenza di idee da parte di governa Cosenza».

    Un vuoto di idee che pesa, per esempio, ancora sui famosi 90 milioni, per i quali, ricorda ancora Catanzariti, all’inizio era partita una forma di interlocuzione con le realtà del territorio riguardo al loro uso mentre adesso manca ogni forma di progetto partecipato e condiviso. Separare il destino delle antiche pietre, dei palazzi storici, da quello delle persone, crea processi di gentrificazione, ma prima ancora di spopolamento, marginalizzazione, degrado sociale e urbano, «mentre dovremmo avviare percorsi politici per creare le condizioni per restare, dare motivi alle nuove generazioni per non andare via dal centro storico e più in generale dalla città, arginare con buone pratiche lo spopolamento». Oggi per la politica istituzionale il progetto più urgente e attuale sembra quello di dare vita all’idea della grande città dell’area urbana senza tenere conto del rischio che questa super città nasca vuota.

  • ‘U scienziatu

    ‘U scienziatu

    Ma veramente?!? Questo di cui fino a cinque minuti fa ignoravamo bellamente l’esistenza e che fra un po’ gli diamo la cittadinanza onoraria in pompa magna, tale Georg Gottlob, docente di informatica e uno dei massimi esperti di intelligenza artificiale, lascia la prestigiosa University of Oxford per venire a insegnare a Rende, e soprattutto, a vivere a Paola?!? «Vivrà a Paola e insegnerà in Unical», c’è scritto proprio così, «Vivrà a Paola e insegnerà in Unical», ripeto questa frase ossessionato e scusami se rido, come Battisti sono preso da un’impazienza. Sarà vero per davvero?!? Eppure è il Corriere della Sera, mica Lercio o l’albo pretorio di Bugliano, «Vivrà a Paola e insegnerà in Unical»!  Bah… toccherà impararlo per ricordarlo questo nome, Georg Gottlob, GiGì, che d’ora in poi insieme a San Francesco, Paola sarà la città d’ù Scienziatu (la città dello scienziato): sono di Paola, la città di quello che s’è trasferito da Oxford, non hai letto?!? Gottlob, ‘u cchiù (il più) grande esperto mondiale di intelligenza artificiale! Meraviglia da provinciale la mia, lo so, ma che ci vuoi fare, siamo pur sempre ai confini del regno… Però non puoi capire, compà, dopo tanti anni mi sono sentito come quann’era giuvine, che i ‘guagliune mi sguardavano ccu certi occhi ca mi facìanu mora: ammè, proprio ammè?!? (quando ero giovavane, per i lettori non autoctoni, che le ragazze mi lanciavano certi sguardi che toglievano il fiato) Ecco, stu GiGì m’ha restituito la sensazione dell’essere desiderabile, che dopo tanto scarnificare, analizzare e blablare addosso non è male. È un’illusione che aiuta, anche quando un giorno si stancherà ‘i caminà supa ‘u lungomare (di camminare sul lungomare) e andrà a miracolare qualcun altro, mentre di lui resterà una piazza di periferia con i gerani ammusciati (appassiti).

    Attilio Lauria

  • Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

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    Un giovane Arthur Rimbaud

    L’amico (non) ritrovato

    Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.

    Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

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    Gli aeroporti sono tra i non-luoghi descritti da Marc Augé

    Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane

    La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.

    Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.

    In fuga con Rimbaud

    La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».

    Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

    Marc Augé

    Marc Augé contro ogni conformismo

    Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».

    Etnofiction

    In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

    “Diario di un senza fissa dimora”, un libro di Marc Augé

    Il reale senza reality

    Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
    Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».

    Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».

    L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    In Calabria con Marc Augé

    Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.

    Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.

  • Roccella pronta per il suo Festival di filosofia

    Roccella pronta per il suo Festival di filosofia

    È Physis il tema della XIV edizione della scuola estiva di altra formazione in filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica, che si svolgerà dal 22 al 29 luglio 2023. La parola chiave è greca e significa “natura”, l’idea infatti è di ripensare a questo concetto antichissimo che nell’epoca della crisi ambientale globale è al centro di molteplici interessi e preoccupazioni.

    Il tema della natura si riconnette alla riflessione sul nesso scienza-tecnica che è stato filo conduttore dei due anni precedenti: «È urgente indagare con senso critico l’impatto della tecno-scienza sull’ambiente, ossia sull’insieme delle forme di vita che popolano la Terra. La materia vivente è sotto attacco – consumata, inquinata e mercificata – e tra le specie a rischio ormai c’è anche quella umana. Allora la domanda diventa: è possibile immaginare un’altra natura?». Così si legge in un comunicato stampa del direttivo di Scholé, l’associazione organizzatrice dell’iniziativa.

    La Scuola parte il 22 luglio 2023 alle ore 18.00 nel salone dell’ex Convento dei Minimi con la lezione inaugurale del direttore Bruno Centrone (Pisa): “Physis alle origini: generazione, natura, essenza”. Seguirà un programma molto fitto, composto da una trentina di appuntamenti animati da voci filosofiche, sociologiche, filologiche, scientifiche e giuridiche: Gennaro Avallone (Salerno), Paolo Bussotti (Udine), Fortunato Maria Cacciatore (Cosenza), Giancarlo Cella (Pisa), Claudio De Fiores (Napoli), Arianna Fermani (Macerata), Cristiana Franco (Siena), Anna Maria Urso (Messina).
    Le lezioni, gli inviti alla lettura e gli incontri serali, che toccheranno come d’abitudine diversi luoghi e spazi di Roccella, saranno trasmessi anche on-line tramite Zoom. La Scuola è libera perché si autofinanzia e da qualche giorno Scholé ha rilanciato la campagna “Think Sharing” finalizzata a sostenere l’iniziativa.

    Per tutte le informazioni sulle modalità di partecipazione basta consultare il sito web www.filosofiaroccella.it e le pagine Facebook e Instagram. Sempre sul sito è già disponibile il programma degli incontri. La Scuola è organizzata da Scholé in collaborazione con il Comune di Roccella Jonica, l’Università di Macerata, l’Università di Pisa e Radio Roccella.

  • Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Chissà questa destra di governo e di rigurgiti autoritari quanto avrebbe odiato quel pretaccio di Barbiana. Probabilmente parecchio. Probabilmente gli avrebbe riversato addosso tutto il fango mediatico di cui sarebbe stata capace, del resto uno che fa il prete ma non predica l’obbedienza è già uno strano, se poi si mette in testa che siamo tutti uguali e abbiamo diritto alle stesse opportunità, anzi chi sta indietro di più, allora va contro l’idea di scuola del merito fondato sul privilegio di classe e quindi, insomma, è uno pericoloso.

    Altro che Barbiana, a don Milani la destra di oggi avrebbe riservato un destino ben più crudele che un confino in montagna: schiacciato sui social e sui media addomesticati da quegli «scrittori salariati» che oggi si trovano a buon mercato.

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    Rivoluzionario. Un aggettivo per Don Milani

    Perfino la Fondazione Agnelli

    Don Lorenzo Milani nasceva cento anni fa e il suo agire politico – perché di questo si è trattato – avrebbe trovato il culmine nel maggio del ’67 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa, il manifesto sull’ingiustizia della scuola. È difficile trovare qualcuno che critichi apertamente la visione di don Milani, perfino la Fondazione Agnelli, che prospetta da sempre futuri neo liberisti e mercantili per l’istruzione, sul suo sito pubblica articoli positivi sull’esperienza della scuola di Barbiana. Il motivo è che è impopolare dire che la scuola deve fare la selezione, occorre far passare questo messaggio in modo obliquo, in maniera che sembri accettabile.

    Contro la scuola dei “migliori”

    Don Milani ha avuto molti discepoli, ma tra essi non la politica che della scuola ha fatto sempre la Cenerentola, (è di oggi la notizia che il governo Meloni annuncia il taglio di 79 mila posti negli asili) o peggio una trincea da conquistare. Ed ecco che torna la scuola che fa andare avanti i “migliori”, solo che questi, ieri come oggi, sono “i figli del dottore”, dei tempi di Milani, quelli che provengono da famiglie con massime risorse e per ciò stesso con ottime opportunità.
    Don Milani della scuola del merito e del logo grottesco che evocava fasci littori (poi ritirato dal ministero perché certe cose sono pessime pure per loro), non avrebbe riso, perché era pure piuttosto incazzoso, ma avrebbe spiegato che il merito è un inganno, una trappola classista per separare e fare differenze. Perché le disuguaglianze nella scuola ci sono ancora, anzi sono acuite, a più livelli.

    Una questione di lavagne Bosch

    Alcuni anni fa, nel corso di un convegno nazionale sulle esperienze dei licei economico-sociali presso un grande istituto milanese, emerse che uno dei partner di quella scuola era la Bosch, che i ragazzi facevano tirocini nell’azienda e ogni anno le classi avevano una Lim (lavagna interattiva multimediale) nuova e il mio pensiero andò a quei docenti calabresi che invece l’ingiustizia sociale e la fatica di fare uguaglianza devono affrontarla a mani nude. La Bosch non sana la inuguaglianza sociale, ma senza quelle risorse è più difficile, perché alla fine è una questione di soldi e di opportunità. Basti pensare al salto compiuto dalla Calabria nella sola vera rivoluzione compiuta da queste parti, cioè la nascita dell’Unical, grazie alla quale si è passati in un tempo ragionevolmente breve da una generazione di semi analfabeti a una di laureati.

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    Don Milani fa lezione in classe

    Le parole di Don Milani

    E dentro questo contesto che le parole d’ordine di Lorenzo Milani disvelano la loro potente attualità: il prendersi cura degli altri, come segno d’opposizione ai “mene frego” di ieri e riproposti oggi, la negazione dell’obbedienza come virtù e la rivendicazione del diritto a “non tacere”, che sarebbe stato più compiutamente rappresentato negli anni successivi da un altro prete eretico, Don Sardelli, l’antimilitarismo, il rifiuto di fare la differenza tra italiani e stranieri e infine l’idea mai tramontata di fare della scuola il luogo di riscatto, di emancipazione, di reale mobilità sociale, insomma il sapere come potere rivoluzionario di cambiamento personale e collettivo. Perché la scuola deve essere sovversiva e a spiegarcelo, tra gli altri, c’è stato pure un prete.