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  • Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Non esiste “bottega” più oscura della produzione del carbone: lavoro gravoso, d’altura, e poco visibile. Ciononostante il mestiere di carbonaio e il prodotto del suo lavoro erano parte integrante della vita quotidiana di alcune comunità calabresi. Su quest’attività calava inoltre un alone di mistero: sarà per questo che ai carbonai e al loro mondo si ispirò la società segreta della Carboneria, nata agli inizi dell’Ottocento nel Regno di Napoli?

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    Carbonaie in un’incisione del Dizionario delle arti e de’ mestieri di Griselini del 1769

    Operai da fuori regione per il Carbone calabrese

    Agli inizi del Novecento la produzione del carbone era ancora una delle maggiori industrie forestali della regione. Ma, inutile dirlo, il tutto veniva portato avanti seguendo tecniche tradizionali e metodi primitivi. La quantità di carbone ricavata per ogni quintale di legna era molto limitata: «Pel faggio si ammette comunemente necessaria una quantità di circa 6 quintali di legna stagionata per averne uno di carbone, e per la quercia 5 quintali». Il rendimento era dunque del 16% nel primo caso e del 20% nel secondo. E la causa, secondo Nino Taruffi, era dovuta alla lavorazione all’aperto, mentre la carbonizzazione in forni chiusi avrebbe potuto portare il rendimento fino al 25/27%.

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    La legna da trasformare in carbone tra le Serre vibonesi (foto Mario Greco 2015)

    Nonostante ciò si trattava di un settore vivace e che richiamava anche lavoratori da fuori regione, come i 40 carbonai del circondario di Catania che giunsero nel Catanzarese nell’ottobre 1905 per tornare in patria a febbraio dell’anno successivo. Nel Reggino, nello stesso periodo, si mobilitavano tra gli 80 e i 100 carbonai della provincia. L’industria del carbone nel Reggino aveva meno forza rispetto alle altre province, ma già dalla fine dell’Ottocento faceva eccezione il distretto di Palmi, da dove «se ne esporta una notevole quantità per la Sicilia, ed i punti principali di smercio sono i comuni di Gioia Tauro e Bagnara».

    Gli ultimi uomini del fuoco e del carbone

    In genere veniva utilizzato per la carbonizzazione «molto del legname grosso di specie diverse e tutto il legname di sfrido nella fattura di tavole e traverse». I tagli avvenivano spesso in modo indiscriminato. Perfino molti alberi di sughero «vennero devastati per averne carbone e corteccia da concia».

    Ma ciò che gli osservatori di fuori regione avevano già rilevato più di un secolo fa circa la deforestazione della Sila avrebbe interessato poco gli speculatori. Il problema non era certo dovuto ai soli carbonai ma, come riporta lo scrittore Saverio Strati in un suo articolo del 1961, erano questi a pagarne lo scotto cadendo sotto la scure del pregiudizio: «Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra».

    Fuoco e pagliaio

    Le condizioni di lavoro erano durissime. Le difficoltà iniziavano con l’approvvigionamento della legna. Il carbonaio riceveva in consegna un pezzo di bosco da un appaltatore e doveva obbligarsi a consegnare un dato quantitativo di carbone a un determinato prezzo e in un tempo stabilito.

    Giunto sul posto, si preparava lo spiazzo per le carbonaie. Come prima cosa, si tirava su il pagliaio, che per molte settimane sarebbe stata l’abitazione del carbonaio, e spesso anche della sua famiglia, bambini compresi.

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    Il “pagliaro” con i carbonai e le loro famiglie

    Una casa «incerta come la loro esistenza», dice ancora Strati: «Coprono di rami d’elce, le cui foglie sono più dure che quelle della quercia, il pagliaio, e poi di terra pressata. Per letto rami frondosi, o felci secche. In un lato tre grosse pietre messe a modo di fornace, per contenere il fuoco, che d’inverno è sempre acceso».

    Il fuoco va “civato

    Poi iniziava la parte più delicata. Dopo aver tagliato, trasportato e raccolto la legna, bisognava sistemarla in forma circolare per realizzare la carbonaia, mettendo in basso i ceppi più grossi e man mano la legna più minuta. Al centro si lasciava una bocca circolare da servire per accendere il fuoco e per far fuoriuscire il fumo. Il tutto veniva ricoperto di terra. La combustione all’interno doveva avvenire senza fiamma, altrimenti la legna si sarebbe trasformata in cenere. Una grande perdita per il carbonaio.

    Il piccolo vulcano che ne nasceva andava controllato e “civàto, cibato, inserendo dal buco in alto nuova legna per mantenere il fuoco. Non meno faticosa era la fase di “scarico”. Sulla carbonaia si buttava tanta acqua e infine, rompendo il guscio di terra compattata, il carbone estratto doveva essere poi trasportato fino a valle con muli o, più spesso, a spalle.

    Carbone e ferriere nelle Serre calabresi

    Le selvagge e impenetrabili foreste delle Serre calabresi hanno fornito da sempre legname per le sporadiche ma significative attività metallurgiche, attestate in regione sin dal XI secolo. Ricca di legname e di acqua, la regione delle Serre ha visto nascere nella seconda metà del Settecento le ferriere di Mongiana prima poi quelle di Ferdinandea (oggi frazione di Stilo). Qui oltre ai minatori, ai fonditori e ai mulattieri trovavano spazio centinaia di uomini dediti alla produzione di carbone dal legno per alimentare queste industrie sempre bisognose di combustibile. Chiuse le ferriere, la produzione di carbone di legna continuò a rappresentare il sostentamento per un intero paese.

    Vivere di bosco

    Nella seconda metà dell’800 la popolazione del territorio di Serra San Bruno «vive pei boschi» e «se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione di massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza». Lo si trova scritto in un numero della “Nuova Rivista Forestale” del 1886. In realtà una migrazione massiccia c’era già stata quando, dopo la chiusura della fabbrica di Mongiana, quasi tutti gli armaioli e gli artigiani del ferro che dimoravano a Serra San Bruno partirono alla volta di Terni, allettati da un impiego sicuro.

    L’ondata migratoria spopolò il paese, in cui rimasero oltre ai bovari solo segatori, accettaioli e carbonai. Ma agricoltura e pastorizia garantivano a quelle genti la sussistenza soltanto per due mesi l’anno. Così la sussistenza famigliare era legata unicamente ai cosiddetti “lavori del bosco”: abbattimento degli alberi, taglio dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura dello stesso.

    Affari di famiglia

    I lavori boschivi si praticavano per contratto a «tanto al pezzo». In particolare, per il carbone si parlava di “tanto al cantaro” (85 chilogrammi). I carbonai di Serra San Bruno, al pari degli accettaiuoli, non formavano squadre di venti operai sotto la direzione di un capo e una mensa comune come avveniva nelle zone alpine, ma «le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia».

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    Gli ultimi carbonai di Calabria a Serra San Bruno (foto Mario Greco 2015)

    Gli ultimi carbonai di Calabria

    Ad assumere le lavorazioni erano di solito i carbonai «più anziani od intelligenti» che ovviamente tenevano per loro una percentuale relativa «alle loro particolari prestazione e responsabilità». Nella grande filiera del legno da carbone, i carbonai entravano in gioco subito dopo gli accettaiuoli. Preparata la legna e composta la carbonaia, i carbonai vi appiccavano il fuoco secondo il “metodo tedesco”, vale a dire dalla sommità di quest’ultima.

    Esclusi i mesi di «gran neve», la produzione del carbone dal legno d’abete o di faggio si protraeva per tutto l’anno. Oggi nelle contrade di Spadola l’attività di produzione del carbone secondo il metodo tradizionale è ancora praticata dalla famiglia Vellone e suscita la curiosità di studiosi e fotografi. Come Mario Greco, il cui reportage ha conquistato le pagine di La Repubblica.

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    Carbonai del Vibonese (foto Mario Greco 2015)

    «Costano meno le donne dei muli per il trasporto del Carbone»

    Il trasporto del carbone prodotto avveniva di norma a trazione animale, specialmente per mezzo di muli e somari. Anche se, come afferma Agostino Lunardoni sulla stessa rivista, «le donne fanno la concorrenza ai primi». Lo studioso stimava per il territorio di Serra San Bruno «da 700 a 800 povere contadine occupate esclusivamente al trasporto della legna da fuoco e del carbone, sia per loro uso sia per vendere». Ovviamente il loro guadagno era misero e oscillante dai 50 ai 70 centesimi al giorno.

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    Le portatrici di carbone nella foresta di Ferdinandea nel 1908

    Leonello De Nobili, nel suo studio sull’emigrazione in Calabria, nel 1908 afferma di non poter dimenticare «due donne che mi apparvero come anime dannate nella folta boscaglia di Ferdinandea, dileguarsi sotto il peso di enormi carichi di carbone (40 kg) che portavano, così sulla testa, fino a Serra San Bruno (circa 10 miglia) per la mercede di 50 centesimi». «Perché non adoperare i muli?», chiese quindi a un taglialegna, che rispose candidamente: «Costano meno le donne». Oltre alle fatiche del lavoro, le trasportatrici erano esposte a diverse forme di violenza.

    Elisabetta donna ribelle

    In Storia dello stupro e di donne ribelli, lo storico Enzo Ciconte narra la storia di Elisabetta. Era una giovane carbonaia che nel 1888 aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un giovane di Serra San Bruno. «La rapirò nel bosco quando di notte andrà pel trasporto di carboni» affermò il giovane rifiutato che «avendo pensiero di sposarla cercava obbligarla con oscenità».

    Un giorno mentre trasportava carbone insieme ad alcune compagne nei boschi secolari intorno alla Certosa, Elisabetta si trovò di fronte il giovane malintenzionato che «con la scure fece allontanare le altre e gittandola a terra le disse: o vuoi o non vuoi ti devo togliere l’onore ed Elisabetta gridando rispondeva: mi ammazzi ma non cedo». Fortunatamente l’accorrere di altre persone impedì all’uomo di usarle violenza.

    Carbonari e briganti

    Le buone maniere, in ogni caso, non erano certo la prassi. Nei boschi i carbonai non erano liberi di scegliere il luogo dove tagliare e impiantare le proprie cravunère. E oltre ai vincoli contrattuali e di proprietà intervenivano fattori “esterni” a condizionare il lavoro e la vita di questi lavoratori. Come noto, nei boschi silani a cavallo dell’Unità d’Italia i briganti facevano il bello e il cattivo tempo. Avendo interesse a che ampie porzioni di foresta facessero loro da nascondiglio, condizionavano la scelta dei luoghi dove impiantare le carbonaie, non senza ricorrere ad avvertimenti e violenze.

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    Carbonaio in Sila negli anni ’70, Dal volume “Serra Pedace nel mirino. Click sul passato”

    Come avvenne nel novembre 1864, quando alcuni carbonai di Piane (Francesco Guzzo, Pietro Prete, Salvatore Esposito e Antonio Pellegrino) intenti a far carboni nella contrada silana di Acqua del Corvo, si imbatterono in «otto individui armati di fucili a due colpi e di revolver» che uscendo dal bosco iniziarono prima a percuoterli e poi a sparare, uccidendone tre. Scrive Padula che «gli uccisori fossero briganti della banda di Francesco Albi della provincia di Catanzaro», e che dopo il fatto si spostarono in contrada Quaresima dove spararono a un altro carbonaio di Piane, Antonio Arcuri.

    Qualche anno dopo le uccisioni dei carbonai da parte dei briganti divennero oggetto di dibattito parlamentare grazie al senatore Guicciardi, già prefetto di Cosenza, che intervenendo a proposito di una legge sulla Sila ricordava che i briganti «in diverse occasioni commisero uccisioni di carbonai, perché questi non vollero limitarsi a fare il carbone nelle località e nella misura che loro era prescritta. I carbonai poi, difficilmente disobbedivano a tali prescrizioni perché l’autorità non aveva modo né di tenerli costantemente protetti, né di garantirli contro l’audacia dei briganti, i cui fatti crudeli e le cui sommarie esecuzioni incutevano un terrore a cui nessuno sapeva sottrarsi».

    Da Serra San Bruno a Serra Pedace

    Le tracce lasciate dal carbone ci conducono a Serra Pedace, uno degli storici Casali di Cosenza. Vista la vicinanza dei boschi silani, qui quello del cravunàru era uno dei mestieri più diffusi. Nella bella stagione gli uomini si spostavano per settimane nei boschi per attendere alle “cravunère”. Sistemavano le “catine” di tronchi disposti in forma circolare. Coprivano il tutto con le “tife” di terra, “civàndo” la carbonaia introducendo man mano la legna dallavùcca per raggiungere la combustione ottimale.

    Per la festa di San Donato

    Alla fine del duro lavoro il carbone era trasportato, a spalle o con i “traini”, in paese o a Cosenza per essere venduto. Non di rado a spostarsi erano intere famiglie. E la vita del paese rimaneva quasi come congelata, per riprendere normalmente al ritorno dei carbonari dai monti. La festa patronale di San Donato era fissata annualmente la seconda domenica d’ottobre. In questo modo potevano partecipare coloro che nei mesi estivi erano lontani dal paese. Rappresentava così molto più che una semplice celebrazione religiosa.

    E proprio la festa patronale segna in paese il mutare dei tempi. Gli ultimi carbonai sono scomparsi e non c’è più necessità di recarsi in Sila per lungo tempo nei mesi estivi. Anzi, l’estate è divenuta, come ovunque, un momento di ritorno al paese per i molti che lo hanno lasciato, e da alcuni decenni la festa è stata spostata ad agosto.

  • Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    In primavera si è conclusa a Rende, sotto i capannoni di un’anonima area fieristica, una grande kermesse mondiale del vino, il Concours Mondial de Bruxelles. Erano 310 sommelier professionisti provenienti da 45 nazioni, suddivisi in commissioni, hanno valutato i 7.376 vini internazionali in concorso, di cui 5.083 Rossi e 2.293 Bianchi, provenienti da circa 40 Paesi.

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    Erano 310 i sommelier impegnati nel Concours Mondial de Bruxelles

    Vino di Calabria: la pattuglia al Concours

    L’Italia con 1.396 iscritti, dopo la Francia (1.645) e prima della Spagna (1.368). E tra i tanti vini italiani in competizione insieme a regioni habitué del Concorso come Sicilia (202 etichette in gara), Toscana (186), Puglia (185) e Veneto (105), spicca quest’anno la partecipazione della Calabria, terra enoica sin dalle origini ma sinora piuttosto disdetta dai grandi recensori del vino e dai sommelier mondiali, con ben 143 etichette.

    Vino di Calabria: il viaggio di Mario Soldati antidoto a guide e influencer
    Istantanee dal Concours Mondial de Bruxelles a Rende

    I “produttori” calabresi hanno risposto con grande entusiasmo portando in concorso 11 DOP e IGP tra cui Calabria IGT (82), Terre di Cosenza DOC (24) e Cirò DOC (18). Il Concorso «consente di offrire un’esperienza concreta e autentica di promozione per il nostro settore vitivinicolo, che vanta certamente un primato, quello di essere la terra delle origini del vino, grazie all’arrivo della vite dall’oriente, 2500 anni fa». Dichiarazioni impegnative dell’assessore all’agricoltura Gallo, tra i promotori insieme alla Regione di questa vetrina del vino mondiale.

    Gli influencer e il vino di Occhiuto

    I vini calabresi negli ultimi decenni sono davvero cresciuti molto di qualità e di prestigio, soprattutto per merito di enologi e vignaioli di territorio, e intorno ai filari e alle vigne cresce anche la solita retorica sviluppista di politici e influencer del vino. Era inevitabile.

    Anche in questa occasione si è parlato molto di “grande occasione di visibilità per la Regione”, di “marketing territoriale”, di “settore strategico”, di “vere e proprie eccellenze calabresi”. Il presidente Occhiuto, pure lui produttore di vino, ha dichiarato che «dopo il successo ottenuto al Vinitaly, dimostreremo anche in questa occasione che abbiamo realtà che non hanno nulla da invidiare al resto del Paese e al resto del mondo. E benvenuti in Calabria, terra accogliente, passionale, autentica».

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    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto

    Resta il vino di Calabria dopo la sbornia del Concours

    Ora, passata la sbornia retorica dei Concours e delle kermesse enologiche, resta il vino. È utile ricordare che c’è, o almeno c’è stata, un’altra dimensione del vino e della Calabria enoica che fa da contrappeso a una certa vanagloria alla moda dei sommelier e della standardizzazione del gusto in tema di vino. Un mondo sempre più ribaltato sugli interessi dei comunicatori professionali, degli allestitori di fiere, dei compilatori di guide stellate. Apparati economici che, come accade col turismo, fanno business e appaiono sempre più lontani dalla realtà viva della terra, dagli umori di una tradizione, dalla storia e della vicenda concreta di chi vive le vigne.
    Troppi ormai gli elementi astratti da un’attenzione antropologica e culturale che incontrava quelli che una volta il vino lo facevano davvero per berlo. I paragoni con l’attualità non reggono.

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    “Vino al vino”, libro di Mario Soldati

    Mario Soldati: la bibbia del buon bere 

    Chi si ricorda, per esempio, di Mario Soldati? Il suo Vino al vino è una summa, un’opera omnia, documento di una sensibilità e di una intelligenza senza eguali. Soldati ci lascia tre volumi, ciascuno dedicato a un itinerario, usciti il primo nel 1969, il secondo nel 1971 e il terzo nel 1975. Per chiunque scriva di vino e di cibi, di luoghi e di incontri, questo di Soldati resta un sacro testo, una sorta di bibbia laica del mangiare e bere bene andando in giro per l’Italia di provincia. Un modello, ancora oggi, per orientare e correggere non solo stile e scrittura, ma anche l’etica e l’estetica del modus operandi e narrandi di certa gastronomia televisiva alla moda che oggi fa audience.

    Il pellegrinaggio alcolico di Soldati

    Soldati nelle sue divagazioni ci rimette sulle tracce di ambienti inediti e spesso oramai cancellati dalla geografia contemporanea della nostra regione, un tempo ricca di umori provinciali. Così è la sua Calabria del vino, che fu re-visionata da Soldati negli anni settanta, per misurarne lo stacco dei tempi nuovi dopo il tramonto della stagione esotica degli scrittori stranieri del Grand Tour. Soldati se la gustò con i sensi e lo sguardo di un narratore di dettagli, un sapido poeta del quotidiano e delle piccole cose. Un pellegrinaggio fatto in nome della cultura materiale e per il gusto di compiacere la propria vitale golosità, piuttosto che per un’esigenza di marketing turistico.

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    Lo scrittore Mario Soldati

    Soldati di sé diceva che viaggiava soprattutto per andare da un vino. Amava doppiamente il vino. Come alimento e sostanza dal corpo vitale, come essenza aleatoria e spirituale. Il vino come la vita «è fatto per dare piacere consumandosi». A dispetto della angusta gamma descrittiva di qualità organolettiche e compilazioni tecniche ostentata invece dai degustatori professionali di vini oggi tanto venerati dai media. «Non sono un tastevin, non sono un professionista dell’assaggio».

    Sputare sentenze e sputare vino

    Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e lo deve sputare se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia». Per Soldati, il vino è individuo. Esattamente come gli uomini, il vino per Soldati è «immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso». Altro che disciplinari e bilancini per le Docg.

    Perciò, anzitempo, non sopporta la globalizzazione, la sofisticazione, la genericità del gusto medio, le descrizioni standard. Il vino è da capire e bere, dunque, solo se si va a farselo amico direttamente sul posto. Altro che accontentarsi dei ridicoli referti televisivi da rubrica enologica dei sommelier alla moda: «Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai, si articolano al massimo su una ventina di aggettivi, sempre la stessa musica».

    Cos’è il vino di Calabria? Le persone che lo fanno

    Insomma banalizzarne il carattere è prima che un imbroglio mediatico, un delitto estetico, materiale e morale. E proprio in Calabria, alle prese con la difficoltà a raffigurare a parole la complessità di sensazioni accese dal «gusto concreto del Britto», con la scoperta di un «nuovo» vino Soldati saprà aggiungere una pagina memorabile alla sua fede filosofica e antropologica nel vino. Descrizione e degustazione contano davvero molto poco. Il vino è per sua essenza singolare, un prodotto dell’umanità affabile e fuori mercato. Un dono. Il gusto di un vino per Soldati «significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve», e aggiunge che il gusto di ogni vino è imprendibile. Il vino, come gli uomini, «ha sempre qualcosa di astratto».

    Cos’è il vino per lo scrittore Mario Soldati? Le persone che lo fanno

    A Soldati del vino interessano perciò le persone che lo fanno e, allo stesso modo, pure dei cibi coloro che li cucinano. Con inarrivabile curiosità, arguzia e ironia, una straordinaria capacità descrittiva di uomini e situazioni, Soldati nel 1975 ci raccontava anche nei suoi passi calabresi una tradizione della cucina e dei vini in un Sud del lavoro contadino ancora vivacissimo. Oggi lontanissimo, anzi irrimediabilmente perduto, perché quei paesaggi e personaggi, quelle cucine e quei prodotti non esistono più.

    Ruffiane guide enogastronomiche

    Oggi quella tradizione locale del buon gusto, ingenua per certi versi, ma profondamente vera e sana, popolata da campagnoli e galantuomini per i quali produrre vino genuino era innanzitutto un imperativo morale, è stata sostituita anche da noi da un mondo variopinto e fatuo, popolato da scaffali pieni di etichette, da cloni locali degli enologi e dei gourmet televisivi, sedicenti esperti, winemakers e redattori di patinatissime e ruffiane guide enogastronomiche. Libertà anarchica dalle mode e autonomia dal mercato. Questo predicava già allora Soldati, scrittore del desiderio, ghiottone e bevitore omerico.

    Soldati che ama poeticamente «violenza e resistenza» di una Calabria ancora «isolata e anarchica», «scontrosa e ribelle», percorre per intero la regione evitando cantine di produttori industriali ed etichette griffate, schiva ogni pubblicità e predilige la scoperta e la varietà, l’unicità della specialità domestica da apprezzare affidandosi all’ospitalità «nella religiosa compagnia di pochi amici» calabresi che lo accompagnano in una memorabile serie di tappe locali del suo viaggio che divaga alla ricerca della tradizione enologica e degli umori più genuini della Calabria rurale di allora. La sua ricerca fa appena in tempo a cogliere anche da noi gli ultimi veri sapori autarchici.

    La bottiglia di Savuto regalata da Mancini a Soldati

    Come per la piccante – e ancora minoritaria – «Sardella di Crucoli», da Soldati mangiata a cucchiaiate «usando una sfoglia di cipolla dietro l’altra». C’è la scoperta della valle del Savuto, con la sua antica tradizione enologica. Istradato al Savuto da una memorabile bottiglia regalatagli dall’amico Giacomo Mancini, Soldati fu a Rogliano alla ricerca degli umori più genuini e meglio custoditi della vecchia Calabria rurale. La valle più alta del fiume Savuto tra le colline di Marzi e Rogliano, non ancora attraversata dalle autostrade, era zona di produzione tipica del Savuto, il vino che «sta a Cosenza come il Barolo sta a Cuneo».

    Giacomo Mancini regalò una bottiglia di Savuto allo scrittore Mario Soldati

    Il vino del prete di Rogliano

    Qui lo scrittore ha la ventura di assaporare questo vino locale in una particolarità mitica, il «Succo di pietra» dei Piro. Un nettare di Savuto purissimo prodotto dalla famiglia di Francesco Piro e dalle sue «cechoviane sorelle» di cui, a Rogliano, Soldati fu ospite. Poi è la volta di un’altra grandiosa rivelazione enologica. Mentore Don Alberto Monti, «l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano». Il prete che in un’apparizione quasi mefistofelica, in un buio da cripta gli si fa incontro per proporgli un indimenticabile assaggio. Ecco allora che dalla sua «tonaca miracolosa» spuntano due magiche bottiglie senza etichetta: «Savuto è solo il Britto», sentenzia solennemente il prete di Rogliano. E il «Britto», che in dialetto locale «vuol dire bruciato», è l’alchimia suprema del Savuto, con l’incanto superbo di un colore «rosso rame».

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    Il prete del Britto, don Alberto Monti

    Un vino sublimato dal «gusto concreto», che il buon Soldati dichiara «diverso» da tutti gli altri, misterioso e ineffabile, un elisir di lunga vita insieme «giovane e maturo». Il Britto è davvero la varietà di Savuto più fine, ottenuto da un mélange misterioso e ben calibrato di ben sette, anzi, forse, nove-dieci vitigni autoctoni di antichissima origine.
    Soldati lo acclama estasiato dalle sue «liquide trasparenze», quasi fosse «il fondo oro-rame di un’icona infernale» che racchiude nel suo mistero etereo il fascino più autentico di una tradizione millenaria, simbolo sopravvivente di un territorio aspro e ricco di storia.

    L’umile vino Donnici di Piane Crati

    Anche se a ben vedere l’emblema enologico e antropologico di quella Calabria del vino ancora orgogliosamente domestica e antituristica, autarchica e retrò, festeggiata con entusiasmo sovversivo da Soldati, si esprime piuttosto in una bottiglia dell’umile Donnici di Piane Crati «che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo». Con lo stesso spirito Soldati torna anche miticamente a rivisitare altri vini-emblema della Calabria enologica, come il Greco, il «succulento Mantonico», il Pellaro, e infine, giunto nell’enoica e magnogreca terra crotonese, passa in esame il celebre Cirò dal «guizzo vivo e pungente».

    Il Cirò Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia

    A Cirò Soldati fa ragionamenti preveggenti sul futuro del vino nelle società tecnologiche. Di fronte ad un Gaglioppo o Magliocco delle vigne del leggendario marchese cirotano Susanna è spinto a fantasticare pensando che il «sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo, e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro». Si parla di vino, ma con uno stile che fa già contenuto. «L’assoluta leggerezza della scrittura di Soldati – sono parole di Pier Paolo Pasolini – significa fraternità».

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    L’apocalisse modernista dopo il Boom

    Ma anche sul paesaggio Soldati, progressista-conservatore, ha le idee chiare e ragiona da esteta. Della foga edilizia dell’Italietta immemore e caotica che fa spazio all’eclettismo nella bengodi del Boom, scrive: «Ci pare di veder sorgere, sull’immemoriale ragnatela di questi vicoli, la peggiore delle profanazioni, l’abominio di case nuove costruite arieggiando all’antico: con falsi mattoni, false terracotte, false ceramiche falsi ferri battuti: polite hostarie, palazzotti residenziali per i ricchi, e magari nights gotici o rinascimentali. L’unica soluzione, forse sarebbe quella, semplice e poetica, ove l’area del bombardamento, ripulita dalle macerie più trite, e coltivata in un disordine naturale ma non eccessivo di fiori, cespugli ed erbe, circonda i ruderi del del campanile, che si levano così, con la loro grazia, magra e schietta: un’oasi di contemplazione, un monumento di doppia memoria per i cittadini del presente e dell’avvenire, facilmente e pericolosamente dimentichi di tutto il passato».

    A Soldati il tempo ha regalato almeno la fortuna di non vedere realizzata ovunque, in Calabria e in Italia, «la peggiore delle profanazioni» che paventava: la perdita della memoria, il gusto che si smorza e si abbassa al falso per assaggiare piacevolmente il peggio. In vino veritas.

  • Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Scriveva George Gissing, romanziere vittoriano e viaggiatore in Calabria nel 1897: «È stato davvero un peccato non aver potuto portare con me nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case quasi come a Napoli».

    Le ricche dimore dei nobili e dei possidenti calabresi di un secolo fa erano per i viaggiatori colti mete ambite, almeno quanto musei e siti archeologici. E Gissing, impossibilitato a visitare le case più eleganti dei suoi ospiti crotonesi a causa di una febbre polmonare, chiede al dottor Riccardo Sculco, esponente della borghesia cittadina, di descrivergli le ville e le ricche dimore che le famiglie nobili crotonesi possedevano nei pressi delle rovine del Tempio di Hera Lacinia.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    «Il dottor Sculco – riporta il viaggiatore – fece del suo meglio per descrivermi il paesaggio del Capo Naù. Quelle piccole macchie bianche che avevo intravisto col binocolo all’estremità del promontorio erano eleganti ville e storiche dimore, occupate d’estate dai ricchi nobili e dalle famiglie agiate di Cotrone. Il Dottore stesso ne possedeva una lì sul promontorio. Una villa di campagna che era appartenuta a suo padre prima di lui. Alcuni dei primi ricordi della sua infanzia erano appunto legati a quel luogo sul Capo Naù: quando aveva nozioni importanti da imparare a memoria, era solito ripeterle camminando intorno alla grande colonna. Nel giardino della sua villa si divertiva a volte a scavare. Pochi colpi di vanga bastavano a tirare fuori qualche preziosa reliquia dell’antichità».

    Porte aperte per un tuffo nella storia

    Anche in Calabria il più grande museo diffuso d’Italia, quello delle dimore storiche, riapre in questi giorni le sue porte gratuitamente. Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, quest’anno alla sua XII edizione. Saranno visitabili gratuitamente centinaia di luoghi esclusivi come castelli, rocche, ville, parchi e giardini, in un’immersione nella storia che rende ancora oggi il nostro Paese identificabile nel mondo e che potrebbe costituirne il perno dello sviluppo sostenibile a lungo termine.

    Dopo questo lungo periodo di restrizioni, possiamo approfittare oggi di un’importante occasione di cultura e di conoscenza, e riscoprire grandi tesori, in luoghi a noi prossimi, città e paesi. Sarà possibile rivivere così l’emozione del Grand Tour e visitare, a distanza di secoli, custoditi e offerti per la prima volta al pubblico, i luoghi più segreti, affascinanti e meno noti della nostra regione, per ammirare più da vicino oltre a grandi bellezze architettoniche, la storia, i beni culturali e brani del paesaggio tra i più belli e significativi della Calabria.

    Anche in Calabria le dimore storiche dell’ADSI, veri e propri musei e case della memoria, rappresentano un patrimonio vasto ed diversificato, diffuso in quasi tutte le città e centri minori della nostra regione, tra dimore e palazzi nobiliari, castelli, fortificazioni, ma anche ville di campagna, giardini, tenute agricole, insediamenti storici e produttivi, costruzioni di particolare pregio architettonico e artistico. Esse caratterizzano da secoli con la loro presenza la fisionomia dei centri abitati piccoli e grandi della Calabria.

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    Il Castello Gallelli a Badolato (CZ)

    Le dimore storiche in Italia

    Quello delle dimore storiche è un patrimonio di immenso valore sociale, culturale ed economico, spesso oscurato a scapito delle nuove generazioni. Distribuito in tutto il Paese, le dimore storiche per quasi l’80% si trovano insediate in aree periferiche ai grandi centri urbani e in provincia. Secondo l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, esso costituisce ben il 17% del totale dei beni culturali in Italia. Il 54% di questi siti si colloca proprio nei centri con meno di 20.000 abitanti e, di questi, il 29% nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Le oltre 9.000 dimore hanno generato, già prima della pandemia, ben 45 milioni di visitatori. Da qui può passare quindi la ripartenza culturale, sociale ed economica nei centri urbani e nelle aree interne più svantaggiate del Paese.

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    Trastevere (Roma), l’interno dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione

    In Calabria oltre 150 siti

    Ognuno di questi insediamenti ha infatti una sua precisa identità e caratteri di unicità, per via della sua storia, per il suo valore culturale, per lo stretto legame con l’ambiente antropologico, per la natura e il paesaggio che caratterizzano i diversi territori locali. Da qualche anno anche nella nostra regione, l’insieme di questo importante giacimento si identifica nella rete associativa dell’ADSI Calabria (sezione regionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane).

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    Palazzo Sanseverino a Marcellinara

    Nata nel 1977, l’ADSI conta circa 4.500 soci in tutta Italia. Già più di 150 i siti in Calabria rappresentativi della complessità storica, della cultura, delle tradizioni e del paesaggio che identificano nella nostra regione una preziosa memoria di beni architettonici, di storia, di arte, di conoscenze e saperi originali, con le innumerevoli rarità cultuali e naturalistiche che si nascondono da secoli tra le antiche mura di queste dimore e tra i viali del loro giardini.

    Le opportunità per il turismo e il lavoro

    La valorizzazione delle dimore storiche offre anche nuove opportunità ai mestieri antichi della cura e dell’arte, alle professioni artigiane, a restauratori e giardinieri. Figure che già affiancano di necessità i proprietari-custodi, senza i quali non sarebbe possibile la manutenzione delle dimore, degli oggetti d’arte, dei giardini, delle bellezze e delle rarità che rendono unici e irripetibili questi beni. I lavori di cura e restauro delle dimore contribuiscono inoltre al recupero e al decoro degli spazi pubblici, delle vie, delle piazze, delle contrade antiche nelle quali le dimore si trovano insediate da secoli.

    Aumentano così le capacità d’attrazione di un turismo sostenibile e la qualità di vita delle comunità locali e dei territori di cui questi complessi monumentali costituiscono spesso il principale elemento di interesse e di attrazione, alimentando la filiera delle attività legate al turismo e alle nuove professioni dei beni culturali, che già vantano un significativo numero di laureati formati all’interno delle nostre università e Accademie di Belle Arti.

    Dimore storiche, un progetto targato Calabria

    L’ADSI Calabria, con un proprio progetto pilota di interesse nazionale (a cui di recente ha fatto seguito anche l’adozione dello stesso da parte della Conferenza nazionale dei presidenti e dei direttori delle Accademie delle Belle arti d’Italia, hanno siglato un accordo proprio col fine di valorizzare il patrimonio culturale privato delle dimore storiche calabresi).

    «Il progetto Ritratto di Dimora, prevede di documentare e raccontare con immagini e restituzioni artistiche dal vero altrettanti “ritratti” delle dimore storiche calabresi associate all’ADSI, disvelando così un patrimonio di grande valore per tutta la collettività, che amplia la fruizione delle bellezze della nostra regione, stavolta prima in questa originale proposta culturale adottata nel nostro Paese, di cui le dimore e gli edifici storici calabresi costituiscono una parte fondamentale», ha dichiarato Gianludovico de Martino, vicepresidente di ADSI Nazionale e presidente di ADSI Calabria.

    Una stanza di Palazzo Carratelli

    Ritratto di Dimora consiste nell’esecuzione di immagini fotografiche e “ritratti” di interni realizzati con tecniche le tradizionali (acquarello, gouache e olio) dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti di Catanzaro presso le principali dimore storiche della Sezione ADSI Calabria. Una scelta di queste immagini illustrerà il volume Dimore Storiche in Calabria, pubblicato da ADSI. Le foto e i dipinti formeranno i materiali di una mostra itinerante che ADSI e A.BB.AA. di Catanzaro allestiranno presso le dimore storiche e negli spazi di musei pubblici. Col patrocinio dell’ADSI la mostra infine verrà proposta, d’intesa con la Regione Calabria, presso la rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

    Ville e palazzi da (ri)scoprire

    Si parte in questi giorni con alcune tra le più prestigiose e rappresentative dimore storiche calabresi, che aprono le porte al pubblico. Come il Palazzo Amarelli, importante residenza d’epoca che a Rossano ospita il Museo della Liquirizia (uno dei musei d’impresa più visitato d’Italia); Palazzo Carratelli, storica residenza urbana eretta nella seconda metà del 1400, rimaneggiata e ampliata a seguito del terremoto del 1638, che nel centro storico di Amantea domina il panorama della città e il mare.

    Il museo della liquirizia all’interno di Palazzo Amarelli

    E poi, ancora, Villa Zerbi a Taurianova, costruita nel 1786 in stile barocco siciliano su progetto dell’architetto Filippo Frangipane, testimonianza delle abilità artigiane di scalpellini e decoratori calabresi impegnati dopo il terremoto del 1783, caratterizzata inoltre dalle essenze rare del suo prezioso giardino mediterraneo; Palazzo Stillo-Ferrara, nel cuore del centro storico di Paola; Villa Cefaly-Pandolphi ad Acconia di Curinga (Cz), elegante dimora adibita a casino di caccia, costruita alla fine del 1700 e circondata da piantagioni di agrumi pregiati. In questa villa la storia è trascorsa lasciando tracce sui bei pavimenti antichi ed i soffitti di legno con affreschi. Qui la famiglia Cefaly ha dato vita a pittori, prelati e uomini di Stato, come Antonio Cefaly che dal 1890 al 1920 è stato vice presidente del Senato e consigliere di Giolitti (l’epigrafe sulla sua tomba fu scritta da Benedetto Croce).

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    La biblioteca di Palazzo Stillo-Ferrara a Paola

    Degno di nota anche Palazzo Sanseverino a Marcellinara, dimora storica risalente al 1400, che conserva tra i suoi numerosi reperti anche uno dei pochi ritratti coevi di San Francesco di Paola, un dipinto devozionale del santo realizzato per mano di un pittore locale durante il suo soggiorno nella casa, custodito insieme ad un altare votivo e altre reliquie come il piatto e le posate utilizzate dal santo durante il soggiorno nel palazzo al tempo del suo viaggio in Sicilia.

    Non manchiamo dunque di visitare le dimore storiche per goderci le bellezze che insieme costituiscono il più grande museo diffuso della Calabria. E, dopo i selfie di rito, scattate anche voi un bel ritratto di dimora.

  • STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

    STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

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    Calabria Ulteriore, oppure Calabria Ultra: per secoli è stata definita così la metà meridionale della Calabria, in contrapposizione a quella Calabria Citeriore – o Citra – che corrisponde grosso modo all’attuale provincia di Cosenza. La Calabria Ultra è tanta, e ci vuole coraggio a percorrerla tutta, e ci vuole senza dubbio un’automobile. Anche qui, lasciamo perdere l’autostrada. Lasciamo perdere i viadotti verso San Mango d’Aquino, Martirano e Martirano Lombardo. Sopportando partenze all’alba, ci si può studiare la strada più tranquilla per raggiungere da Cosenza la costiera attraverso strade secondarie.

    Viadotti e antiche (ma non troppo) macine

    Ed ecco che a Potame si vede già il mare: ai gefirofobi si dovrebbe consigliare di evitare due viadotti sul Catocastro passando dentro Lago e in quel posto meravigliosamente denominato “Aria di Lupi” (attenzione però a non impelagarsi poi in un’insidiosa sterrata a fondo cieco, verso Terrati). Si esce così nei pressi dell’antica tonnara di Amantea: un chioschetto a gestione più che familiare, su una spiaggia, dà il via al viaggio tirrenico sulla vecchia borbonica. Da qui, dopo una lunga galleria sopra Còreca, si corre abbastanza spediti, dritti verso le desolate e assolate aperture di Falerna e oltre: Lamezia, Pizzo e poi, ancora più giù, Gioia Tauro, con le sue barbarie semi-industriali.

    Bivio per Aria di Lupi

    Mi fa ridere – amaramente – notare anche qui quanti ristoranti, come in tutta Italia, si chiamino L’antica macina. Che fantasia, li trovi ovunque dalle Alpi all’agrigentino, magari ubicati in edifici che non avranno più di trent’anni, quelli che per darsi un tono – quando non sono classici esempi di ‘incompiuto calabrese’ o ‘non finito calabrese’ – finiscono col dimostrarsi più pacchiani di quanto già sono, utilizzando inevitabilmente piatti quadrati e decorazioni da haute cuisine. Passa la fame già solo a vedere quelle linee, molto parvenu, di aceto balsamico o di cioccolato gettate con fintissima casualità sulle parti intonse del piatto. Invece, quanta frutta a Bagnara, quanti fruttivendoli improvvisati lungo i tornanti che portano giù al paese… E in men che non si pensi si può già essere all’imbarco per la Sicilia, provare per credere, anche senza autostrada.

    Un classico episodio di “non finito calabrese”

    Calabria Ultra, un passato da capire

    Ma l’idea è quella di raggiungere la Calabria grecanica, benché il braccio sinistro, tenuto fuori dal finestrino, possa essere già quasi ustionato: e allora Pentedattilo, Roghudi, Africo, luoghi rimasti ancorati, appiccicati ad un passato fin troppo remoto, un passato a perdere che non interessa più a nessuno. E così è: certe tracce del nostro esser stati altro finiscono per scomparire nell’indifferenza, una parte del ‘nostro’ dna culturale e sociale viene costantemente silenziato senza appello. Non devo cadere nella retorica sociologica, non devo cadere nell’elogio pittorico, antropologico. In quei posti bisogna andarci e capire.

    Paolo Rumiz scrive, in un bel libro dei suoi, di un rifugio in Aspromonte, e voglio andarci anch’io: la strada è molto più lunga del previsto, qualche giovane escursionista suggerisce di dormire in tenda vicino a una pineta. Ma siamo a due passi dalla strada per Polsi, e non so perché, o forse sì, ciò incute timore: in più si avvicinano grossi cani inselvatichiti. Procedo per Gambarie, Delianuova, Piani di Carmelìa. Le indicazioni, da parte di diverse persone, prendono tutte come punto di riferimento certi cassonetti di spazzatura bruciati… est modus in rebus, ma almeno si arriva.

    Aspromonte puro

    L’amico di Rumiz mi spiega che è scomodo, con questo buio, montare la tenda, e mi indica una casetta vicina: manca la luce ma almeno c’è meno freddo e comunque c’è l’acqua e pure i servizi. Fa un freddo cane, bisogna accendere le candele, e chi mi accompagna accende pure il camino, vi cuoce sopra la carne e apre una bottiglia di vino. Con i sacchi a pelo adagiati sopra due divani, il tempo passa davanti al fuoco, scandito da racconti di nonni e caldarroste, condito da un rumore ormai quasi rassicurante: i tarli nel solaio. Anche Rumiz sentì gli stessi tarli.
    Al risveglio, piovoso, si prende la strada, ufficialmente chiusa, che porta verso l’ex sanatorio antitubercolare di Zervò: un filmato dell’Istituto Luce ne testimonia l’inaugurazione, nel 1929, alla presenza del duca d’Aosta.

    Poco oltre si giunge al pittoresco bivio per Piminoro, una biforcazione piena di zeppa di muli abbarbicati tra le rocce, davanti ad un panorama splendido: Aspromonte puro, ecco com’è.
    Si può procedere verso Trepitò – i suoni di questi toponimi ci ricordano che abbiamo lasciato la zona grecanica ma non quella magnogreca – e bisogna lasciare il passo a mandrie di vacche che procedono verso il laghetto di Zòmaro: è la prima volta che in coda a una mandria vedo un maiale. Un mansueto maiale al pascolo, un bel ‘nero’ di Calabria. Siamo appena più su del paese di Ardore, la patria del dimenticato Francesco Misiano, il poco ricordato martire civile di quella rara Calabria antifascista.

    Francesco Misiano, dalla Calabria Ultra a Stalin

    Due parole su di lui vanno dette: nato nel 1884, nell’umile famiglia di un ferroviere, diventa ragioniere e a Napoli sposa prestissimo la causa del Partito Socialista Italiano. Sindacalista, disertore in Svizzera di fronte a quella Grande Guerra che non condivideva, viene condannato alla fucilazione, commutata poi in ergastolo. In Svizzera stringe rapporti con gli anarchici e con Lenin, con Angelica Balabanoff e Rosa Luxemburg: da Ardore all’ardore. Da lì si trasferisce in Russia, poi a Fiume, e infine aderisce al neonato Partito Comunista d’Italia.

    Eletto alla Camera nel 1919 e nel 1921, proprio nell’aula di Montecitorio viene malmenato da una trentina di deputati fascisti proprio in quanto ex-disertore e perciò non degno della carica parlamentare. Viene trascinato in strada, la testa parzialmente rasata, imbrattato di vernice, tra sputi e cartelli di dileggio. E vi risparmio le foto.

    Francesco Misiano

    Ripara nuovamente a Berlino e a Mosca, dove presiede una casa di produzione cinematografica (distribuisce lui, in Germania, La corazzata Potëmkin…). Accusato da Stalin di trotskismo, muore in un sanatorio di Mosca per cause ‘incerte’ ma in tempi ben sospetti (ovvero nel periodo delle purghe staliniane, altro che il Sanatorio di Zervò…), e nell’indifferenza dello stato maggiore del comunismo italiano (in particolare, di quell’ala togliattiana che già lo aveva messo alla gogna). Vista in quest’ottica, la vicenda apparirebbe come il primo degli episodi di malasorte politica e personale del comunista meridionale. Malasorte dolorosamente fantozziana, per tornare alla Potëmkin …

    La pace tra i monti

    Meglio lasciare le corazzate e le guerre, restare tra i monti, procedendo sul crinale che, attraverso le foreste di Mongiana – quella delle Reali Ferriere borboniche –, portano alla più quieta Certosa di Serra San Bruno. Laddove altro tipo di silenzio regna necessariamente, anzi obbligatoriamente, con buona pace dei lati oscuri della Calabria Ultra, e pure di Misiano: bisogna pur avere santi in paradiso, più che in terra.

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    La Certosa di Serra San Bruno
  • Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Scalea, la Rimini senza Rimini che campa coi rubli

    Nell’estate del nostro scontento – acqua mai mediamente così sporca lungo tutto il Tirreno cosentino già da inizio luglio –, nei giorni del «sembra merda ma non è» dell’assessore Fausto Orsomarso, facciamoci del male e andiamo a Scalea. Ma non per vedere la celeberrima e infatti già celebrata «fioritura algale» (su social e battigie è già più citata del “mare da bere” dell’allora governatore Mario Oliverio, ancora alquanto in voga a dire il vero), bensì a caccia. Sempre di «merda», però per strada.

    La fioritura “munnizzale”

    Qui il mese di agosto è iniziato con lo spauracchio di 250 tonnellate di rifiuti riversate per le strade cittadine. E con la conseguente richiesta del sindaco Giacomo Perrotta, il quale ha rispolverato il sempreverde «invio dell’esercito» per risolvere la situazione.
    Et voilà: è il 30 luglio, un venerdì pre-maxiesodo, e le strade di Scalea sono pulite. L’esercito è già passato di notte e ha spazzato via la fioritura “munnizzale”, evidentemente.

    E dunque per rendere il viaggio meno inutile e deludente torniamo nella località cantata da par suo da Tony Tammaro («Scalea, Scalea / Ma come mi arricrea», rima intergenerazionale, meno di due minuti di video e oltre un milione e 300mila visualizzazioni su YouTube) 35 stagioni dopo il reportage di Michele Serra in Panda per l’Unità.
    La «selva di pubblicità immobiliari» che «quasi fa ombra alla strada» ha lasciato il posto ai cartelloni della grande distribuzione e dei marchi in franchising.

    Se a metà anni Ottanta si doveva pubblicizzare il Villaggio Maradona di Domenico Fama, negli anni della massificazione dei consumi e della democratizzazione del cibo ecco i loghi Conad, MD, EuroSpin, InterSpar. Cartelli e 6×3 che fanno da contraltare alle molte serrande abbassate degli empori vecchia maniera, generi alimentari e negozi-di-tutto dove trovavi dai braccioli agli accendini, al tagliaunghie, ai souvenir con la calamita per il frigorifero con la torre Talao o la vicina isola di Dino.

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    Una gelateria ormai chiusa alle spalle della Torre Talao, simbolo di Scalea
    Accenti toscani, annunci in cirillico

    I tempi di Serra, il cuore del ventennio di cemento ovvero il sacco della costa tirrenica, erano evidentemente quelli dei cartelloni che annunciavano tramite rendering i rassicuranti villaggi che avrebbero di lì a breve sbranato la terra. Il “consumo di suolo” era ancora di là da venire, almeno nei dossier di Legambiente, benché fosse già felicemente al galoppo.

    Oggi dominano le agenzie immobiliari (sul tratto di statale che attraversa Scalea se ne contano 10 in poco più di 50 metri, altre sono nelle strade interne: per numero competono con Cosenza) sparse nel campionario comune a tutte le altre città italiane di finanziarie, agenzie di scommesse e outlet. Un unico panorama cromo-iconografico come quello che per terra vede vicini un gratta e vinci grattato e una bustina di Gaviscon svuotata cui da un anno e mezzo si è aggiunta una mascherina usata.

    Tra accenti toscani (sorpresa!) e annunci in cirillico, curiosiamo tra gruppetti di russ*, ma sono soprattutto donne in questo che sembra un business a trazione matriarcale. Larghe, bionde e mediamente sorridenti stanno sedute davanti alle vetrine, su sedie di plastica o impagliate come da postura classica in modalità vilienza calabra.
    Ci sono le agenzie russe ma anche una Gabetti, espongono foto e info sulle varie metrature. Si va dal monolocale a 200 metri dal mare (19mila euro, ma se ne trovano anche a 13mila) alla tipologia 60 mq a 38mila, c’è un bilocale 30 mq a 15mila euro, praticamente una utilitaria. A Santa Maria del Cedro prezzi ancora più bassi, a Grisolia e Maierà stracciati proprio.

    Insegne ibride Scalearealty.ru e I❤ Russiascalea.ru (РУССКАЯ СКАЛЕЯ) competono con i localissimi Riviera-italiana e Larcoimmobiliare.com. Ma confrontare le homepage è capire esattamente il diverso immaginario di chi conosce questi posti per esserci nato e chi ci arriva con chissà quali aspettative. L’esotismo di un litorale che in foto sembra Miami (siti russi) si scontra con fotogallery tutte piscine e corpi abitativi brutalisti e soprattutto mare ripreso da lontano (nei siti italiani).
    Sottotesto: in caso di mare inquinato o fioritura algale ci sono valide alternative, tranquilli.

    Rimini senza Rimini (però ci sono i lidi)

    Un anziano gira con il Mattino sottobraccio, giusto per ricordarci che Tammaro è ancora attuale. Palme e verde sono curatissimi, i muletti della ditta Ecoross macinano chilometri a caccia di antiestetici e maleodoranti cumuli.
    Via Michele Bianchi (il primo segretario del Partito Nazionale Fascista che vanta un sacrario nella natia Belmonte), porta alla piazza-parcheggio con il monumento ai caduti. A pochi metri ecco la casa (abbandonata) in cui Gregorio Caloprese «insegnò a Pietro Metastasio la filosofia del Cartesio» (dopo due secoli Gaetano ed Alfonso Cupido posero 1920, recita la lapide). Il gazebo della Pro loco propone la sagra del pesce spada, l’eventificio pre-Covid e gli assembramenti alla leggendaria discoteca Acadie sembrano appartenere a un’altra era.

    Settemila abitanti d’inverno e 300mila in estate (annotava Serra, oggi i numeri parlano di 11mila contro oltre 250mila presenze compresi i turisti), senza piano regolatore e uno sviluppo edilizio «selvaggio e abnorme», un «boom canceroso», una «metastasi di cemento» formatasi tra speculazione e abusivismo.
    Oggi, guardando verso monte dalla marina, non si possono non notare alveari in laterizio appoggiati sulla “scalea” che dà il nome al borgo: uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio.

     

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    […]Uno in particolare sembra l’orologio di Dalì, una mega-costruzione spalmata sul declivio quasi fosse liquefatta o in via di scioglimento, come se si volesse renderla meno invasiva per l’occhio […]

    Trenta metri quadrati comprati a inizio Ottanta per 15 o 20 milioni di lire (l’inviato riportò la paga quotidiana degli operai edili a nero: 2 o 3mila lire al giorno), ma fognature che scoppiavano perché le varie lottizzazioni avevano fatto confluire i collettori dentro le vecchie tubazioni. E la merda in acqua, appunto (Orsomarso in quel 1985 aveva ancora 14 anni e non si occupava di fioriture algali).
    Sì, nei quattro decenni a seguire non sembra sia cambiato molto.

    «Tortora, Praia a Mare, Scalea, Santa Maria del Cedro, Diamante, Belvedere, Cetraro, giù giù fino ad Amantea: la costiera cosentina è assassinata dal cemento. In buona parte cemento mafioso. (…) I soldi sporchi della camorra napoletana e della ‘ndrangheta calabrese sono scomparsi anche nei milioni di metri cubi costruiti da queste parti. Comodamente riciclati in un mercato edilizio completamente al di fuori del controllo pubblico. Perché la mafia non ammazza soltanto i cristiani: ammazza anche i paesi, la terra, i paesaggi, le tradizioni, la storia, la cultura», scriveva Serra. Che definì Scalea «un villaggio» divenuto «mostro» con «una spiaggia meravigliosa, oggi trasformata in un allucinante carnaio», «una folla riminese ma senza Rimini, senza strutture, senza servizi, senza niente».

    La storia si ripete

    Sdraio e ombrelloni affittati senza licenza, il Comune che chiude tutti e due gli occhi in cambio dei voti, si doleva il cronista. Oggi almeno i lidi, non solo a Scalea, sono una materia normata, mentre sul voto di scambio in Calabria si scrivono ancora ordinanze e articoli di cronaca.
    Nell’estate 2021, la seconda covidica, quella dei vaccini e del Green pass che dovevano rappresentare il lasciapassare alla socialità e al rilancio dell’economia e del turismo, nuove e vecchie emergenze cioè alghe e spazzatura alimentano i discorsi più o meno ironici, più o meno incazzati nei tavolini distanziati dei bar.

    «L’apatia, ecco il grande problema della mia gente. E l’abbandono da parte di tutti». Cosa resta di queste parole di Gennaro Serra, il pittore che segnalò il sacco di Scalea a sovrintendenza e pretura e nel 1975 sentì esplodere una bomba sotto casa? Resta l’apatia, il senso di abbandono forse meno: perché si sa che almeno ci sono un sacco di russi che a Scalea hanno trovato il loro eden.

  • Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

    Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

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    Ci sono giganti e fragole a Curinga, borgo calabrese che sembra un quadro di Van Gogh. Il personaggio illustre del paese vive da mille anni in località Corda. È il platano orientale, patrimonio italiano, medaglia d’argento al contest 2021 “European Tree of the Year”. Un monumento verde, probabilmente piantato dagli stessi monaci basiliani che qui fondarono l’eremo di Sant’Elia.

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    Il platano millenario di Curinga

    Fragole e tramonti

    Puoi entrarci dentro e cantare, ballare, riposare. L’apertura a grotta è larga tre metri e dell’altezza del gigante si narra da anni. Venti, venticinque, trenta metri.
    Le piante di fragole sono milioni, in questo pezzo di Tirreno dell’istmo catanzarese che adesso si chiama Riviera dei tramonti. Negli anni Ottanta e fino a una decina di anni fa era un vero paradiso. Oggi servirebbe una varietà locale che ancora non esiste, ma iniziano a nascere campi di sperimentazione per crearla.

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    Pino Galati, presidente della Cooperativa Torrevecchia

    “Sabrina”, la fragola capricciosa

    La “Sabrina” è il tipo di fragola che ha attecchito. Capricciosa e gentile, ostinata e fragile come il cristallo. Non a caso ha un nome di donna. I filari traboccano di frutti rossi e sodi al punto giusto. La raccolta è una corsa contro il tempo: domani mattina dovranno essere sui banchi dei mercati, la loro perfezione è fugace ed entro tre giorni sfumerà. È questa la condanna, una specie di sortilegio per compensare tanta bellezza.
    «Lo senti il profumo? È così forte che si può raggiungere un campo di fragole anche ad occhi chiusi». Dopo quarant’anni con le mani nella terra, Pino Galati si muove nelle piantagioni come fosse a casa sua. Dal 2010 è il presidente della Cooperativa Torrevecchia che, nata nel 1978, tiene insieme alcuni fragolicoltori della piana di Lamezia Terme.

    Nove piccole aziende, tra Curinga e Pizzo, che, in totale, fanno numeri di tutto rispetto: una produzione annua di 10mila quintali, di cui solo il 30 per cento destinate al mercato calabrese. Il restante 70 per cento va nelle altre regioni italiane. «Il nostro è un territorio storicamente vocato a questo tipo di coltivazione – spiega Galati, 61 anni, – fin dagli anni Ottanta era una coltura leader, qui si produceva un frutto di una qualità molto al di sopra degli standard. Oggi, è inutile negarlo, le cose non vanno più tanto bene».

    Acconìa, il posto delle fragole

    Acconìa, frazione marina di Curinga, è il posto delle fragole. Rischia di perdere il suo primato e le ragioni sono due: la mancanza di manodopera e la genetica. «Abbiamo coltivato per tanto tempo una varietà di provenienza Californiana, la Cammarosa – continua Galati, – oggi sostituita dalla Sabrina, proveniente dalla Spagna. In questo passaggio, dettato dalle leggi del mercato, abbiamo perso alcune delle caratteristiche che facevano delle nostre fragole un frutto inimitabile altrove». L’obiettivo è tornare a produrre un prodotto peculiare. «L’Università di Forlì sta lavorando alla creazione una varietà autoctona che sia specifica della zona di Curinga. Siamo in una fase sperimentale che sta dando ottimi risultati».

    Sapore, colorazione, tenuta e consistenza sono i parametri con cui si misura la qualità. «Basta guardarsi intorno per capire che noi coltivatori continuiamo a dare l’anima per portare sui banchi dell’ortofrutta un prodotto eccellente, ma il futuro non è roseo». La preoccupazione maggiore riguarda la manodopera. È diventato sempre più difficile reperire raccoglitori, nonostante le tutele del contratto.

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    I lunghi filari di piante di fragole a Curinga

    Un’azienda leader, che lavora in solitaria, non associata alla cooperativa è la Vito Galati, cognome molto diffuso nel Lametino. Al contrario delle altre, vende in Calabria il 70 per cento della sua produzione, mentre il 30 per cento parte per l’Emilia Romagna, la Lombardia e, a sud, per la Sicilia. Si possono trovare le “sabrine” dai fruttivendoli di nicchia, quelli che hanno anche l’annona di Reggio Calabria, le merendelle del catanzarese e i pomodori di Belmonte, nella grande distribuzione, nei mercati. Maggio è il mese più felice nel posto delle fragole, il periodo della fase fenologica, quella della piena vitalità.

    Tommaso Galati, ingegnere informatico tornato da Firenze per lavorare nell’azienda di famiglia

    «Impossibile non avere problemi con la ‘ndrangheta»

    Tommaso Galati, 31 anni, figlio di Vito, 56, è un ingegnere informatico che da Firenze è rientrato nel villaggio agricolo di Acconìa, per lavorare nell’azienda di famiglia, accanto al padre, agli zii.
    «È un lavoro faticoso ma molto dinamico. Bello perché significa stare a contatto con la natura». Tra i filari, mostra le “crude”, le mature, le colture fuori suolo, la tecnologia a basso impatto ambientale. «Purtroppo non sempre si viene ripagati dei sacrifici fatti, è il motivo per cui i più giovani non si dedicano alle attività agricole». Anche suo cugino Dario, stessa età, lavora in un’altra azienda, sempre di forte tradizione familiare. Spesso discutono di tecniche, futuro della produzione, export e trasporti che non aiutano, distese ariose e cappe irrespirabili in territori dove «è impossibile non avere problemi a causa della presenza della ‘ndrangheta».

    Mancano le reti di impresa in Calabria

    Il platano è a un quarto d’ora di macchina da Acconia, più su, in collina. Qualche anno fa è arrivato a Curinga un famoso “cacciatore” di alberi rari, Andrea Maroè, per misurarlo in arrampicata. Trentuno metri. Nella sua grotta sono entrate, comode, dieci persone. I cugini di Acconìa entrano nella piantagione e tornano con le fragole più belle in mano. «È il frutto dei diabetici, è dolce eppure il contenuto di zuccheri è modesto, ricco di vitamine e di fibre. E’ un buon alimento anche per le donne in attesa, perché ricco di acido folico».
    Nei magazzini gli operai stanno confezionando la merce in partenza.

    «Ogni stagione produttiva è un’incognita, possono sorgere tanti problemi, a iniziare dalle conseguenze degli eventi climatici. Altrimenti quello dell’agricoltore sarebbe il mestiere più redditizio del mondo», dice Francesco, 54 anni, zio di Tommaso. E’ appoggiato a un grosso contenitore colmo di pomodori profumati e bitorzoluti. Accanto ce n’è un altro pieno di ortaggi vari. Tutta merce destinata al macero, «invendibile». Per combattere tanto spreco ci vorrebbero segmenti di lavorazione agroalimentare, accanto alla produzione. «Nei distretti produttivi calabresi manca la rete d’impresa. Questo è uno dei problemi più grossi».

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    Raccoglitrici di fragole a Curinga

    I giovani non vogliono raccogliere fragole

    Le raccoglitrici portano copricapo colorati e cappelli di paglia. Staccano le fragole una per volta. «La manodopera specializzata è ormai un miraggio – spiega il presidente della cooperativa Torrevecchia. – I vecchi raccoglitori stanno progressivamente andando in pensione e le nuove generazioni non vogliono fare questo lavoro, come se ci fosse una vera e propria repulsione. Eppure la paga, rispetto ad altri settori, non è affatto male». Attualmente sono impegnate nei campi duemila persone ma ne servirebbero molti altri. Sono nella maggior parte donne, si muovono tra i filari con i carrelli, su cui adagiano con grazia i frutti. E intanto ridono, raccontano, si scambiano confidenze sotto il sole di maggio che è ancora clemente.

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    Una parte del centro storico di Curinga

    Fragole, giganti e resti archeologici

    «Chiudiamo l’annata con oltre mezzo milione di piante. Ognuna produce fino a un chilo di frutti», spiega Tommaso. L’azienda Vito Galati pratica la coltura tradizionale nel terreno. La metà delle piantine invece compie il suo ciclo vitale nel “fuori suolo”, cioè su strutture alte, ben irrigate. «Tutta acqua che recuperiamo e riutilizziamo, con un notevole risparmio idrico. Ciò significa non disperdere nulla nel terreno. Compreso i concimi e le poche sostanze chimiche che usiamo, con giuste quantità e modalità».

    Anche perché ucciderebbero sia i parassiti, sia gli insetti antagonisti, cioè i predatori introdotti tra le colture. L’orius laevigatus divora i tripidi e i fitoseidi mangiano i ragnetti rossi. È un metodo efficace per evitare i pesticidi. Le api ronzano intorno. A loro tocca l’impollinazione, in questa storia di fragole, giganti e resti archeologici. C’è la torre di vedetta di località Mezza praia, che dà il nome della cooperativa e c’è un sito archeologico di pregio, con i resti di antiche terme romane. Il platano veglia. Sulle fragole, sulla costa dei Feaci, sulle raccoglitrici e sulla battaglia degli insetti. Combattuta tra i parassiti e i piccoli predatori che ogni anno salvano distese di fragole.

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    I resti delle terme romane a Curinga
  • Alfabeto minimo dei vini calabresi

    Alfabeto minimo dei vini calabresi

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    Per una terra come la Calabria che la leggenda vuole abbia preso uno dei suoi stessi antichi nomi dal vino, la notizia di un concorso internazionale ospitato nei suoi confini è solo il riconoscimento di una tradizione millenaria.

    Più di cento vini calabresi in concorso

    In occasione del Concours Mondial de Bruxelles – la kermesse patrocinata dalla Regione e ospitata a Rende dal 19 al 22 maggio: coinvolti oltre 320 giudici, 8mila i vini da 50 nazioni – la Calabria potrà “raccontarsi”, come da formula di marketing territoriale alquanto abusata: se negli anni scorsi i vini calabresi facevano registrare presenze molto basse, in questo 2022 ne vedremo iscritti al Concours oltre cento. Tutte le degustazioni saranno alla cieca: in campo circa 70 commissioni composte ciascuna da 5-6 degustatori, con valutazioni fatte sui tablet per evitare qualsiasi margine d’errore. I giudici non assaggeranno più di 40/45 vini per mattinata.

    Vini, attenti all’autocelebrazione come per gli amari calabresi

    Saranno giorni di degustazioni, divulgazione ed eventi collaterali. L’occasione, però, è anche propizia per fotografare – senza l’illusione dell’esaustività – il movimento vitivinicolo calabrese, che per la sua crescita esponenziale degli ultimi vent’anni è difficilmente etichettabile o riducibile in griglie precostituite.
    Di certo si è arrivati a un apprezzamento sempre maggiore – per qualità e quantità di aziende e bottiglie ma anche per la presenza di personalità eccelse tra produttori e divulgatori locali, come vedremo, oltre che di enologi che hanno tracciato la strada come Donato Lanati per Librandi – in modo meno “drogato” di quanto sia accaduto nell’ultimo lustro nel mondo degli amari, tra continui exploit e premi non sempre “prestigiosi” come da formula. Il rischio è l’autoreferenzialità provinciale e anzi ombelicale riassumibile in un celebre post de Lo Statale Jonico («È calabrese la città calabrese più bella della Calabria»); ma questo è un altro discorso. Luoghi comuni a parte, ecco dunque un alfabeto minimo e semiserio (e soprattutto in continuo aggiornamento) su vini e produttori calabresi.

    Archeologici

    vini-calabresi-migliori-etichette-produttori-bianchi-rossi-rosati-bollicineAcroneo è un brand acrese legato alla famiglia Bafaro: «La produzione dell’archeo-vino Acroneo è frutto di uno studio accurato delle fonti letterarie, iconografiche e archeologiche. Ogni aspetto è curato nei minimi dettagli, per ricostruire il processo di vinificazione antico, si tratta di archeologia sperimentale». Arkon, un Magliocco in purezza da 15,5° affinato in anfora interrata, territorio San Demetrio Corone, sarebbe l’ideale con il garum, la salatissima salsa al pesce degli antichi romani antesignana in un certo senso della sardella. Ammesso che sappiate riprodurla.

    Artigianali

    Chi sono i Vac? Vignaioli artigiani di Cosenza, sigla che vale anche per Vignaioli dell’Alt(r)a Calabria, guidati da Eugenio Muzzillo (Terre del Gufo). I magnifici dieci (gli altri sono L’Antico Fienile Belmonte, Rocca Brettia, Elisium, Tenute Ferrari, Manna, Ciavola Nera, Cerzaserra, Azienda Agricola Maradei, Cervinago) propugnano una filosofia davvero bio e puntano sul vitigno autoctono a bacca nera che trova a 500 metri slm il suo habitat ideale.

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    Fabio Lento, Ciavola Nera: è uno dei vini calabresi “targati” Vac (foto Facebook)

    Bruzio, orgoglio 

    Proprio il Magliocco rivive oggi nella Dop Terre di Cosenza, denominazione che in un decennio è passata da 10 a 60 aziende consorziate e un milione di bottiglie prodotte. Merito di un lavoro commerciale e comunicativo che trova le sue basi in un fondamentale libro di Giovanni Gagliardi e Gennaro Convertini su Il vino nelle terre di Cosenza (ed. Rubbettino 2013, con le formidabili foto di Stépahne Aït Ouarab). Il Consorzio è oggi presieduto da Demetrio Stancati dell’azienda agricola Serracavallo (Bisignano, CS).

    Creativi/1

    Restiamo in ambito letterario e nelle Terre di Cosenza con il Maglianico Serragiumenta, etichetta che gioca con l’Aglianico la cui fortuna è stata decantata – è il caso di dire – dal potentino Gaetano Cappelli in un gustoso libro per Marsilio che celebra il vitigno del Vulture. In questa bottiglia di rosso “da meditazione” dell’azienda agricola di Altomonte (CS) troverete il 60% di Magliocco e il 40% di Aglianico: sempre che riusciate a meditare accanto a un arrosto di carne o un tagliere di formaggi a lunga stagionatura, piuttosto che vedere i draghi. Esperienza comunque da consigliare, vista la qualità del vino.

    Creativi/2 (pure troppo, forse)

    Dgp? Una volta che sarà corretto il simpatico refuso sull’etichetta (Denominazione Geografica Protetta, un ibrido tra Dop e Igp) varrà tantissimo questo stock di bottiglie firmate Colle di Fria, tipo il Gronchi rosa o la moneta da 1000 lire del 1997 con i confini dell’Europa sbagliati (valore su eBay: 3mila euro).

    Eretici

    Incurante della polizia del pensiero unico, Dino Briglio Nigro con la sua barba marxista spinge il suo Sputnik 2 (azienda L’Acino, San Marco Argentano, CS), una magnum di Magliocco in purezza (14°) dall’etichetta orgogliosamente sovietica. Dell’altrettanto eretica azienda presilana Spiriti ebbri (citata nientepopodimeno che dal compianto Gianni Mura in una delle sue ultime classifiche del meglio dell’anno su Repubblica) consigliamo invece il Cotidie (rosato e bianco).

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    Dino Briglio Nigro appartiene alla categoria degli eretici tra i produttori di vini calabresi

    Governativi

    La Tenuta del Castello di Roberto Occhiuto (antica cantina dell’alto Jonio cosentino di cui sono proprietari anche Paolo Posteraro e Valentina Cavaliere) aggiorna in un certo senso, restando nel centrodestra e in zona ionica, l’impegno da 4 generazioni dei Senatore (Cirò Marina) o quello di Dorina Bianchi (Pizzuta del Principe, Strongoli). Una versione calabrese della passione dalemiana con la sua cantina umbra La Madeleine.

    Indipendenti

    Francesco De Franco (azienda ‘A Vita, vedi anche alla lettera R) ha da poco celebrato, il 14 maggio, il Sabato del Vignaiolo, la giornata pensata in tutta Italia dalla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti «per raccontare al pubblico e agli appassionati le realtà territoriali dei 1400 soci Fivi»: 18 appuntamenti organizzati da nord a sud da altrettante delegazioni locali, tra banchi d’assaggio, degustazioni guidate e abbinamenti gastronomici.

    Magno, anzi maximo

    Con un punteggio di 99/100, il Megonio 2019 Librandi a inizio anno è risultato il miglior vino italiano in assoluto secondo la guida Vitae 2022 edita dall’Ais (Associazione italiana sommelier). Il rosso Igp Calabria richiama nell’etichetta il quadrumviro romano attivo nel II secolo d. C. nella città romana di Petelia, oggi Strongoli. Per molti calabresi però, con i rossi Gravello e Duca Sanfelice, è stato per decenni sinonimo di vino rosso di fascia altissima.

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    Il Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia sulla guida Vitae 2022

    New York Times

    Un altro rosso, stavolta di Odoardi (vai alla lettera Q), a fine 2021 è stato collocato nel gotha dei 20 migliori vini al mondo al di sotto dei 20 dollari: parola di Eric Asimov, tra le firme più influenti del New York Times e autorità planetaria del settore vino, entusiasta per 149 – L’inizio, una «miscela rossa, incentrata sull’uva Gaglioppo, che è affumicata, tannica e un po’ selvaggia, come la Calabria, ma concentrata e deliziosa».

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    La sede del NYT

    Pionieri e volti nuovi

    Dopo anni di premi e soddisfazioni, il 2022 ha portato al guru Nicodemo Librandi il dottorato di ricerca honoris causa in Scienze agrarie, alimentari e forestali all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. E se Roberto Ceraudo, fondatore dell’azienda Dattilo a Strongoli oggi anche ristorante stellato grazie alla figlia Caterina, è diventato intanto ambasciatore dell’Accademia dell’olio di Spoleto, è un volto nuovo eppure già noto quello del “benemerito della vitivinicoltura italiana per il 2022”: si tratta di Giovanni Celeste Benvenuto (vai alla lettera Z), abruzzese figlio di calabrese che ha trovato a Francavilla Angitola (VV) il suo eden: è stato premiato nella cerimonia di apertura dell’ultimo Vinitaly.

    Qualità/quantità

    Il rischio di articoli come questo è tanto di ridurlo a un elenco di aziende quanto di dimenticarne imperdonabilmente qualcuna: dunque, per qualità, evoluzione e presenza sul mercato (in qualche caso anche nei settori Horeca e Gdo) bisogna citare, con la già menzionata Serracavallo, almeno Ferrocinto, Fratelli Falvo, Terre Nobili di Lidia Matera, Tenuta del Travale di Raffaella Ciardullo, i gemelli rendesi Giraldi&Giraldi, Chimento, Colacino, i decani Eugenio Cundari e Giuseppe Calabrese nel Cosentino; Baroni Capoano e Casa Comerci nel Vibonese; Sergio Arcuri, Ceraudo, Enotria, Ippolito, Iuzzolini, Russo & Longo, Cantine San Francesco, Santa Venere, Tenuta del Conte e Termine Grosso nel Crotonese oltre naturalmente a Librandi e ai rivoluzionari cirotani che trovate alla lettera seguente; Criserà, Lavorata e Tramontana nel Reggino; Dell’Aera e Le Moire nel Catanzarese e il già citato Odoardi nel Lametino, con Statti e Lento.

    Rivoluzionari

    La “revolution” dei Cirò boys, intanto diventati lord, potrà dirsi conclusa quando arriverà la tanto agognata Docg, o almeno si avvierà l’iter: a oltre 10 anni dal cambio del disciplinare, l’idea della denominazione di origine controllata e garantita non è mai tramontata e anzi è quanto mai attuale. Intanto i più visionari tra i vignerons calabri – capitanati da Cataldo Calabretta e Francesco De Franco (lo abbiamo trovato alla lettera I) – continuano con la loro missione nel distretto più importante della vitivinicoltura calabrese, tra i più longevi e produttivi del Mezzogiorno, un unico paesaggio che ingloba anche Crucoli e Melissa: duemila ettari circa (dati Arssa 2002) ovvero il 20% della superficie vitata dell’intera Calabria. Con il Gaglioppo re assoluto e incontrastato.

    Spumanti

    Le bollicine erano il grande tabù della vinificazione calabrese: poi arrivarono, quasi 15 anni fa, Almaneti e Rosaneti di Librandi. Due etichette ormai storiche cui aggiungere quantomeno il brut Dovì di Ferrocinto, Chardonnay in purezza da un vigneto a 600 metri slm esposto a nord, forte di 36 mesi di affinamento sui lieviti.

    Viola

    Il Moscato di Saracena è tra i vini calabresi più apprezzati

    Un discorso a parte merita la famiglia Viola che da un quarto di secolo a Saracena (CS) con il suo Moscato al governo ha riportato al top nazionale la tradizione cinquecentesca del vino dolce, menzionato dalle fonti storiche sulle tavole pontificie almeno dal XVI secolo. Merito dell’intuizione di Luigi, maestro elementare in pensione, e della passione dei figli.

    Zibibbo

    Nel 2020 il New York Times ha inserito lo Zibibbo delle Cantine Benvenuto (lettera P) tra i 10 migliori bianchi italiani sotto i 25 dollari, da allora solo soddisfazioni: da provare il bianco Orange non filtrato e il rosato Celeste.

    Wilde

    «Per sapere se il vino è buono non occorre bere l’intera botte»: Oscar Wilde lo diceva riferendosi all’incostanza delle letture, noi prendiamo la frase in prestito per ribadire che per apprezzare il vino calabrese non serve citare tutte le aziende (qui un elenco accurato). Di certo ci abbiamo provato: e la difficoltà di essere esaustivi già la dice lunga su quanto sia in crescita il settore.

    (in aggiornamento…)

  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

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    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
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    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

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    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni
  • Jovanotti, la Calabria ha il suo nuovo eroe del turismo

    Jovanotti, la Calabria ha il suo nuovo eroe del turismo

    E va bene. Dopo il bruciante flop di Muccino e Bova, ci voleva una ventata di novità e ottimismo, la freschezza di facce allegre e un bel ritmo pop. Adesso è il turno di Jovanotti. E anche da lui ci si aspetta l’exploit. Allora i fatti: Jovanotti dopo il successo superpopolare dei recenti happening dello Jova Beach Party la nuova Film Commission della Calabria – spericolatamente affidata non ad un esperto di cinema, ma al couturier Anton Giulio Grande – debutta con uno spottone che dovrebbe fare marketing territoriale per la collezione Calabria Spring-Summer 2022.

    Jovanotti e la Calabria meravigliosa

    Gli ingredienti, ça va sans dire, sono i soliti: bellezze da cartolina, di cui la Calabria, nonostante lo scempio ubiquitario che è sempre meglio nascondere, non è certo avara, e poi il profluvio di elogi sperticati da turista per caso, che Jovanotti dai social ha abilmente provveduto a distribuire, appunto, a casaccio: dichiarazioni di costernante banalità tipo «La Calabria è una terra meravigliosa», «Io sono un grande fan della Calabria», o ancora «Amo questo posto (Scilla, ndr)» (pur avendolo visto solo per la prima volta). In una diretta social, affacciandosi dal balcone della sua stanza sul porto di Scilla, dice: «Questo posto lascia senza fiato, è bellissimo».

    Svela il cantante toscano che sosterà ancora in Calabria, «in un altro paese meraviglioso», per continuare le riprese del video. «La Calabria è una terra bellissima – racconta – venendo in macchina dall’aeroporto di Lamezia Terme, ho visto un paesaggio bellissimo». E giù luoghi comuni à gogo: «Voglio far vedere a chi mi segue che meraviglia è questo posto, lascia senza fiato»; «Mamma mia ma è fantastico qua! Non c’ero mai stato!».

    Scilla, Gerace e i borghi

    E, ancora, una sequela di post con immagini patinate e molto instagrammabili da diverse “località iconiche della nostra amata regione”. Mentre, sottolineano i social in tripudio, “cresce, intanto, la curiosità per vederlo online”. Un attimo dopo, come un sol uomo, anche le testate televisive, insieme ai giornali di carta e i media digitali diffusi in Calabria, rimarcano “la scoperta della grande bellezza calabrese” testé fatta della famosa pop star: “Jovanotti ha raccontato attraverso i suoi profili social Scilla e Gerace, le coste e la granita, il mare e i borghi(borghi, non paesi).

    Lui stesso spiega perché ha scelto la Calabria: «Il video aveva bisogno di un’ambientazione festosa perché la canzone è un brindisi e un augurio, sono in Calabria a girare il video di Alla Salute, una canzone che è un augurio e una festa. Stamattina abbiamo girato a Scilla #chianalea un posto bellissimo, un gioiello. L’affetto di tutti mi sorprende sempre, grazie #scilla. Ora ci siamo spostati a Gerace per altre scene. Luoghi incredibilmente belli. Sono un fan della Calabria, verrà un bel video, il regista è Giacomo Triglia, calabrese (l’ho “rubato” a Dario Brunori, altro calabrese doc). Ringrazio moltissimo tutti qui, per il supporto che ci state dando e per l’accoglienza generosa e piena di affetto. Grazie! avanti tutta!».

    La Calabria Film Commission e Jovanotti

    Dopo un po’ gli fa eco la suadente dichiarazione resa in occasione dalla conferenza stampa della Calabria Film Commission del suo nuovo presidente fresco di nomina, lo stilista di moda Grande: «Dove sorge il bello c’è la Calabria, la musica, il cinema, così il videoclip di Jovanotti è il primo importante passo del nostro progetto e del nostro percorso. Scegliamo la sua musica per promuovere le nostre location, così da creare interesse e veicolare immagini cult dei nostri spazi migliori».

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    Orsomarso, Jovanotti e Grande durante la conferenza stampa

    Dal couturier delle dive non ci si poteva certo aspettare La corazzata Potëmkin. Così debutta ufficialmente l’idea che i paesaggi “animati” di questa regione possano funzionare da spazi di posa («i nostri spazi migliori»). E fungere così da fondali ideali per la messa in scena di una eterna e festosa rappresentazione folklorica della vita quotidiana dei suoi abitanti, astoricamente chiamati a vestire i panni di figuranti di una specie di carnevale dei buoni sentimenti in cui tutto è felice, ospitale, autentico, in cui è facile e facilitato riprodurre “il bello, la musica, il cinema, i videoclip”, e ogni zuccherosa riduzione turistica della realtà, appunto ridotta a spazio, a cosa esteticamente fungibile per scopi convenevoli. Più chiaro di così.

    Uno spot per la Regione

    Personalmente non ho proprio niente contro il mondo dello spettacolo, beninteso. Cinema, musica, pubblicità, marketing territoriale, turismo possono essere tutti strumenti utili, nella giusta misura. Quello che trovo invece abnorme è l’enfasi falsificatrice, l’abborracciata visione prospettica della realtà, la deformazione prognostica del futuro in cui tutto deve fare spettacolo e trasformarsi in finzione, attrattiva da villaggio turistico en plein air, per poter essere considerata “utile”. Una regione-trovarobato, fondale, proscenio, con paesi e comunità locali trasformate in “borghi” attrezzati come teatrini di posa di cartapesta, paesaggi buoni per essere trasformati in location pittoresche e a buon mercato per video clip, fiction improbabili, spettacoli e ricostruzioni di genere.

    Non è irrilevante che l’operazione d’immagine che ha per protagonista Jovanotti abbia ricevuto, anche in questo caso, l’approvazione preventiva dei vertici regionali. E che il video della canzone di Jovanotti sia stato sponsorizzato e finanziato anche con il denaro pubblico dei cittadini calabresi. Non ha mancato di dichiararlo lo stesso presidente Occhiuto: «Ringraziamo Jovanotti per il suo affetto, e gli auguriamo il meglio per questo suo ultimo lavoro. Da presidente della Regione, ringrazio anche la Calabria Film Commission e il suo presidente Grande che hanno seguito passo passo l’evento, sostenendo finanziariamente l’organizzazione di questa due giorni. Jovanotti in Calabria è uno straordinario spot per la nostra regione».

    Eroi e turismo

    Non so voi, ma io quando sento echeggiare sinistramente parole chiave del lessico reclamistico-creativo come “location”, “evento”, “spot” e cose come “immagini cult”, se non fosse che mi ripugnano le armi, metterei volentieri mano alla fondina. Iscrivetemi pure d’ufficio al partito della deprecata categoria (ormai usata come una clava contro ogni garbata critica al conformismo neofolk e agli eccessi imperanti del neoidentitarismo sudista) degli scoraggiatori militanti. Ma poi di cosa sareste incoraggiatori voi? Non milito da nessuna parte, e non pratico il benaltrismo, cerco solo di capire. E a me di Jovanotti, con tutto il rispetto, frega comunque molto poco, in termini relativi e assoluti.

    Piuttosto, quello che sempre mi stupisce di questo genere di trionfalistiche quanto deludenti campagne d’immagine basate su facce televisive conosciute, testimonial d’occasione, vipperia modaiola, artistoidi o personaggi veri o presunti, tutti lautamente compensati per portarsi a rimorchio l’immagine di una regione intera, è proprio l’investitura eroica, il ricorrente mito di fondazione che ogni volta si rinnova come un rito. Uno sproposito. Di chiunque si tratti, sono tutti sempre convocati con la sciamanica aspettativa che forniscano loro il sesamo giusto a riscattare l’immagine appannata della regione (appannata sì, ma da chi?). E tutti sono a turno vanaglioriosamente investiti della missione salvifica di “far decollare il turismo”.

    Il problema della Calabria non sono Jovanotti e Gregoraci

    Già, il Turismo. In una regione con l’economia perennemente sotto i tacchi, una società paralizzata dalle clientele e dal peso dei poteri criminali, l’ossessiva remissione alla monocultura turistica è l’autentico totem di tutti i clan politici e amministrativi, di ogni risma e colore, che in assenza di qualsiasi idea di futuro, in nome della palingenesi turistica della Calabria si avvicendano alla guida di questa regione sempre in cerca di autore. Sono loro il problema, i decisori politici di questa regione a corto di idee, non gli allegri Jovanotti e le allegre Gregoraci, chiamati a riverginare cosmeticamente l’immagine calabra per incrementare miracolosamente i flussi dei vacanzieri. I testimonial, i vip che saltano fuori a turno dal goffo cilindro creativo delle ricorrenze calabre, tutti più o meno incongruamente prescelti per rivestire il ruolo in commedia dei facilitatori dell’irrilevante marketing territorial-turistico calabro, passano e passeranno. Le immagini scorrono, cambiano i figuranti.

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    Elisabetta Gregoraci e Roberto Occhiuto alla Bit di Milano

    La Calabria vera invece somiglia ad una giostra a perdere, che tra riflussi, abbandoni e ripartenze, appare ormai come un edificio più fragile e malfermo di un castello di carte. Le maggioranze silenziose, i gruppi d’affari che mettono le mani sui soldi veri, e che dispongono delle risorse e del futuro dei calabresi, no. Loro restano saldi e granitici, non cambiano se non cambiamo noi. Mentre capita sempre più spesso che tutto quello che distrae e fa scena viene sempre preso così enormemente sul serio. Persino una canzoncina di Jovanotti, che gira un videoclip ruffiano dalle parti di Scilla.

  • L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

    L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

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    Diciamolo una volta per tutte e senza timore: di verdeggianti paesaggi e panorami mozzafiato non se ne può più. Abbattiamo, assieme a pregiudizi e stereotipi, anche la retorica visiva sulle bellezze della Calabria. Basta bergamotti in ogni dove, basta celebrazioni sui Bronzi, basta foto di mari e monti. Soprattutto basta borghi.

    Se la Regione è un po’ confusa, ma diciamo anche indecisa, tra il puntare sulla «valorizzazione delle aree industriali» di cui ha parlato Roberto Occhiuto a Expo Dubai, oppure sui «marcatori identitari distintivi» riproposti nelle scorse settimane alla Bit di Milano, rilanciamo la nostra controproposta per dare una scossa alla narrazione turistica della Calabria: gli horror tour.

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    Il lungomare Ginepri “interrotto” a Lamezia

    Piuttosto che continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, o ad accusare chi la polvere la solleva provando a spazzarla via, potremmo per una volta a volgere a nostro vantaggio il «carattere di mitomani» che Corrado Alvaro riconosceva ai meridionali come inesorabile eredità dei Greci.

    Ci sono sui territori tracce visibilissime, ma davvero poco sfruttate, che si possono unire fino a farne degli itinerari che rendono piccola piccola, quale effettivamente è, la retorica della riserva indiana cui siamo puntualmente sottoposti dagli osservatori esterni. Sempre tanto compiaciuti delle nostre quotidiane miserie quanto pronti a insegnarci come uscirne.

    Abbiamo già focalizzato alcune di queste brutture nella Locride. Ora, risalendo sulla statale 106 jonica e poi passando sull’altra costa, proviamo a indicarne delle altre. Nella consapevolezza che si tratti di un itinerario parziale e incompleto, ma pur sempre di un punto di partenza.

    Soverato: perla jonica e cementificata

    La cementificazione intensiva di Soverato, per dire, è un elemento che finora nessuno ha pensato di tramutare in motivo di attrazione. Se la chiamano «perla» come non più di altre tre o quattro località costiere della regione, e se per una settimana di agosto si chiedono affitti (in nero) a livello Elon Musk, allora facciamone altri di appartamenti. Coliamo più cemento e alziamo nuovi pilastri fino a nasconderlo del tutto, questo sopravvalutato orizzonte jonico, ché un po’ ha stancato.

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    L’urbanizzazione spinta di Soverato vista dalla Statale 106

    Gli esperimenti di architettura ultramoderna già realizzati sulle colline attorno a Squillace dimostrano che fare peggio di com’è oggi è difficile, ma ce la possiamo fare e magari ne avremo anche un profitto. Per esempio puntando sulle aree interne, come quelle che si trovano muovendo verso l’altra costa per una strada poco battuta, una sorta di “Due Mari” dei poveri.

    Cemento à gogo sulla collina che sovrasta il mare a Squillace

    La Calabria delle rotonde e delle pale eoliche

    Andando per provinciali e colline ben curate si passa in mezzo ad Amaroni, Girifalco, Cortale e Jacurso. E si contano decine di rotonde – che disciplinano un traffico inesistente – e centinaia di pale eoliche – che ancora non risolvono il caro bolletta. Così si attraversa senza annoiarsi l’istmo di Marcellinara, il famoso punto più stretto d’Italia. Poi si spunta a Maida, dove sorge uno dei centri commerciali più larghi della Calabria.

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    L’immancabile eolico tra lo Jonio e il Tirreno

    Lamezia tra zucchero e il porto d’Arabia

    Avvicinandoci alla principale porta d’ingresso della Calabria– che vabbè, è anche quella d’uscita per tanti nostri cervelli – si può osservare cosa abbiano lasciato certi sogni industriali degli anni belli. Come l’ex zuccherificio a ridosso della stazione di Lamezia, con annesso murales neorealista. O il famigerato pontile dove le navi che dovevano rifornire la mai realizzata Sir non sono evidentemente attraccate neanche una volta.

    L’ex zuccherificio di Lamezia

    Ora, invece che portarci le comitive ad ammirare tanta identitaria decadenza, vorrebbero fare da quelle parti un porto turistico intitolandolo a uno sceicco arabo. E tutti hanno ovviamente paura che la cosa finisca peggio di com’è andata con i pezzi di lungomare lametino che oggi, in un capolavoro di esistenzialismo non colto dai tour operator, collegano un nulla all’altro di questo tratto di costa.

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    Il pontile ex Sir a Lamezia Terme

     

    Il cemento da patrimonio Unesco a Vibo

    Lo stesso vuoto alberga in una struttura ammirabile all’ingresso di Pizzo. Sta subito sotto l’autostrada e non c’è, tra agrumeti e fichi d’india, nemmeno una via d’accesso per arrivarci e visitarne le cavità antropologiche. La medesima poco valorizzata bruttezza caratterizza un edificio che forse doveva ricordare una nave e che incombe sulla suggestiva insenatura della Seggiola. Invece poco più a Sud, a Vibo Marina, non si sono fatti intimidire e col cemento sono andati fino in fondo. C’è un quartiere, il Pennello, in cui l’abusivismo ha toccato vette di audacia così alte che meriterebbe di essere almeno proposto a patrimonio Unesco.

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    Il mega-albergo vuoto di Pizzo

    Salendo verso il capoluogo vibonese, poi, si può notare, senza che incredibilmente nessuna guida ne faccia vanto di fronte a manipoli di turisti dell’orrido, come a svettare sulla città non sia il castello Normanno-Svevo, nella zona dove probabilmente si trovava anche l’Acropoli di Hipponion, ma le quasi gotiche antenne radiotelevisive che qualche anno fa, invece di proporre un tour congiunto museo-tralicci, qualcuno si è spinto a sequestrare per fosche ipotesi di elettrosmog.

    Panorama con antenne a Vibo Valentia

    È inutile: non sappiamo proprio valorizzarci. Altrimenti non si spiega perché un cartello mancante in pieno centro a Vibo, che dovrebbe indicare l’itinerario di un parco archeologico in larga parte inaccessibile e infestato da erbacce e spazzatura, non diventa una Mecca del situazionismo o un luogo feticcio degli amanti del teatro beckettiano.

    Cemento “selvatico” lungo la Statale 18

    Il cemento anarchico della Statale 18

    La teoria delle potenzialità inespresse della Calabria continua procedendo lungo l’altra mitologica statale, la 18. Se avessimo avuto anche noi un Guccini sarebbe stata leggenda come la 17, la via Emilia e pure il West messi insieme. Ai lati di questa strada il cemento spunta dalla vegetazione come fosse selvatico. Genuino e autoctono, niente lo trattiene: è potente, anarchico e futurista al tempo stesso. C’è dentro tutto il Novecento e se ne possono ammirare diversi avanguardistici esempi andando in auto dal Vibonese verso la Piana. Ma purtroppo nessuno ha pensato a dei tour organizzati con accompagnatori che indichino a quali cosche di ‘ndrangheta sia assegnato ogni singolo chilometro.

    Soffrono di un imperdonabile abbandono turistico anche cattedrali mancate come la stazione ferroviaria di Mileto, un ibrido metallico tra post barocco e brutalismo, e la Fornace Tranquilla, una fabbrica abbandonata dove un ragazzo africano è stato ammazzato per una lamiera. Da anni, e ancora oggi, alla Tranquilla sono interrate tonnellate di rifiuti tossici. Altrove sarebbe meta di pellegrinaggi di dark tourism, noi invece l’abbiamo dimenticata.

    Come la ex statale 110, una strada che fin dai tempi dei Borbone univa le due coste alle montagne delle Serre e che a causa di alcune frane è chiusa da qualche anno. Un ignoto esteta ne ha decorato i margini con copertoni e bombole di gas. Incompreso, come le tante monumentali bruttezze che in Calabria abbiamo sotto la finestra e che facciamo finta di non vedere.