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  • Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

    Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

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    Il 26 marzo scorso ho visitato per la prima volta la chiesa di San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, in provincia di Cosenza. Si tratta di un sito immerso nel verde di un fitto bosco, raggiungibile anche in macchina, seguendo una strada stretta ma asfaltata. La maggior parte delle persone presenti quel giorno, però, ha raggiunto questo luogo bellissimo a piedi, seguendo probabilmente gli stessi sentieri percorsi dai monaci compagni e discepoli di Gioacchino da Fiore, che morì qui, il 30 marzo del 1202.

    San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta

    La moda dei cammini

    Marciare per antichi sentieri ormai va di moda. Migliaia di pellegrini si muovono ogni anno lungo la via che attraverso i Pirenei porta a Santiago de Compostela, in Spagna, oppure lungo la via Francigena, che dal Nord Europa, attraverso le Alpi e i passi appenninici, conduceva i penitenti a Roma, per pregare nelle grandi basiliche della cristianità e lucrare l’indulgenza.

    Il fatto che si stampino libri intitolati Come sedurre la cattolica sul cammino di Compostela (Castelvecchi) lascia intuire che le motivazioni di questi marciatori incalliti possono essere le più varie, non tutte riconducibili a un’esigenza religiosa.

    Dobbiamo ammettere che qualcosa del genere accadeva anche ai tempi di Dante Alighieri, quando personaggi di ogni genere si mettevano in cammino per desiderio di avventura, per sfuggire alla giustizia, per cercare un luogo migliore in cui vivere.
    Molti testi ispirati raccontano, invece, il valore del pellegrinaggio, il senso di questi viaggi che potevano durare anni, attraverso selve oscure e pericoli di ogni sorta, e trasformavano la sensibilità del pellegrino, gli spalancavano la conoscenza di altri mondi, altri stili di vita e culture materiali.

    E oggi? Prendiamo ad esempio la giornata dedicata a uno dei luoghi di Gioacchino da Fiore, un personaggio noto in tutto il mondo agli studiosi di Medioevo, citato a proposito e a sproposito da politici, rivoluzionari, agitatori e scrittori di ogni epoca, per la sua forza visionaria, per la prefigurazione di un’età della Spirito, in cui tanti hanno voluto vedere un sogno messianico e utopistico.

    Più Gioacchino da Fiore, meno peperoncino e calabriselle

    Gioacchino da Fiore è quasi certamente il calabrese più famoso di tutti i tempi. Ma nella sua terra i luoghi in cui ha vissuto e operato sono fuori dalle strade principali. Non fanno parte dell’immaginario collettivo, che può spingere gli stessi calabresi e i visitatori di questa regione sulle sue tracce. La Calabria ama presentarsi con il logo dei Bronzi di Riace, ma più prosaicamente e banalmente si racconta con le calabriselle, le cipolle, i peperoncini festivalieri e altri prodotti enogastronomici su cui si fa affidamento, per invogliare i viaggiatori a percorrere le sue strade dissestate.

    Antica iconografia che raffigura Gioacchino da Fiore

    A me i prodotti sott’olio non sembrano una motivazione sufficiente per mettersi in viaggio. Si parte per un’esigenza interiore, per cercare qualcosa, per capire una parte di sé che nascondiamo a noi stessi, a volte, per timore che ci scombussoli la vita ordinata e noiosa che conduciamo.  Possiamo anche ammettere che, durante il cammino verso Santiago de Compostela o qualsiasi altra meta, i falò serali, le chitarre e il vino per ristorarsi dalle fatiche della giornata favoriscano la reciproca attrazione e seduzione, ma si tratta sempre di un’alta e nobile necessità (questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine, un rapimento mistico e sensuale… cantava il vecchio Battiato).

    Contro le direzioni ovvie e banali

    A me la strada verso San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, ha fatto pensare che di solito, nella nostra vita, imbocchiamo quotidianamente le direzioni più ovvie e banali, che ci appaiono le più semplici e rassicuranti. Perché sono quelle più affollate, c’è sempre tanta gente e ci pare naturale ficcarci pure noi nella confusione.
    Invece gli antichi sentieri sono solitari, incutono un po’ di timore, facciamo bene ad avventurarci da soli?cNon sarebbe più normale andare a spasso sul corso oppure al centro commerciale?

    Alla fine, il 26 a Canale, ci siamo ritrovati in cinquanta persone, che non è proprio una situazione eremitica, di quelle che piacevano tanto all’abate Gioacchino. Forse vorrà dire che nel manicomio inconcludente che è la nostra vita, non siamo gli unici a pensare che bisognerebbe fermarsi, rallentare il passo, guardarsi intorno e recuperare questi luoghi incantati che, per miracolo, ancora sopravvivono in Calabria.

    La chiesa di Gioacchino diventò una stalla

    San Martino di Giove, come tanti altri monasteri, era diventato una stalla di proprietà privata. In periodo napoleonico prima e poi con l’Unità d’Italia, le leggi sul patrimonio ecclesiastico hanno espropriato molti beni della Chiesa, venduti all’asta o trasformati in edifici pubblici, caserme, uffici, scuole.

    Solo di recente questo piccolo edificio è stato recuperato e liberato dalle murature più arbitrarie, e ci appare in tutta la sua bellezza. Quest’anno Demetrio Guzzardi, editore di Editoriale Progetto 2000 e irrefrenabile animatore culturale, ha in programma di guidare le pattuglie di intrepidi camminatori a riscoprire, dopo San Martino di Giove, anche altri luoghi gioachimiti nascosti lungo quelle strade secondarie, che sembrano tagliate fuori dai circuiti più consueti.

    I luoghi di Gioacchino da Fiore in Calabria

    La Sambucina a Luzzi, che non si trova in paese, ovviamente, ma lungo la strada poco frequentata che porta in Sila. Santa Maria della Matina a San Marco Argentano, lungo la vecchia statale. Sono due luoghi uniti da una lunga storia e il 26 giugno prossimo Guzzardi propone un preoccupante tour automobilistico-pedonale, tra questi due centri della Calabria medievale. Preoccupante per me, che mi perderò di sicuro.

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    Il complesso di Santa Maria della Matina a San Marco Argentano

    E che dire della giornata del 23 luglio? Da Fontelaurato, nel comune di Fiumefreddo Bruzio, alla Badìa e a Sotterra a Paola, tre luoghi incredibili, che meriterebbero pagine e pagine di racconto, e invece hanno rischiato la distruzione totale e la cancellazione dalla memoria. La Badìa ci riporta alla storia delle Crociate, in particolare a un piccolo ordine monastico-cavalleresco, quello di Santa Maria di Valle Josaphat.

    Questi monaci e cavalieri, dopo la perdita dei luoghi santi, si riorganizzano tra la Sicilia e la Calabria, che rappresentavano una prima linea contro il mondo musulmano. All’epoca il dialogo interconfessionale non andava di moda. Cristiani e musulmani si combattevano ferocemente. Quanti libri sono stati scritti sui Templari e sulla loro tragica fine? Sicuramente conosciamo meglio le loro vicende rispetto a quelle che si sono intrecciate intorno alla Badìa. Luoghi che non hanno trovato ancora un narratore, che riesca a farli rivivere per un pubblico più vasto di quello degli storici di professione.

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    I resti dell’abbazia di Corazzo a Carlopoli

    Guzzardi da molti anni affianca al suo lavoro di editore questa missione di animatore e organizzatore, a cui si dedica con un accanimento che gli invidio (ne avrei bisogno per certe faccende mie).

    A spasso tra le rovine

    La riscoperta dei luoghi gioachimiti proseguirà, dal 20 al 27 agosto, intorno alle suggestive rovine di Corazzo, nel comune di Carlopoli (CZ). In Sila, tra i boschi più alti, dove Gioacchino amava ritirarsi per meditare e pregare. E dove ognuno di noi potrebbe avere l’occasione di passeggiare e riflettere sulla propria situazione. Lontano dai lidi affollati, dalla musica sparata al massimo, dalla spazzatura che si accumula, come ogni estate, nelle nostre marine. E non mancheranno, non mancano mai, gli articoli giornalistici sugli sversamenti di liquami a mare, ricorrenti ogni anno per la serenità e la gioia delle famiglie che ci portano i bambini.

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    L’abbazia florense di San Giovanni in Fiore

    Il bed and breakfast del pellegrino

    Un’altra vita è possibile? Non riesco a immaginarmi nei dintorni di Corazzo ad occuparmi di mucche al pascolo. I bovini mi sembrano grossi e pericolosi per i dilettanti allo sbaraglio. Non mi azzarderei ad avviare una produzione di vini dell’abate, né ad impiantare un Bed and Breakfast del pellegrino lungo uno di questi percorsi. Io mi accontento di visitarli, certi posti, e di conoscerne o immaginarne le storie.
    Ognuno dovrebbe concedersi la libertà di cercare quello di cui sente il bisogno, in un determinato momento della sua vita. Forma fisica e fidanzate, silenzio e preghiera, lontananza e anche, se capita, l’idea di candidarsi come apprendista pastore, boscaiolo, guida turistica, eremita a tempo indeterminato.

    Non possiamo portarci tutto appresso

    La Calabria medievale è lontana. Possiamo vagamente intuire come fosse, ma la nostra vita è un’altra faccenda. Il mondo in cui siamo immersi è complesso e inquietante. Per affrontarlo con cautela e sensibilità abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo. Abbiamo bisogno di aggrapparci alle nostre radici, di capire cosa custodire e cosa abbandonare, se non ci interessa più. Non possiamo avere tutto e nemmeno portarci tutto appresso; i pellegrini di una volta lo sapevano, e pure i viaggiatori di oggi sono consapevoli che il bagaglio deve essere leggero.

  • Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Sono trascorsi 50 anni da quel giorno del 1972 quando Stefano Mariottini, un appassionato subacqueo romano in vacanza in Calabria, riemerse dallo specchio di mare antistante Riace per annunciare una scoperta sensazionale. Aveva rinvenuto, adagiate sul fondale, quelle che si sarebbero rivelate due statue in bronzo. Ma, ancora oggi, c’è molta incertezza su chi ne sia stato l’autore o se provengano dall’Attica o dal Peloponneso. Buio pesto, poi, su chi o cosa raffigurino i due bronzi: non si è mai andati oltre il distinguerli come Statua A, quella con l’aspetto giovanile, e statua B, ritenuta quella di un uomo più anziano.

    Il Bronzo A all’epoca del ritrovamento. A sinistra, Stefano Mariottini

    Tante ipotesi sui Bronzi

    Su tutti questi aspetti, la ridda di ipotesi è davvero interminabile. Alcune sono più accreditate, ma le altre non sono state mai del tutto accantonate. Si è arrivati persino a sostenere che le sculture fossero opera di un bronzista reggino, Pitagora di Reggio, attivo dal 490 al 440 a.C., apprezzato per la sua capacità di rappresentare dettagli anatomici con verosimiglianza. D’altra parte, per avere certezze a riguardo servirebbe una macchina del tempo che permetta un balzo indietro di oltre due millenni. In mancanza di quella, ci si deve affidare alle fonti storiche e alla loro esegesi, farsi guidare da autori come Erodoto, Tucidide e Diodoro Siculo.

    Gli storici dell’epoca

    I primi due vissero entrambi nel V secolo a.C. e quindi c’erano negli anni in cui, presumibilmente, furono creati i Bronzi di Riace. E c’erano sicuramente all’epoca dell’alleanza tra Sparta e Atene in cui infuriava la guerra tra greci e persiani.

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    Una vecchia edizione de La Guerra del Peloponneso di Tucidide

    C’erano Erodoto e Tucidide e raccontarono, da contemporanei, storie di guerre ed eroi, ma anche di trionfatori caduti nella polvere. Come Pausania, uno tra i più giovani generali spartani, nipote del leggendario Leonida. Tucidide ne parla nel suo La guerra del Peloponneso. Pausania fu l’artefice della vittoria dell’alleanza tra Sparta e Atene sui persiani a Platea, ma era un uomo dall’irrefrenabile ambizione. Questo infastidiva gli alleati attici, che non lo ritenevano stratega affidabile. E ne erano consapevoli anche gli spartani, che ritennero di non affidargli più alcun ruolo nella guerra.

    Pausania, il generale che tradì Sparta

    Pausania era partito alla volta di Cipro al comando di venti navi, affiancato dalla flotta degli alleati. E dopo aver conquistato l’isola, si era diretto alla volta di Bisanzio strappando anche quella al dominio persiano. Ma la sua tracotanza e prepotenza indussero gli alleati a chiedere il comando ateniese nelle operazioni di guerra. Anche per Sparta il modo di operare del loro stratega assomigliava davvero troppo a quello di un tiranno. Il tempo trascorso dal giovane generale nelle varie campagne contro i persiani gli aveva consentito di approfondire le proprie conoscenze presso quei popoli.

    Nel Peloponneso c’era chi addirittura scorgeva negli atteggiamenti di Pausania un che di medismo. E, comunque, non era uomo che sarebbe rimasto fermo ad attendere una serena vecchiaia. Di propria iniziativa armò una nave per riprendere la lotta ai persiani, ma il suo fine si rivelò essere ben diverso: raggiungere accordi con i nemici e mettersi alla loro testa per marciare contro Sparta.

    Un’intercettazione ambientale ante litteram

    L’accusa mossa contro Pausania era pesantissima. Il suo destino era segnato, ma occorrevano prove davvero schiaccianti agli spartani per sostenere le accuse e giungere a una condanna. Quello che descrive Tucidide in merito alle indagini sembra essere il primo vero caso di quella che, ai giorni nostri, definiremmo un’intercettazione ambientale. Il giovane (ormai ex) generale spartano si rifugiò come supplice nel tempio di Atena “Calcieca” a Sparta e qui lo raggiunse un suo amico fidato.

    La conversazione tra i due avvenne in una sorta di capanna fatta piazzare appositamente dagli efori per carpirne, non visti, i contenuti. Pausania parlò delle pesantissime accuse di tradimento e della fondatezza delle imputazioni a suo carico. Era dunque un reo confesso, ignaro che ad ascoltarlo fossero proprio gli efori spartani alla ricerca di prove. Non occorreva altro per arrivare a una sentenza di morte.

    E l’oracolo disse: «Due bronzi per espiare il sacrilegio»

    Siamo nel 470 a.C,. Pausania ha 40 anni, la sua condanna è morire di fame e di sete all’interno del tempio di Atena. I carcerieri murano gli ingressi e scoperchiano il tetto dell’edificio. Contano di accorgersi in tempo del sopraggiungere dell’ora fatale ed evitare così che il prigioniero spiri tra quelle sacre mura, ma non fanno in tempo. Pausania muore, ancora quarantenne, nell’edificio dedicato ad Atena Calcieca, violando la divinità del luogo. Si stabilisce di gettare nel fiume le spoglie dell’ex generale.

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    La morte di Pausania (fonte Wikipedia)

    Ma – così racconta Tucidide – «il Dio, attraverso l’oracolo di Delfi, intimò agli Spartani di traslarne la salma nel punto stesso della morte (ancor oggi riposa infatti all’ingresso del santuario, come provano le iscrizioni di alcune stele). Ingiunse anche di espiare l’atto commesso, un sacrilegio grave, dedicando ad Atena Calcieca due corpi in cambio di uno solo. Furono così fatte erigere e consacrare alla dea due statue di bronzo, quasi a compenso di Pausania». Due statue in bronzo, dunque, erette per espiare un sacrilegio e per ripagare la divinità violata dalla morte di un uomo soltanto. Circa 2.500 anni dopo quei fatti due statue, finite lì a causa di un naufragio, affiorano dalle acque di Riace.

    I nomi più ricorrenti

    Chi raffiguravano dunque i due guerrieri in bronzo? I nomi più ricorrenti sono quelli di Eteocle e Polinice, fratelli, figli di Edipo, protagonisti della guerra contro Tebe, immortalati da una celebre tragedia di Eschilo. A seguire, nell’elenco dei probabili eroi raffigurati, vi sono Aiace e Oileo nonché Tideo e Anfiarao. Sull’identità dei Bronzi, ascrivibile a questi ultimi, il professor Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia greca all’Università La Sapienza si dice certo. Sostiene pure l’ipotesi che le due statue provenissero dalla città di Argo, nel Peloponneso.

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    Giovanni Silvagni, Eteocle e Polinice (1800 circa, fonte Wikipedia)

    Capolavori (e visitatori) a confronto

    I Bronzi custoditi nel museo di Reggio Calabria sono meravigliosi e questo potrebbe e dovrebbe bastare per attirare visitatori da tutto il mondo. Statue come quelle rinvenute a Riace nel 1972 se ne contano non più di cinque in tutto il pianeta, ma nessuna che possa gareggiare in bellezza con loro. Eppure la loro attuale dimora non è sicuramente tra le più visitate, neppure a livello nazionale, nonostante i Bronzi siano in ottima compagnia di reperti dal valore inestimabile. Il costo del biglietto per ammirarli è davvero irrisorio: si va dai 2 agli 8 euro al massimo.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Una volta l’accesso al museo era totalmente gratuito, omaggio alla logica dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dove non si paga il pedaggio per incentivare i flussi turistici a venire al Sud. Detto ciò, si può fare un raffronto tra il museo calabrese e quello del Cenacolo Vinciano a Milano, celebre per la presenza di un affresco di Leonardo da Vinci raffigurante “l’Ultima Cena”. Lo spazio espositivo è ricavato in delle sale della basilica di Santa Maria delle Grazie. Per visitare l’opera occorre talvolta prenotare mesi prima, ci vogliono almeno 20 euro per un biglietto d’ingresso, mentre per un tour guidato ne occorrono quasi 45. L’accesso nella sala dove si trova l’affresco di Leonardo è fisicamente snervante: bisogna passare a piccoli gruppi attraverso camere stagne e comparti speciali dove si viene deumidificati. Ciononostante, il numero di visitatori è sempre in crescita e le attese, come detto, sono a volte lunghissime. Ma questa è un’altra storia.

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    Visitatori ammirano il Cenacolo Vinciano a Milano

    Esistono altri cinque bronzi?

    Dei Bronzi di Riace sappiamo tutto, tranne due cose: chi le ha create e chi rappresentassero. Abbastanza somiglianti tra loro la Statua A e quella B, quindi la tesi più accreditata circa la loro identità resta quella dei due fratelli Eteocle e Polinice. Ma perché solo due statue se i comandanti della spedizione contro Tebe erano sette? Da qualche parte, nelle profondità del mare, potrebbero dunque giacere altri cinque bronzi. Oppure soltanto Eteocle e Polinice hanno meritato il privilegio dell’immortalità bronzea per le loro gesta? Volendo tirare le somme, di elementi o, quantomeno di indizi, nel tentativo di dare una identità ai Bronzi di Riace, resterebbe l’episodio di Pausania raccontato dettagliatamente da Tucidide ne La Guerra del Peloponneso.

    Ma più in generale è utile soffermarsi sulla parte introduttiva di quel libro. Lì lo storico descrive il modo di vivere, di organizzarsi socialmente e persino di vestirsi dei peloponnesiaci. Ed ecco alcuni brani di quel racconto: “Furono i primi gli Spartani ad adottare un sistema di vestire misurato e semplice, moderno… Gli Spartani furono anche i primi a spogliarsi e, mostrandosi nudi in pubblico, a spalmarsi con abbondanza d’olio in occasione degli esercizi ginnici”.

    L’uomo che visse due volte

    Allevato per essere un generale, imparentato con Leonida, il leggendario condottiero delle Termopili; Pausania fu colui che un anno dopo quella disfatta ricacciò dall’Egeo i persiani, indeboliti nella battaglia navale di Salamina condotta da Temistocle. Lo scontro finale fra le truppe del giovanissimo generale spartano e quelle del re Serse avvenne a Platea nel 479 a.C. Neppure dieci anni dopo i trionfi, il generale Pausania, come abbiamo letto, moriva di fame nel recinto sacro del tempio dedicato a Atena Calcieca. Era spirato là dove non avrebbe dovuto, dove simile sacrilegio non sarebbe stato tollerato dalle divinità.

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    Gerald Butler interpreta Leonida nel film “300” di Zack Snyder

    Il morto aveva vissuto due volte: da eroe acclamato e da cospiratore, quindi da nemico. Non si potevano comunque trascurare i servigi che Pausania aveva reso alla patria infliggendogli dopo una fine terribile e miserevole riservata ai traditori. Due corpi da restituire alla dea anziché uno solo aveva dunque sentenziato l’oracolo per porre rimedio al sacrilegio commesso dagli spartani. Fusero il bronzo necessario e lo scultore modellò due corpi raffiguranti due guerrieri, nella medesima posa, ma con un atteggiamento diverso; più giovane uno, più in avanti con gli anni l’altro; olimpico l’uno; più terreno l’altro.

    Come il tesoro di Tutankhamon

    Potrebbe essere che le statue bronzee di cui Tucidide dà conto, raffigurassero una il giovane e brillante generale che gli spartani avevano conosciuto e l’altra l’uomo che questi era diventato. Chi fossero quelle due statue affiorate nel 1972 a Riace, da dove venissero, chi mai fosse stato l’abile scultore ad averle realizzate, così perfette ed emblematiche, son tutte cose racchiuse nel mistero di uno dei più grandi rinvenimenti della storia, quasi al pari della tomba di Tutankhamon in Egitto.

    Il loro valore, soprattutto per la Calabria, è ingente quanto i tesori rinvenuti nel sepolcro del re egizio nell’ormai lontano 1922. Trascorso un altro mezzo secolo potrebbe scoccare l’ora di una nuova grande scoperta, ma c’è poco da sperarci. Forse sarà molto meglio riscoprire quanto di più prezioso si possiede e metterlo a frutto. La Calabria ha le due statue di bronzo più belle del mondo, ma siamo sicuri che davvero tutto il mondo ne sia a conoscenza?

    Antonella Policastrese

  • STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

    STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

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    A Buonvicino si arriva in 15 minuti da Diamante. Basta volersi fare questa cortesia e sopportare qualche curva. Quella per arrivarci non è una “strada perduta” ma è una strada che, per chissà quale ragione, ancora troppi si ostinano a non percorrere. Eppure Buonvicino ha ottime carte da giocare e basterebbe farsi guidare da appetiti – è il caso di dire – molto ruspanti, senza arzigogolare troppo di fantasia. Perché c’è poco da girarci intorno: a Buonvicino tanto per cominciare si mangia in maniera straordinaria. E questo è un primo dato di fatto inconfutabile.

    Qui si mangia e si beve bene

    Se c’è una cosa per cui i turisti ricordano la Calabria con ammirazione stupita, questa è solitamente la quantità di portate che si nascondono dietro la vaga dicitura di “antipasto misto della casa”. Bene: a Buonvicino, generalmente, dovete moltiplicare per 2 la quantità già ipertrofica e almeno per 5 la qualità rispetto alla media regionale (e giuro di non essere al soldo della pro-loco locale).

    Non è finita qui: i vini locali hanno sapore, corpo e gradazione che francamente non ho mai trovato altrove (gusti personali, ovviamente ma c’è anche una ragione storica di cui parlerò un’altra volta). I ristoranti disseminati lungo i tornanti che portano al paese possono provarlo con fierezza (e qui mi taccio), qualora a provarlo non bastasse la toponomastica con le contrade Vignali, Ficobianco e Puma: tutto intorno al “food”, insomma. Ma mica da ora…

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    Frontespizio della prima edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837)

     

    Il duca Cavalcanti con la passione per la cucina

    Il caso – anzi – la storia vuole che, ad un certo punto, a fregiarsi del titolo di duca di Buonvicino fosse quell’Ippolito Cavalcanti che nel 1837 fu anzitutto autore di quel libro – la Cucina teorico-pratica – che fu il più celebre ricettario d’Italia per almeno 54 anni (nonché il primo a menzionare la ricetta della pasta al pomodoro), ovvero quando fu soppiantato dall’ormai più inclusivo e ‘unitario’ Pellegrino Artusi (col fin troppo popolare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene).

     

    Ora, parliamoci chiaro, il ‘buonvicinato’ c’entra poco, in quanto Ippolito era tutto campano: di madre, di nascita, formazione e decesso (e lo stesso libro è scritto in due lingue: napoletano e italiano). Vero, al suo bisnonno Lucio era stato conferito da Carlo VI il titolo di primo duca di Buonvicino già nel 1720, e l’omonimo nonno di quest’ultimo ne era già barone ancora prima, ma va anche considerato il fatto che, lasciata la Toscana, i Cavalcanti tra Napoli e la Calabria proliferarono enormemente, ed è quindi difficile stabilire quanto davvero Ippolito abbia solcato i vicoli di Buonvicino.

    I vicoli forse no. I campi e i vigneti forse di più, perché una cosa certa c’è: ai Cavalcanti appartenne il gattopardesco Casino di Contrada Lago, oggi abbandonato dopo un primo tentativo di ristrutturazione e ampliamento da parte di privati. L’imponente portale, sempre chiuso, cela dietro al suo muro di cinta semicircolare diversi corpi di fabbrica, tra cui una cappella intitolata a San Giacomo, che certamente potrebbe dire qualcosa di più anche sulla storia di Ippolito e dei suoi.

     

    L’albero genealogico

    Non c’entra ma c’entra: un piccolo dato genealogico che solitamente sfugge e va invece fissato da qualche parte è che la nonna paterna di Ippolito era Marianna Andreassi de Consiliis – originaria di Oriolo Calabro – il cui nonno Francescantonio era, a fine Seicento, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e i cui avi De Georgis furono committenti, nel Cinquecento, dello splendido presepe in pietra di Tursi. Chiusa parentesi.

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    Cartiglio lapideo nella chiesa di San Ciriaco Abate, con voto di Ippolito Cavalcanti (senior) e consorte

     

    Buonvicino è un po’ Napoli

    Buonvicino e Napoli, dunque, e il nesso torna quando intravedi nel centro storico un “vico Speranzella”, che riporta dritto ai Quartieri Spagnoli e alla pizza fritta di Donna Fernanda. Ancora una volta, testa e pancia. Nel bar della piazza mi ero fermato a parlare con due anziani – forse nemmeno tanto – che si contendevano la scena mentre il numero di bicchieri di vino reciprocamente offerti diventava sempre più incerto.

    Gerardo e Angelo mi raccontavano così del maestro d’ascia Francesco Martorello, classe 1906, che batteva i boschi dormendo all’addiaccio in sacchi a pelo fatti di foglie d’albero; della grotta del diavolo, di quella d’u sìettu, della zona della scivulenta detta così perché ci si facevano scivolare i tronchi degli ontani appena tagliati, della grotta di Maladurmì che col suo nome confermava tutto il mio scetticismo di quando altri mi raccontarono l’improbabile etimologia che riconduceva a questa stessa parola il nome della contrada Maladrumi in Sardegna, verso Porto Istana.

    Ma torniamo agli anziani del luogo, meno fantasiosi (forse): mi parlavano dei feudatari della prima metà del Seicento, i De Paula di Malvito (pure avi del gastronomo Cavalcanti), contro i quali la popolazione di Buonvicino si sarebbe armata ferocemente non soltanto per opporsi all’aumento dei balzelli ma anche – immancabile in ogni leggenda che si rispetti – allo ius primae noctis.

    Sanzioni economiche 

    Buonvicino e l’Impero fascista: appena si entra nel centro storico ci si imbatte in una lapide che, lì per lì, dice poco e che invece ha anch’essa un suo primato ben preciso: è tra le meglio conservate delle circa 40 colleghe superstiti in Italia. Risale alla fine del 1935 e ricorda le sanzioni economiche comminate all’Italia da parte della Società delle Nazioni in occasione delle conquiste in Africa Orientale.

    Lapide fascista contro le sanzioni inflitte all’Italia dalla Società della Nazioni (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per disposizione dello stesso Mussolini, tale lapide doveva essere affissa presso tutte le sedi municipali italiane. Dopodiché furono rimosse, abrase, riutilizzate, distrutte e, appunto, ne rimangono oggi pochissimi esemplari. Quella di Buonvicino è tra le più intatte, neppure le lame dei fasci sono state intaccate (solitamente era l’intervento “minimo”): potere della perifericità.

    Non trasferire mai la statua del Santo

    Buonvicino e l’imperscrutabile. Il 17 settembre 2006, festa di San Ciriaco (guaritore ed esorcista vissuto a cavallo dell’anno 1000, patrono di Buonvicino), un masso si stacca dal costone di roccia che sovrasta il paese. Rimbalza da un angolo all’altro del dirupo, ignora il centro storico e si dirige verso la piazza alle porte del paese, laddove è in corso il mercato per la festa.

    Tradotto: persone, bancarelle, automobili. Risultato: nessun danno a persone o cose (e le persone, ok, possono darsela a gambe con una certa prontezza; bancarelle e auto parcheggiate, un po’ meno). Mi fermo ad ascoltare il racconto un po’ più attentamente perché, man mano che i dettagli aumentano, mi ricorda sempre più la trama di altri due o tre racconti analoghi.

    Le chiavi della città donate a San Ciriaco Abate, patrono di Buonvicino

    Pare insomma che la sacra effige del santo fosse stata portata anche quell’anno in processione dalla Chiesa di San Ciriaco Abate fino alla chiesetta costruita nei pressi della grotta che il santo adoperò come eremo, in fondo al vallone nei pressi del paese. Fin lì tutto normale. Se non fosse che quella volta fu deliberatamente lasciata lì e non riportata “a casa sua”. Da qui l’ammonimento del Santo: ira e salvazione, mazze e panelle. Tutti questi dettagli, insomma, m’hanno ricordato la storia di un’immagine sacra, rinvenuta in un bosco, poi trasferita in una chiesa, poi sparita e ritrovata esattamente nel luogo originario, laddove si decise infine di fondare il monastero del Sagittario, in Basilicata.

    La stessa ‘cocciutaggine’ delle statue sacre mi è nota, per il pochissimo che ne so, almeno in due altri casi: a San Bartolomeo ad Alicudi, e alla Madonna del Càfaro ad Albidona (portata in una nuova chiesa e puntualmente ritrovata nella chiesa precedente, e puntualmente riportata nella nuova fino alla frana definitiva di quest’ultima, in cui si salvò solo la statua). Sarà per questo che al bivio della sterrata che conduce alla grotta di San Ciriaco un cartello invita religiosamente a non bestemmiare per le buche, perché “Dio ti sente, il Comune no”.

    Sacro e profano sull’antica via istmica (foto L.I. Fragale, 21.09.2021)

    Enogastronomia e misticismo

    Va detto, Buonvicino riesce a unire sacro e profano, sensi e spirito. Enogastronomia e misticismo, forse, per giunta, tutto in chiave naturalistica: l’enorme statua di San Ciriaco che incombe – protettiva e minacciosa – sul paese, sta fuori da una delle prime curve della martoriata strada che porta alla chiesa della Madonna della Neve, 720 metri s.l.m. (ovvero un dislivello di 320 in pochi tornanti). Ma, quando si arriva lì, si è presi dal guardare a tutto fuorché alla chiesa, trovandosi su un terrazzo naturale a metà tra cielo e montagne dell’Orsomarso. A fare da guardia, due cagnolini, ma proprio cuccioli, che vi seguiranno imploranti (benché non randagi) fino a quando non rimetterete piede in macchina.

    Panorama dalla Madonna della Neve (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Ventisei famiglie senza luce e acqua corrente

    Dall’altra parte del bivio “delle bestemmie” si prende invece la strada sterrata, ma abbastanza in piano, per la contrada abbandonata di Serrapodolo, a circa 5 km dal centro storico. È ciò che resta di una delle antiche vie istmiche calabresi: questa si insinua subito fuori dal paese, in mezzo ad un canyon, e procede fino al Varco del Palombaro (quello che portava al santuario di Artemisia, in seguito a quello del Pettoruto, e da sempre alla Piana di Sibari).

    Le poche case abbandonate di contrada Serrapodolo (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per arrivare a Serrapodolo bisogna bagnarsi i piedi un paio di volte e ne vale la pena: oggi ci si incontra al massimo qualche gruppo composto da bue, vacca e vitellino, ma fino al 1968 qui vivevano ben 26 famiglie, mi dicono. Non erano mai state raggiunte dall’acqua corrente e dalla luce elettrica, e lentamente abbandonarono questa vallata e questi paradisi, restituendoli alla loro eternità.

    Lo Stretto, strozzatura del canyon sulla via istmica (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

     

  • Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

    Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

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    Secondo alcuni studiosi un comune sentire ha sempre legato i cosentini differenziandoli dagli abitanti delle altre città meridionali. Differenza enfatizzata da alcune peculiarità come lo spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura nei confronti dello straniero. Piovene affermava che erano uomini «d’ingegno esatto», «rifuggivano dalle iperboli» e avevano spiccata attitudine alla filosofia: se Napoli vinceva in scintillio dialettico, Cosenza aveva un vigore speculativo essenziale.

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    La Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede della prestigiosa Accademia cosentina

    Cosenza serva dei potenti

    Nell’Ottocento, Arnoni definiva i suoi concittadini ombrosi nelle traversie della vita e «immaginosi» nei fausti avvenimenti, lietissimi nelle private e pubbliche gioie e cupi e permalosi nelle grandi sventure. Ricordava con dispiacere, inoltre, che pur avendo forti sentimenti religiosi, bestemmiavano frequentemente con «occhi di fuoco» il «Santudiavulu» e la «Madonna». Concludeva affermando che avevano una doppia natura e che bello e brutto, civile e selvaggio, tragico e grottesco, odio e amore, riso e pianto, fedeltà e tradimento, bacio sincero e assassinio a sangue freddo, si avvicendavano in loro senza posa.

    Padula, di Acri, irrideva i Cosentini per la loro piaggeria verso i potenti e li rimproverava di non avere alcun senso del bene pubblico. In città vivevano buoni padri di famiglia, ma non cittadini. Nessuno trascurava la pulizia della propria casa, ma non ci si preoccupava di quella delle strade e tale grettezza era propria sia di chi aveva il cappello a cono che quello a cilindro. Egli catalogava i galantuomini della città in «curiosi», «vanitosi» e «importanti».

    Faccendieri che ostentano amicizie importanti

    Tutti, indistintamente, si ingegnavano per guadagnare l’amicizia, la confidenza e la protezione degli uomini di governo. I «curiosi», invece di apprendere le scienze, erano interessati alle notizie che arrivavano da Napoli e andavano a raccontarle agli amici per il piacere di sorprenderli. I «vanitosi» amavano far visita alle autorità, passeggiare con loro lungo il corso e andarci a teatro: il loro unico scopo era quello di ostentare l’amicizia col giudice, il generale e l’intendente. Gli «importanti» erano individui che frequentavano gli uomini potenti in modo da ottenere protezione e favori, faccendieri che a loro volta risolvevano problemi di ogni tipo in cambio di denaro.

    Donne eleganti e uomini ardenti

    Le impressioni sui cosentini degli stranieri che nel Settecento e nell’Ottocento giunsero in città sono spesso negative. È inutile precisare che molti di loro avevano uno sguardo etnocentrico, ma non dobbiamo pensare che il loro unico scopo era quello di manifestare disprezzo verso gente ritenuta inferiore e che tutto ciò che annotavano nei loro diari fosse frutto di malafede o fantasia usata a sostegno della loro cultura.
    Bartels scriveva che, sia per le caratteristiche fisiche che per quelle morali, gli abitanti potevano considerarsi i diretti discendenti dei Bruzi.

    Le donne, nonostante il colorito spento provocato dalla malaria, avevano eleganza nel portamento. Gli uomini erano forti, alti, robusti, con i capelli spessi e neri e uno sguardo ardente. Secondo la Lowe i cosentini erano molto avvenenti, gli uomini più belli che avesse mai visto e, probabilmente, era il freddo degli inverni a conferire loro quella freschezza quasi inglese. Anche Gissing, nel suo breve soggiorno in città, aveva notato fisionomie gradevoli e uomini pieni di carattere, doti che avrebbero potuto essere quelle dei Bruzi, loro fieri antenati. Egli notava, inoltre, che a differenza dei napoletani non amavano il chiasso, parlavano con lentezza e non molestavano gli stranieri.

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    Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica

    I cosentini non erano colti e aperti

    L’immagine dei cosentini aperti, colti e moderni non trova riscontro nei racconti dei viaggiatori. Bartels dipingeva una città in cui le donne erano totalmente sottomess. Non prendevano mai parte alle allegre tavolate e il loro compito era solo quello di cucinare e servire a tavola. Per Vom Rath i mariti erano molto gelosi, le occasioni di incontro tra uomini e donne erano rare, le danze quasi sconosciute e il «ballo tondo», in cui il cavaliere stringeva col braccio la dama, era oggetto della massima esecrazione. Didier raccontava che, nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato, si rispettavano le antiche tradizioni patriarcali: a donne e bambini era vietato sedersi a tavola e così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Gissing confermava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione».

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Il taccuino dei viaggiatori

    I viaggiatori mettevano anche in discussione l’amore dei cosentini per l’indipendenza e la libertà della patria. Per De Custine erano tutt’altro che fieri: avevano il terrore dell’autorità e, dal mulattiere al barone, si adeguavano sempre ai nuovi padroni. Discendenti dei Bruzi, secondo de Rivarol, erano disposti a tutto pur di trarre un guadagno, non avevano un senso della lealtà e della morale, erano crudeli e insolenti con le vittime e vili e imploranti con i vincitori.

    I cosentini erano spesso descritti come particolarmente furbi, capaci di grandi doti attoriali che sfruttavano a loro favore. De Custine li dipingeva come istrionici, «crispini» e «scapini» appena scesi dal palcoscenico e usciti dal teatro per continuare i loro lazzi in strada. Avevano la figura, il costume e lo spirito dei personaggi della commedia e lui si divertiva a spiarne le svagate furberie. Al momento di saldare il conto, l’oste di Strutt si distese su un letto dibattendosi e giurando che non poteva accettare un solo tornese in meno. L’inglese, dal canto suo, assicurava di non potergli dare un solo tornese in più e l’uomo con smorfie, strette di spalle e occhi semichiusi, continuò a tendere sconsolatamente la mano.

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    Il viaggiatore francese Astolphe De Coustine

    Amanti del teatro e dei vestiti alla moda

    Questa abilità dei cittadini nel recitare, spiegava il loro amore verso il teatro, unico luogo di intrattenimento serale. La Lowe rimase colpita dal fatto che il pubblico conoscesse le arie a memoria: tutti canticchiavano come se volessero unirsi al coro. Anche Didier ebbe modo di notare che i cosentini amavano molto gli spettacoli e, andando a teatro, gli sembrò di essere tornato in Europa, siccome da quando era in Calabria si sentiva in Africa!
    Gli stranieri notavano meravigliati l’attenzione che gli abitanti di Cosenza prestavano alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento. Didier rimase colpito nel vedere in un negozio i modelli del Journal des Modes di Parigi che stridevano nel contesto delle aspre montagne calabresi.

    A differenza di altri luoghi le donne non si coprivano la testa col velo nero come monache e gli uomini non portavano il cappello a cono ornato di nastri. Anche Emily Lowe notava che i cosentini ci tenevano molto ad apparire eleganti. Gli uomini indossavano un cappello particolare e pochi si contentavano di averne meno di due, uno vecchio e uno nuovo, da usare a seconda del tempo e delle circostanze: a un rovescio d’acqua compariva il vecchio, col cielo azzurro o davanti a una ragazza carina, spuntava quello nuovo. Maurel scriveva che le donne, anche quelle dei ceti popolari, erano sempre ben vestite e si rammaricava di non averle potuto fotografare con la sua Kodak, sebbene la pellicola non sarebbe stata capace di rendere il vivo colore dei vestiti e i movimenti aggraziati del loro incedere.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Cosenza città sporca

    I viaggiatori sottolineavano, tuttavia, che all’estrema cura della persona non corrispondeva quella per il decoro della città, descritta come particolarmente sporca e in abbandono. La struttura urbana appariva assai modesta, fatta da viuzze strette e ripide, alcune delle quali s’insinuavano al di sotto dei palazzi in portici tortuosi e bui. Questa trama edilizia monotona e povera era rotta, di tanto in tanto, da palazzi nobiliari di sobrie linee architettoniche, con ampi portoni e cortili.

    Cosenza era talmente sudicia da «fare pietà». Per Maurel la città poteva essere meravigliosa solo se la si visitava senza fermarsi: nonostante un viaggiatore del ventesimo secolo fosse disposto a sacrificare alcuni comfort per soddisfare la sua sete di conoscenza, a tutto c’era un limite! Se si voleva sapere cos’era la sporcizia, bisognava visitare Cosenza. Egli era rimasto talmente sconvolto dal lerciume che lo circondava, da decidere di concludere la giornata in montagna, tra capre che gli sembravano profumate!

    Parlavano troppo 

    Altro aspetto che rimarcavano i viaggiatori sui cosentini era la loro eccessiva loquacità. Alcuni stranieri erano infastiditi di dover sopportare le chiacchere delle persone presso cui erano ospiti e dichiaravano apertamente che avrebbero fatto volentieri a meno di ascoltarle. De Tavel ricordava che i cittadini usavano tutta la loro astuzia se volevano persuadere qualcuno: le loro maniere diventavano striscianti e insinuanti e, se non si conosceva la perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    La doppiezza degli abitanti di Cosenza

    De Custine stentava a comprendere l’atteggiamento dei suoi ospiti: erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che avesse mai visto. Mentivano quando l’interesse lo esigeva e lo facevano con tanta sottigliezza e abilità che le loro falsità sembravano verità. Mostravano un’ingenuità disarmante che incuteva paura nel momento in cui si scopriva quanto fosse falsa e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con loro rimaneva confuso, non riuscendo ad afferrare cosa pensassero veramente; erano capaci di accusare un uomo e subito dopo di giustificarlo, di criticarne le azioni, aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole. In altre parole, dopo aver dimostrato la meschinità di un uomo, ne diventavano gli avvocati difensori. Era praticamente impossibile per uno straniero riconoscere la sincerità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

     

  • STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

    STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

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    Strade perdute sono pure quelle del mare, ammettendo che possano chiamarsi così. Del resto, sempre di mappe si tratta. E allora c’è una storia da raccontare in merito ad un’isola-non-isola, che sarebbe sorta a metà strada tra il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara. Assomiglia un po’ alla storia tutta siciliana (o quasi) dell’Isola Ferdinandea. Nel nostro caso, però, si tratta di una faccenda che ancora oggi resta in bilico tra leggenda e scienza.

    I più scettici vi parleranno di un errore cartografico, e basta; o, al limite, di una coincidenza. I più fantasiosi vi parleranno di un’isola, magari pure temporaneamente abitata, e poi scomparsa per chissà quale motivo. Io mi metto in mezzo e provo a stemperare le due diverse anime, una più rigida dell’altra, aggiungendo un dettaglio abbastanza sorprendente, che non deve passare inosservato.

    L’allegoria del mostro marino in prossimità del vortice di Albidona (G.A. Magini, Italia, 1620)

    Il mostro e il Vortice

    Un’edizione del 1620 della Carta d’Italia di Giovanni Antonio Magini mostra un’interessante allegoria del mostro marino nelle sue prossimità. Nel 1785 la Marina Borbonica si spinse invece nello specchio di mare limitrofo alla Torre di Albidona. Lì riscontrò una sorgente subacquea e “il grandioso vortice marino sinistrorso, alla profondità di m. 32,20, a km 1,3 dalla Torre”.

    Il tiranno nella Secca

    Nel Banco di Amendolara si incagliarono nel 379 a.C. le flotte inviate da Dioniso il Vecchio, tiranno di Siracusa, per distruggere Thurio. Nel Libro Rosso di Taranto del 1463 si regolamenta l’esercizio della pesca nel Banco, inaugurando una serie di provvedimenti dei Viceré spagnoli, i quali riconoscevano diritti esclusivi di pesca a favore dei tarantini. La Commissione di Studi sul regime dei litorali del Regno vi recuperò nel 1936 un’àncora lignea con chiodatura bronzea, rivestita di piombo, e risalente al IV secolo a. C. (nonché identica a quelle recuperate al Porto di Siracusa). Si fecero avanti ipotesi sul passato morfologico della Secca: residuo di un’isola o addirittura di una penisola? Qualcuno si spinse prudentemente a dichiarare che la Secca fosse in passato emersa, sì, dall’acqua… ma non meno di 8.000 anni fa.

    Il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara nella Carta batilitologica del Sinus Thurinus, su fondo rilevato dall’Istituto Idrografico della Marina

    Oggi è una notissima secca di 31 km², a forma di ferro di cavallo con la concavità rivolta in direzione sud-ovest, adiacente al Vortice di Albidona e prospiciente la marina di Amendolara ad una distanza di circa 10 miglia dalla costa. Pescosa e pericolosa per le imbarcazioni, si erge infatti dai 200 ai soli 20 metri di profondità (addirittura solo 14 nel 1891).

    Isola o arcipelago?

    I latini registravano la presenza di un’isola Elèctoris (ma più corretto sembrerebbe Electris e poi Electra), detta anche Febra da Servio. Altri scrittori, sulla scorta di Plinio, hanno affermato l’esistenza di una o più isole nella zona, credute sommerse a causa di cataclismi “o che sian tanto piccole che appena si vedono, o le suppongono scogli, o che da cinque sian ridotte a due, a tre, e che l’arcipelago nel secolo XV più non era”.

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    L’Electris, sive Febra insula nell’Italia di Georg Horn (1595)

    Leandro Alberti, nei primi del Cinquecento ne avrebbe viste però ancora due seguendo la via lungo l’Esaro.
    Non è finita qui: è proprio una Electris, sive Febra insula, quella che nel 1595 i cartografi Ortelio e Horn registrano nelle loro opere Magna Graecia e Italia nam Tellus/Graecia Maior.
    A rendere la questione più confusionaria è poi la presenza delle piccole isole Cheradi, di fronte al porto di Taranto: nelle mappe geografiche più datate, infatti, alcune di esse vengono spinte fin quasi nel mezzo del golfo, assumendo nomi non sempre omogenei tra loro.

    Il grande equivoco

    Nel 1608 Magini diede alle stampe la sua prima Carta d’Italia, ponendo nel bel mezzo del Golfo di Taranto un’isola mai sentita prima: Monte Sardo. Egli stesso se ne accorse e corresse la svista nella successiva edizione del 1620. Troppo tardi: la diffusione della prima mappa era ormai irrimediabile. Se ciò sembra poco bisogna pensare non tanto al valore economico di quelle mappe, ma alla loro funzione di fonte per le mappe successive. Le carte che presentano quest’isola coprono la bellezza di due secoli di produzione cartografica, in cui sono coinvolte le firme dei più grossi nomi della cartografia europea.

    Ora, la tesi della svista sarebbe inconfutabile se non fosse che, appunto, l’Isola di Monte Sardo coincide spesso con quella già denominata Electra vel Febra Insula, proprio alla maniera latina, in modo molto più suggestivo ed allusivo. E allora torniamo a Magini e al suo errore. Anche lui utilizzava una fonte, e si trattava dell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Stigliola (1582). Bene: una copia di quest’atlante riporta a sud-ovest di Taranto un appunto di mano dell’autore, che raffigura un profilo di collina con la sottostante denominazione Monte Sardo.

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    La prima apparizione di Monte Sardo, nell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Nicola Antonio Stigliola, 1595

    L’isola c’è o non c’è?

    Per alcuni, questo disegno non si riferirebbe ad un’isola ma ad un rimando “fuori mappa” all’altura sulla quale sorge il comune di Montesardo, situato in Terra d’Otranto a 186m sul livello del mare, pochi chilometri a sud di Alessano, uno dei paesi più elevati delle Murge Salentine, e perciò importante da segnalare ai navigatori. Non si capisce però il motivo d’aver segnalato ciò proprio in mezzo al mare, e proprio dove un’isola – con tutti i “forse” del mondo – c’era o c’era stata.

    E resta poi il nodo cruciale delle fonti che riportano l’Electra o la Febra: da dove l’avrebbero tirata fuori? Se sempre da Stigliola, perché allora attribuirle un altro nome? Altra cosa buffa ma indicativa: i toponimi Electra o Febra non si riscontrano mai contemporaneamente a quello di Monte Sardo. Insomma: è stato certamente un errore utilizzare la denominazione di Monte Sardo ma… è stato anche un errore indicare l’esistenza dell’isola? Non ne sarei per niente sicuro.

    Un ultimo indizio

    Pare abbastanza ovvio, a un certo punto, che la Secca e l’Isola (o pseudo-isola) coincidano. Esperti di geologia marina hanno chiarito che se il fenomeno di subsidenza fosse stato costante negli ultimi tre secoli, la Secca poteva ben essere rappresentabile come un’isola all’inizio del Seicento. Detto più chiaramente: se l’inabissarsi dei rilievi subacquei fosse stato uniformemente costante, ne deriverebbe che già soltanto sul finire del Settecento questi avrebbero fatto capolino attraverso il pelo dell’acqua.

    Ma resta ancora il dato più sorprendente, e peraltro assai poco noto: nella mappa denominata Magna Graecia etc., realizzata da Bertin nel 1699, l’Electris Ins. possiede l’esatta forma a ferro di cavallo con concavità rivolta a sud-ovest, così come è stata descritta in tempi recenti grazie alle attuali tecniche idrografiche e batimetriche. Come la mettiamo?

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    L’Electris Ins. nella Magna Graecia di Francesco Bertin (Padova, 1699)

    Due possibili ipotesi

    Ricapitolando, restano possibili due ipotesi. L’isola è esistita prima dell’incidente delle flotte di Dionisio il Vecchio. Deve esserne poi rimasto ricordo – in seguito alla sua scomparsa – presso i latini e le successive popolazioni indigene, fino al sopraggiungere dei più moderni mezzi cartografici che hanno decretato la giusta cancellazione di questo rilievo dal Golfo di Taranto.

    Oppure, più probabilmente, l’azione erosiva deve essere stata – dall’epoca di Thurio in poi – non del tutto progressiva ed ininterrotta e, tra l’altro, alternata forse a riemersioni sporadiche dell’isola, soprattutto nel periodo di compilazione delle carte geografiche storiche. I motivi di una scomparsa del genere possono essere molteplici. Da una semplice azione erosiva marina alla subsidenza dei fondali e alla convulsione tellurica della costa, fino a qualche evento eccezionale, non ultimo un maremoto.

    L’isola gemella (eterozigote)

    A differenza della sicula gemella eterozigote Ferdinandea, l’isola Febra, Electra o di Monte Sardo, non provocherebbe mai – qualora rinascesse – conflitti internazionali, innocua com’è e inglobata com’è all’interno delle acque territoriali del Golfo di Taranto, tutto italiano, senza perciò poter dar adito a polemiche sul suo assorbimento o meno nella piattaforma continentale. Al più potrebbero sorgere dissidi tra gli enti locali costieri per aggiudicarsene l’amministrazione o, più probabilmente, per liberarsi da inattese incombenze. Che resti, allora, a sonnecchiare tranquilla…

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    L’Isola Ferdinandea, in un dipinto del 1831 (fonte Wikipedia)

     

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    Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    «Superare gli stereotipi, rendere visibile il patrimonio materiale e immateriale di una terra unica al centro del Mediterraneo, ancora tutta da scoprire»: usa slogan intriganti la campagna di lancio per la candidatura della Locride a Capitale della cultura per il 2025. Slogan che parlano di territorio che «genera cultura» e che sperimenta «metodologie e buone prassi per il recupero e la valorizzazione del patrimonio culturale» ma che sembrano fare a pugni con la quotidianità di un territorio che negli anni ha visto diminuire – e di molto – l’offerta culturale destinata ai residenti e ai turisti che scelgono di passarci del tempo.

    Teatri con le porte sbarrate da anni o mai aperti, fondi librari lasciati a marcire in improbabili sottotetti, sfregi e violenze sul patrimonio architettonico e urbanistico ereditato da secoli di dominazioni diverse, persino i Rumori Mediterranei di Roccella jazz – per 40 anni massima espressione della “cultura diffusa” in tutto il territorio reggino – “ridimensionati” ed esclusi dai finanziamenti dei Grandi eventi regionali per opera dell’ex facente funzioni Nino Spirlì. Per non dire delle scuole, con buona parte dei micro paesi della Locride che, negli anni, hanno perso anche gli istituti primari o, nel migliore dei casi, li hanno mantenuti ricorrendo al sistema delle multiclassi.

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Locride Capitale della cultura

    L’idea di avanzare la candidatura unitaria dei 42 paesi che compongono il territorio a Capitale italiana della cultura per il prossimo 2025, è venuta al Gal Terre locridee. Ha visto l’immediata adesione dei sindaci che, in ordine sparso, stanno firmando il protocollo d’intesa presentato nei mesi scorsi. Così come quella dell’assessore regionale all’agricoltura, Gallo, che ha garantito «il sostegno della Regione e il pressing sul Ministero». L’idea, si legge nel manifesto, è quella di costruire «un progetto unitario che attivi forme di resilienza, economia circolare, partecipazione, sostenibilità» lungo un percorso in grado di rappresentare la Locride «in modo complessivo come territorio che genera cultura, in modo coeso, partecipato e condiviso».

    Un’idea – l’ennesima – nel tentativo di rilanciare il territorio. «Sulla falsariga di quello che è successo a Matera – dice il presidente dell’assemblea dei sindaci Giuseppe Campisi – quando fu scelta come Capitale italiana della cultura. Ci saranno eventi, progetti e manifestazioni per sponsorizzare la nostra candidatura. Contiamo di fare conoscere meglio il nostro territorio con le sue particolarità e con le sue ricchezze, a partire da quelle archeologiche di Locri e Kaulon».

    Il passato glorioso della Locride

    Poco più di 150 mila abitanti distribuiti tra il mare e le montagne d’Aspromonte e delle Serre, la Locride ha maturato un rapporto quasi bipolare con le meraviglie naturali e storiche che ha avuto la fortuna di ritrovarsi. Un patrimonio – borghi medievali, monasteri arroccati, castelli e torri di guardia, oltre naturalmente ai resti delle civiltà magnogreche e romane – buono da esibire quando si tratta di vendere pacchetti turistici ma che si scontra con una realtà caratterizzata da inefficienze e sprechi. Come nel caso del parco archeologico di Monasterace, minacciato da anni dall’irruenza dello Jonio e che attende ancora il completamento della recinzione e l’istallazione dell’impianto di video sorveglianza. O quello della rupe su cui sorge Caulonia, che si disfa pezzo dopo pezzo in attesa dell’ennesimo intervento.

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    Il mosaico dei draghi e dei delfini nel parco di Kaulon

    E poi una serie di sfasci e storture che hanno riguardato decine di singoli beni un po’ in tutto il comprensorio. Come il settecentesco casino di caccia sulle colline di Stignano, privo di ogni controllo e vittima indifesa di graffitari dozzinali e zozzoni da gita fuoriporta. O come il balcone in cemento e mattoni costruito impunemente sulla cinquecentesca abitazione natale di Tommaso Campanella a Stilo. Un’oscenità denunciata durante un convegno sugli studi campanelliani nel 2019 e che la terna prefettizia alla guida del Comune, pochi giorni dopo, ordinò di rimuovere.

    Serbatoio di acqua sui ruderi del Castello di Caulonia

    Caulonia e gli scontri tra Comune e Soprintendenza

    E ancora Caulonia, borgo tra i più belli in Regione, che negli anni, non si è fatto mancare proprio niente. Dalla costruzione del serbatoio dell’acqua potabile, edificato negli anni ’50 in spregio a un migliaio di anni di storia, sui resti del castello normanno, all’invasivo restauro della cinquecentesca chiesa matrice, fino alla polemica sul recupero dell’affresco del Cristo Pantacreatore, testimonianza antichissima della lunga dominazione bizantina e vittima suo malgrado di un tira e molla tragicomico. Il Comune voleva farci attorno una piazzetta in cotto con contorno di colonne doriche; la Soprintendenza minacciò di staccare la pittura da ciò che resta dell’abside di San Zaccaria per portarlo “in salvo” all’interno di un museo.

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    L’orribile copertura in vetro che protegge il mosaico del Cristo Pantacreatore a Caulonia

    La polemica è durata mesi ed è finita con un’imbarazzante copertura in acciaio e vetro. La stessa soluzione che a Placanica, pochi chilometri a nord, è stata individuata per il nuovo ascensore esterno in dotazione al castello. Un intervento pesante e dal forte impatto visivo che consentirà l’accesso ai disabili ma che ha scatenato una montagna di polemiche che hanno coinvolto la stessa Soprintendenza.

    L’ascensore esterno in vetro e acciaio del Castello di Placanica

    Accesso negato

    E se il patrimonio ereditato dal passato – punto di forza della candidatura – continua a camminare su un terreno minato, il rapporto attuale tra il territorio e la possibilità di accesso e fruizione alla cultura, è altrettanto contorto. Solo due i cinema superstiti in tutto il comprensorio, uno a Locri, l’altro a Siderno, e trovare un film che non sia un giocattolo della Marvel o un cartoon della Pixar, non è cosa da tutti i giorni. Sulle dita di una mano di contano poi le librerie, fatte salve quelle che riforniscono i testi scolastici, e anche ascoltare della semplice musica dal vivo, tolti i canonici due mesi di stagione estiva, è diventato molto più difficile che in passato.

    Il fantasma del palcoscenico

    Capitolo a parte meritano i teatri. Se buone vibrazioni arrivano dai ragazzi di Fuorisquadro – che hanno recuperato e rimesso a nuovo a loro spese il vecchio cinema liberty del paese per riconvertirlo in un teatro da 90 posti – pessime notizie arrivano da Gioiosa, unica struttura “ufficiale” che era rimasta aperta al pubblico nella Locride. Problemi all’impianto elettrico hanno fermato il cartellone: «I lavori da fare – dice il direttore artistico Domenico Pantano – sono tanti, soldi non ce ne sono. Ad oggi non è possibile ipotizzare una data per la riapertura».

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    Il teatro mai finito di Siderno: in costruzione dal 2002

    E se a Gioiosa il teatro chiude, a Siderno non ha mai aperto. E dire che la prima pietra per l’opera risale ai primi anni del nuovo secolo. Un iter elefantiaco fatto di errori e ritardi che ha fatto salire all’inverosimile i costi dal progetto iniziale e che si nutre di continui nuovi finanziamenti: l’ultimo, 2 milioni di euro garantiti con delibera del Cipe del 2018, prevede il completamento del teatro e la sistemazione della piazza adiacente ma i tempi di realizzazione non sembrano brevi.

    Il collaudo in contumacia

    Surreale poi la storia del teatro comunale Città di Locri – centro che dalla sua può comunque vantare un antico cartellone estivo in scena nel parco archeologico – che non solo ha chiuso i battenti pochi mesi dopo essere stato inaugurato nel 2018, ma è finito, suo malgrado anche nelle aule del tribunale cittadino. Il montacarichi, indispensabile per spostare su è giù dal palco le attrezzature necessarie alla messa in scena degli spettacoli infatti, non era mai stato installato.

    Lo ritrovarono a casa di un privato cittadino che, ignaro, lo aveva acquistato al doppio del prezzo dallo stesso imprenditore che aveva vinto l’appalto per il teatro, e di cui era suocero. Una storia dai tratti surreali, finita con sei rinvii a giudizio e una condanna con pena sospesa in abbreviato. Alla sbarra, oltre all’imprenditore che avrebbe messo in moto il doppio raggiro, ci sono finiti anche i tecnici che hanno firmato il collaudo dello stesso montacarichi: una sorta di collaudo “in contumacia” visto che il piccolo ascensore era da un’altra parte.

  • STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

    STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

    Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

    Tra Cetraro e Cavinia

    Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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    Cavinia vista dall’alto

    Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

    Le torri sulla scogliera

    Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

    Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

    Cetraro e i suoi toponimi

    Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

    Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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    Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

    Verso il centro storico

    Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

    Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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    Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

    1749, fuga da Cetraro

    Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

    Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

     

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    Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

    La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?

     

  • Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Da quando – dagli anni ’80 in poi – il Tirreno cosentino è diventato meta turistica con leggi ad hoc per la costruzione di alberghi e villaggi, magari abusivi e usati come lavanderia dalle cosche locali, anche le opere pubbliche hanno accompagnato questa crescita disordinata e devastante.

    Molto denaro per nulla

    Una pioggia di denaro si è riversata su tutti i paesi costieri, per la gioia di politicanti di centro, destra e sinistra che così hanno accresciuto il proprio peso politico ed elettorale. Sono gli anni in cui i big si chiamano Misasi, Pirillo, Gentile, Adamo, Covello, Antoniozzi. Anni in cui si dissemina la costa di marciapiedi e si rifanno centri storici con marmi di Trani e pietre di porfido del Trentino. Sorgono mattatoi, centri sportivi, porti turistici, strade di penetrazione finite nel nulla. Opere quasi tutte abbandonate o inutilizzate.

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    Massi per arginare le mareggiate a Belvedere

    Come può un masso arginare il mare?

    La follia degli anni ’80 inizia con i massi a difesa della ferrovia. Una serie di pietre provenienti da cave, gestite spesso dalle potentissime cosche del Tirreno, gettate alla rinfusa a protezione della linea ferroviaria colpita da forti mareggiate. A trasportare i massi una serie di ditte, a studiare il fenomeno tecnici di dubbia esperienza che hanno costruito quell’inutile barriera di massi favorendo indirettamente o direttamente l’erosione verso il paese vicino. Così i massi a Belvedere hanno rovinato le spiagge di Sangineto e, via verso sud, fino al disastro di San Lucido.

    Fronte del porto

    Dopo i massi, ecco i finanziamenti sulle condotte sottomarine legate alla depurazione. Miliardi di vecchie lire hanno fatto sì che ogni depuratore avesse la sua condotta che sarebbe dovuta arrivare a trenta metri di profondità. Diverse però, finiti i finanziamenti, si sono fermate a poche decine di metri dalla riva espandendo liquami secondo le correnti.

    Poi l’esplosione della portualità negli anni ’90. Ogni paese voleva un porto, ogni paese presentò progetti in massima parte finanziati dalla Regione o dal Comune. Anche stavolta a regnare sembra essere l’improvvisazione. Progetti fantasiosi e soprattutto miliardari, che vanno dal Porto canale mobile e retraibile di Tortora alla foce del fiume Noce a quello attorno alla Torre Talao a Scalea. C’è poi quello nel fiume Corvino a Diamante con annesso lago, e poi ecco quello di Belvedere fra i massi della ferrovia, quello di Fuscaldo, di Paola, di Cittadella, di Campora San Giovanni.

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    Diamante vuole un porto turistico

    Al momento, passata la buriana dei fallimenti finanziari, sono operativi solo quelli di Cetraro e Campora san Giovanni. Ma entrambi convivono annualmente con l’insabbiamento degli ingressi e i relativi esborsi di centinaia di migliaia di euro per liberarli e permettere così alle imbarcazioni di entrare ed uscire.

    Il porto di Damante è emblematico del disastro compiuto da quattro sindaci, iniziato nel 1990 con il sindaco De Luna, e proseguito con Caselli, Magorno, Sollazzo, e tre governatori (Oliviero, Santelli, Spirlì) che non sono riusciti a gestire cospicui finanziamenti finiti in mano di un concessionario, riducendo solo la scogliera ad un ammasso di cemento.

    Aviosuperficie e ospedale: Scalea abbandonata

    La madre di tutte le opere pubbliche abbandonate è probabilmente  l’aviosuperficie di Scalea. Circa 23 miliardi di vecchie lire sperperate lungo il fiume Lao in un corridoio verde, un’area Sic e un’area demaniale. Per costruirlo sono state estirpate ben 2.000 piante di cedro che decine di contadini coltivavano da decenni. Un disastro passato inosservato e che ha fatto posto ad una lingua di bitume lunga circa 2.000 metri e larga 30 e ritornato alla luce grazie all’inchiesta “Lande desolate” nella quale venne coinvolto anche il governatore Oliverio, poi assolto.

    Sempre a Scalea un’altra delle opere pubbliche abbandonate e solo in parte restituita alla collettività negli anni recenti, è l’ospedale. Una struttura imponente di tre piani che troneggia su una collina costata alla collettività ben 10 miliardi di vecchie lire. Non è mai entrato in funzione come ospedale né lo diventerà dopo la chiusura di altri 19 presìdi in tutta la regione. Rimasto senza alcun controllo dopo essere stato attrezzato, per anni è stato vandalizzato, fino a farne sparire le cucine e tutti gli arredi delle stanze.

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    Doveva essere l’ospedale di Scalea, ma è solo abbandonato e vandalizzato

    Tre viadotti e due gallerie

    Poi ci sono le strade di penetrazione dal Tirreno verso l’autostrada, quelle che avrebbero dovuto favorire il turismo. La strada di collegamento di Lagonegro è obsoleta e se ne cerca un’altra. La prima negli anni ’90 fu il congiungimento di Guardia Piemontese attraverso San Marco. Una variante che era partita bene ma che si è fermata a metà con una sola bretella ben fatta: riporta, però, alla vecchia strada provinciale senza raggiungere l’autostrada a pochissimi km.

    Ed ecco in alternativa un’altra grande pensata, una nuova strada che da Scalea possa raggiungere Mormanno. I soldi pubblici ci sono, ben 100 milioni di euro. Si parte alla grande dal fiume Lao, ma, completata una bellissima rotonda, la strada si ferma ad un piccolo ponte della ferrovia. Soldi impegnati, dieci milioni di euro. Contro l’opera interviene anche il Parco del Pollino che non dà nessuna autorizzazione.  La strada per raggiungere Mormanno dovrebbe attraversare il territorio di Papasidero con tre viadotti e due gallerie. Uno sfondamento e una cementificazione selvaggia nel pieno del parco.

    La protesta dei lavoratori Sateca all’interno delle terme di Guardia Piemontese

    Non solo opere pubbliche: il disastro delle Terme

    Storia a sé fanno le Terme Luigiane e il contenzioso fra i due comuni che la dovrebbero gestire (Guardia Piemontese e Acquappesa) e la società che la aveva in concessione. Struttura chiusa, dipendenti in cassa integrazione, indotto volatilizzato, pazienti privati del servizio: a perdere è stato come sempre il territorio, ennesima conferma della disastrosa gestione delle cose pubbliche nell’alto Tirreno cosentino.

    Sempre a Guardia Piemontese, vicino alle terme è stata costruita una grossa struttura. È il Centro Congressi, costato centinaia di milioni in vecchie lire, abbandonato per decenni. Ripreso e ristrutturato recentemente, per poi essere destinato ad altro. Anche stavolta un’opera pubblica costretta a lungo a fare i conti con degrado e abbandono, quale sarà la prossima?

    Il centro congressi di Guardia Piemontese

     

  • BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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    La stazione di Cosenza a inizio ‘900

    Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

    Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

    C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

    L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

    Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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    Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

    Brutti, sporchi e cattivi

    «Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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    Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

    Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

    La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

    Tavernari di Cosenza

    Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
    Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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    Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

    Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
    «Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

    La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

    Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

    Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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    Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

    A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

    Vino e follia nelle cantine di Cosenza

    Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

    Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

    A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

    Dal bicchiere alle lame

    Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

  • IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.

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    Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)

    Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque

    Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.

    La giornalista e scrittrice Matilde Serao

    L’estate dei cosentini

    Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.

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    Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival

    Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.

    La Diamante di Matilde Serao

    Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.

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    Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.

    Un mare di cemento (e non solo)

    L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.

    La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.

    Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.

    Teatro di chiazza

    Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.

    A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.

    La chiesa di San Biagio a Diamante

     

    Diamante d’inverno, voci nel deserto

    Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.

    Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.

    Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.

    Un bar che si chiama Desiderio

    Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.

    I ruderi di Cirella e l’isola omonima

    La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.

    Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).