Sono 17 le Bandiere Blu in Calabria. Due nuovi ingressi nel 2022: si tratta di Caulonia e Isola Capo Rizzuto. Le altre 15 sono: Tortora; Praia a Mare; San Nicola Arcella; Santa Maria del Cedro; Diamante; Roseto Capo Spulico; Trebisacce; Villapiana; Cirò Marina; Melissa; Isola di Capo Rizzuto. In provincia di Catanzaro: Sellia Marina; Soverato; Tropea; Roccella Jonica; Siderno.
Sono 210 i Comuni italiani che quest’anno hanno ottenuto la Bandiera Blu, il riconoscimento alle località rivierasche e ai porti turistici più incontaminati e sostenibili, assegnato dalla Fondazione per l’educazione ambientale (Fee), ong internazionale con sede in Danimarca. I criteri per l’assegnazione della Bandiera Blu sono assoluta validità delle acque di balneazione, efficienza della depurazione e della gestione dei rifiuti, aree pedonali, piste ciclabili, arredo urbano, aree verdi, servizi in spiaggia, abbattimento delle barriere architettoniche, corsi d’educazione ambientale, strutture alberghiere, servizi d’utilità pubblica sanitaria, informazioni turistiche certificazione ambientale delle attività istituzionali e delle strutture turistiche, pesca sostenibile.
Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughinimi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica delficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminioad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».
Darwin a Belvedere
Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.
Un Belvedere anche senza mare
Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).
Belvedere Marittimo e la sua spiaggia
D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.
“La Carrera del Diavolo”
Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.
L’ingresso della Grotta della monaca
Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.
Fantasmi a Belvedere
Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.
Le masserie abbandonate
Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.
Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.
Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia
Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.
Le villette col pianoforte in giardino
C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.
Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone
La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.
Stracalabria tra porcili, vacche e vino
Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.
L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)
Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.
Neve a Belvedere
Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.
Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)
Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.
La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.
Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari
Monte Cannitello brucia
E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?
Fermi da più di dieci anni, i treni della vecchia Calabro-Lucananella Piana di Gioia Tauro, sono rimasti a consumarsi in un angolo dismesso della linea a scartamento ridotto nella città del porto. Per quasi un secolo hanno garantito la mobilità tra il mare e l’entroterra. Sono stati a lungo unico, o quasi, mezzo di trasporto della zona. Ora stanno lì, vicino al terminal bus, abbandonati dal 2011 quando, con un fonogramma di dieci righe, la linea venne sospesa a tempo indeterminato. Vandalizzate dai soliti tag dozzinali e depredate di tutto, le carcasse rosse dall’inconfondibile stile retrò dei trenini che per decenni hanno portato su e giù per le campagne del reggino migliaia di cittadini, sono solo uno dei segni del declino senza ritorno del trasporto interno su rotaia.
Il rosso della ruggine ricopre treni e rilevato ferroviario nella vecchia Ferrovia Calabro-Lucana
Il tracciato dimenticato delle ferrovie
Due linee distinte, due tracciati diversi ma uniti nello stesso finale amaro. Una, la linea più antica, collegava la costa Viola con il versante tirrenico d’Aspromonte arrampicandosi sulla montagna fino al capolinea di Sinopoli. L’altra, la più importante, garantiva i collegamenti tra la città del porto e il ricco entroterra della Piana, fino a San Giorgio Morgeto e a Cinquefrondi: entrambe le linee, anche se chiuse in anni diversi, sono ormai solo un ricordo; con il materiale ferroviario – almeno quello che non è stato portato via dai tecnici di “Ferrovie della Calabria” – lasciato al suo destino in attesa di una riapertura che, visti i costi, non avverrà mai o di una riconversione del tracciato che per ora resta solo nelle idee innovative di qualche tesi d’architettura.
Vecchio casello ferroviario a Cinquefrondi
Un patrimonio storico del trasporto pubblico
Trentadue chilometri di tracciato, 13 fermate, una manciata di automotrici e un patrimonio di storia del trasporto pubblico che ha attraversato (quasi) tutto il secolo breve prima di naufragare sotto i colpi di una gestione diventata sempre meno redditizia. È entrata in funzione nel 1924 nel tratto tra Gioia e Cittanova, l’hanno ampliata fino a Cinquefrondi tre anni più tardi. La linea avrebbe dovuto originariamente “scavalcare” il passo della Limina e ricongiungersi a Mammola con il tratto di rotaie che arrivava fino allo Jonio. Ma il progetto presentava costi troppo elevati. Così fu accantonato definitivamente.
Interi paesi uscirono dall’isolamento
Nella Calabria del primo XX secolo però, quella trentina di chilometri di binari a scartamento ridotto, rappresentano un salto in avanti importante. Un intero territorio fatto di paesi densamente popolati, veniva finalmente interconnesso in maniera stabile, economica e comoda, con le stazioni a due passi dalle piazze principali dei centri. Un servizio ininterrotto (curato dalla società Calabro Lucane fino ai primi anni ’90 e poi da Ferrovie della Calabria) andato avanti fino al 2011. Poi è stato sospeso, dopo anni di agonia, con la giustificazione dei problemi di sicurezza. I limitati interventi di manutenzione sul tracciato e l’avanzata età del materiale rotabile, infatti, avevano costretto la linea a viaggiare a velocità estremamente ridotta. Elementi che hanno reso poco pratico il trenino, che ormai utilizzavano praticamente solo gli studenti.
Gli immancabili murales sulle pareti esterne dei caselli abbandonati
Da quel giorno di 11 anni fa, poco o niente e cambiato. Nessuno, in Regione, si è mai preso la responsabilità di dismettere definitivamente la linea. Uno status di “sospensione” che, di fatto, ne impedisce ogni altro utilizzo. Ai limiti dettati dalle normative di sicurezza sui percorsi ferrati poi, dal 2019, si è aggiunto anche il vincolo della soprintendenza di Reggio che ha emesso un decreto di interesse culturale sulle linee Taurensi, in quanto memoria storica.
Anche se di memoria, ormai, rischia di rimanerne poca. Smontato lo smontabile – le aste dei passaggi a livelli, i semafori – il resto del tracciato è rimasto abbandonato. I tecnici delle ferrovie si limitano a tagliare l’erba lungo i binari e nelle stazioni prima della stagione estiva. Nessuna manutenzione sui binari, sugli scambi o sui numerosi viadotti presenti sul tracciato. Nessun intervento nelle stazioni che cadono a pezzi (fatto salvo un piccolo recupero della piattaforma che “girava” i treni, nel capolinea di Cinquefrondi). Nessuna idea di riconversione all’orizzonte. E con il rischio sempre più concreto che episodi come quello di Sinopoli – quando gli Alvaro fecero costruire un edificio in muratura sui binari ancora caldi dal passaggio dell’ultima littorina – possano moltiplicarsi.
Quattro ragazzini e un pallone lungo il vecchio tracciato delle Ferrovie calabro-lucane
Il turismo green corre sui binari
Per l’ex assessore regionale Catafalmo, storia di un anno fa, «la rimessa in esercizio della Gioia-Cinquefrondi non risulta sostenibile da un punto di vista economico e finanziario». A tenere “vivo” il vecchio tracciato ci pensano le associazioni di appassionati e escursionisti. Organizzano giornate di trekking lungo i binari, attraverso un percorso prezioso sotto gli ulivi giganteschi di questo pezzo di sud. E poi ci sono le idee e i progetti di tanti laureandi. Su quel tesoro fatto di stazioni e binari d’acciaio, hanno immaginato il futuro del territorio.
Un futuro fatto di piste ciclabili e servizi integrati con i vecchi tracciati delle ferrovie dismesse in grado di catalizzare l’interesse di un turismo lento, che cerca attrazioni lontane dalle mete più frequentate. Le vecchie stazioni che diventano sale espositive e vetrine per i prodotti del territorio, le traversine in rovere che trovano nuova vita come pavimento esterno, persino le rotaie, smontate e riadattate per scale e recinzioni: le idee ci sono, il rischio è che restino chiuse nel cassetto.
Alle sei del pomeriggio una quindicina di ventenni, in cerchio, discute animatamente in un magazzino di via Rivocati. Non parlano dell’ultimo trend di TikTok né della mise di Damiano dei Maneskin e nemmeno di chi vincerà lo scudetto, ma molto probabilmente della crisi russo-ucraina. È la federazione dei giovani comunisti: il che sarebbe già una notizia se non fosse che tutto ciò accade in uno dei quartieri più marginali eppure – o forse, proprio per questo – affascinanti della città.
Era il cuore della “Cosenza città di provincia”, ma con cinque cinema, raccontata da Stefano Rodotà, che proprio in questo quartiere, nel palazzone nobiliare di via Sertorio Quattromani, crebbe e maturò prima del grande salto a Roma.
I ragazzi della Federazione dei giovani comunisti animano il dibattito pubblico del quartiere (foto Alfonso Bombini 2022)
Prologo. Tre fiere: il commercio nel dna del quartiere
“Fino a tutto il 1300 e il primo quarto del 1400 Cosenza non superò le sponde dei due fiumi tranne che con il borgo dei Rivocati al di là del Busento, a nord, nella zona pianeggiante occidentale”, scriveva Enzo Stancati nel primo dei quattro volumi di Cosenza nei suoi quartieri (Luigi Pellegrini editore, 2007): nel Duecento, dal 21 settembre al 9 ottobre vi si teneva la fiera annuale dei santi Matteo e Dionigi – Federico II elesse nel 1234 Cosenza una delle sette sedi delle esposizioni generali del regno con Sulmona, Lucera, Capua, Bari, Taranto e Reggio – con lana e oreficeria tra i prodotti in vendita e soprattutto seta (qui “si stabiliva il prezzo del prodotto che poi veniva accettato dalle altre fiere”).
Già nel 1416 era il luogo della fiera della Maddalena (iniziava il 22 luglio e durava 15 giorni), poco dopo il convento dei Domenicani – dove transiterà Tommaso Campanella – contribuirà a farne abitato popolare in espansione, tra commercianti e artigiani, ortolani e fornaciai “insediati a debita distanza dai cittadini più abbienti, accanto all’acqua del fiume necessaria al loro lavoro”.
Una terza fiera stagionale (Annunziata, dal toponimo della piana oggi ereditato dall’ospedale) “accordata da Filippo II con un privilegio del 4 agosto 1555 (…) in base a un documento del 1839 (…) si svolgeva in un solo giorno, il 25 marzo, in piazza San Domenico”.
Perché Rivocati?
Il compianto storico di Lago racconta anche che questo “quartiere suburbano” era “collegato al nucleo urbano dal ponte – poi appunto detto “delli Rivocati” – che immetteva direttamente in città mediante l’antica via consolare (oggi corso Mazzini, ovvero isola pedonale, ndr). Nella zona (…) si rinvennero nel 1840 i resti di un pilone di ponte romano, forse un secondo ponte sul Busento, che aggirava l’abitato e, circuendo il Pancrazio, conduceva forse a Portapiana”.
Le tracce romane si ritroverebbero anche nella conformazione ortogonale delle strade, con via Rivocati asse principale e viale dei Platani e Viaròcciolo – oggi rispettivamente corso Umberto I e via Piave – assi paralleli procedendo verso nord.
E l’etimologia dei “Rivucati”? Vexata quaestio: dialettizzazione di “ad rivum casae” (umili casupole a ridosso del fiume) o toponimo riferibile alla “revoca” della decisione di un feudatario limitrofo, tra XII e XIII secolo, di negare la concessione abitativa ai cosentini in questo lembo demaniale e non infeudato?
La statua dedicata a Lucio Battisti (foto Alfonso Bombini 2022)
1. Dal puttan-tour ai servizi segreti
Corsi e ricorsi: Stancati cita cronache del 1891 che riportano “reclami per la nettezza urbana trascurata” mentre “nel 1893 si lamentavano schiamazzi notturni e indecenza igienica”.
Quegli stessi “Rivucati”, un secolo fa zona di cantine e accoltellamenti ma anche bagni nel Busento non ancora irreggimentato, oggi cercano una nuova identità: una spinta arriva dalla recente intitolazione a Battisti dei “giardini di Lucio”, con tanto di accenti sbagliati nei titoli riportati sulla scultura bifronte inaugurata da Mogol, ma un primo segnale di agognata renaissance – l’ennesima, dopo i bombardamenti e il degrado sempre dietro l’angolo, letteralmente – si era avuto già con l’inaugurazione in pompa magna del “distretto di cybersecurity” nella vecchia e sontuosa sede delle Poste, alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi (era il 2015).
Le Poste vecchie dopo i bombardamenti del ’43
Un palazzo bombardato a via Rivocati
Primi del ‘900, l’edificio divenuto oggi sede del GOI
Fine ‘800, il quartiere in una litografia
Via Rivocati e, sullo sfondo, piazza Riforma
Una raccolta di foto e stampe tratte dal gruppo Fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”
Fu allora che arriat’ii postevirò da toponimo di pecorecce iniziazioni sessuali perlopiù verbali a polo di alta tecnologia con una spruzzata di servizi segreti. Un mood da spy story reso ancora più attuale, qualche giorno fa, dall’ufficializzazione della destinazione d’uso del palazzotto liberty di via Trento restaurato alla grande nell’ultimo anno e sul cui ingresso – incastonato tra due alti cipressi appena posti – troneggia finalmente, dopo iniziali chiacchiericci e segreti di Pulcinella finali, la scritta Grande Oriente d’Italia. Il mega-tempio massonico a un paio di metri dal palazzo comunale. Giusto per titillare le battutine dei detrattori del neo-sindaco Franz Caruso esponente di spicco proprio del Goi — dìciche.
2. Il vecchio che resiste al brutto modernista
Il tappeto multicolor di piazza Riforma che in pieno stile-Penelope dell’evo occhiutiano (scascia e conza, scascia e conza…) se ne sta già venendo via, è il segno dei tempi: ricorda la pavimentazione stradale attorno a piazza Bilotti, che si sfonda in virtù di implacabili leggi di obsolescenza simili a quelle che regolano la durata dei frigoriferi: con la differenza che quei blocchi di pietra si sfondano e vanno cambiati ogni 2, 3 mesi mentre l’elettrodomestico almeno a dieci anni ci arriva.
Ai Rivocati, al contrario, alcuni manufatti resistono agli anni, alle intemperie e al cemento che avanza sbranando le antiche vestigia: da decenni abbevera i viandanti, per esempio, la fontanella resa iconica da uno scatto in b/n del compianto Fabio Aroni, zampillo che in un angolo della fu via Montello (oggi Davide Andreotti, storico) con via Pasubio serviva gli espositori del fu mercatino ortofrutticolo oggi rimpiazzato da uffici di nuovissima costruzione dell’Azienda ospedaliera e altro.
È invece sparita da un paio d’anni la targaCristiani Banane – altrettanto iconica – che svettava qualche metro più avanti. Era il quartiere dei commerci, qualcuno dei quali è oggi rimasto, come vedremo. Palazzoni moderni sono entrati a gamba tesa, con esiti alterni, tra i vecchi palazzi sventrati dalle bombe del 1943.
3. Cultura, in attesa del pubblico il privato si organizza
Il cine-teatro Italia Tieri, una delle strutture cittadine in cerca di identità, è il fulcro di una zona che galleggia tra innovazione e abbandono: proprio davanti all’ex Gil, edificio figlio del Ventennio, ecco il Centro di Salute mentale: non proprio l’Eden per chi ha bisogno di cure.
Attorno, accanto ad altri poli istituzionali come la Casa della Musica collegata al conservatorio Giacomantonio, non mancano le nuove iniziative private: sta per partire l’Atelier AC (iniziali di Adele Ceraudo, artista cosentina celebrata anche oltre i confini calabresi) su corso Umberto; alle spalle, sullo stesso isolato, c’è quello di un’altra artista: Luigia Granata (via Davide Andreotti 23).
Il cine-teatro Tieri diventato rifugio per i senzatetto
Sul lato opposto della strada, in pochi metri sullo stesso marciapiede troverete le officine visuali “Ovo” di Andrea Gallo e la sede della Fgci e, a breve, la nuova sede della casa editrice Coessenza, già galleria d’arte Vertigo dove una ventina di anni fa trovarono nuova collocazione e linfa gli esponenti del “Laboratorio delle due anime” raccontato da Concetta Guido nell’omonimo libro edito da Le Nuvole (2001).
La targa che ricorda lo scrittore Nicola Misasi
Un passaggio poco prima della casa in cui visse Nicola Misasi “illustre scrittore calabrese” (1850-1923) conduce nella sede di Tecne, lo studio musicale di Costantino Rizzuti, cerebrale sperimentatore di suoni.
Sono tutti soggetti che operano con dedizione e nel silenzio ma meriterebbero qualche attenzione.
4. Negozi: chi ha chiuso e chi resiste reinventandosi
Se il mitologico Cimbalino, cantato anche da Totonno Chiappetta, ha chiuso poco prima del traguardo delle 70 candeline (le avrebbe spente l’anno prossimo), come pure il salone del barbiere presente poco distante dal 1955, altre insegne storiche come Montalto sport (dal 1937) si sono reinventate adeguandosi, in questo caso, al mercato delle bici elettriche.
Poco lontano, il negozio di cordami Mazzuca – tempio degli imbottigliatori e dei preparatori di conserve – ha ceduto il posto a un ristorante (CalaBry, via Sertorio Quatromani / piazza Tommaso Campanella) mentre si sente anche la mancanza della bancarella-cappelleria all’innesto nord del ponte Mario Martire. Fratelli Bruni (via Trento 7) è un’insegna che in questo 2022 festeggia i 130 anni. Un altro Bruni (corso Umberto, di fronte al Gran Caffè Renzelli) si vanta ancora oggi di essere l’unico concessionario di Borsalino. Insegna vintage che fa il paio con il lezioso lettering della cartoleria Morano, un civico prima.
Caso a parte Scarpelli, che dal 1946 a oggi si è trasformata da bottega di quartiere – carattere che ancora conserva per la clientela autoctona – a tappa gourmand, tra cantina sconfinata e prodotti localissimi o internazionali di fascia altissima. Nell’arco di tre quarti di secolo ha annesso locali su locali creando infine un isolato interamente dedicato al gusto. Degno dirimpettaio il rivenditore di sale Borrelli, che non rinnega il piccolo spaccio accanto alla presenza nella grande distribuzione. Ma qui siamo già entrati di diritto in zona cibo.
5. I Rivocati a tavola (da 10 euro in su)
Nel quartiere bifronte potrete concedervi una tappa cosentinissima dal crapàro (trattoria Miseria e Nobiltà, largo dei Visigoti / Lungobusento Tripoli) e da Grandinetti (via Sertorio Quattromani 32, dove la leggenda vuole che il conto sia sempre di 10 euro) oppure una serata super-chic nel neonato Fellini (via Trento 15), dove se siete fortunati trovate anche la musica dal vivo.
Negli anni novanta la rosticceria Reda, a gestione familiare, sfornava – si fa per dire: era tutto frittissimo – panzerotti a ciclo continuo: adesso i locali sono tra i tanti della zona in affitto.
È però questa tutta una zona a tale vocazione gastronomica che potrete trovare ristoranti anche in due civici attigui (è il caso de Il paesello e A gulìa, su via Rivocati 95 e 91) oppure uno di fronte all’altro (Tina Pica e Osteria gemelli Tucci al 104 e 102).
Da segnalare infine due presenze, una storica e una recentissima: EnoBruzia, l’apprezzato spaccio di vini di Lattarico per tutti gusti e le tasche, e il panificio l’Aurora, punto vendita dell’azienda Carelli che evidentemente ha intuito la vocazione di un quartiere vecchio 800 anni eppure dinamico come pochi altri. Il quartiere dei fornai e delle fiere.
Silverio Tucci, chef dell’omonima osteria nel quartiere Rivocati
COSA VEDERE
Il giardino della Banca d’Italia (corso Umberto) curato nei minimi dettagli davanti a un edificio maestoso ma vuoto è uno dei simboli della città sospesa tra inespresse potenzialità e triste realtà.
DOVE COMPRARE
Siamo nel quadrilatero compreso tra il Renzelli a due passi dal municipio (assolutamente da provare la varchiglia) e la bottega delle meraviglie di Scarpelli: bisogna solo scegliere.
DOVE MANGIARE
Anche in questo caso tocca solo scegliere: consigliamo un tuffo nella cosentinità del crapàro o di Grandinetti, ma anche il pesce dell’osteria dei gemelli Tucci.
Terzo anno di pandemia, di nuovo a pensare alle vacanze possibili. Condizionato dal Covid e dalle relative problematiche due anni fa e poi l’estate scorsa ho iniziato a passare in rassegna le spiagge della mia infanzia, progettando di ritrovarne una adatta a un periodo di riposo. Ne ho rivisto alcune dopo decenni di reciproca indifferenza. Speravo di evitare le videochiamate pietose dei tanti connazionali confinati in quarantena a Malta, come a Mykonos o alle Baleari, imploranti soccorso dalla patria lontana. Questa umiliazione pubblica e mediatica no, non intendevo subirla.
Il mare di Fiumefreddo visto dal centro storico
Due mesi sul Tirreno cosentino
I miei genitori, da Cosenza, quando noi figli eravamo piccoli – parliamo di mezzo secolo fa – avevano preso l’abitudine di affittare un appartamento al mare. Per un mese, a volte anche per due, come si usava allora, di solito sul Tirreno cosentino. Da Amantea a Cetraro, da Guardia Piemontese a Fiumefreddo, da Fuscaldo ad Acquappesa, abbiamo vagato per molti anni, come gli ebrei nel deserto del Sinai. Gli ebrei avevano trasgredito, così racconta la Bibbia, ma noi che colpa dovevamo espiare? Cosa cercavamo, dopo aver caricato l’auto di tante masserizie, che all’epoca i padroni di casa non ritenevano di mettere a disposizione degli ospiti?
Dune, mare, edifici abusivi
Un’estate, forse due siamo sbarcati a Torremezzo, frazione sul mare di Falconara Albanese. Le marine calabresi si somigliavano tutte, tra le dune dal nulla spuntavano case e palazzi vicinissimi alla spiaggia. Edifici in gran parte abusivi ovviamente, proprio davanti al rilevato ferroviario, così di notte si saltava nel letto, al passaggio di ogni espresso Palermo-Milano.
Le prime case prese in affitto dai miei non le ricordo, ero troppo piccolo. Dai racconti che ritrovo nella memoria si capisce che erano essenziali e scomode, ma ancora più ristretti erano gli alloggi dei proprietari che, pur di guadagnare qualcosa, si trasferivano in una mansarda, o presso parenti. A Torremezzo, però, eravamo già negli anni Settanta e le sistemazioni pioneristiche, per uomini duri, erano disponibili, per fortuna nostra, solo ai ritardatari incalliti.
Il centro storico di Falconara Albanese, Comune che comprende anche Torremezzo
L’eparchia di Lungro arriva a Torremezzo
Non ho trovato molte foto di queste vacanze, soprattutto le case si vedono appena. All’epoca scattare una foto richiedeva un minimo di formalità, un’occasione, un compleanno, una prima comunione, eravamo lontani dalla follia dei social.
Quello che mi ha meravigliato, però, dopo tanti anni, parcheggiando sul lungo viale di Torremezzo, davanti ai palazzi e ai condomini scrostati dalla salsedine, è stata la scoperta di trovarmi nei confini dell’eparchia di Lungro. L’eparchia è una circoscrizione amministrativa, in uso nella chiesa orientale. Quella di Lungro è una delle due eparchie italiane, l’altra ha sede a Piana degli Albanesi, in Sicilia. Nelle due estati trascorse a Torremezzo non mi ero reso conto di dimorare in una comunità di cattolici albanesi di rito greco.
L’eparchia di Lungro è stata istituita nel 1919, le sue comunità sono sparse lungo la valle del Crati, alcune anche fuori regione, ma i fondatori di Falconara si sono allontanati dai compatrioti fino a stabilirsi tra le montagne della catena tirrenica.
La comunità originaria è quella di Falconara, un borgo nascosto tra le montagne, a qualche chilometro dal mare. Per non trovarsi d nuovo davanti i turchi, o piuttosto i pirati saraceni, da cui erano fuggiti intorno alla metà del Quattrocento, quando la loro terra entrò a far parte dell’Impero ottomano, la Sublime Porta.
Particolare del Castelluccio, nel Comune di Falconara Albanese
La Storia mi è apparsa davanti all’improvviso, sotto le modeste sembianze di una piccola chiesa, intitolata al Santissimo Salvatore, in mezzo ad alcuni sterminati alveari abitativi dall’aspetto desolato, in abbandono. Tra le palazzine orfane di vacanzieri la chiesa era aperta e in ordine, ed era una tipica chiesa bizantina, con le icone alle pareti, i mosaici e l’iconostasi che separa la zona riservata al papas, al sacerdote, dal settore dei fedeli.
I Balcani sul Tirreno?
Imperdonabile non aver esplorato il territorio delle vacanze, anche se la chiesa non credo esistesse in quegli anni (su un sito arbëresh ho letto che fu edificata nel 1991). Ho scoperto anche che la parrocchia di Falconara entrò a far parte dell’eparchia in tempi recenti, durante l’episcopato a Cosenza di monsignor Enea Selis, che volle riunire quella comunità isolata alle altre comunità albanesi.
Ma perché durante il mio soggiorno non mi ero spinto fino a Falconara? Cosa avevo da fare di importante in quella noiosa marina?
Monsignor Selis accanto al papa in occasione dei 750 anni del Duomo di Cosenza
Se mi fossi mosso da ragazzo avrei scoperto, molti anni prima, il fascino del mondo balcanico. Magari sarei partito subito per la Morea, in cerca dei castelli crociati e delle fortezze ottomane e veneziane. In Albania avrei ammirato prima il parco archeologico di Butrinto, bellissimo, immerso nel verde, circondato da una laguna, dove si passano in rassegna tutte le civiltà mediterranee.
A volte passeggiando a Guardia Piemontese, per dire, mi capitava di pensare di trovarmi in città, a via Caloprese. C’erano negozianti, parrucchieri, che in estate aprivano al mare un doppione dell’attività cittadina. Perfino i sacerdoti andavano in trasferta, a tenere d’occhio le pecorelle del gregge parrocchiale, temendo la dissolutezza e il sesso libero delle vacanze. Il massimo dell’esotismo era rappresentato da qualche famiglia di napoletani. In questa situazione non potevo pensare né all’esodo albanese né al dramma dei Valdesi massacrati a Guardia. Eravamo autoreferenziali, come si dice adesso.
Lo Scoglio della Regina nella marina di Guardia Piemontese (foto Alfonso Bombini 2021)
In una marina nulla è pensato per spingerti verso la storia. Poi negli anni Settanta le marine erano una manifestazione della volontà di buttarsela alle spalle, quella storia triste, fatta di paesi isolati, di contrade senza acqua potabile e luce elettrica. Di noia e occhi sempre puntati addosso. Al mare si stava in costume, si passeggiava fino a tardi, si mangiava in modo più disordinato.
In mezzo a tutti quei glutei esibiti senza ritegno (in molti casi sarebbe stato opportuno un velo pietoso), a quei corpi ustionati e spalmati di olio solare (un solo flacone di Coppertone appestava una spiaggia), offerti allo sguardo critico o libidinoso dei vicini di ombrellone, ognuno poteva illudersi di trovarsi nella lussureggiante Bora Bora. I locali, ovviamente con nomi evocativi, minimo Palm Beach, mandavano musica ad alto volume, tutto il giorno; che ti fregava, insomma, della storia della fondazione di Falconara?
Torremezzo e Falconara
Evidentemente questi saranno stati i miei colpevoli pensieri in quelle roventi estati a Torremezzo, pensieri disturbati dal fischio stridente del treno. Ora ne passano meno, di treni, mi sembra, e le folle di vacanzieri devono aver preso altre direzioni, a giudicare dall’aspetto dimesso e malconcio di molti edifici. Il mare purtroppo mi apparve sporco, in quella prima estate di pandemia, segnato da schiuma e strisce inquietanti. Peccato.
Ombrelloni vuoti sulla spiaggia di Torremezzo
Ora sarebbe il momento di recuperare il filo della storia: a Falconara qualcuno si è preoccupato di studiare, raccogliere tradizioni, canti, usi della piccola comunità. In rete si trova qualche documento interessante, si rinvia a dei libri. Molto più di quello che di solito si riesce a leggere su un comune così piccolo. Bisognerebbe raccontare o inventare, nel caso, le mitiche peripezie dei fondatori. Necessita un racconto di fondazione. Si potrebbe anche prenderlo in prestito dai libri di Carmine Abate, che ne ha scritti tanti. Io ho ancora da recuperare gli altri borghi delle mie vacanze del secolo scorso, per espiare la distrazione peccaminosa degli anni giovanili.
Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…
Confini…
L’exclave stritolata da tre paesi
C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedereun’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…
La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.
Terra di exclavi
Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.
Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.
La chiesa madre di Oriolo
Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschi – in parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.
Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.
Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi
Il dito di San Francesco di Paola
Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).
Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.
Tombe e reperti
E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).
Peste e rivoluzione ad Oriolo
E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.
I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.
Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo
Caduta libera
Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.
Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)
E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.
Oriolo e i cimiteri
Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano(nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.
Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.
Una piccola Sila jonica
Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.
E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri…
Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?
Volete visitare la Locride ma non ne potete più della macchia mediterranea? Siete stufi delle litanie sul consumo del territorio e sul rispetto dell’ambiente? Stanchi della cattedrale medievale incastonata in un paese gioiello o della banalissima passeggiata tra le pietre degli antichi greci? Della Calabria da cartolina di scena in questi giorni alla Bit di Milano?
Dimenticatevi il solito weekend fatto di escursioni al borgo e passeggiate bucoliche. Questo itinerario mette al centro uno degli elementi di spicco più autentici del territorio: il cemento armato. Materiale poliedrico attraverso cui si è voluto omaggiare alcuni tra i massimi artisti della scena planetaria con opere capaci di spingersi oltre il consueto. Opere cadute nel dimenticatoio e che noi intendiamo riportare ai fasti di un tempo.
L’architettura avanguardistica del depuratore di Caulonia
Caulonia e l’Anarchitecture
Il nostro mini tour alla riscoperta del patrimonio perduto inizia a Caulonia, con una visita al capolavoro di building-cuts ripreso da un progetto originale di Gordon Matta-Clark.
L’esponente di punta del movimento Anarchitecture fu chiamato a intervenire nell’ambito del programma “progettiamo con arte” varato dall’allora giunta comunale. Fu lui a volere riproporre il suo splitting – il famoso taglio che raddoppia gli spazi rendendoli speculari – sull’indispensabile depuratore.
Degli amministratori dell’epoca invece l’oculata scelta relativa al quadratino di spiaggia – proprio accanto alla foce della fiumara più distruttiva del reggino – dove edificare qualche migliaia di metri cubi di cemento, in questo pregevole esempio di arte prestata all’ingegneria civile.
Un’opera da tutelare
L’artista, morto purtroppo prima dell’inaugurazione, ha voluto contaminare la sua opera con un omaggio alla cultura bizantina presente sul territorio. Da qui la presenza, sulle pareti esterne che guardano al mare, di una volta stellata col il caratteristico blu di lapislazzuli.
Il blu delle stelle sul muro del depuratore si fonde con quello del cielo diurno in un poetico omaggio a Magritte
Della Giunta di allora, e di quelle che seguirono, l’intento di non fare mai entrare in esercizio l’opera di ingegneria per evitare che vibrazioni e umidità potessero danneggiarla. Obiettivo raggiunto. Il tour cauloniese prevede anche una visita guidata alla piazzetta dei finti bronzi, con riproduzioni nane degli antichi guerrieri (in cemento) su piedistalli oblunghi (sempre in cemento). E prosegue con la “colonna solitaria”, omaggio contemporaneo al vero deus ex machina del territorio: il palazzinaro.
“Colonna solitaria”, opera simbolo della scuola filocementista locridea
Locride, un esempio che ha fatto scuola
Attribuito invece al movimento del neobrutalismo lo splendido edificio che possiamo ammirare sulla spiaggia tra Riace e Stignano. Originariamente dedicato alla residenzialità turistica, questo raro esempio di architettura – che alcuni riconducono alla scuola di As Found – è lungo quanto un campo di calcio e alto cinque piani. Rappresenta ancora, a distanza di quasi 40 anni dalla posa della prima pietra, una meraviglia unica, seppure malamente replicata a macchia di leopardo su tutta la costa. L’ardito utilizzo del cemento armato a vista – il beton brut così come esce dalle casseforme – realizza fino in fondo l’idea del brutto che diventa bello solo perché reale.
Il concetto di interazione tra spazi urbanizzati e natura assume qui nuovi significati
In questo caso, il concetto di “sottrazione” caro al movimento, sposandosi con le accuse di abusivismo e speculazione edilizia mosse ingiustamente ai mecenati dell’epoca, consentì di lasciare intatto lo scheletro nudo dell’opera, proprio come lo avevano pensato gli architetti inglesi. Seppure risultino remotissime le possibilità di abbattimento e di ripristino dei luoghi, dobbiamo segnalare che la vegetazione sempre più disordinata e la prepotenza del mare potrebbero minarne la solidità strutturale.
Palafitte a Gioiosa
Con un breve trasferimento lungo la pittoresca Statale 106, il nostro itinerario nella Locride prosegue e si conclude nella vicina Siderno. Non prima però di avere reso omaggio all’inconfondibile stile palafittesco – in omaggio ai primi esempi di autogrill – della sala da pranzo “sospesa” che accoglie con i suoi pali turchese le frotte di turisti in arrivo sul lungomare di Gioiosa Marina. Qui la burocrazia si è messa di mezzo. Da tempo l’accesso all’opera è precluso ai turisti, che possono però transitare sotto l’arco che guarda lo Jonio e godere dell’ombra.
Il richiamo evidente agli autogrill come architettura di denuncia civile contro l’inadeguatezza della SS 106
Parkour a Siderno
Giunti a Siderno, il nostro tour nella Locride prevede una visita al vecchio molo: 180 metri di acciaio e cemento inutilmente protesi sul mare. Anticamente era utilizzato come molo commerciale, alcuni vecchi pescatori del posto favoleggiano di quando le navi vi attraccavano. Da anni ormai è stato riconvertito in percorso di parkour. Interruzioni, cedimenti e vertiginose arrampicate sull’acqua sempre nuove e sorprendenti, grazie all’azione continua del binomio mare/vento. Una perniciosa ordinanza della capitaneria ne vieta, attualmente, l’accesso al pubblico.
Il sacro fuoco dell’arte
Risalendo la costa, il nostro tour comprende una sosta al famoso “stabilimento balneare flambé”. Si trova nel centro geografico del lungomare delle Palme, a 50 metri dalla piazza e dal corso principale della cittadina. Lo stabilimento, ovviamente in cemento armato, sfida orgoglioso lo scorrere del tempo. E, incurante delle varie ordinanze che lo bollano come abusivo, continua ad attirare turisti e appassionati che vi si intrufolano tra porzioni di tetto bruciacchiate e preziosi esempi di streetart di «coraggiosa denuncia».
La Locride e il brutalismo
Ormai stanchi, ma non paghi di tanta bellezza, i turisti verranno accompagnati per il pernottamento al “Grand Hotel Burraccia”. Attribuito all’architetto milanese esponente del brutalismo italiano, Vittorio Viganò, e dedicato alla memoria dell’omonimo mendicante amico di tutti – unico ad abitarci fino ad ora, esclusi gli ambulanti che vi soggiornano di straforo durante la settembrina festa di Portosalvo – l’hotel chiude il cerchio sul nostro tour della Locride. Cibo e bevande non compresi nel prezzo.
Qualcuno si spinge fino al Ponte del diavolo. A piedi i più temerari, in sella a vecchi fuoristrada Iveco i meno abituati alle insidie della salita. Sono le prime ore del pomeriggio di un martedì che a Civita e nelle altre comunità dell’Arbëria ha un significato particolare per le Vallje. Come ogni anno, dopo la Pasquetta, queste antichissime danze segnano il calendario dei paesi albanofoni. Senza la minima tentazione di chiamarli borghi.
Vallje a Civita, nel cuore del Pollino (foto Alfonso Bombini 2022)
L’origine delle Vallje non si perde nella notte dei tempi. Nascono per rinsaldare quel legame profondo tra l’Arbëria, la sua storia, la madrepatria. E rievocano un episodio particolare con la forza di diventare un mito fondativo: la vittoria del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg sui turchi nella città di Kruja. Era il 24 aprile 1467. Anche allora era il primo martedì dopo Pasqua.
Scanderbeg è l’icona più forte in possesso degli albanesi d’Occidente. Al pari della bandiera rossa con l’aquila nera. Immancabile anche ieri a Civita (Çifti). Al lato del palco, forse 3×6, ha accolto il Presidente della Repubblica d’Albania, Ilir Meta.
Vallje a Civita: da tradizione d’Arbëria a festival del folklore
C’è qualcosa di immutabile e al contempo rivoluzionario nella cultura di questo popolo, come ricorda lo scrittore Carmine Abate da Carfizzi. Due anni di fermo non hanno fiaccato la voglia di riportare in vita tradizioni così radicate. La pandemia si è fatta sentire e continua a rosicchiare tempo e destini. Ieri il ritorno della sfera pubblica. In una piazza militarizzata con transenne ovunque.
Misure di sicurezza per garantire protezione a Ilir Meta. Un paradosso difficile da non notare: danze circolari hanno da sempre avvolto autoctoni e forestieri, adesso sono diventate uno spettacolo da festival del folklore. Con un copione imposto. Va bene lo stesso. Ma gli occhi di chi ne ha viste tante tradiscono il disappunto per un rito ormai confinato a beneficio di smartphone e fotografi veri o improvvisati con gli immancabili teleobiettivi parabellum. Quasi a volere entrare dentro il corpo di una comunità. Che invece si lascia attraversare allargando lo sguardo.
Il presidente della Repubblica albanese, Iril Meta, in visita a Civita (foto Alfonso Bombini 2022)
Da San Marzano a Civita
Ci si ritrova un po’ tutti in piazza, calabresi e non. Persino “Katundi Joni”, gruppo proveniente da San Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto. Una città meridiana più vicina del capoluogo Catanzaro al piccolo centro del Pollino. Più vicina non solo su Google maps.
Ne fa parte la signora Carmela. Per la prima volta partecipa alle Vallje. Ma in qualche modo ha un profilo levantino come le stesse Calabrie di quassù. Canta a squarciagola e balla insieme ai suoi compaesani. In Puglia organizza rappresentazioni teatrali rigorosamente in lingua arbëreshë.
Mancano fiumi di anice
Pochi metri più dietro qualcuno chiama: «Professo’!». Si gira un signore anziano in camicia bianca e cravatta rossa. Uno dei pochi a sfidare una primavera mascherata da quasi inverno. Inizia a intonare canti, accompagnato da un organetto e un tamburo. Lo suona un tipo coi baffi che sembra un gitano dei film di Emir Kusturica. Vengono da Cerzetoe poco dopo li raggiunge pure il sindaco Rizzo. Nemmeno lui vuole perdersi rito e presidente Meta. Manca l’anice che invece nella vallja “eretica” e carnevalesca di Cervicati scorre a fiumi.
Civita, per le Vallje ecco gli stranieri in Arbëria
Gli occhi di giovani e meno giovani si posano su un cappello rosso che fa pendant col rossetto. Armata di ballerine ai piedi, sorride e gira video con il cellulare. Quel che resta delle intenzioni cariche di testosterone vittorioso sul colesterolo postpasquale si riversa su di lei. È inglese.
Non mancano olandesi con figli piccoli, francesi e tedeschi a loro agio in t-shirt. Senza il bisogno di abbigliamento tecnico comprato nella non lontanissima Decathlon di Corigliano-Rossano. La tragedia del Raganello è alle spalle, non il ricordo delle vittime. Qui si viene volentieri. Case Kodra e buon cibo. Gente ospitale.
Per fortuna la fisiologica passerella della politica non ha ammorbato troppo il pomeriggio di Civita. Tutti hanno già dato al mattino. Tributando saluti a effendi Iril Meta. Adesso il sole taglia queste montagne alle spalle. Il mare si concede ancora alla vista. L’organetto accompagna per l’ultima volta le Vallje di Çifti.
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Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamante – la chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).
Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.
Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).
I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi
I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi
E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.
Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.
La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.
Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).
Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali
Chiarello, il vino dei Papi
Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».
Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.
La scogliera di Cirella
Il preferito di Sua Santità
Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».
Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso
Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma
Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.
Il declino del Chiarello
Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».
Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…
Chi se lo ricorda Totò in Destinazione Piovarolo? Umile ferroviere, vi veniva spedito a fare il capostazione: il luogo era dimenticato da Dio e chi poteva se ne andava. Poi un giorno arrivava la sospirata notizia: Totò veniva distaccato a Rocca Imperiale. Ma era una pura formalità: era solo successo che le autorità fasciste avevano cambiato nome al paese. Pare che gli sceneggiatori nemmeno sapessero che la nostra Rocca Imperiale esistesse realmente.
Tante sovranità e un primato
Del resto, come ho già detto, Rocca ha storicamente altalenato nella sua appartenenza amministrativa: un territorio, se non conteso, quantomeno condiviso e quasi mercanteggiato dalle diverse sovranità territoriali che vi si sono succedute, passando addirittura da essere pertinenza del Principato di Benevento ad esserlo poi della Terra d’Otranto, e successivamente assegnato alla Basilicata, alla Calabria e nuovamente alla Basilicata (prima sotto Matera, poi sotto Potenza). E, ancora, al distretto di Lagonegro, di Castrovillari, al mandamento di Rotondella, di OrioloCalabro e infine, solo dal 1817, alla provincia di Cosenza.
Rocca Imperiale ha pure un primato: è il capoluogo di Comune più settentrionale della Calabria (mentre appartiene al Comune di Nocara il lembo di terra più a nord della Regione).
Un frame da “Destinazione Piovarolo” (1955)
Come di consueto, mi tengo lontano dall’enumerare attrazioni turistiche e culturali. Del resto sono chiuse in pieno agosto, com’è altrettanto consueto che sia, dalle nostre parti, nelle località balneari, per via delle illuminatissime gestioni locali. Però non posso evitare di menzionare quel manifesto dove si elencavano le principali opere custodite presso il Museo delle Cere. Tra i tanti personaggi dell’elenco spiccava (con tanto di foto, a scanso di equivoci) la laconica definizione di “Calcutta”. Da intendere, ovviamente come “Madre Teresa di” e non nel senso del cantante. Tutto molto analitico, insomma. Con buona pace del senso del ridicolo.
Rocca Imperiale: presepe e limoni
Dicevo quindi che non è il caso di cadere – come si fa sempre anche per Morano Calabro – nel solito luogo comune del paese che «uh, che bello, sembra un presepe». Anche perché, a rigor di logica, sono i presepi a voler assomigliare ai paesi. Semplice questione di uova e galline, precedenza anagrafica nell’esser fatti a immagine e somiglianza d’altro.
Del resto, anche al meraviglioso castello ho già accennato e allora andiamo semmai a cercare quello che si vede meno: il Comune di Rocca Imperiale non è nemmeno particolarmente esteso ma i suoi talenti nascosti li ha. Non dico le arcinote e vastissime piantagioni di limone – che chi di dovere e potere protegga – ma dico piuttosto i pianori disabitati di Santa Venere.
Vi si arriva ignorando ovviamente la nuova 106 e infilando la vecchia, oggi relegata a funzione di complanare. Da qui, si possono scegliere due diverse uscite – l’una vale l’altra – e dopo aver macinato un po’ di tornanti e un pezzo di bosco fittissimo e pietroso, si arriva sulla sommità della collina: a un tratto sparisce ogni traccia di albero e restano solo prati e vento. Anche qui l’archeologo Lorenzo Quilici setacciò palmo a palmo ogni podere trovando e catalogando con zelo ogni possibile coccio. Fu luogo abitato, infatti, secoli e secoli fa. E non di poco conto. Nulla rimane, neppure qui.
Piantagioni di limone a Rocca Imperiale
Lo scoglio degli scrittori
Altra strada interessante, se non fosse interrotta da numerose frane (almeno all’epoca in cui la perlustrò il sottoscritto) è la vecchia comunale che portava da Rocca a Canna, del resto oggi definitivamente surclassata dalla comodissima provinciale costruita su un fianco dell’ormai innocua fiumara del torrente Canna.
E il mare dov’è? Là, dietro la ferrovia, una striscia di pini e sassi davanti a quello scoglio del Cervaro dove si incontravano scrittori del calibro di Dario Bellezza ed Enrico Panunzio . Poeta maledetto, romano, il primo, pupillo di Pasolini, seminatore di ricordi non sempre graditi tra i rocchesi; scrittore sopraffino, pugliese e poi parigino d’adozione, il secondo, incompreso, sottovalutato e sconosciutissimo cesellatore del suo ‘barocco appestato’ (rubo però la definizione data da altri, e giustamente, al genio di Enzo Moscato). Paragonato a Gadda, Landolfi, Pizzuto (ma io direi anche Bufalino o addirittura Imbriani, per la ricercatezza della lingua). Due maestri d’“oltrecalabria” che amarono risciacquare i panni in Ionio.
Lo scoglio del Cervarolo
La marina di Rocca Imperiale resta in gran parte chiusa tra la nuova e la vecchia 106: si biforcano, a un certo punto, separandosi come due amanti. Congestionata, rumorosa e frenetica, l’una. Serena, placida e decorata dalle file dei suoi vecchi pini svettanti, l’altra. Su un fianco di questa sopravvive una torre d’avvistamento medievale, diventata nel corso del tempo un’abitazione privata.
Un gioiello dimenticato
E poi un gioiello dimenticato. Così ampio da sembrare più basso di quanto in realtà non sia; costruito in piano, e oggi quasi soffocato dagli altri edifici, qui alla marina non svetta – come meriterebbe – il Magazzino del Grano. Neppure gli storici e cultori dell’architettura settecentesca si sono particolarmente curati delle vicende di questo fabbricato.
A farlo costruire fu il duca Fabio Crivelli, nel 1731, secondo direttive molto complesse. Era munito di buche sotterranee per le diverse qualità di grano, ciascuna della capacità di circa 500 quintali e rivestita a calce. Non deve stupire che da Rocca passasse tanto grano: qui c’era una dogana del Governo, e il traffico marittimo che vi faceva capo era addirittura superiore a quello di Gaeta.
Facciata del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale (foto L.I. Fragale, aprile 2010)
Nel 1855 il barone Giuseppe Mazzario di Roseto Capo Spulico incaricò suo figlio Pietro di acquistare dal duca Nicola Crivelli alcuni latifondi nonché proprio il Magazzino “sito in rivo della Marina di Rocca Imperiale”. Con quel tanto di avarizia inevitabile agli affaristi del nuovo notabilato meridionale, cinque anni dopo venne stilato un curioso contratto di deposito in base al quale l’uso dei locali dell’enorme Magazzino venne concesso al Real Governo, a causa di un’emergenza (“avendo investita questa spiaggia due Legni carichi di grani del Real Governo”).
Il tutto a particolarissime condizioni favorevoli a Mazzario, tra cui quella di poter eventualmente “ricacciare sulla spiaggia” tutto il grano in caso di inadempimenti, ovviamente a spese della controparte e sollevandosi dalla responsabilità del deperimento e finanche della “perdita” del grano stesso, messo così alla mercé di chiunque, compresi – è facilmente intuibile – i primi ad esserne informati, ovvero gli stessi uomini di fiducia del proprietario.
Dal grano alla cultura
Il Magazzino passò poi sotto le cure dei nobili Toscano di Rocca Imperiale, prima di diventare di proprietà pubblica, restando inutilizzato. Abbandonato così per anni, è diventa-to semplice deposito di materiali deperibili. Non troppo tempo fa si progettò un possibile recupero dell’edificio, prendendo ad esempio il recupero della Sala Borsa di Bologna, dimostrando cioè come – da struttura abbandonata – il Magazzino avrebbe avuto le qualità per diventare luogo di aggregazione in cui far confluire attività culturali (potendo disporre, peraltro, di una superficie di circa 980 mq potenzialmente raddoppiabile con la predisposizione di un ballatoio).
Interno del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale ((foto L.I. Fragale, aprile 2010)
I Toscano, dicevo: e allora torniamo allo svincolo della Statale, prima di andarcene via. È proprio sul poggio qui di fianco che si riescono a scorgere alcune delle strutture dell’antica Masseria di contrada Saliva, dei baroni Toscano/i (dopo secolari indecisioni, col tempo il cognome ha preso definitivamente il plurale). Ancora una volta mi viene in mente il Gattopardo: un palazzotto nobiliare avvolto dalle piante (qualche palma stravecchia, eucalipti, chiome a ombrello di pini secolari), una cappelletta privata, un’antica dependance. Il tutto affacciato da lontano sul mare, da prima che vi fossero le strade, da prima che vi fosse la ferrovia. Sul retro, un lunghissimo viale d’ingresso, alberato, in mezzo a interminabili filari e piantagioni ordinatissime sul pianoro di contrada Maddalena.
Voci da un altro tempo
È forse una delle ultime residenze nobiliari, in questo lembo di Calabria, a poter conservare memorie storiche di qualche consistenza, e uno dei pochissimi casati locali sopravvissuti al Novecento. Lo guardo con malinconia, quest’edificio, un tempo elegante, ora dall’intonaco malmesso e qualche infisso esasperato dopo duecento anni di sole, vento e salsedine. Ci potevi mettere forse due minuti, a cavallo, per raggiungere la sponda del mare in mezzo agli agrumeti. Ora c’è tutta una ferita di svincoli, rotonde con in mezzo i gesucristi di cemento a braccia aperte, manco dovessero dirigere il traffico. Ah, il buon gusto!
La vecchia nobiltà s’è ritirata (e ha fatto bene). E mi verrebbe da tornare a Panunzio e al titolo del suo primo romanzo, I signori scaduti. Ricordo una telefonata, una decina d’anni fa, con l’ultranovantenne barone Lucio Toscani che, a un certo punto, lucidissimo, mi disse con voce flebile «e questo è tutto. E ora non so come passare il tempo. E vivo completamente solo… in questo enorme palazzo». Tarda voce da un altro tempo.
Rocca Imperiale nel Settecento (Jean Louis Desprez per il Voyage pittoresque ou Descrip-tion des royaumes de Naples et de Sicile di Richard de Saint-Non, Parigi 1781)
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