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  • Telesio: le idee, l’Inquisizione e la sua Cosenza

    Telesio: le idee, l’Inquisizione e la sua Cosenza

    «Credevo che in Cosenza non ci fossero occhi tanto acuti, che quelli miei errori quali non sono stati visti in Roma, né per il resto d’Italia, fosser visti in Cosenza». È un Telesio amaramente sarcastico quello che emerge dalla lettera scritta, nella primavera del 1570, al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo di Cosenza. Proprio nella sua città natale «occhi tanto acuti» avevano visto nella prima edizione del De rerum natura, pubblicata a Roma cinque anni prima, «altre propositioni contra la religione».

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    La statua di Bernardino Telesio a Cosenza

    Telesio, Cosenza e l’Inquisizione

    Le accuse erano pesantissime: a Cosenza si diceva che Telesio difendeva la tesi della mortalità dell’anima e negava che i cieli fossero mossi dalle intelligenze. Lui controbatteva facendo i nomi di coloro i quali avevano sottoposto a revisione il testo del 1565 – che è il suo vero capolavoro – e soffermandosi, in particolare e non per caso, sul domenicano Eustachio Locatelli, severo inquisitore di Bologna, dal 1560 procuratore generale del suo ordine e maestro di teologia, poi confessore di papa Pio V, che lo aveva nominato vescovo di Reggio Emilia nel 1569.

    Ricordava al cardinale Orsini che sia Gaspar Hernández, rettore del Collegio dei gesuiti napoletani, sia Alfonso Salmerón, preposto generale della provincia gesuitica napoletana, avevano dato il loro assenso anche sulle «altre cose»: in particolare, sul numero dei primi corpi del mondo e sulla «materia, et natura del Cielo». I due gesuiti gli avevano assicurato che la tesi secondo cui, «come vole Aristotele», i cieli sono mossi dalle intelligenze «nella scrittura non si trova», e Hernández la giudicava addirittura «assurda, et ridicula». Insomma, nessuno mai – dichiarava enfaticamente Telesio – «seppe vederci cosa contro la religione».

    La difesa di Tommaso Campanella

    Ora però, e proprio a Cosenza, molte «cose» incompatibili con l’ortodossia cattolica venivano viste e denunciate attraverso precise accuse, che – tanto per essere chiari – erano tutto meno che infondate. Era infatti vero che Telesio non voleva sentire parlare di intelligenze o di anime motrici o di motori separati e immobili, e che la tesi platonico-ermetica dell’animazione dei corpi celesti gli sembrava insensata. Ma la vera questione delicata riguardava la concezione dell’anima umana. Tommaso Campanella era sempre stato profondamente legato al «gran Cosentin», e, quando, giovanissimo, si era ritrovato confinato nel piccolo convento di Altomonte, nel giro di pochi mesi aveva scritto un tomo di cinquecento pagine contro gli attacchi sferrati a Telesio da un giurista napoletano.

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    Una vecchia edizione del “De Rerum Natura Iuxta propria principia”

    Un percorso difficile e pericoloso

    Campanella aveva capito fin troppo bene la tesi telesiana della materialità dell’anima umana, e ad esempio nell’Ateismo trionfato aveva lasciato intendere di aver compreso che per Telesio l’anima umana era soltanto una sostanza «calda e sottile». Del resto – e Campanella se ne era sicuramente accorto – i riferimenti di Telesio a un’anima immateriale infusa da Dio, sempre più insistenti col passaggio da un’edizione all’altra del De rerum natura, rimanevano estranei tanto all’ambito conoscitivo quanto all’ambito etico. Come non accorgersi poi che la solenne dichiarazione di sottomissione alla Chiesa cattolica e di esplicita negazione della libertà di pensiero, con la quale si apriva la terza e ultima edizione (1586), era soltanto il frutto di un compromesso accettato obtorto collo? Un compromesso che giungeva alla fine di un percorso che era sempre stato difficile e pericoloso.

    Telesio nell’Indice dei libri proibiti

    Nella lettera a Orsini – che conosciamo da poco tempo – Telesio aveva già manifestato la sua volontà di sottomissione e la sua eventuale disponibilità ad abiurare. Se ho sbagliato – scriveva – sono pronto a correggere i miei errori perché «la mente mia, è per gratia di N. S.re Dio, et sarà sempre sogettissima, et inchinatissima alla vera, et cattolica religione». Sono pronto – aggiungeva Telesio – «ad abbruggiar tutte le mie opre, quando mi fusse mostro, che non siano piene di pietà christiana». Si sottometteva e auspicava che un’eventuale revisione fosse affidata «a persona discreta, et non troppo additta alla dottrina d’Aristotile». Ma tutte queste cautele alla fine non salvarono – né potevano – le sue opere dalla condanna ecclesiastica e dall’inclusione nell’Indice dei libri proibiti del 1593 e poi del 1596, seppure con la clausola attenuante «donec expurgentur».

    Una missione impossibile

    I tentativi di rimettere in circolazione i testi telesiani, dopo un’opportuna espurgazione, fallirono miseramente. Nel 1601 ci provò la città di Cosenza, con in testa Orazio Telesio, nipote del filosofo.

    Ci si rivolse al cardinale Agostino Valier affinché la Congregazione dell’Indice istituisse una commissione per la revisione dei testi telesiani: «La città di Cosenza, devotissima di questa Santa Sede e di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima, e Orazio Telesio, servitore di Vostra Signoria illustrissima e nipote del detto Bernardino, quella mossa da zelo di carità verso un cittadino e figliuolo nato nobile e fratello d’un Arcivescovo della stessa città, e questi per onore della sua famiglia, umilmente supplicano e con quanto affetto possano maggiore Vostra Signoria illustrissima e reverendissima, che si degni di operare nella Congregazione dell’Indice si commetta ad alcuni teologi e filosofi, che riveggano ed espurghino i detti libri di tutti quegli errori…». Orazio Telesio fu alla fine ricevuto a Roma al cospetto della Congregazione, ma la decisione era stata di fatto già presa: l’espurgazione era ritenuta impossibile.

    I Telesio “troppo” vicini ai Valdesi

    Senza dubbio tutte queste vicende hanno, per molto tempo e negativamente, influenzato i rapporti tra la città di Cosenza e la memoria di Bernardino Telesio. Andrà anche ricordata la vicinanza dei Telesio ai valdesi. Antonio Telesio, celebre poeta e zio di Bernardino, era stato legato a personaggi come Apollonio Merenda e Scipione Capece, critico severo dell’aristotelismo. Bernardino stesso fu legato invece a Mario Galeota, uno dei più influenti seguaci di Juan de Valdés che aveva «infectato tutta Italia de heresia», come fu dichiarato nel corso di un processo. E i fratelli di Bernardino avevano avuto, anche loro, seri problemi con l’Inquisizione. La Calabria di allora era pervasa da una religiosità marcatamente eterodossa. Forse non è un caso che dei funerali di Telesio, morto a Cosenza nell’ottobre del 1588, non sappiamo praticamente niente, e non sappiamo nemmeno dove sia stato sepolto.

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    La copertina del libro del professor Roberto Bondì su Bernardino Telesio

    Il primo dei moderni

    Bernardinus Consentinus: così amava presentarsi spesso nelle sue opere che hanno fatto di lui uno dei maggiori pensatori del Rinascimento europeo. Il grande filosofo inglese Francis Bacon lo definiva «primo dei moderni». La definizione baconiana è quella più appropriata per cogliere il significato storico di colui che si era proposto di cambiare una mentalità e che apparirà a Galileo un «venerando padre».

    La questione della «modernità» di Telesio è inseparabile dalla questione della discontinuità – perché anche di questo si è trattato – di Telesio rispetto al mondo magico: una discontinuità esplicitamente rivendicata. Nel nuovo naturalismo telesiano il rifiuto del principio di autorità si saldava con la fiducia nel progresso della conoscenza umana. Telesio pensava che il mondo fosse ancora tutto da scoprire, solo che si fosse stati disposti a rifiutare la cultura libresca e a tornare alle cose, cioè a essere liberi. È una di quelle lezioni destinate a durare nel tempo.

    Roberto Bondì (professore ordinario di Storia della Filosofia)

    Università della Calabria

  • Il Liceo Telesio celebra la Giornata mondiale della Filosofia

    Il Liceo Telesio celebra la Giornata mondiale della Filosofia

    “Il mondo come io lo vedo, la filosofia e i saperi scientifici” è il titolo dell’iniziativa organizzata dal Liceo Classico Bernardino Telesio di Cosenza e dell’Università della Calabria in occasione della giornata mondiale della filosofia che si celebra il 20 novembre. Appuntamento alle ore 10:30 nella sala Docenti e biblioteca Stefano Rodotà. Saluti istituzionali di Domenico De Luca, dirigente scolastico del liceo Telesio. Introducono: Roberto Bondì, professore ordinario di Storia della Filosofia all’Università della Calabria; Francesco Valentini, professore ordinario di Fisica all’Università della Calabria. Intervengono Vincenzo Fano, professore ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Urbino e Giulio Peruzzi, professore ordinario di Storia della Scienza all’Università di Padova.

  • Unical, 5 borse di studio per studenti palestinesi

    Unical, 5 borse di studio per studenti palestinesi

    Da oggi i giovani palestinesi possono candidarsi a UnicalPass – Unical for Palestinian Students Scholarships, un programma attivato dall’Università della Calabria che offre cinque borse di studio finalizzate alla frequenza dei corsi di laurea magistrale internazionali dell’Ateneo per l’anno accademico 2025/2026.

    UnicalPass nasce come gesto concreto di solidarietà e cooperazione, con l’obiettivo di promuovere il diritto allo studio, l’accesso all’istruzione superiore e la crescita personale in un contesto di dialogo interculturale e di integrazione. Grazie a questo programma, l’Università della Calabria rafforza la propria vocazione internazionale, caratterizzandosi sempre più come luogo di incontro e responsabilità sociale.

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    Le parole del rettore Greco

    «Siamo consapevoli delle difficoltà che accompagneranno questa iniziativa, in particolare in relazione alla necessità di attivare corridoi umanitari per l’effettivo arrivo in Calabria di studentesse e studenti palestinesi. Riteniamo però essenziale offrire il nostro contributo con responsabilità e generosità» – afferma il rettore dell’Università della Calabria, Gianluigi Greco. «Crediamo che anche un piccolo gesto possa fare una grande differenza: non è solo un sostegno economico, ma un investimento sociale e culturale. Le storie di libertà e coraggio delle studentesse e degli studenti palestinesi ci ricordano quanto l’istruzione superiore sia talvolta anche un privilegio, un potente strumento di emancipazione, di dialogo e speranza. Per noi è un atto di responsabilità morale sostenere queste giovani vite, contribuire a costruire ponti di conoscenza e ad aprire opportunità reali di studio e futuro».

    Unical, borse di studio per studenti residenti nei territorio palestinesi

    Le cinque borse di studio sono rivolte a candidati residenti nei territori palestinesi, che intendano iscriversi a uno dei corsi di laurea magistrale internazionali attivi nelle aree Ingegneria e Tecnologia, Scienze della Salute, Scienze e Socio-Economico.

    Ogni borsa prevede un sostegno complessivo del valore di 12.000 euro annui, che comprende l’esenzione totale dalle tasse universitarie, vitto e alloggio gratuiti, la copertura sanitaria, le spese di viaggio, un corso gratuito di lingua e cultura italiana e un contributo personale di 7.500 euro per anno accademico. Si tratta di un aiuto concreto e completo, che accompagna gli studenti in tutte le fasi del loro percorso formativo e di integrazione nella vita universitaria.

    Le parole della professoressa Loprieno

    «Questo programma rappresenta un primo, importante segnale dell’attenzione che l’Università della Calabria riserva alle studentesse e agli studenti che arrivano da contesti di guerra» – afferma Donatella Loprieno, Delegata per l’Accesso e il sostegno degli studenti rifugiati. «Offrire loro un’opportunità concreta di studio significa riconoscere il diritto all’istruzione e sostenere chi, nonostante condizioni difficili, continua a credere nella forza della conoscenza».

    Le candidature dovranno essere presentate via email, senza alcun costo di iscrizione, dal 14 al 21 novembre 2025. La graduatoria finale sarà pubblicata il 24 novembre 2025. I candidati selezionati dovranno poi richiedere il visto di studio entro il 30 novembre 2025 e completare l’immatricolazione entro il 28 febbraio 2026.

    Per proporre la propria candidatura: refugee@unical.it. Maggiori informazioni sui requisiti di partecipazione sono consultabili nella call UnicalPass in allegato.

  • Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    «Ci vediamo tra due sigarette». Quelle che Paolo Virno avrebbe fumato nell’intervallo tra la prima e la seconda ora di lezione all’Università della Calabria. Il prof ci ha lasciati a 73 anni. Ricordo bene la forza del suo insegnamento e quei pomeriggi passati ad ascoltarlo e prendere appunti seduto tra i banchi del cubo 28C. Ho fatto parte pure io della cantera di FSCC (Filosofia e scienze delle comunicazione e delle conoscenza) un po’ di anni fa, il nostro cubo di riferimento era il 18 C.

    A distanza di tempo rileggo quegli appunti e trovo sempre quella circolarità e quella quadratura delle sue lezioni, simili a certe partiture geometriche di Bach. Ah, Bach, Virno lo chiama in causa quando parla dell’attività senza opera (autotelica) di Aristotele nelle mani del pianista “artista esecutore” Glenn Gould, quello delle Variazioni Goldberg. Il prof poi spiegava l’altra faccia di questa medaglia, la creatività che cambia le regole (Chomsky), l’azione trasformativa rintracciata nel Saggio sul motto di spirito di Freud.

    PAOLO VIRNO, IL VOCABOLARIO DELLA “MOLTITUDINE”

    Virno aveva una potenza intellettuale notevole. Tutto compresso in quel gigante magro con il viso scavato e gli occhi azzurri, lo sguardo malinconico di uno che ne ha viste tante; troppe. Compresa la militanza politica in Potere operaio, le accuse, il carcere e poi l’assoluzione. Ha condiviso la voglia di leggere nelle contraddizioni del capitalismo con autori, alcuni anche suoi amici, come Toni Negri. Lo ha fatto cogliendo i fiori di pensatori fuori dagli schemi come Baruk Spinoza e in quella sua “moltitudine”, parola con dentro un mondo che ha alimentato il vocabolario del Movimento. Da leggere, tra i suoi libri, proprio “Grammatica della moltitudine” (DeriveApprodi 2014).

    I PARADOSSI DI PAOLO VIRNO

    Inconfondibile quel suo accartocciare la mano, quasi volesse trattenere i concetti. Ha lasciato una traccia importante all’Università della Calabria per poi passare all’Università Roma Tre. Amante di paradossi (in greco parà-doxa cioè contro l’opinione comune) – spiegati da Zenone a Russell -, non fu da meno quando un giorno iniziò un suo corso con una delle sue frasi memorabili: «Parleremo di un Marx anti-marxista». Noi tutti spiazzati, ci guardavamo disorientati. Poi capimmo il perché. Eravamo abituati al materialismo dialettico, ma ci eravamo persi il gran finale dell’autore dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”.

    Scoprimmo con Virno che Marx aveva intuito perfettamente cosa sarebbe successo a ridosso dei nostri anni: il Capitale va oltre la tipica e violenta aggressione al lavoro, salario, risparmio. Il suo obiettivo più ambizioso e subdolo resta la natura umana, la creatività. E la natura umana è quella che i greci chiamavano logos, pensiero e linguaggio. Eccolo, il linguaggio azzannato dove Virno incollava il nuovo fordismo dei call center. Io le ricordo ancora quelle lezioni: dal Frammento sulle macchine (che già a evocarlo sembra esserci una sorta di mistica) alla dimensione transindividuale, al General intellect.
    Virno non si è mai sottratto a dare il suo contributo. Nei suoi libri, nelle conferenze, nelle pagine scritte per Il Manifesto dove di tanto in tanto rincontravo le sue parole. Oggi quelle parole mancheranno un po’ a tutti noi del cubo 18 C.

    Alfonso Bombini

  • Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    In un’era dominata dal flusso incessante di contenuti digitali, dove le immagini si accumulano in cloud invisibili e algoritmi decidono cosa ricordare, la fragilità degli archivi audiovisivi delle televisioni private calabresi tra il 1974 e il 2004 emerge come un monito silenzioso. Questi archivi non sono semplici depositi di nastri magnetici o bobine polverose ma sono frammenti di una memoria collettiva, di testimonianze visive di un Sud italiano in transizione, segnato da lotte sociali, aspirazioni moderne e ombre persistenti di marginalità.

    IL DESTINO DEI SUPPORTI MATERIALI

    Eppure, la loro precarietà fisica, economica e culturale, li rende vulnerabili, quasi evanescenti, come echi di trasmissioni che svaniscono nel buio di una notte senza ricezione. Riflettere su questa fragilità significa interrogarsi non solo sul destino di supporti materiali, ma sul valore stesso della storia locale in un panorama mediatico globalizzato, dove il locale rischia di essere il primo a essere sacrificato sull’altare del profitto e dell’oblio.
    Il periodo 1974-2004 non è arbitrario, ma segna l’alba della deregulation televisiva italiana, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 1974 che liberalizza le trasmissioni via cavo, seguita dalla storica n. 226 del 1976 che infrange il monopolio RAI aprendo le porte alle emittenti private via etere.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’ARCHIVIO FRAGILE

    In Calabria, questa rivoluzione assume contorni peculiari che da un territorio economicamente fragile, con un tessuto produttivo dominato da piccole imprese e cooperative, nascono emittenti che diventano la voce autentica di comunità isolate, catturando rituali, proteste e volti quotidiani. Ma proprio questa prossimità al suolo, cioè la capacità di “raccontare il territorio”, come recita il progetto PRIN “Telling the Territory”, nel Dispes dell’Università della Calabria, di cui recentemente si è tenuto un convegno per illustrare la ricerca in corso, si rivela una condanna per la conservazione. Oggi, progetti come “L’archivio fragile” tentano di riscoprire questi tesori dimenticati, digitalizzando materiali che altrimenti rischierebbero la dissoluzione. Questa riflessione esplora le radici storiche di tale fragilità, le sue manifestazioni concrete e le implicazioni filosofiche per la nostra comprensione della memoria.

    IL MOSAICO DELLE TV PRIVATE CALABRESI

    La nascita delle televisioni private in Italia è figlia di un fermento sociale e giuridico che scuote gli anni Settanta. Il monopolio RAI, pilastro del consenso statale post-bellico, si incrina sotto il peso di movimenti studenteschi, operai e femministi, che reclamano una comunicazione più democratica e plurale. La sentenza del 1974, legittimando le trasmissioni via cavo in ambito locale, apre una breccia: da Telebiella nel Nord a pionieri meridionali come Telediffusione Italiana Telenapoli, le “libere” emittenti proliferano, passando da poche decine nel 1977 a oltre 600 nel 1980. In Calabria, questa espansione è tardiva ma intensa: la regione, con la sua geografia aspra e le sue divisioni provinciali (Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria), vede emergere canali come Telemia (fondata nel 1979 a Bova Marina), Promovideo TV negli anni ’80 e Reggio TV dal 1998, TeleCosenza, Telestars, ReteAlfa, eccetera, fino ad arrivare a network come LaC TV.

    UN SUD IN FERMENTO

    Queste emittenti non sono meri diffusori di intrattenimento, ma producono documentari e inchieste che penetrano l’essenza calabrese. Immaginate servizi su feste patronali a Tropea, proteste contro l’emigrazione a Reggio Calabria o reportage sulle cooperative agricole cosentine negli anni ’80, durante la crisi post-terremoto dell’Irpinia che lambisce il Mezzogiorno, giusto per fare qualche esempio. Tra il 1974 e il 2004, il panorama evolve, la legge Mammì del 1990 consolida il duopolio RAI-Mediaset, marginalizzando le realtà locali. La transizione al digitale terrestre, culminata in Calabria nel 2012, impone costi proibitivi e la legislazione del 2004 ridisegna il settore con norme stringenti. In questo arco, le TV private calabresi catturano un “Sud in fermento”: aspirazioni di modernità contro ombre mafiose, come le inchieste su ‘Ndrangheta che, pur censurate o autolimitate, filtrano nei telegiornali locali.

    UNA STORIA IN BETACAM

    Ma la loro produzione è artigianale: nastri VHS, U-matic e Betacam girati con budget risicati, spesso da operatori multifunzione in studi improvvisati. Qui risiede il paradosso: queste immagini, vicinissime alla vita, sono le più esposte al deperimento.
    La fragilità degli archivi audiovisivi calabresi si declina su più piani, intrecciando vulnerabilità tecnologica, precarietà economica e indifferenza istituzionale. Innanzitutto, il piano materiale: i supporti degli anni ’70-’90 – nastri magnetici in acetilcellulosa o poliestere – sono intrinsecamente instabili.

    LA SINDROME DELL’ACETO

    L’idrolisi, nota come “sindrome dell’aceto”, corrode questi materiali, rilasciando odori acidi e rendendoli illeggibili entro 20-30 anni se non conservati in condizioni ideali (temperatura sotto i 18°C, umidità al 40-50%). In Calabria, con climi umidi e depositi spesso in scantinati non climatizzati, questo degrado è accelerato. Molte emittenti, come quelle provinciali di Vibo Valentia o Cosenza, non hanno investito in digitalizzazione: i master originali giacciono in scatoloni, esposti a muffe, roditori o alluvioni. Il progetto “L’archivio fragile” dell’Unical ha riscoperto proprio questo: “archivi dimenticati” di emittenti private, dove bobine di documentari su migrazioni interne o tradizioni arbëreshë rischiano l’annientamento.

    COSÌ MUORE UN EMITTENTE

    Sul piano economico, la precarietà è endemica. Le TV locali calabresi nascono da iniziative imprenditoriali familiari o associative, con ricavi da pubblicità locale (negozi, sagre) che mal sopporterebbero i costi di conservazione. Negli anni ’90, la concorrenza di Mediaset e la crisi pubblicitaria post-2000 portano chiusure: emittenti come Studio 3 o Telespazio Calabria sopravvivevano con syndication precaria, senza fondi per archivi professionali. A differenza della RAI, con le sue Teche digitalizzate, queste realtà private non hanno obblighi normativi stringenti fino al 2004, e anche dopo, i contributi statali per le locali sono esigui. Il risultato è la dispersione. Al fallimento di un’emittente, i nastri finiscono in discarica, venduti a rigattieri o ereditati da eredi indifferenti. Un esempio emblematico è il fondo di Promovideo TV: attivo dagli anni ’80, i suoi archivi – ricchi di footage su eventi calabresi – languono in spazi non protetti, minacciati da obsolescenza tecnologica.

    In un Mezzogiorno storicamente ai margini della narrazione nazionale, questi archivi incarnano una “memoria minore”. Non epica, ma quotidiana: un servizio su una processione a Mammola o un dibattito su disoccupazione giovanile a Catanzaro. La loro fragilità riflette quella di un territorio emarginato, come denunciato nei documentari televisivi del periodo, che il progetto PRIN descrive come “voci del piccolo schermo d’inchiesta”. Senza riconoscimento istituzionale – a differenza degli archivi AAMOD a Roma o delle cineteche settentrionali – questi materiali rischiano l’oblio, perpetuando un colonialismo culturale interno all’Italia.

    LE ROVINE DI WALTER BENJAMIN

    Questa fragilità non è solo tecnica, ma è esistenziale. Riflettendoci, gli archivi audiovisivi calabresi evocano la teoria di Walter Benjamin sulla storia come “cumulo di rovine”, dove il passato non è lineare ma frammentato, recuperabile solo da chi osa frugare tra le macerie. In un contesto come la Calabria, segnato da terremoti metaforici – emigrazione, ‘ndrangheta, spopolamento – questi nastri sono rovine vive che catturano non la grande Storia, ma le storie di chi resiste.

    La loro precarietà interroga il nostro rapporto con la memoria: in un’era di big data, perché tolleriamo la perdita di miliardi di ore di footage locale? È forse perché, come suggerisce il convegno “Il documentario televisivo in Italia” all’Università del Salento, questi materiali sfidano il narrativo dominante, valorizzando “folclore e rivitalizzazione della cultura popolare” contro l’omologazione globale?
    Filosoficamente, la fragilità richiama Paul Ricoeur e la sua “memoria, storia, oblio”: senza conservazione attiva, la memoria si riduce a oblio selettivo, dove il Sud è sempre “altro” da narrare. Eppure, proprio qui sta la speranza: progetti come “Telling the Territory” dimostrano che la digitalizzazione non è solo salvataggio, ma atto etico di restituzione. Riscoprire un nastro su una protesta operaia a Gioia Tauro negli anni ’80 significa ridare agency a comunità silenziate, trasformando la fragilità in forza dialettica.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’UNICAL IN CAMPO PER DIFENDERE GLI ARCHIVI

    La fragilità degli archivi audiovisivi delle TV private calabresi (1974-2004) è metafora di un’Italia divisa: ricca di storie, povera di cure. Ma in questo rischio di perdita si annida un invito alla responsabilità collettiva. Istituzioni, università e comunità devono convergere – come nel PRIN Unical coordinato dal professor Daniele Dottorini – per digitalizzare, catalogare e narrare questi tesori. Chi scrive, con Patrizia Fantozzi e Antonio Martino, dell’unità di ricerca calabrese, è convinto che solo così, le immagini effimere diventeranno immortali, testimoni di un territorio che, pur fragile, ha sempre saputo inventare la propria voce. In fondo, conservare questi archivi non è mera filologia, ma è un atto di giustizia poetica, affinché il silenzio delle bobine perse non inghiotta il brusio vitale di una Calabria mai doma.

  • Gianluigi Greco nuovo rettore dell’Unical

    Gianluigi Greco nuovo rettore dell’Unical

    Il professore Gianluigi Greco è il nuovo rettore dell’Unical. Guiderà l’Università della Calabria per il sessennio 2025-2031. Nelle elezioni rettorali celebrate oggi, il direttore del Dipartimento di Matematica e informatica ha prevalso su Franco Ernesto Rubino, direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche e aziendali, ottenendo complessivamente 643,6 voti, pari al 78%, contro i 175,6 dell’avversario (22%).

    I VOTI

    In particolare, Greco ha ricevuto 556 voti dal corpo docente (143 Rubino). Ha poi ottenuto 125 voti dagli studenti (voto pesato 22,9), rispetto ai 54 ottenuti da Rubino (voto pesato 9,9), nonché 351 voti dal PTA (voto pesato 48,8) contro i 157 (voto pesato 21,8) dell’avversario e 68 voti dai ricercatori RTDA (voto pesato 6,8) rispetto agli 8 (voto pesato 0,8) di Rubino.

    L’introduzione del voto elettronico tramite la piattaforma Eligere e della modalità telematica per chi si trovava impossibilitato a raggiungere il Campus per comprovati impegni istituzionali o per certificati motivi di salute, hanno garantito la piena espressione del diritto di voto, un regolare svolgimento delle operazioni elettorali e un’ampia partecipazione, testimoniata da un’altissima affluenza.

    GIANLUIGI GRECO ELETTO NUOVO RETTORE UNICAL

    L’elezione di Gianluigi Greco segna l’affermazione di un candidato giovane ma già conosciuto a livello nazionale, che assicura una certa continuità di visione con la governance uscente. Infatti ha lavorato fattivamente all’interno degli organi di governo – in particolare come coordinatore della Commissione didattica del Senato accademico e della Commissione per le politiche strategiche di Ateneo – contribuendo concretamente al raggiungimento degli ottimi risultati che hanno contrassegnato il sessennio guidato dal rettore Nicola Leone. Con l’elezione di Gianluigi Greco, per la seconda volta nella storia dell’Ateneo, l’Unical sarà guidata da un suo ex studente. Il mandato inizierà ufficialmente il 1° novembre 2025 e terminerà il 31 ottobre 2031.

    IL PROF DI INFORMATICA

    Nato a Cosenza nel 1977, Gianluigi Greco è professore ordinario di Informatica presso l’Università della Calabria, dove ricopre dal 2018 il ruolo di Direttore del Dipartimento di Matematica e informatica. Dal 2018 è anche membro del Senato Accademico, organo in cui dal 2020 coordina la Commissione Didattica. Dal 2019 è altresì coordinatore della Commissione “PRO3” per la definizione e il monitoraggio delle politiche strategiche di Ateneo. In precedenza, dal 2019 al 2022, è stato coordinatore del Corso di Dottorato di Ricerca in Matematica e Informatica e, dal 2017 al 2020, è stato membro del Comitato Tecnico Scientifico del Centro Linguistico di Ateneo.

    Con all’attivo oltre 200 pubblicazioni scientifiche nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale, il prof. Greco ha ricevuto i più importanti premi e riconoscimenti scientifici nel settore, tra cui l’AAIA Fellowship (nel 2022, per i contributi alla diffusione dell’intelligenza artificiale a livello internazionale), l’EurAI Fellowship (nel 2020, per le attività di ricerca considerate tra le più rilevanti condotte in Europa), l’IJCAI Distinguished Paper Award (quale migliore lavoro scientifico a livello internazionale dell’anno 2018), il Kurt Gödel Fellowship Award (nel 2014, conferito dalla prestigiosa società austriaca Kurt Gödel Society), il Marco Somalvico Award (nel 2009, quale migliore ricercatore in Italia) e l’IJCAI-JAIR Best Paper Award (nel 2008, per la migliore ricerca degli ultimi 5 anni). È membro del comitato editoriale di numerose riviste di informatica e, in particolare, è Associate Editor della rivista “Artificial Intelligence Journal”, riferimento internazionale nel settore.

    AI VERTICI DELL’IA

    Da gennaio 2022 il prof. Greco è Presidente dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, società scientifica di riferimento nel settore, fondata nel 1988 e cui afferiscono oltre 2000 professori e ricercatori di Università e centri di ricerca. In rappresentanza dell’ecosistema italiano della ricerca, dal 2023 coordina la task force sull’IA istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dal 2024 è, inoltre, membro del Joint Advisory Group on AI, gruppo consultivo italo-canadese sull’Intelligenza Artificiale.

    Sul fronte del trasferimento tecnologico, numerose sono le iniziative progettuali che il prof. Greco ha coordinato con partnership industriali, supportando altresì diversi soggetti istituzionali nell’adozione di tecnologie digitali, tra cui recentemente AGENAS, AGID e MEF.

    È membro del Consiglio di Amministrazione nonché responsabile delle attività di trasformazione digitale e trasferimento tecnologico dell’ecosistema Tech4You, finanziato dal MUR per promuovere l’innovazione tecnologica in Calabria e Basilicata. È socio fondatore di due spin-off universitari. È membro del consiglio direttivo del Digital Innovation Hub Calabria, e del comitato tecnico-scientifico del Polo di Innovazione ICT e Terziario Innovativo “Pitagora”. È inoltre Presidente del Centro Studi Internazionali Telesiani, Bruniani e Campanelliani.

  • Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    L’Università della Calabria ha celebrato da poco l’inaugurazione del suo 54º anno accademico, un momento di riflessione e orgoglio per un ateneo che si conferma tra i più dinamici del Sud Italia. Tuttavia, a segnare l’evento è stata un’azione dirompente: l’irruzione di studenti e attivisti del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina” durante il discorso del rettore Nicola Leone.

    Il Rettore Nicola Leone durante l’inaugurazione dell’anno accademico

    Con slogan come “Palestina libera!” e striscioni che denunciavano la “complicità delle università con Israele”, i manifestanti hanno interrotto la cerimonia per protestare contro gli accordi accademici con atenei israeliani e le collaborazioni con industrie belliche come Leonardo e Thales, accusate di alimentare il conflitto a Gaza. L’episodio, pur senza degenerare in violenza, ha messo in luce una tensione profonda: il ruolo delle università come spazi di sapere neutrale versus la richiesta di posizioni politiche nette su questioni globali.
    Questa protesta, che si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni pro-palestinesi negli atenei italiani, solleva interrogativi cruciali. Da un lato, i manifestanti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, dando voce a un’urgenza etica condivisa da molti: la solidarietà con il popolo palestinese in un contesto di crisi umanitaria. Le loro accuse di “complicità” toccano un nervo scoperto, quello delle responsabilità istituzionali in un mondo interconnesso, dove collaborazioni accademiche e industriali possono avere implicazioni politiche. Dall’altro lato, l’irruzione ha interrotto un momento simbolico di unità accademica, sollevando critiche su modi e tempi della protesta. L’Università della Calabria, descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, ha cercato di riaffermare il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma è davvero possibile, o desiderabile, che un’università rimanga neutrale su questioni così divisive?

    Libertà accademica e attivismo politico

    Il cuore del problema sta nel bilanciamento tra libertà accademica e attivismo politico. Le università sono luoghi di confronto, dove idee opposte devono poter coesistere senza censure, ma anche senza che il dialogo venga soffocato da azioni che, pur legittime, rischiano di polarizzare invece che costruire. La protesta di oggi ha avuto il merito di accendere i riflettori su una questione globale, amplificata da immagini e video condivisi in tempo reale su piattaforme social e web.
    Tuttavia, il rischio è che il messaggio si perda in una dialettica di scontro, anziché tradursi in un dialogo strutturato che coinvolga studenti, docenti e istituzioni.
    L’Unical, con i suoi oltre 30.000 studenti e un ruolo centrale nel Mezzogiorno, ha l’opportunità di trasformare questo episodio in un’occasione di crescita. Organizzare tavoli di discussione aperti, con esperti di geopolitica e rappresentanti di tutte le sensibilità, potrebbe essere un passo per canalizzare l’energia della protesta in un dibattito costruttivo. La sfida è chiara: come conciliare l’eccellenza accademica con la responsabilità sociale, senza cedere né alla neutralità ipocrita né alla politicizzazione divisiva? La risposta non è semplice, ma l’università, come luogo di pensiero critico, è chiamata a cercarla.

    Un momento della protesta

    La protesta del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina”, rappresenta un caso emblematico delle tensioni che attraversano le istituzioni accademiche in un’epoca di crisi globali. L’irruzione nell’Aula Magna, con slogan come “Palestina libera!” e “Se bloccano la flottilla, blocchiamo tutto!”, non è stata solo un atto di dissenso, ma un tentativo di forzare l’università a prendere posizione su un conflitto che, pur geograficamente lontano, ha profonde ripercussioni etiche e politiche. Analizzando l’evento, emergono tre nodi critici: il diritto di protesta, la “neutralità” accademica e il rischio di polarizzazione.

     Il diritto di protesta e la sua messa in scena

    L’azione del Coordinamento è stata pacifica ma volutamente dirompente, con l’irruzione e l’affissione di striscioni come quello sul Ponte Bucci (“complicità e responsabilità delle università con Israele”). La scelta di interrompere un evento simbolico come l’inaugurazione accademica ha garantito visibilità, amplificata da post sui social che hanno documentato l’evento in tempo reale. Tuttavia, questa strategia solleva una questione: la teatralità della protesta, pur efficace nel catturare l’attenzione, rischia di alienare chi potrebbe essere aperto al dialogo? I manifestanti hanno denunciato accordi con atenei israeliani e collaborazioni con aziende come Leonardo e Thales, accusate di sostenere il conflitto a Gaza. La loro richiesta – la rottura di questi legami – è chiara, ma la modalità scelta ha lasciato poco spazio a un confronto immediato, trasformando l’evento in uno scontro simbolico più che in un’occasione di dibattito.

    Una fase della protesta a favore della Palestina

    La neutralità accademica: un mito insostenibile?

    L’Unical ha risposto descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, riaffermando il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma la pretesa di neutralità accademica è problematica. Le università non operano in un vuoto: gli accordi con atenei stranieri o industrie belliche non sono mai solo “tecnici”, ma portano con sé implicazioni politiche. La protesta ha messo in discussione il silenzio istituzionale su queste connessioni, accusando l’Unical di complicità indiretta in un conflitto che molti studenti percepiscono come un “genocidio”. Tuttavia, la neutralità ha anche un valore: garantisce che l’università rimanga un luogo di pluralismo, dove tutte le voci – incluse quelle pro-israeliane o neutrali – possano esprimersi. Rompere accordi accademici con Israele, come chiesto dai manifestanti, potrebbe essere visto come un atto di censura verso studiosi e istituzioni israeliane, non tutte necessariamente allineate con le politiche del loro governo. Qui si gioca la sfida: come bilanciare responsabilità etica e apertura intellettuale?

    Foto

     La polarizzazione e il dialogo

    La protesta si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni studentesche pro-palestinesi, come i sit-in all’Aquila contro Leonardo. Questo movimento riflette una crescente sensibilità tra i giovani per le questioni globali, ma anche una tendenza alla polarizzazione. I critici dell’azione, che l’hanno definita “controversa”, sottolineano che politicizzare un momento celebrativo come l’inaugurazione rischia di alienare chi non condivide la causa. Sui social noto che commenti si dividono: alcuni utenti lodano il coraggio degli attivisti, altri lamentano la “mancanza di rispetto” per l’evento accademico. La “frattura profonda” evidenziata dall’episodio non è solo tra studenti e istituzione, ma anche all’interno della comunità accademica, dove sensibilità diverse si scontrano senza un terreno comune. La richiesta di “dialogo strutturato” avanzata da alcuni osservatori è sensata, ma richiede volontà da entrambe le parti: i manifestanti devono accettare la complessità del tema, e l’università deve riconoscere che la neutralità non è sempre una risposta sufficiente.

    Alcuni militanti del coordinamento Cosenza Unical per la Palestina

    Il ruolo dell’Unical nell’area del Mediterraneo 

    La protesta all’Unical è un microcosmo delle tensioni globali che attraversano le università, chiamate a essere al contempo templi del sapere e arene di confronto politico. L’azione del Coordinamento ha avuto il merito di portare il conflitto israelo-palestinese al centro del dibattito, ma ha anche evidenziato i limiti di un approccio che privilegia l’irruzione al dialogo. L’università ha l’opportunità di trasformare questa frattura in un’occasione di crescita, promuovendo spazi di confronto che includano prospettive diverse, da quelle degli attivisti a quelle di chi difende la cooperazione accademica internazionale. La sfida è costruire un dibattito che non semplifichi la complessità geopolitica, ma la affronti con rigore e apertura. Solo così l’Unical potrà onorare il suo ruolo di faro culturale nel Mezzogiorno, senza cedere né al silenzio né alla polarizzazione.

  • Ma quanto ci manca Emmevubì?

    Ma quanto ci manca Emmevubì?

    Tre anni fa, il 14 luglio 2022, ci lasciava Marcello Walter Bruno, figura poliedrica, docente, critico cinematografico e studioso di fotografia contemporanea all’Università della Calabria. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto profondo non solo nell’ateneo calabrese, ma in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incrociare il suo cammino. Io sono stato uno di questi.

    Una vita dedicata alla cultura

    Marcello Walter Bruno nasce a Carolei, in provincia di Cosenza, nel 1952. La sua formazione si snoda tra esperienze eterogenee che ne forgiano il profilo eclettico: ex impiegato di banca, ex regista RAI, ex pubblicitario, come lui stesso amava definirsi, fino a trovare la sua vocazione come docente universitario. Formatosi a Bologna sotto la guida di Umberto Eco, porta al DAMS dell’Università della Calabria una visione innovativa, plasmata dalla semiotica e dalla capacità di leggere il mondo attraverso le immagini.

    All’Unical, dove insegna critica cinematografica e fotografia contemporanea, diventa un punto di riferimento per generazioni di studenti, grazie alla sua abilità di rendere la cultura accessibile e viva.
    La sua carriera è costellata di saggi, articoli e volumi che esplorano il cinema e la fotografia come strumenti per comprendere la realtà. Tra i suoi contributi più significativi, ricordiamo il suo approccio alla comunicazione visiva, capace di svelare il “filo di mistero” nascosto nelle immagini, spingendo studenti e colleghi a interrogarsi sul “cosa abbiamo visto?” e a dubitare delle apparenze.[

    “Sublime intellettuale meridionale”

    Marcello, o “Emmevubi” come lo chiamavano affettuosamente studenti e colleghi giocando con le sue iniziali, era un intellettuale nel senso più autentico del termine. La sua curiosità insaziabile e il suo acume lo portavano a vedere oltre la superficie, a illuminare zone d’ombra che sfuggivano agli altri. Era un docente che non si limitava a insegnare, ma ispirava. La sua aula non era solo un luogo fisico, ma uno spazio di dialogo continuo, dove il sapere si costruiva insieme, senza barriere.

    Lasciava pile di libri, foto e opuscoli sul davanzale del “cubo” 17 dell’Unical, un’edicola simbolica aperta a chiunque volesse appropriarsi di cultura, senza imposizioni, solo con il desiderio di stimolare riflessioni.
    La sua personalità era un intreccio di rigore e ironia, di passione e libertà. Non era solo un docente, ma un narratore che trasformava ogni lezione in un’esperienza estetica, come testimoniato da chi lo ha conosciuto. La sua cadenza cosentina, il suo sorriso sornione e quella barba che incorniciava il volto erano tratti distintivi di un uomo che viveva il sapere come un atto di condivisione e provocazione intellettuale.

    Il nostro rapporto: un dialogo oltre l’aula

    Il mio incontro con Marcello è stato uno di quei momenti che segnano un percorso di vita. Ero uno studente di materie antropologiche, affascinato ma intimorito dalla sua erudizione, quando lo incontrai la prima volta mentre ero occupato al montaggio di un documentario. La sua capacità di trasformare un film o una fotografia in una porta verso la comprensione della realtà mi colpì profondamente. Emmevubi’ era un mentore che spronava a guardare oltre, a mettere in discussione ciò che sembrava scontato. Ricordo le sue domande, “Cosa abbiamo visto? Ne siete sicuri? Ne sei sicuro Dronadio?” (come amava chiamarmi) che non erano semplici esercizi retorici, ma inviti a scavare dentro di noi e nel mondo.
    Il nostro rapporto si è consolidato fuori dall’aula, nei corridoi, a mensa, nello studio sempre affollato dove Marcello accoglieva chiunque con disponibilità e attenzione. Con me, ha condiviso anche aneddoti personali, riflessioni sul Sud, sulla Calabria, sul senso di “osservare” in un territorio spesso marginalizzato. Mi ha insegnato che la cultura non è un privilegio, ma un diritto da diffondere, un’arma per comprendere e agire nella realtà. È stato un dialogo che non si è mai interrotto, che ancora oggi porto con me come un’eredità preziosa.

    Uno sguardo antropologico sui temi di Marcello

    Sebbene Marcello Walter Bruno non fosse un antropologo, i suoi studi sul cinema e sulla fotografia offrono spunti per riflessioni antropologiche molto profonde. La sua insistenza sull’andare oltre l’immagine, sul dubitare delle apparenze, richiama il concetto di “crisi della presenza” di memoria demartiniana, intesa come la necessità di rielaborare culturalmente la realtà per non esserne sopraffatti. Le immagini, per Marcello, non erano mai solo estetica: erano testi portatori di significati che richiedevano un’interpretazione attiva. Questo approccio si avvicina all’antropologia culturale, che vede nei simboli e nelle pratiche visive un modo per decifrare le dinamiche sociali e identitarie.
    La sua attenzione al Sud, alla Calabria, si rifletteva nella sua capacità di leggere il cinema e la fotografia come strumenti di narrazione di una terra complessa, spesso stereotipata. Come un antropologo sul campo, Marcello osservava e interpretava, costruendo ponti tra discipline e immaginari. La sua idea di cultura come dono gratuito, accessibile a tutti, richiama l’antropologia del dono di Marcel Mauss: la cultura, per Marcello, era un atto di reciprocità, un’offerta che generava comunità e dialogo.

    Un’eredità che vive

    Marcello Walter Bruno ci ha lasciato un’eredità che va oltre i suoi scritti e le sue lezioni. Ci ha insegnato che il sapere è un atto di libertà, che le immagini sono specchi della nostra umanità e che il Sud può essere un laboratorio di idee universali. La sua perdita è stata un duro colpo, ma il suo spirito vive nei suoi studenti, nei suoi colleghi, in chi continua a interrogarsi sul “cosa abbiamo visto”. In un’epoca in cui la cultura è spesso mercificata, Marcello ci ricorda che essa è, e deve restare, un bene comune.
    A tre anni dalla sua scomparsa, il suo invito a dubitare, a cercare, a immaginare relazioni inattese resta un faro per tutti noi. Grazie, Emmevubi, per averci mostrato che il sapere è un viaggio senza fine, e che ogni immagine, ogni storia, è un passo verso la comprensione del mondo.

     

  • Unical, Raffaele Perrelli riconfermato alla guida del Disu

    Unical, Raffaele Perrelli riconfermato alla guida del Disu

    Il professor Raffaele Perrelli rieletto, con l’84,5 % dei voti, alla guida del Disu, Dipartimento di studi umanistici dell’Unical.
    Raffaele Perrelli – che resterà in carica fino al 31 ottobre 2029 – dirige il Disu dal 2021 ed era già stato rieletto a giugno dello scorso anno in occasione del turno di elezioni suppletive indetto ai sensi dell’art. 8.1 dello Statuto d’Ateneo per ottenere l’allineamento della durata dei mandati direttoriali a quella dei mandati senatoriali.
    Il professor Perrelli è stato preside della Facoltà di Lettere e Filosofia. È stato più volte membro del Senato Accademico dell’Università della Calabria e presidente della commissione ricerca dello stesso senato.
    È un latinista e insegna Letteratura latina nel corso di laurea in Lettere; si è occupato di letteratura latina di età augustea (Orazio, Properzio, Tibullo, Ovidio) e tardoantica (Claudiano) con particolare attenzione, negli ultimi anni, alla fortuna degli autori classici nella poesia italiana del Novecento. Attualmente presiede la commissione nazionale relativa alla abilitazione scientifica per il suo settore scientifico-disciplinare. È membro di numerose accademie e società scientifiche e direttore della rivista di classe A Filologia Antica e Moderna.

  • La sanità in Calabria, pochi dati e inadeguati

    La sanità in Calabria, pochi dati e inadeguati

    «La salute è un fatto sociale totale» e dunque esige uno sguardo interdisciplinare per poter essere osservata e più ancora per provare ad avanzare qualche proposta politica. Non è un caso che al Centro studi su società, salute e territorio, il think tank targato Unical, partecipino ben nove dipartimenti, oltre a quello di Scienze politiche che ne è il capofila (Ingegneria meccanica; Ingegneria informatica; Statistica e finanza; Farmacia e Scienze della salute; Matematica e informatica; Culture, educazione e società; Ingegneria dell’ambiente; Biologia e Scienze della terra). Scienze “dure” e “molli”, ingegneri e ricercatori sociali, stregoni dell’Intelligenza artificiale e umanisti, perché per studiare il legame tra benessere sociale e individuale, tra l’uso delle risorse e la qualità della vita, si deve essere pronti a superare i confini delle discipline.

    L’interdisciplinarità come metodo per migliorare il sistema sanitario

    Il tema dell’interdisciplinarità, assai caro Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes, viene evocato praticamente subito nell’intervento d’apertura del dibattito su “Dati, Sistema informativo in Sanità”. Parini va al cuore delle cose: «la salute e la sanità sono forme sociali che vanno osservate in tutte le loro dimensioni», dunque l’aspetto giuridico, economico, sociale, devono trovare coniugazione efficace. Vincenzo Carrieri, docente di Scienze delle finanze e direttore del Centro studi su società e salute, parte dal problema che sta all’origine di ogni ricerca e cioè la raccolta dei dati, le informazioni sulla base delle quali si costruisce una strategia. Il suo sguardo va audacemente alla Danimarca, ma pure alla Gran Bretagna, dove esiste una consolidata “cultura dei dati” e dove i cittadini che si rivolgono ai sistemi sanitari sono tracciati in modo tale da garantire efficienza nel percorso diagnosi – terapia. Qui è tutto differente: «abbiamo dati incompleti, poche Regioni hanno avviato la raccolta delle informazioni e finiscono per influenzare gli orientamenti in materia di politiche sanitarie», dice Carrieri.

    Le Regioni nel nord impongono i loro dati

    Vuol dire che i dati raccolti in Emilia, in Toscana o in Lombardia, (le Regioni meglio attrezzate da questo punto di vista) pur non essendo rappresentativi del Paese, vengono assunti come indicazioni nazionali per disegnare la sanità di tutti. Ma c’è un altro problema con cui fare i conti, come avvisa Mariavittoria Catanzariti, giurista dell’Università di Padova e docente dell’European University Institute e riguarda la tutela della riservatezza e i dati relativi alla salute delle persone sono una mole di informazioni di straordinaria delicatezza. Una questione che invoca l’intervento di chi con i dati e il loro trattamento lavora da un pezzo. Gianluigi Greco, direttore del Dipartimento di Matematica e informatica dell’Unical e presidente dell’Associazione italiana per l’Intelligenza artificiale, ci tiene a spiegare come i dati siano «la traccia dell’attività umana nella vita sociale», per questo devono essere disponibili e trasparenti. Sembra di sentire un sociologo, non un informatico, soprattutto quando Greco pone l’attenzione sull’aspetto che potremmo definire politico, spiegando che «i dati vengono oggettivati, considerati cioè assolutamente veri, perché elaborati da macchine cui noi attribuiamo il dono dell’infallibilità». Per questo servono l’uomo e le sue competenze, per guardare e capire.

    La platea del convegno

    La Babele della sanità, dove le strutture non dialogano tra loro

    Oggi nel mondo della sanità la situazione non è tranquillizzante: «le strutture non dialogano tra loro, usano sistemi differenti e la scelta del campionamento della popolazione da monitorare non è neutrale», tenendo conto prevalentemente delle aree ricche del Paese. Ma non solo: ad oggi «nessuno dei sistemi diagnostici italiani usa l’Intelligenza artificiale». Se cercate consolazione, non rivolgetevi a un informatico, vi spiegherà implacabilmente che siamo messi male, ma non rivolgetevi nemmeno a un fisico. Francesco Valentini è docente di Fisica della materia, ma guarda il cielo con gli occhi di chi collabora con le agenzie spaziali italiana ed europea. Che ci fa uno scienziato di questo tipo a un convegno sulla sanità? E’ venuto per spiegare che la raccolta dei dati, sia nell’universo della sanità, che in quello osservato dalla ricerca spaziale, deve affrontare lo stesso problema, quello della Babele delle lingue, che impedisce di comunicare efficacemente, per questo «è urgente unificare i linguaggi, standardizzare la raccolta e uniformare i sistemi di ricerca».

    Il paradosso della medicina digitale e il lavoro degli infermieri

    In tutto questo emerge un paradosso: la medicina digitale non sempre velocizza il lavoro. Accade infatti, come racconta Nicola Ramacciati, docente Unical presso il corso di Infermiersitica, che «il tempo che gli infermieri impiegano nel trasferire i dati relativi ai pazienti, possa soverchiare quello da dedicare al paziente stesso», causando frustrazione e stress. Per questo appare urgente «progettare sistemi di raccolta dei dati  implementando l’uso delle I.A».

    L’eccellenza della Nuova Zelanda

    Potrebbe non bastare, visto che le criticità stanno ben dentro «l’architettura del sistema sanitario», come svela Domenico Conforti, docente Unical e fondatore del Dehealth lab, il centro di ricerca che coniuga l’ingegneria con l’erogazione della assistenza sanitaria. L’idea di Conforti ha il pragmatismo che ci si attende da un ingegnere, per il quale «la gestione dei dati deve essere integrata con i modelli di cura e di organizzazione, la gestione delle risorse e i servizi digitali». Il suo racconto ci porta a Canterbury, in Nuova Zelanda, dove la sanità viene organizzata in cerchi concentrici con diversi livelli di gestione della salute e percorsi assistenziali che vedono gli ospedali posti sul cerchio più esterno, come ultimo presidio cui il paziente giunge per la terapia. Ma quello è letteralmente un altro modo.

    E il ritardo del servizio sanitario della Calabria

    Qui abbiamo 21 sistemi sanitari diversi, e in Calabria «la raccolta dati è frammentaria, la loro interpretazione difficile». A dirlo è Alfredo Pellicanò, dirigente regionale e responsabile del settore che si occupa di transizione digitale. Dargli torto è impossibile, infatti l’ultimo allarme lo ha lanciato il presidente Occhiuto, mentre cittadini lo gridano vanamente da molto prima.