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  • STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    Il fiore all’occhiello è fiore di Roseto. Calembour a parte, Roseto Capo Spulico si distingue, rispetto a tanti altri luoghi, per qualcosa di nemmeno troppo descrivibile. Esiste una “chimica” dei luoghi? Credo di sì. E credo possa dirlo anche chi, a differenza mia, non vi sia legato per questioni familiari. Anche Roseto ha almeno quattro anime: quella costiera, quella del centro storico, quella delle campagne e quella del suo passato. Virtuosamente, mi pare anche singolare nel suo essere un paese, sì, molto legato alle sue radici, ma pure proiettato con tenacia in avanti.

    A picco sul mare

    Ne è diventato ormai simbolo il castello federiciano a picco sul mare, quel Castrum Petrae Roseti che, in realtà, per quanto scenografico, è più correttamente una torre, una semplice torre, che non ebbe più che funzioni doganali, d’avvistamento, d’accampamento e deposito d’armi (nonché, nel Settecento, di ambigua osteria), e il cui valore immobiliare fino alla fine del Novecento è sempre stato irrisorio. Chi vuol sognare, però, ha il diritto di farlo ed è giusto lasciarglielo fare (anche perché se non sogni ad occhi aperti qui, dove vuoi sognare?).

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    Tetti nel centro storico di Roseto (foto L. I. Fragale)

    Il tariffario di Roseto

    La più remota riproduzione del castello è appunto quella settecentesca, firmata da Jean Louis Desprez per i resoconti di viaggio dell’abate Saint-Non (Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, Paris, 1781-1786), in cui l’autore raffigura uno sbarco piratesco ai piedi del maniero. Poi tre fotografie scattate precisamente tra il 1864 e il 1937. Infine… La pletora post-boom economico, la sovraesposizione a buon mercato, unita ad una congerie di favole discutibili, in merito a ipotetici misteri esoterici legati all’edificio.

    Restiamo con i piedi per terra: sulle questioni più strettamente storiche del castello ho già scritto e scriverò altrove, mentre qui voglio almeno ricordare una curiosità. Su un muro esterno del castello era fissata una grande lapide con il tariffario per chi transitasse da lì, esattamente uguale a quelli, superstiti, di Acerra e di Battipaglia. Non può non venire in mente la gag del «chi siete?, quanti siete?, cosa portate?, sì, ma quanti siete?, un fiorino!»… più o meno così anche a Roseto si snocciolavano i prezzi a seconda della quantità di bestie trasportate, o a seconda che si fosse studenti, ebrei o prostitute con una, due o tre bisacce (e così pare nascessero talvolta i cognomi…).

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    Il centro storico di Roseto Capo Spulico visto da lontano

    Quel giorno a Roseto morì Donato Bergamini 

    Una strada di transito, dunque, da tempo immemorabile. Chissà come sarebbe andata a Donato Bergamini se la dogana fosse stata ancora attiva, chissà che piega avrebbe preso quel processo… Benché mai nemmeno lontanamente interessato al calcio, a quella storiaccia penso spesso, perché altrettanto spesso mi trovo a passare su quel chilometro.

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita

    Quale chilometro, poi? La strada non è più quella del 1989, tutto è cambiato. Vi sono due lapidi lungo la nuova 106: una più vecchia, in un punto pericoloso della strada; una più nuova, in un luogo che permette la sosta a chi volesse lasciare un fiore. In realtà l’incidente accadde in un terzo posto, lungo il tracciato vecchio della 106, un punto che – ripeto – non esiste più. Per una specie di damnatio memoriae stradale.

    Tutta quella strada resta sospeso in una sorta di limbo spazio-temporale. Non vi è stato costruito più nulla, né sul lato della spiaggia né sulle colline. Per fortuna. La spiaggia è una lingua pietrosissima e provvidenzialmente poco affollata, anche in alta stagione, che prosegue silenziosa dalla Pietra della Tina e dell’Incudine, fino agli scogli della Galera, della Pavolina e infine della Grilla. Mare, ça va sans dire, pulitissimo e notoriamente tale.

    Colline e villaggi residenziali

    Le colline sono quelle impervie e disabitate di Valmaco, Derròita, e Fontana della Vigna. Uniche tracce di antropizzazione sono due villaggi residenziali tagliati meravigliosamente fuori dal mondo e immersi nei boschi di pino e nella macchia mediterranea: il Villaggio Santa Maria e il Villaggio Baiabella (il secondo è prevalentemente un villaggio-fantasma anziché altro, al centro di una pluridecennale vicenda giudiziaria). E, non a caso, quelle colline erano state abitate già nell’antichità, e tracce dei vecchi stanziamenti sono emerse negli anni ’60 del Novecento. Chissà quanta roba è saltata fuori, adesso, per i lavori alla nuovissima tratta della 106… Non ci pensiamo.

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    Scorcio rurale di Roseto Capo Spulico

    Là sui monti di Roseto Capo Spulico

    Gli scogli della Grilla, al di qua del canale Cardone, segnano il confine tra Roseto e Montegiordano. Da lì si può piegare verso l’interno, verso le sterminate e ostiche campagne che formano il trapezio del territorio comunale di Roseto Capo Spulico. Si sale ripidi, ripidissimi, tra i tornanti e i pini di contrada Palvasia, offesa l’estate scorsa da un incendio devastante, che ha cancellato – tra le altre cose – esemplari di ulivi pluricentenari, di cui la zona è fortunatamente ancora ricca.

    A sinistra si passa in mezzo a un paio di case isolate (dove lo stesso cane abbaia puntualmente, da anni, legato ad una catena) e si procede a mezza costa lungo la stradina panoramica. Un bivio: a sinistra si tornerebbe in paese, a destra si sale verso le antenne di Monte Titolo e per le campagne più elevate… il Piano di Commaroso, contrada Giudicepaolo (poi storpiato in Dodici Paoli).

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    L’antica “via ad serram” che conduce da Roseto a Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Ancora un bivio: a sinistra si scenderebbe di nuovo per il paese. A destra si procede sempre più in alto, lungo la meravigliosa “via ad serram” che dalla Contrada Melazzo e dal Vallone di Marino (dall’antica famiglia Marini) porta verso il centro storico di Montegiordano e verso la Basilicata. Una via antichissima, come venivano pensate una volta: direttamente sullo spartiacque, per evitare la costruzione di ponti. Così resta tuttora: una lingua sottile, un su e giù incessante: il vuoto a destra, il vuoto a sinistra.

    La scala mobile nel nulla

    Torniamo indietro all’ultimo bivio e andiamo verso il paese, costeggiando la Mirata e Contrada Collazzone. Si potrebbe piegare a destra per raggiungere i Piani della Marina (in realtà Piani Marini, ancora per l’antica famiglia omonima, così come i vicini Piani Toscani) ma voglio cercare di evitarmi la vista di quel famosissimo scempio che è diventato ormai simbolo dei non-luoghi, dell’incompiutezza e di una certa… fragilità degli equilibri contemporanei, diciamo così: si tratta di quel relitto di scala mobile che resta sospeso nel mezzo di un pendio brullo, unendo il nulla al nulla. Come una drammatica Stairway to Heaven, doveva servire a trasportare i bagnanti dalla spiaggia ad un villaggio turistico in collina. È finita invece sui social del New York Times, nell’estate del 2018.

    Like a rolling stone

    Mentre si scende di quota in auto, i pini e la pietra da taglio lasciano progressivamente il posto ai peri e ai fichi d’India. Il dislivello è tanto e si tappano le orecchie: il primo agglomerato di case è quello del rione della Petr’i Roll’ like a rolling stone. Dopodiché ecco il paese, finalmente. Lo prendiamo alle spalle, dal suo ingresso più antico e autentico, la Porta della Terra (“Terra” intesa come Comune, non come terreni). Per salire verso la Porta si procede a zig zag salendo per i vicoli, ma anticamente doveva esservi una gradinata di quelle adatte anche ai cavalli (e qualche traccia l’ho ritrovata): non esistono mappe del paese precedenti al 1901 e tutto va capito, più che immaginato… il nucleo più antico è ancora chiaramente racchiuso nelle mura di cinta che, viste dall’alto, hanno l’andamento di uno stivale, una calza di Befana.

    Un vicolo di Roseto (foto L.I. Fragale)

    Muri, pietre e frane

    Eppure qualcosa è mutato: troppe frane, nei secoli, hanno ridotto l’estensione dell’abitato. E le stesse mura, in alcuni punti, hanno retrocesso di qualche passo anziché avanzare. Il varco detto “pertuso di Pizzo” (dall’antica famiglia dei Pizzo di Oriolo e di Canna) ne è un segnale, aperto com’è su un tratto di mura troppo sottile per essere coevo alle altre (per esempio a quei brani inglobati in un angolo del Palazzo Mazzario). Muri, pietre: l’antico, a Roseto, lo tocchi con mano (di più antico, forse, vi sono soltanto le note ma ormai impenetrabili grotte sotterranee). Sparito il Convento di Sant’Antonio, resta ancora, d’antico, la Cappelletta dell’Immacolata Concezione e – forse non molti lo sanno – due campane cinquecentesche presso le chiese di San Nicola e quella di Sant’Antonio.

    Scorcio del centro storico di Roseto Capo Spulico (foto L.I. Fragale)

    Santi e nobili

    Nel Quattrocento Roseto Capo Spulico doveva presentarsi come un piccolo centro agricolo che ancora voltava le spalle al vicino mare: il processo di “balnearizzazione”, comune a tanti altri paesi costieri sì, ma privi di una storia marittima o di un contesto portuale, avverrà a fine Ottocento, dopo la costruzione della linea ferrata lungo la costa, e la conseguente urbanizzazione attorno agli scali ferroviari. Il tessuto sociale era intriso di una notevole presenza greco-albanese che non deve avere avuto difficoltà nell’integrarsi in un retroterra culturale ancora fortemente bizantino.

    Del secondo sono un esempio alcuni toponimi locali come S. Elia, S. Migalio, S. Cataldo, S. Iorio (S. Giorgio), S. Tòtaro (S. Teodoro) e S. Nicola (cui è intitolata la chiesa madre, mentre S. Rocco deve aver avuto la meglio, come patrono, soltanto dopo la peste del Seicento). Della prima sono invece esempio le tracce relative alle famiglie levantine dei nobili Ungaro, Persiani, Reca-Mazzario, dei montenegrini Marini, dei costantinopolitani Chyurlia e soprattutto dei dalmati Renesi (quelli che combatterono per mezza Europa nonché fianco a fianco con Scanderbeg). Tutte estinte, tutte scomparse prima o dopo.

    Roseto Capo Spulico: dove sono gli intellettuali?

    Francescantonio Mazzario

    Solo quella dei Mazzario riuscì a restare egemone su Roseto per alcuni secoli (e vale la pena ricordare quantomeno le figure del barone Francescantonio e di suo zio Alessandro, intellettuali e avvocati; attivo nella politica locale, il primo; autore di un diario di viaggio nell’Europa del 1836, il secondo. Nel loro palazzo di famiglia – oggi in abbandono dopo una pessima ristrutturazione di una ventina d’anni fa – soggiornarono finanche gli scrittori Henry Swinburne e Craufurd Tait Ramage, a cavallo tra Sette e Ottocento. Ma chi lo sa? Chi se ne accorge? Manca un’intellettualità locale e basta poco ai rapaci di professione per fingersi autorevoli: sulla storia del paese e dei suoi personaggi è stato edito un solo libro, più di trent’anni fa. E un altro è di imminente pubblicazione. In mezzo, un vuoto, in cui talvolta spadroneggia chi stravolge comodamente la storia a proprio consumo, danneggiandola e danneggiando le comunità con operazioncelle di bassa lega che non conferiscono alcun lustro (anzi…).

    Tutto sta a capire i segni, a interpretare, a prevedere e stare in guardia dai questuanti di ieri e di sempre, le cui gioie ingenue ricordano tanto quelle (più oneste e sudate) dei coltivatori diretti immortalati a Roseto nel 1957, quando per la prima volta percepirono le prime pensioni statali. Per fortuna (e con buona volontà), Roseto Capo Spulico ha infilato ormai da qualche anno la via dell’eccellenza: sapendo coniugare – e non è frase fatta – tradizione ed esigenze contemporanee, le più recenti amministrazioni hanno saputo dare ottima prova di sé, tirando fuori il paese da una perifericità che poteva essere rischiosa ed è divenuta, invece, virtuosa.

    Roseto Capo Spulico, 1957. Le prime pensioni ai coltivatori diretti (Museo Etnografico di Roseto C.S.)

     

  • Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

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    Avevamo lasciato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) all’altezza delle Vigne di Castrovillari. Pochissimi chilometri più a Sud, l’antico percorso trovava l’altrettanto antico quadrivio, posto pressappoco a metà strada tra due edifici di non poco significato: il Casino Gallo e il castello di Serragiumenta. Antica stazione di posta, il primo, sede di ricche scoperte archeologiche e costruito dunque su edificio preesistente (così come accadde a Nova Siri per la Taverna cinquecentesca lungo il Tratturo Regio, la quale pure oggi resiste ma nulla più ha di antico); maniero rinascimentale dei Sanseverino, il secondo.

    Dal quadrivio allo svincolo

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    Santa Margherita in Ciparsia

    Oggi l’incrocio originario è seppellito sotto al nuovo, ieri era un crocevia fondamentale, tra la Contrada Cammarata e quella degli Stombi. Pochi metri più ad ovest, la storia si ripete e si incarna nello svincolo autostradale per Sibari-Firmo-Saracena. Da qui si intravede magnificamente il monastero di Santa Margherita in Ciparsia, diruto sulla collina, in mezzo a file di ulivi. Ciparsia/Capràsia, altro nome di una statio, stavolta più antica, sulla Annia-Popilia.
    Qui si univano i punti cardinali della Magna Grecia e, ancora, i corsi d’acqua del Garga, del Gordo, dell’Esaro. Siamo alla testa, se non nel cuore, della Piana di Sibari, in mezzo alla triade fluviale Crati-Esaro-Coscile. Lungo la strada per Sibari, sull’estremità orientale si raggiunge l’altra piazzaforte cinquecentesca dei Sanseverino: il Castello San Mauro; nel mezzo, una tendenziale desolazione, umana e infrastrutturale.

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    Il Castello San Mauro

    Strade, stradoni, autovelox, blocchi spartitraffico si rincorrono in mezzo agli agrumeti, costeggiando più avanti le floride masserie dei Chidichimo, fino al ponte Mariacristina, nei pressi della Contrada Lattughelle. Un ponte buffo, questo. Breve, e ripido da una parte e dall’altra. Piccolo ma ardito nella sua comica necessità di scavalcare un binarietto ferroviario di scarso utilizzo. Proprio nulla a che vedere con l’omonimo ponte ottocentesco nel beneventano…

    Attribuisco a questa strada un primato indecoroso: dopo aver guidato in 2 giorni attraverso 10 regioni d’Italia, su tratte di ogni tipo, è qui che ho incrociato i peggiori guidatori, fieri di mosse da tentata strage. Roba da ritiro della patria potestà, oltre che della patente.

    Via del campo

    Ma, dicevo, più nel cuore della Piana, cosa c’è? La piccola motta naturale della zona archeologica di Torre Mordillo. Quell’avamposto che conserva – a me pare – un che di lugubre, mentre ora resta solo a guardia del lenocinio lungo la Strada delle Terme: prostitute, infatti, ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno. Ai soliti incroci, all’ombra delle solite siepi, al sole delle stesse piazzole di sosta. Credo d’aver visto una situazione più degradata, in Italia, solo sulla SS16 tra Sansevero e Marina di Chieuti. Oppure sul confine fra Marche e Abruzzo, tra Offida e Ancarano, dove addirittura l’ufficialissima segnaletica verticale ammonisce “divieto di contrattare prestazioni sessuali”.

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    Due ragazze in attesa di clienti nella piana di Sibari

    Lo spettacolo del Pollino

    Verso la Strada delle Terme scendono dalle colline più a Sud alcune vie tra loro gemelle, come affluenti che si riversano verso il fiume principale. Sono le varie strade per San Lorenzo del Vallo, Tarsia, Spezzano Albanese eccetera. È bello percorrerle in discesa, quando dalla loro sommità – ad esempio dalla cappelletta di San Francesco di Paola, subito fuori Tarsia – ci si para davanti lo spettacolo di tutte le cime del Parco Nazionale del Pollino, anzi di più: dal Cocuzzo al Sèllaro, un anfiteatro orografico apparecchiato da un mare all’altro, con le principali spaccature in evidenza – quelle della Gola del torrente Rosa e quella di Campotenese – che per millenni hanno suggerito il miraggio di un varco semplice per il mare e per il Nord.

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    Filari di lavanda a Campotenese

    Come don Chisciotte

    Un’altra di queste vie, nella stessa zona, passa donchisciottescamente proprio in mezzo a un gruppo di pale eoliche. Ma siamo senza Sancho Panza e qui c’è più odore di erbe selvatiche, quasi d’incenso, e di balle di fieno. Tutte queste strade sono state, da tempo immemorabile, le uniche opportunità per scollinare da Sud verso la Piana di Sibari prima dell’arrivo della galleria autostradale di Tarsia.

    Pale eoliche tra Tarsia e Spezzano Albanese (foto L.I. Fragale)

    Oggi vi si incrociano talvolta sciami di motociclisti, più spesso un trattore o un’Ape qua e là e, per uno strano incantesimo, una quantità inspiegabile di auto storiche (non necessariamente ‘blasonate’ e perciò, invece, relitti magnifici nella loro semplicità). Come se le vecchie automobili fossero rimaste ammanettate alle strade della loro infanzia, non essendo del resto troppo adatte alle nuove strade. Meglio così, perché mai sorpassare una vecchia 500 luccicante quando un turista straniero pagherebbe oro per guidarle lentamente dietro, nel mezzo di una campagna italiana?.

    La piana degli errori urbani

    Più interna è la strada che aggira le colline da Ovest, quella che dai pressi di Ferramonti risale verso Contrada Cimino per raggiungere una minore località “Amendolara” attraverso le alture amene del Ghiandaro, Stamile e Maiolungo (erroneamente segnalato – da qualche parte – come Mailungo, mentre è chiaramente il majo, il ramo. Come quei Maiolo e Maioletto nelle colline riminesi a ridosso del Montefeltro).

    Resti della villa romana di Larderia (Roggiano Gravina)

    Qui resiste ancora qualche florida fattoria in piena attività, non resiste però quell’enorme quercia monumentale in mezzo al nulla, mozzata un paio d’anni fa per chissà quale ragione. E fa invece orrendo sfoggio di sé un’immancabile cattedrale nel deserto (un’ipotesi di centro commerciale con megaparcheggio?) che dà il benvenuto nella piana degli errori urbani, come lo Scalo di Roggiano-San Marco – palma di bruttezza a pari merito con un altro paio –, inemendabile come tutti quegli scali che costellano la Calabria come paillettes di pessimo gusto su un capo da bancarella rionale.

    La civiltà del buongusto

    Eppure a pochissimi chilometri da qui fioriva una civiltà, e una civiltà del buon gusto. Ne sono testimoni le aree archeologiche – tra loro vicinissime – di Roggiano Gravina e di Malvito (ovvero le ville romane di Larderia e di Pauciuri). Gli stessi luoghi dove, secoli dopo, cominceranno a sorgere altre tipologie di “ville”, ovvero certe magnifiche masserie padronali come il bellissimo fortino turrito del Casino Amodei, in contrada Occhio di Bove, che oggi affaccia sull’invaso dell’Esaro; o l’imponente Casino La Costa, palazzotto signorile munito anch’esso di torri, dodecagonali, ai quattro angoli (e oggi sede di una rispettabile azienda vinicola); e poi il Casotto Mirabelli, verso contrada Peiorata, una sorta di masseria da villaggio Potëmkin, così com’è, tutta facciata e niente arrosto (nel senso di profondità).

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    Il Casino La Costa agli inizi del Novecento

    Una curiosa parentesi su questi Mirabelli… il secondo Catasto Onciario di Malvito (una sorta di censimento del Regno, redatto soprattutto a fini fiscali), trovai, elencato nel nucleo familiare del “nobile vivente” don Luigi Mirabelli – assieme a moglie, figlio, cameriere, due servi, una serva, un servitore, un famiglio, due ‘volanti’ e due mulattieri – finanche “Asà, schiavo costantinopolitano”: l’unico, peraltro, privo finanche di età dichiarata e/o conosciuta. E siamo al 1783. Mica a chissà quanti secoli fa…

    Fattoria abbandonata presso Contrada Ministalla di Mottafollone (foto L.I. Fragale)

    Il paese delle magare

    Se procedessimo verso Mottafollone troveremmo invece gli edifici rurali più modesti di contrada Ministalla (dal germanico marhastall, scuderia, il che vale anche per l’omonima contrada sibarita o per la Menestalla di Scalea). E invece torniamo a Malvito. Che, nei secoli, si è ritirata sulla collina: mi pare sempre in ombra, sempre torturata dal vento. Anni fa ne ho visto le vecchiette coprirsi un lato del volto – quello appunto preso di mira dalle raffiche – mentre si recavano puntuali alla messa pomeridiana, benché sapessero benissimo che il prete fosse un ritardatario cronico.

    Fuorviate dall’innocentissima borsa di pelle dell’ignoto sottoscritto – e con l’aggravante della compagnia di un amico medico del luogo – chiesero, preoccupate, chi stesse male in paese. Chi talmente tanto da dover necessitare l’intervento di un medico forestiero. L’abito può non fare il monaco ma una borsa sì. Ma se fosse davvero paese di magare, come qualcuno dice, non avrebbero dovuto saperlo prima di noi?

     

  • Capistrano vuole sciare “senza” neve: ma i soldi del Ministero fanno miracoli

    Capistrano vuole sciare “senza” neve: ma i soldi del Ministero fanno miracoli

    Da una cabinovia che poteva essere e che non sarà mai, ad una cestovia che attende solo l’erogazione dei fondi per trasportare i turisti su e giù per monte Coppari. D’estate come d’inverno, quando gli stessi turisti potranno usufruire del servizio per raggiungere comodamente la nuova pista da sci, con neve artificiale, che il piccolo comune di Capistrano – poco meno di mille abitanti tra l’altopiano delle Serre e l’Angitola – si è vista finanziare dai fondi previsti dal Cis Calabria con 2 milioni di euro.

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    Il ministro per il Sud, Mara Carfagna

    Il progetto – che ha superato il primo ostacolo dell’iter procedurale previsto, con l’inclusione nella graduatoria regionale tra i 110 considerati a «priorità alta» – prevede la costruzione di una cestovia a due posti che consentirà di risalire fino alla cima del monte, a quota 1000 metri, lungo un percorso panoramico e senza fermate intermedie con un disdivello di circa 500 metri dalla stazione di partenza. Un progetto così ambizioso che va anche oltre l’idea della cabinovia venuta in mente (ma esclusa dalla graduatoria Cis) ai sindaci di Roccaforte e Palizzi nel reggino, e che punta a fare del piccolo centro del vibonese, una nuova meta per gli amanti degli sci in Calabria.

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    Marco Martino, sindaco di Capistrano, mentre si fotografa allo specchio

    Accanto al progetto per l’impianto di risalita permanente infatti, il sindaco Marco Martino – con l’avallo dell’unanimità della sua giunta e del Consiglio comunale – intende mettere in piedi una vera e propria pista da sci con una lunghezza del tracciato prevista in un chilometro. E pazienza se di neve, da quelle parti, se ne vede pochissima. Compresi nel prezzo infatti sono previsti anche 8 cannoni sparaneve nuovi fiammanti che garantirebbero la creazione ex novo della pista e il suo “rimpolpamento” continuo. A dare una mano per la sua conservazione ci dovrebbero pensare, surriscaldamento globale permettendo, le rigide temperature delle colline calabresi.

    «Non c’è niente di strano nell’idea di un impianto di risalita sul nostro territorio, né di una pista da sci – dice a ICalabresi il primo cittadino di Capistrano, Martino –. Gli interventi da realizzare sarebbero a basso impatto visto che già esiste una sorta di percorso naturale sul costone della montagna su cui intendiamo intervenire. Gli alberi da abbattere sarebbero pochissimi e comunque provvederemo a impiantarne contestualmente degli altri. E poi esistono altri impianti di risalita in Regione, solo il territorio di Vibo ne è sprovvisto. Non vedo particolari vincoli ambientali, siamo fuori dal territorio del Parco delle Serre. Manca solo il nulla osta paesaggistico, ma non c’erano i tempi per richiederlo e presenteremo le carte nei prossimi giorni. Questo progetto rappresenta una splendida opportunità per sviluppare il territorio montano del nostro comune e per porre un freno allo spopolamento».

    L’idea di fondo è quella di sfruttare radicalmente le ricchezze della montagna con la creazione di una serie di percorsi turistici che, con la costruzione della cestovia, sarebbero facilmente accessibili e consentirebbero la creazione di numerosi posti di lavoro. «L’unica nostra speranza di sviluppo è puntare sulla montagna. Il nostro territorio è situato in un posto strategico, a 10 minuti dall’autostrada, e con l’intero patrimonio viario che porta in cima, appena rimesso in sesto. Con la realizzazione dell’infrastruttura potremmo portare i turisti in pochissimo tempo fino alla sommità di monte Coppari».

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    La nebbia avvolge uno dei sentieri che porta al monte Coppari (foto pagina Fb “Sei di Capistrano se”)

    Che per considerarla vera e propria montagna, un po’ bisogna crederci. Almeno se la si prende in considerazione dal punto di vista della capacità di ospitare un impianto sciistico: rare le nevicate, rarissime quelle che consentirebbero di tenere in piedi un tracciato. I cannoni servono a questo. «Sono macchine di ultima generazione – spiega ancora Martino – che prevedono un consumo bassissimo di energia e un limitato sfruttamento di acqua. Anche se quello dell’acqua per noi non rappresenta certo un problema. Il nostro territorio si trova “seduto” su un tesoro di sorgenti, creare la pista da sci è un modo per sfruttare al meglio anche questo nostro asset naturale. E poi abbiamo fatti i conti: a pieno regime lo sfruttamento della cestovia frutterebbe al comune – che su questo progetto non sborserà nemmeno un soldo delle sue casse – circa 1,8 milioni di euro all’anno».

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    Il municipio di Capistrano illuminato con i colori della bandiera italiana

    Montagna violata

    E se il progetto di sviluppo montano messo in cantiere dall’amministrazione di Capistrano comincia a muovere i suoi primi passi anche le associazioni ambientaliste, Wwf in testa, cominciano ad attivarsi per capire fino in fondo che tipo di intervento si intende realizzare e quale impatto ambientale possa avere su un territorio già sull’orlo di una crisi di nervi, con l’ipotesi, tutt’altro che remota, della costruzione di un parco eolico tra i comuni di Monterosso e Capistrano, sullo stesso monte Compari.

    Il progetto, finanziato con i fondi del Pnnr, prevede l’innalzamento di alcune pale meccaniche dell’altezza di circa 160 metri e il contestuale abbattimento di circa 250 alberi di faggi. Progetto a cui le associazioni del posto si sono messe di traverso tanto da mettere in piedi, nel dicembre scorso, la manifestazione “abbraccia un faggio”, nella speranza di evitare l’ennesimo intervento invasivo sulle nostre montagne.

  • Parchi di Calabria: quei tre paradisi a un passo dal cielo

    Parchi di Calabria: quei tre paradisi a un passo dal cielo

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    Il Piano di Gaudolino è una prateria chiusa tra Serra del Prete e il monte Pollino. Norman Douglas la percorse sul dorso di un mulo per giungere a Morano. Probabilmente attraversò la via dei Moranesi, ripido sentiero tracciato tra le rocce, in passato – ma ancora oggi – usato per trasferire il bestiame dai pascoli bassi a quelli di alta quota. Oggi quel tracciato resta uno tra i più impegnativi tra quelli affrontati dagli escursionisti. Nemmeno per Douglas deve essere stato comodo restare saldamente sulla groppa del mulo scendendo da lì. Tuttavia il viaggiatore inglese nelle sue pagine parla di un «senso di pace» attraversando quello che oggi è il parco più grande d’Italia.

    Piano di Gaudolino, escursionisti nella neve

    Il turismo calabrese è turismo di mare, dato inevitabile considerati gli ottocento chilometri di costa. Ma nelle aree interne si cela un’anima all’insegna della wilderness. Il termine inglese dovrebbe indicare un’area selvaggia, ma non rappresenta autenticamente quei luoghi, che sarebbe forse più opportuno definire “arcaici”.
    Oggi questa residua arcaicità è sotto la tutela di tre parchi, quello del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte.

    Aspromonte, le cascate del Maesano

    Parchi di Calabria: il più antico

    Quello più antico è quello della Sila, le cui radici affondano nel lontanissimo 1923. Un anno dopo l’avvento del Fascismo qualcuno aveva guardato alla Calabria come un’area ricca di biodiversità. Quelli erano tempi in cui forse quel concetto non era nemmeno stato pensato, né si parlava di tutela ambientale. Anzi, la Sila conosceva un saccheggio boschivo intenso. Eppure Francesco Curcio, presidente del Parco della Sila ed ex ufficiale del Corpo Forestale, racconta che storia parte da lì. Era evidente che l’ambiente non fosse una priorità del regime e infatti di quel proposito non si fece nulla. Ma poi fu ripreso «nel 1968, quando nasce il Parco della Calabria, rappresentato da tre aree protette, una per la provincia di Cosenza, una di Catanzaro e infine quella di Reggio».

    Sila, il lago Arvo

    Queste aree solo successivamente assunsero il ruolo di parchi dell’Aspromonte e della Sila. «Oggi il parco si estende per circa 74 mila ettari, prevalentemente boschivi e riconosciuti come area protetta inclusa dall’Unesco tra quelle classificate “Mab” (Man and biosfhere). Al suo interno sono stati classificate ben 175 specie di invertebrati autoctone» spiega l’ex colonello della Forestale.

    La Sila innevata

    Dei tre parchi quello silano è forse quello maggiormente antropizzato. Le ragioni vanno dalla caratteristiche orografiche, che lo rendono più facile sul piano escursionistico, a una maggiore e più frequentata rete stradale. Questo per un verso è un potenziale vantaggio, portando maggiore afflusso turistico. Ma pone anche il problema di coniugare la massiccia presenza dell’uomo con la tutela dei territori. Curcio ne è consapevole e spiega come soltanto con la vigilanza e l’educazione del turista si possa promuovere un turismo sostenibile.

    I boschi assediati dalla processionaria

    A minacciare i boschi della Sila però non è solo il turismo selvaggio, ma anche la presenza significativa della processionaria. Curcio prova a stemperare la preoccupazione, limitandosi a citare i potenziali pericoli per chi toccasse le larve dell’insetto che si nutre degli aghi dei pini. Ma aggiunge di aver sollecitato la Regione a prendere provvedimenti. E in effetti l’assessore Gallo conferma un massiccio impegno di «ben 4 milioni di euro per un piano concordato con le università e gli agronomi, affidato alle maestranze di Calabria Verde che sono state adeguatamente formate». Il piano d’attacco per adesso prevede delle «trappole poste alla base dei pini per raccogliere le larve e nei mesi successivi l’impiego di un prodotto biologico da spargere con le autobotti o gli elicotteri». Lo stesso Gallo, però, cautamente ammette che per vedere risultati ci vorrà parecchio tempo.

    Processionaria in Sila

    Parchi di Calabria: il presidente più longevo

    Domenico Pappaterra è il presidente del parco del Pollino. Guida l’ente sin da 2007 e questo fa di lui il presidente più “vecchio” delle aree protette calabresi. Il Pollino è il parco più grande d’Italia, con 56 comuni, tre province e due regioni: la Basilicata e la Calabria. E Pappaterra rivendica d’essere riuscito a costruire nel tempo una identità unica del parco, «superando le mille difficoltà derivanti dalla sovrapposizioni di competenze di enti differenti». L’area si stende dalle potenti montagne dell’Orsomarso, che si affacciano sul Tirreno, fino alle gole che sfiorano lo Ionio. Il parco è patrimonio Unesco per quanto riguarda le faggete vetuste e al suo interno comprende cinque cime oltre i duemila metri.

    Pini loricati “a guardia” del Pollino innevato

    Il Pollino ha una sua sacralità, fatta di silenzi e luoghi nei quali puoi camminare per una intera giornata senza incontrare altre persone. I pini loricati che si ergono come sentinelle sui crinali imbiancati d’inverno, oppure si stagliano contro al sole come fossili testimoni di epoche lontane. Pappaterra orgogliosamente ricorda che il parco è incluso nella Carta del turismo sostenibile, certificazione rilasciata a dall’Europark federation, ente che rappresenta tutti i parchi europei. Il futuro, spiega, si gioca sulla formazione degli operatori che potranno poi offrire un servizio di guida ai visitatori, mentre ultimamente «il presidente Draghi ha portato alla conferenza dei parchi di Glasgow l’esperienza virtuosa del Pollino».

    La natura ai piedi del Pollino

    Dove osano le aquile

    La pista da sci di Gambarie è breve, ma così ripida che pare che alla fine ti tuffi nello Stretto. L’Aspromonte è un parco difficile, di quelli che esigono buone gambe e ottimo fiato, ma visitarlo significa immergersi in un luogo separato dal tempo, con gole profonde, fiumare antiche e cascate impetuose. Il presidente è Leo Autelitano, che ricorda le faggete vetuste, patrimonio Unesco, gli 89 siti di interesse geologico e naturalistico, l’impegno profuso nel riaprire i centri di accoglienza e il patrimonio faunistico del parco, con l’aquila del Bonelli «che del Parco è il simbolo», il lupo, il capriolo.

    Aspromonte, fiumara Amendolea

    Al fuoco, al fuoco

    L’estate è la stagione del fuoco, dei boschi dati alle fiamme. La Sila forse è l’area boschiva meno interessata, ma Pollino e Aspromonte fanno i conti ogni anno con questo appuntamento. L’opera di spegnimento degli incendi è competenza regionale e specificamente di Calabria Verde. I parchi, però, si sono organizzati in modo omogeneo con squadre di volontari che hanno il compito segnalare tempestivamente gli inneschi.

    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sul Pollino le squadre sono 22, dotate di furgoni utilizzabili per un primo intervento, mentre diverse telecamere sono piazzate per tenere sotto controllo le aree a maggiore rischio. Lo stesso accade negli altri parchi, impiegando risorse destinate alle associazioni che con il loro impegno svolgono il compito di vigilanza. In Sila nel 2021 ci sono stati 16 inneschi, 15 dei quali soffocati sul nascere, mentre sul Pollino da quest’anno saranno usati anche velivoli ultraleggeri per monitorare le aree.

    Le guide nei parchi della Calabria

    Chi condusse Douglas attraverso il suo viaggio calabrese oggi sarebbe una guida. Qualcuno, cioè, in grado di muoversi in sicurezza tra i terreni impervi e raccontare al viaggiatore le storie e i costumi del luogo. Oggi i parchi hanno le loro guide e Ivan Vigna, ex coordinatore delle guide della Sila spiega che il primo corso di formazione risale al 2009. Una guida deve conoscere tutti gli aspetti del territorio, quelli naturalistici ma anche relativi alle tradizioni popolari. Dai loro racconti emerge una potenzialità trascurata, quella del turismo montano, figlio meno coccolato delle località marine.

    Rafting sul fiume Lao

    Eppure «la montagna sarebbe in grado di andare oltre il limite dell’alta stagione, vivificando attività nel corso dell’intero anno», spiega Luca Lombardi, coordinatore guide dell’Aspromonte. Una posizione non diversa da quella rappresentata da Andrea Vacchiano, guida del Pollino, per il quale è necessario potenziare le infrastrutture, garantire la praticabilità delle strade anche d’inverno, per dare impulso al turismo invernale, che sul Pollino fin qui è stato penalizzato. Lombardi si spinge oltre, lamentando l’assenza di una reale interlocuzione con le istituzioni regionali, così come di una legge regionale a tutela della professione delle guide. Ma, soprattutto, Lombardi suggerisce un diverso punto di vista. Per lui «parlare di turismo delle aree montane vuol dire parlare dei servizi essenziali, di strade, scuole, uffici postali, altrimenti i paesi si svuoteranno e noi faremo turismo tra case fantasma». Perché una montagna spopolata è una montagna che muore.

    Cavalli nel Parco nazionale del Pollino
  • Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    In questi giorni avremmo dovuto assistere all’inizio dei lavori di potenziamento del depuratore di Paola. Un progetto ambizioso: 4 milioni di euro sono stati investiti per migliorare l’impianto esistente, in località Pantani, e per allacciare 8 zone della città alle reti fognarie. Tutto rimandato.
    In teoria, è quasi tutto pronto: il progetto prevede di aumentare la portata dell’impianto da 38mila a 50mila abitanti equivalenti. La gara d’appalto è stata vinta dalla Mansueto Snc, che si occuperà sia della gestione che della manutenzione del depuratore di Paola. C’è già l’ok a progetto esecutivo e relative modifiche. Eppure, è ancora tutto fermo.

    Cinque anni senza autorizzare il depuratore di Paola

    Sullo sfondo, ci sono le elezioni comunali, che ancora devono vedere un vincitore. Al primo turno c’è stata la batosta per il sindaco uscente, Roberto Perrotta, che non è riuscito ad arrivare al ballottaggio per pochi voti. Il 25,2% non è bastato per garantirsi un posto al secondo turno. Il prossimo 26 giugno saranno Emira Ciodaro e Giovanni Politano a sfidarsi per ottenere la poltrona di primo cittadino.
    Sul depuratore di Paola, quindi, ci sarà una nuova amministrazione a prendere le decisioni. E ci sono ancora delle questioni rimaste in sospeso.

    Il lungomare di Paola

    Il Comune non ha l’autorizzazione per lo scarico delle acque reflue del depuratore. «Scaricano, ma l’autorizzazione non c’è. La richiesta è del lontano 2017», racconta Chiara Polizza, referente locale della associazione Mare Pulito, che si è confrontata con l’amministrazione sul progetto.
    Il Comune ha presentato ben 5 anni fa la domanda alla Provincia per l’impianto esistente. Sostiene di non aver mai ricevuto una risposta. Non è un dettaglio di poco conto: senza un’autorizzazione vera e propria, non si capisce chi dovrebbe fare le analisi delle acque reflue, fondamentali per capire le performance del depuratore.

    Il tempo corre

    Un’altra questione irrisolta è quella della manutenzione, che fino almeno al 30 settembre prossimo sarà sotto le mani della Ecotec, la società che ha gestito il depuratore di Paola fino a questo momento e che ha ottenuto una nuova proroga del contratto. «Però il Comune voleva implementare il lavoro della Ecotec con la nuova ditta assegnataria dei lavori». Così come andrà deciso chi deve fare le analisi delle acque (e con quale frequenza) del depuratore di Paola.

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    Salvo miracoli, è difficile pensare che i lavori possano partire durante l’estate. «Il processo di attivazione di una linea richiede 4 settimane. La depurazione è un processo naturale, sono batteri che mangiano la parte organica, la trasformano in minerale. Per avere una colonia di batteri che soddisfi il fabbisogno, bisogna avere il tempo di farli crescere. È un processo che va attivato per tempo» ci spiega Luigi Sabatini, co-presidente del comitato scientifico di Legambiente.
    Per ora, la situazione sul Tirreno cosentino è di calma apparente. Il mare è pulito, anche se ci sono già stati i primi avvistamenti delle chiazze marroni in alcune spiagge, a Paola come nel resto del territorio della provincia.

    Il depuratore di Paola e l’interventismo regionale

    Lo stesso Roberto Occhiuto si è mostrato attento alla situazione del depuratore di Paola. Ad aprile, durante un punto stampa con i giornalisti, il presidente della Giunta regionale l’aveva citata, insieme a Fuscaldo, come città particolarmente problematica, dove «forse anche edifici pubblici non sono collettati. Un inquinamento che non è arginabile nemmeno dal buon funzionamento dei depuratori».
    Per quest’estate, non si vedono rivoluzioni in vista. «Io spero che si riuscirà ad avere un mare almeno per il 40-50% più pulito», aveva dichiarato il presidente.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Però, da quando si è insediata la nuova giunta, la Regione ha incarnato un nuovo interventismo sul tema, e in generale sulla salvaguardia dell’ambiente.
    Lo scorso 17 marzo, la Regione ha preso in mano la gestione dei fanghi da depurazione nei comuni più in difficoltà sulla fascia tirrenica, tra Tortora e Nicotera. L’ultimo intervento “muscolare” è del 17 giugno. Con un’ordinanza, Occhiuto ha deciso che il Corap dovrà sovrintendere la gestione di 14 impianti, fino al prossimo 30 settembre.
    Il commissario Sergio Riitano gestirà i depuratori di:

    • Nocera Terinese
    • San Lucido
    • Ricadi
    • Fuscaldo
    • Pizzo
    • Tropea
    • San Nicola Arcella
    • Belvedere Marittimo
    • Guardia Piemontese
    • Sangineto
    • Belmonte Calabro
    • Parghelia
    • Zambrone
    • Briatico

    In queste strutture la Regione ha «accertato il mal funzionamento di sezioni impiantistiche deputate alla depurazione delle acque reflue con la conseguente compromissione del processo di trattamento e con conseguente pericolo per la salute umana e per l’ambiente». Occhiuto ha annunciato ulteriori dettagli sull’ordinanza per la mattina di lunedì 20 giugno.

    La caccia agli abusivi

    Per prendere il toro per le corna, la Regione ha rafforzato i controlli sui corsi d’acqua, sia con l’aiuto di Arpacal, sia con la stazione zoologica Anton Dohrn, con cui ha  stipulato una convenzione per la tutela del mare e delle coste calabresi, a novembre 2021.
    Durante l’anno c’è stata la mappatura di corsi d’acqua, scarichi, vari siti inquinati. «La Regione Calabria, attraverso Arpacal ha recentemente attivato un piano di rafforzamento per il monitoraggio delle acque superficiali e sotterranee. Quest’ultima attività consentirà una classificazione delle acque sotterranee della Calabria secondo quanto previsto dalla Direttiva Acque», ci ha raccontato Michelangelo Iannone, direttore scientifico di Arpacal.

    depuratore-deep
    Uno scatto relativo all’operazione Deep

    Il fermento ha portato a nuovi interventi delle forze dell’ordine, per colpire gli scarichi abusivi o irregolari. Lo scorso 24 marzo è stata la volta della operazione Deep. I carabinieri hanno messo i sigilli a 5 impianti nelle province di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia.
    Un mese dopo, gli inquirenti si concentrano sulla provincia di Reggio Calabria, con l’operazione Deep 1. I Carabinieri hanno controllato 48 strutture in provincia di Reggio Calabria, dichiarandone irregolari 14. Per tre di queste è scattato il sequestro, insieme ad un impianto di sollevamento (a Campo Calabro) e a un canale di collegamento delle acque reflue (Sant’Agata del Bianco). Le operazioni Deep 2 e Deep 3 hanno continuato su questa falsariga.

    Avanti piano

    I passi avanti sono evidenti, ma ci vorrà molto tempo e lavoro per avere un quadro preciso. E, come sottolineato dal generale Salsano alla Gazzetta del Sud, non basta la repressione. Continuare a potenziare il monitoraggio renderà più facile individuare i siti problematici. Michelangelo Iannone, presentandoci i dati, ci ha raccontato che su 102 impianti controllati dai tecnici dell’Agenzia nel 2021, «oltre un terzo è risultato irregolare per la mancata conformità dei parametri sia chimici che biologici». Di questi, 11 sono nella provincia di Cosenza.

    paola-depuratore-stallo-il-potenziamento-puo-attendere

    Anche sui comuni non collettati non sono stati fatti grandi passi avanti dai tempi dell’ultima procedura di infrazione europea contro l’Italia sul trattamento delle acque reflue. In Calabria ci sono quasi 150 centri che hanno zone scollegate dalla rete fognaria, stando ai dati del Commissario Straordinario Unico per la Depurazione.
    La Calabria è l’unica Regione dove persino il capoluogo ha delle parti di città non coperti dalla rete fognante. Avremmo dovuto metterci in regola nel lontano 2005, ma non è successo.

    I fanghi spariti e la manutenzione inesistente

    La Calabria è piena di «impianti fermi, impianti da efficientare, ed impianti inesistenti». Ci ricorda Sabatini, citando il caso del depuratore di Pizzo Calabro, in località Carcarella: una delle strutture commissariate dalla Regione. «Da 5 anni monitoro la situazione dei depuratori. Per me, non è cambiato nulla. Quello che c’era nel 2016, c’è nel 2022. Ci sarà qualche piccola novità, come Priolo, che è riuscito a sistemare qualche impianto. Ma niente che stravolge la situazione attuale»
    Quelli che ci sono, potrebbero fare molto di più: «Su una capacità totale di 3 milioni di abitanti equivalente, viene servito 1 un milione di abitanti, l’acqua dovrebbe essere ottima, ma non è così».

    Un’altra incognita è quella dei fanghi prodotti della depurazione. Nel senso che i dati sono quasi inesistenti. Le città li comunicano a macchia di leopardo, quando non mancano del tutto. Sul sito della Regione, i dati dei report provinciali sono aggiornati al 2017. E, senza dati costantemente aggiornati e accessibili, non si può valutare a fondo le condizioni di un impianto. I fattori da valutare sono tanti, così come le cose che possono andare storte.
    I fanghi incastrati nelle tubature degli impianti contribuiscono a renderli più inefficienti. Dalle ultime inchieste è emerso che oltre 22mila tonnellate di scarti stanno bloccando gli impianti di tutta la Regione.

    paola-depuratore-stallo-il-potenziamento-puo-attendere

    La manutenzione è un altro dei punti focali: dovremmo aver imparato la lezione, dopo anni di malagestione in tutto il territorio. «Tutti i comuni dichiaravano quantità di fanghi inferiore rispetto a quello che ci aspetta dalla letteratura scientifica. Per ogni metro cubo di acqua trattata dovrebbe uscirne fuori 2 kg di fanghi», ci spiega Sabatini.
    Il sistema attuale, ad esempio, non incentiva allo smaltimento regolare dei fanghi. Chi se ne occupa, di solito, riceve un pagamento forfettario, che non è legato alla quantità di fanghi che vengono lavorati: «Fingere di depurare bene aiuta a risparmiare. I fanghi devono essere pagati in base alla misura».
    Legambiente propone da tempo di non affidare allo stesso soggetto la gestione e la manutenzione dell’impianto. Una scelta che viene fatta spesso, per semplicità, ma che carica di spese e lavoro un solo soggetto.

    Il peso dell’acqua inquinata

    Sappiamo che è un problema vasto, che non riguarda solo gli scarichi abusivi. In mezzo ci stanno infrastrutture fatiscenti, progetti mai finiti, paesi non collegati alla rete fognaria, impianti dimensionati male, e altri che non dividono il trattamento delle acque nere e quelle bianche. E una diffusa insensibilità verso ciò che ci circonda, e che ci tiene in vita.
    Stare a contatto con l’acqua contaminata è sempre un rischio. In particolare, ingerirla può far insorgere delle malattie gastrointestinali. «Importante in termini di possibili ricadute sulla salute può essere la presenza di sostanze in grado di interferire col sistema endocrino, specialmente nelle acque potabili», spiega Iannone. Un fattore monitorato costantemente dall’Arpacal è quello legato alla presenza di metalli pesanti, «alcuni dei quali sono causa riconosciuta di patologie neurologiche».

    I contaminanti, poi, possono finire nel cibo che mangiamo. «Metalli pesanti, sostanze come PFAS, pesticidi ed altre vengono continuamente monitorate, sulla base delle indicazioni dettate dalla legge, proprio allo scopo di mettere in evidenza l’eventuale presenza di tali inquinanti, con il fine ultimo di identificare e rimuovere la causa dell’inquinamento», precisa ancora Iannone.
    Poi, ci sono le evidenze economiche. Un turismo che plana, ma non decolla mai. Non è un caso se, come riportato dal Sole 24 Ore il 15 giugno, il Sud, in generale, è la macro regione dove ci sono meno turisti. Mancano sia i viaggiatori interni, che esterni. E se il trend è in risalita, è difficile pensare che possa avere un impennata in tempi brevi, se le infrastrutture sono queste.

  • Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

    Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

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    Ne ha fatta di strada quest’onda. È nata sulle coste africane e ha viaggiato per migliaia di chilometri prima di arrivare con tutta la sua potenza ad impattare qui, sul litorale calabrese, e farsi cavalcare dalle tavole dei surfisti che l’hanno attesa e sognata per giorni.
    Sono circa trecento i surfisti in Calabria. Impossibile però contarli uno ad uno, lasciano le loro tracce solo nei gruppi whatsapp e sulle pagine social che documentano memorabili giornate in mare. È risaputa la ritrosia a rivelare coordinate precise riguardo alle spiagge su cui arrivano le onde buone, per salvaguardarle dal sovraffollamento. Perché se si è in troppi a lanciarsi in acqua non ci si diverte, o peggio, si rischia di farsi male.

    Il sogno di essere parte della natura

    «Ci studiamo le previsioni del tempo, cerchiamo di conoscere con largo anticipo l’arrivo della mareggiata e una volta individuata ci prepariamo a raggiungerla”. Antonio Ciliberto, più noto come Tony Cili, 34enne di Crotone, è un vero waterman, un appassionato di sport acquatici. Lo si può vedere su Instagram planare sulle onde, felice come un bambino, perché il surfista più bravo è quello che si diverte di più.

    «Da piccolo vedevo nei film i surfisti e sognavo di diventare uno di loro. Adoro le emozioni che questo sport riesce a darmi, adoro sentirmi parte della natura». Ci vuole il fisico, certo, ma questa è un’attività che aiuta a mantenersi in forma. Fino a quando si può praticare? «Spero di poter continuare a surfare fino a 100 anni», scherza Tony. «Del resto in altri paesi mi è capitato di vedere 85enni ancora energici».

    Sport, ma anche stile di vita

    Per entrare nel mondo del surf bisogna familiarizzare con lo slang e comprendere i riti e i tempi di una passione che non è semplicemente sport, ma stile di vita. La Calabria, con i suoi 800 km di coste bagnate dal mar Ionio e dal mar Tirreno offre “spot” con onde di qualità da est a ovest e una gamma inesauribile di scorci da scoprire. Bovalino, Copanello, Squillace, Gizzeria, Roseto Capo Spulico sono solo alcune delle località predilette da chi fa surf. E ogni spiaggia ha un nome in codice a prova di intercettazione: Munnizza, Madami, Certi campetti, Lavazza, La torre, Le serre, Lo scoglio, Zinno point, Copa, Il traliccio, Il parcheggio e molti altri.

    Le stagioni del surf in Calabria

    Da ottobre ai primi di aprile – proprio mentre le mareggiate minacciano le linee ferroviarie e i centri abitati – i surfisti s’infilano le loro mute e si lanciano sulle onde. Si ritrovano dalla sera prima, dormono nei pressi della spiaggia in macchina, nei camper, nei furgoni, aspettano l’alba per scrutare l’orizzonte, pronti a tuffarsi. Da maggio lo Jonio va “in letargo”, mentre il Tirreno riceve mareggiate anche nei mesi estivi.

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    Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri del surf in Calabria

    In Calabria il surf è arrivato in ritardo rispetto a quanto accaduto nel resto d’Italia. Le prime tavole sono comparse negli anni ’90 e oggi in acqua cominciano ad entrare le seconde generazioni. Come nel caso di Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri, che ha trasmesso al figlio la sua grande passione. Molto è cambiato in questi anni in cui le spiagge più ambite sono state “colonizzate” da surfisti che arrivano da altre regioni, in particolare Lazio, Campania e Puglia.

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    La passione di suo padre Mimmo ha contagiato anche Marco Gaglianese, qui in azione

    Un’opportunità per il turismo

    Dietro il surf c’è un potenziale turistico che per il momento in Calabria viene ignorato. «Potrebbe essere strategico per allungare la stagione da ottobre ai primi di maggio: praticamente dove finisce l’interesse del turista tradizionale comincia quello del surfista». A spiegarlo è Gianpaolo De Paola, cosentino, in arte Gizmo. «Ma bisognerebbe preservare i punti costieri dove riceviamo onde di qualità. Servirebbe quindi un cambio di passo rispetto a quello che la politica ha fatto fino ad oggi». I pennelli, le famigerate T, spezzano il moto ondoso oltre a creare danni alle spiagge. «Se non ci fossero interessi che evidentemente remano contro, le barriere sommerse potrebbero rappresentare un’alternativa rispettosa della linea costiera. Noi ci spostiamo. Viaggiamo – continua De Paola – e constatiamo come le altre regioni portino avanti esperienze virtuose che risolvono il problema dell’erosione costiera ma hanno un impatto positivo sul turismo».

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    Guerino “Papà” Preite osserva le onde prima di entrare in acqua

    La grande famiglia del surf in Calabria

    Con gli anni la “comunità” dei surfisti calabresi ha imparato a condividere informazioni, esperienza e – vincendo la tradizionale diffidenza – persino le spiagge. «Siamo una grande famiglia. Rimaniamo in contatto attraverso i social e ci aggiorniamo sulle previsioni del tempo. Al momento giusto ci diamo appuntamento e in attesa che arrivi la mareggiata trascorriamo le notti insieme, parcheggiamo vicini i nostri camper o i furgoni e magari accendiamo il barbecue», racconta Gianpaolo.

    All’appuntamento con le onde bisogna arrivare preparati, non basta la prestanza fisica, la caratteristica fondamentale da possedere si chiama acquaticità. E poi bisogna conoscere le correnti e imparare a gestire la paura che in certi momenti – quando ti trovi nel mezzo di onde alte due metri – toglie il fiato. «Sottostimare le dimensioni di una mareggiata o sovrastimare le proprie capacità può mettere a rischio la vita», chiarisce De Paola.

    L’adrenalina vince la paura

    A lui è successo. «Mi trovavo a Guardia Piemontese, un’onda anomala alta circa quattro o forse cinque metri mi ha seppellito. Quando sono riuscito a risalire per prendere fiato ho visto arrivare un treno di altre onde che mi hanno di nuovo mandato giù. Mi ci è voluto parecchio per riprendermi. Sono esperienze di puro terrore che chi pratica surf conosce bene, ma è l’adrenalina che ti fa amare questo sport e ti fa pensare: bene, non sono morto. Voglio rimettermi alla prova». Dopo esperienze di questo tipo si esce dal mare un po’ ammaccati, ma spesso ad avere la peggio sono le tavole che si lesionano a contatto con il fondale.

    Gianpaolo “Gizmo” De Paola

    Tavole da surf made in Calabria

    Francesco Cerra vive a Catanzaro ed è uno shaper, ovvero realizza artigianalmente tavole da surf ed è l’unico in Calabria. «Ho cominciato nel 2017. Avevo voglia di riprodurre una tavola a cui ero molto affezionato – spiega – e che si era rotta. Ho imparato a farlo da me, da autodidatta». È il fondatore dell’associazione Copa Bay Surf di Squillace che oltre a riunire un nutrito gruppo di surfisti, organizza corsi e promuove attività sociali e ambientali come la pulizia delle spiagge e della pineta. «Costruisco e riparo le tavole per i miei amici. È un modo per sentirmi ancora di più parte di questa comunità di surfisti».

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    Francesco Cerra è l’unico in Calabria a realizzare tavole da surf

    I prezzi? Modici: “Non è il mio lavoro principale per cui l’obiettivo non è certo guadagnare tanto, ma rientrare nelle spese per l’acquisto dei materiali: si aggirano tra 350 e 400 euro. Nei negozi specializzati le tavole arrivano a costare da 500 fino a 900 euro». Anche Cerra s’interroga spesso sulle potenzialità del surf in Calabria. «Siamo una regione baciata da mari diversi e onde di qualità che ormai già da anni attirano appassionati da altre parti d’Italia. Sarebbe bello riuscire a rendere tutto questo una opportunità di sviluppo turistico».

    La lezione delle mareggiate

    Dall’album dei ricordi escono le foto più belle degli ultimi anni, giornate indimenticabili che hanno sempre lo sfondo blu del mare in tempesta. «Il 2014 è stato un anno perfetto – racconta emozionato – con tante mareggiate sullo Ionio provenienti da sud-est. Ricordo una giornata a Bova, era Pasquetta, in modo del tutto inatteso ci siamo ritrovati in tanti a surfare e poi a festeggiare assieme». Questa dimensione della socialità è certamente tra le cose da preservare, nello sport e nella vita. Che si rincorrono sempre, proprio come le onde migliori.
    Perché il surf è una grande metafora: attendi il momento giusto, cavalca l’onda, prendi con filosofia anche le sconfitte. Sembrava solo una mareggiata e invece era una lezione di vita.

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    Antonio “Tony Cili” Ciliberto
  • STRADE PERDUTE|  Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

    STRADE PERDUTE| Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

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    Ci sono dei luoghi precisi che hanno il potere di evocare molto più di altri l’incalzare del tempo, l’abbandono speranzoso ma in fondo colpevole, e il rimpianto per un passato non necessariamente idilliaco ma certamente fatto di equilibri più naturali. Uno di questi è Campo del Monaco, a 200mt sul livello del mare, tra il burrone Marianna e il fosso Bambagia: non cercatelo su Google, non è quello che troverete. È un pendio, piuttosto ripido, affacciato sul mare e punteggiato non tanto da ruderi di edifici rurali modesti ma da resti di masserie padronali di ordine superiore, la cui magnificenza doveva splendere su queste colline fino a molto meno di cento anni fa.

    Il bivio per Bonifati

    Su queste colline si arriva facilmente, procedendo sulla SS 18 verso Nord e prendendo il penultimo bivio per Bonifati. Lo ripeto, appena si lascia una strada principale si fa cronologicamente un passo indietro: fuori da un’officina, subito infilato il bivio, un paio di anni fa faceva splendida mostra di sé una vecchia e gloriosa BMW 3.0 csi. Direte «che c’entra?». C’entra, perché se si parla di strade bisogna ogni tanto omaggiare anche chi le strade le batte, le copre e le setaccia materialmente. Omaggio per omaggio, due o tre tornanti più su, un muretto inneggia “Viva il giro”. Era il 2016, e il Giro d’Italia davvero passò faticosamente da qui.

    Finocchietto, mare e monti

    Di fianco, una masseria è stata ristrutturata recentemente, e per fortuna. Forse il nuovo colore non è troppo sobrio ma, considerato tutto il sole che la schiaffeggia, stingerà presto. Ancora un paio di tornanti e si passa tutt’intorno ad una casa-torre, quasi spaccata in due. Dietro di lei, un incomprensibile ponte sul nulla. Anzi, sul crinale: da un lato il suddetto burrone Marianna, dall’altro il suddetto fosso Bambagia (che è molto più “burrone” dell’altro, a dire il vero, e molto più inquietante). Per il resto, nulla: una distesa di finocchio selvatico (ottimo, se distillato…), un panorama a perdita d’occhio (da un lato il mare, fin dove visibilità permette; dall’altro i monti) e nient’altro. Però non è finita qui.

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    Rudere presso Campo del Monaco, in agro di Bonifati (foto L.I. Fragale)

    Un edificio straordinario

    Da un’altra curva si può infilare un sentiero. Procede in piano e continua zigzagando, obbligato dalle rientranze della collina. È un sentiero lungo, e oggi senza apparente funzione. A destra e a sinistra è costeggiato da piccoli poderi, campicelli recintati, ma niente di che, e non una voce. Il fatto è che questo sentiero è l’unica via di accesso (“accesso” per modo di dire…) ad un edificio straordinario. Sto parlando di ciò che resta dell’ex convento di San Nicola: un palazzotto sventrato, con tanto di cappella d’ordinanza, loggiato angolare e finestroni baroccheggianti decorati a stucchi.

    Il valore aggiunto di questo edificio, oltre a quello architettonico (e alla sua impenetrabilità dovuta all’essere circondato da rovi e vegetazione da foresta pluviale) è il fatto di essere anche scarsamente visibile. Il modo migliore per osservarlo è dalla spiaggia di Pietrabianca, con un buon binocolo o un teleobiettivo. O, al limite, procedendo ancora sui tornanti in salita, dall’unico incrocio che si trova appena più in alto (a destra per il centro storico, a sinistra per Aria delle Donne o Sangineto paese) ma da qui non si vedono gli scenografici finestroni sul mare.

    Bonifati, terra di conventi (e satanisti)

    Dalla spiaggia non va confuso con quell’altro edificio maestoso, un’altra masseria abbandonata, poco più a valle del convento, più o meno alle spalle dell’Hotel Sol Palace. L’ex convento di San Nicola è più imponente, più austero, più sofisticato nella struttura.
    Terra di conventi rurali, questa di Bonifati, se a pochissimi km da qui spicca l’altro, quello di San Francesco, ristrutturato una ventina d’anni fa e convertito ad albergo di lusso (quantomeno lo si è sottratto all’uso che abitualmente si faceva dei suoi ruderi, ovvero quello di improvvisati ‘templi’ per attività sataniste).

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    Bonifati, inizi Novecento

    Lunga vita a Bonifati

    E va bene il miraggio dell’industrializzazione, e va bene l’emigrazione amaramente necessaria per tanti… però vale la pena immaginarli, questi luoghi, quando brulicavano di esseri viventi, uomini e bestie, di attività, di rumori, di voci, di versi d’animali. Sembra impossibile ma tutta un’economia e tutta una vera e propria ‘vita’ animava queste campagne che ora restano desolate e mute. Ha resistito una contrada, non lontana da qui, Cirimarco, sulla collina appena sopra Cittadella del Capo.

    Parcheggio la macchina davanti all’unica chiesetta: mentre spengo il motore guardo davanti e l’occhio mi cade sui manifesti dei morti, le ‘mortaline’, come li chiamano da certe parti: 5 o 6 decessi recenti, ok. Ma tutti ultranovantenni. E ti credo: basta guardarsi intorno, e basta pensare al loro stile di vita (classe 1925 o giù di lì…) o alla loro alimentazione. Nota a margine: da qui si dipana una lunga mulattiera selciata, che scende dritta (no, dritta no) verso la marina di Cittadella, attraversando l’altra Contrada vicina, Greco: i Gradini San Vincenzo. Quindi mettiamoci anche l’esercizio fisico, quando i muli non fossero stati d’aiuto.

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    Chiesetta a San Candido di Bonifati

    La costa delle torri

    Da Cirimarco si arriva alle altre due frazioni provvidenzialmente sperdute nell’interno: San Candido e Pero. O, avendo coraggio, su una bretella che riporta all’ardimentosa e lunga dorsale che dalla frazione di Torrevecchia porta a Fagnano attraverso laghi e boschi abbastanza inaccessibili. Torrevecchia, appunto, detta così per la vecchia torre saracena d’avvistamento, costruita proprio lì sull’angolo del costone più ripido del promontorio sul mare: perché, non lo si può dimenticare, Bonifati è anche o forse soprattutto un luogo di mare e anzi, appunto, un Capo: quello spigolo che interrompe la continuità della costa da Capo Suvero a Capo Scalea. Non è un caso che qui si trovino altri relitti di torri o punti strategici (la torre del telegrafo, che ora dà il nome a una contrada; la torre di Capo Fella, la Torre Parise…).

    Dei confini sul litorale bonifatese ho già detto parlando di Cavinia e di Sangineto.
    Tutta la costa meridionale di Bonifati ha ancora i caratteri di quella cetrarese: strapiombi e grotte, insenature abbastanza incontaminate e non prese d’assalto dai turismi peggiori. Vi spuntano scogli, qua e là, che possono fungere da miniature di grandi isole, ottimi per progettarvi sopra altre strade che con minuscoli e arditi tornanti portino dalla base fino alle cime (un santuario? un mirador?).

    Cittadella del Capo (foto L.I. Fragale)

    Bonifati da cinema

    Bando alla fantasia, qui non serve. Dopo aver percorso il breve tracciato della ex SS 18 in contrada Santa Maria, si possono ammirare tre edifici che svettano su questa parte di spiaggia: un ex casello ferroviario equilibrista sulla cima di uno scoglio; un casino padronale semiabbandonato sulla scogliera della Zaccarella (era una residenza minore dei nobili De Aloe) dove Mimmo Calopresti ha girato alcune scene di uno dei suoi film (non il migliore, va detto: L’abbuffata); e poi il principale dei palazzi De Aloe, ovvero l’attuale albergo del Palazzo Ducale.

    Resto dell’idea che però il meglio stia nella parte più nascosta e meno battuta, ovvero lungo quelle due stradine parallele che costeggiano la ferrovia da qui in poi, verso Nord: via Magellano e via Amerigo Vespucci raccolgono la parte forse più amena e riservata di buona parte della costa, benché poste immediatamente sotto la Stazione ferroviaria di Capo Bonifati. E segnano anche uno spartiacque: da qui in poi, solo ed esclusivamente spiaggia, spiaggia, spiaggia, sotto lo sguardo magnanimo della cinquecentesca Torre Parise.

    La scogliera della Zaccarella (foto L.I. Fragale)
  • Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

    Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

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    Perché complicarsi la vita? Riformulo: perché considerare che certe scelte significhino necessariamente complicarsela? Ovviamente anche stavolta il riferimento non è ai massimi sistemi ma alle strade. È una questione di forma mentale, quella che induce a recepire pigramente la geografia delle rotte in compartimenti stagni: “i paesi della costa” vs. “i paesi dell’interno”, come se i due gruppi fossero a sé stanti, quasi senza possibili vie di comunicazioni in mezzo, neppure metaforiche.
    Allora vediamo che succede se si prova ad andare da Laino Castello fin sulla costa tirrenica senza toccare autostrade e, per quanto possibile, strade statali.

    Laino Castello, il paese degli zampognari

    Laino Castello – il paese che fu – è ricordato più che altro per essere la patria di quegli zampognari (forse meno noti di quelli abruzzesi) che scendevano a Natale in città e paesi di tutta la provincia. Nel frattempo, recentemente vi è stato un tentativo di farlo diventare una sorta di “albergo diffuso”, sullo stile di Santo Stefano di Sessanio, anche questo in Abruzzo. Coincidenze. La mia visita risale a qualche anno prima, quando il centro storico – abbandonato decenni fa per i motivi più vari, ma ufficialmente per via di un sisma – non lasciava più molto da ammirare, se non una desolazione piuttosto evocativa (e, nella desolazione, vi incrocio – fantasma? – il poeta e amico Dante Maffìa, fuggiasco per un giorno dalla sua amata costa ionica).

    Molto di transennato, tutto lasciato all’incuria. Lavori iniziati e lasciati a metà. Erba altissima nei vicoli. La chiesa, integra ma svuotata, faceva ancora una certa impressione (nulla di nuovo, per chi conosce la Chiesa dei Cappuccini, in cima al centro storico di Cosenza, che versa nelle medesime condizioni). E da lì il panorama violento del Viadotto Italia con cui l’autostrada taglia in due il Massiccio del Pollino. Beffarda, poi, colpisce l’occhio una vecchia stella cometa di ferro arrugginito, piazzata in cima all’edificio più in cima del paese fantasma. Chissà da quanti anni sta lì. Dalla Natività alla mortalità.

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    La Grotta del Romito

    Papasidero e la Grotta del Romito

    Lasciamo Laino Castello al suo destino, incrociando le dita per lui, e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito: non è solo testimonianza degli insediamenti preistorici in Calabria, quanto pure la dimostrazione della sopravvivenza di piccoli paradisi naturali. Mica scemo, st’Homo Sapiens… Il più solerte guardiano della zona archeologica è un docile cagnolino che scorta attentamente ogni gruppo di visitatori, dal parcheggio alla grotta e viceversa, senza distogliere lo sguardo nemmeno un attimo. Dalla grotta bisogna risalire di quota, un bel po’, per tornare sulla strada principale (principale, si fa per dire) e non invidio quella coppietta di giovanissimi ciclisti nordeuropei, stremati a mezzogiorno da una salita disumana.

    Avena, la frazione evacuata (?)

    Non lontano dal Romito vale assolutamente la pena (ma quale pena, poi?) allungarsi fino ad Avena, frazione di Papasidero. Non è lontana ma, intendiamoci, mi riferisco sempre a distanze in linea d’aria. Perché visitare Avena? Per fare il paio con Laino Castello: anche Avena è abbandonata, ma in compenso alcuni scorci riescono a ricordare – parola di un affidabilissimo e appassionatissimo gallerista e antiquario bolognese, mica mia – certi quadri di Telemaco Signorini. Un cartello ufficiale all’inizio dell’abitato (o, meglio anche in questo caso, del “disabitato”) parla di zona evacuata ex lege, più o meno nei primi anni Ottanta.

    Nelle case sventrate trovi soltanto bottiglie, bottiglie, bottiglie. Televisori di quarant’anni fa, reti da letto e scarpe spaiate. Eppure nel primo edificio all’ingresso dell’agglomerato – poco prima di quella piazzetta che, non so perché, mi fa pensare a Leopardi, al Sabato del villaggioqualcuno sembra abitare eccome, quantomeno saltuariamente. Con tanto di panni stesi al sole e grasticelle di peperoncino ben curate. E fa bene, chiunque egli sia.

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    Scorcio della frazione Avena di Papasidero (foto L.I. Fragale)

    Abruzzo e Golf

    Papasidero decido invece di attraversarla senza sostare. Diretti verso la costa, subito dopo il paese si passa su un ponte dal nome curioso: il Ponte Golf. Proprio così, un vecchio ponticello su una forra, che ben poco può avere a che fare con attività golfistiche: e infatti è stato denominato in questo modo, in maniera ufficiale, soltanto a causa di una modesta deformazione – ipercorrettismo nell’italianizzazione maccheronica – del più antico idronimo Orfo (‘u g’Orf), ovvero il torrente che vi passa sotto.

    Mi starò suggestionando ma è la terza volta che mi viene da citare l’Abruzzo: la strada tra Papasidero e Santa Domenica Talao mi ricorda enormemente, a tratti, quella che si inerpica da Anversa degli Abruzzi fino a Scanno, scavata nei costoni del meraviglioso canyon nella Gola del Sagittario. Ma è un miraggio frequente, che meriterebbe un pezzo a parte, “Strade che assomigliano ad altre strade”… e, a pensarci bene, altri tratti di questa via dalle montagne al mare mi ricordano invece alcune specifiche curve nella zona del Cippo Pisacane, a Sanza. Ma lasciamo perdere certe stratificazioni della memoria fotografica…

    Restiamo con gli occhi qui: è il luogo ideale per quello che ho sempre ritenuto il più ambiguo, imbarazzante, incoerente dei segnali stradali: Pericolo caduta massi. Ché non si capisce uno cosa dovrebbe fare… rallentare? Peggio, si allunga l’esposizione al pericolo. Accelerare? Meglio di no, vuoi mai che le vibrazioni sveglino il mazzacane che dorme? Fare inversione ad U, se possibile? Ma allora perché non chiudere la circolazione? Il significato di quel segnale è semplicemente: «continuate a vostro rischio e pericolo, noi ce ne laviamo le mani». Ciance bandite, proseguiamo.

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    Il fiume Lao (fonte web)

    Rafting e il brutto che avanza

    Sulla destra, scendendo verso la costa, mi incuriosisce quella lunghissima, vistosissima tubatura che scende orrenda, a precipizio, dritta dalla cima di un monte giù lungo i dirupi del Ciminnito, costeggiando ciò che resta dell’antica Torre dello Scirro. Non è altro che la condotta che mette in collegamento la poco poetica “Camera Valvola” dell’Enel, sul monte Rininella (in agro di Orsomarso), con la centrale idroelettrica giù sulla riva del fiume Lao (e sì, siamo nella Riserva Statale del Lao, delizia per chi fa rafting, e non solo per loro). Ma la centrale e la tubatura annessa preannunciano il brutto che si fa vivo, inevitabilmente, quando ci si avvicina agli insediamenti più intensivi.

    E pensare che dietro quel monte, proprio a un passo e mezzo dalla “Camera Valvola”, cade a pezzi l’antico convento di Santa Maria di Scòrpano, avvolto da erbe infestanti e rovi. Si è deformato, col tempo, finanche il toponimo (ora Scorpari). E anche lassù, ve ne parlerò, mi pare di stare in Abruzzo, ad esempio sui pianori di Campo Imperatore o sulla strada per Roccamorice. E siamo a quattro ricorrenze aprutine.

    Papasidero

    Da qui al mare, sotto un tramonto settembrino, è una bella discesa dolce, lunga e panoramica: ritrovo i due ciclisti che all’ora di pranzo erano boccheggianti sulla salita della Grotta del Romito. Adesso posso invidiarli.
    Ancora più giù, a luccicare sono le foglie di vere e proprie piantagioni di giovani eucalipti che preannunciano la calura della costa. Li avevo presi per piccoli pioppi, per via di questo luccichio alternato e invece no, qui nemmeno il populus tremula, sebbene – che confusione! – la frazioncina appena superata sia, proprio come un piccolo pueblo, Tremoli. Perché semplificarsi la vita?

  • La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

    La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

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    Sirene morenti ed eroi leggendari, battaglie navali e mostri marini. E torri, e templi e castelli, che si confondono nel tempo lusingando il mito. Sono ricchi di storie i promontori e le rupi che ospitano i 13 fari a presidio dei mari calabresi. Storie che si rincorrono e si sovrappongono a quelle delle dominazioni che si sono date il cambio lungo i secoli. I greci, i romani, i bizantini, gli spagnoli in quei posti strategici a picco sul mare avevano fondato città. Avevano innalzato sacrari e fortificato torri, lungo una trama che attraversa tutti gli 800 chilometri e rotti di coste della regione. E che si lega con il capillare universo di fari e boe segnalatrici che garantiscono la sicurezza della navigazione moderna.

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    Il faro di Capo Suvero (foto Fiorenzo Fiorenza da Wikipedia)

    La leggenda di Ercole e la famiglia del faro

    La leggenda di Ercole che si riposa sullo Jonio dopo avere portato a termine le 12 fatiche, si fonde alla memoria del guardiano del faro che tiene in ordine la lanterna del punto più a sud dell’Italia peninsulare. E quella del tempio di Era, che con il suo tetto di marmo bianco indicava i pericoli della costa. Si confonde con quella della famiglia Sestito che da oltre un secolo si tramanda la responsabilità di tenere sempre acceso il faro di Capo Colonna.

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    Poi Paola, Punta Alice, Capo Suvero e Scilla; Capo Vaticano e Villa e Capo d’Armi: tredici «piccoli luoghi di luce oltre l’invalicabile presenza della notte», gestiti dalla Marina militare. Ma ormai praticamente tutte le funzioni tecniche che una volta competevano ai “guardiani del faro” sono completamente automatizzate. Tredici storie raccontate ne I fari della Calabria, tra natura e archeologia (264 pagine, edizioni La Vie), duplice e dettagliatissimo progetto curato da Ivan Comi.

    È un autore e regista catanzarese. Sulla storia dei fari calabresi ha anche realizzato lo splendido documentario La magia dei cristalli con le musiche originali di Mino Freda e Francesca Prestia.

    A presidio del mare

    Ritagliati in un angolo di un antico castello come a Scilla, o tra le mura antiche di una torre cavallara, come a Paola, i moderni fari calabresi illuminano il percorso dei naviganti dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.

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    Il faro di Paola, la città di San Francesco (foto Ivan Comi)

    Quasi tutte di realizzazione post unitaria, le “lanterne” attive sulle coste joniche e tirreniche della Calabria hanno particolarità che le distinguono le une dalle altre. Così consentono ai naviganti, sia durante il giorno, sia durante le ore di buio, di identificare immediatamente il tratto di costa a cui sono legate. E se di giorno sono le caratteristiche e i colori delle torri – bianche, a bande nere, rosse con bande bianche – a rendere i fari riconoscibili, di notte è la diversa frequenza e intensità della luce – che con le moderne attrezzature riesce a farsi strada per decine di chilometri oltre la terra ferma – a rappresentare la “carta d’identità” del presidio.

    La luce del fari non deve spegnersi mai

    La gestione unitaria di tutti i fari regionali ricade sotto la responsabilità di Taranto, ma sul campo ci sono ancora gli operatori nautici. Quelli che una volta si chiamavano faristi ora si occupano di tenere tutto in perfetta efficienza. Perché, qualunque cosa succeda, la luce del faro non deve spegnersi mai. Sono loro che si occupano di pulire le ottiche e gli specchi che consentono alla luce di farsi strada nella notte. E sono loro che ridipingono la torre con i colori originali quando i danni del tempo e della salsedine lo richiedono.

    Dalle fascine date alle fiamme nei fari antichi, ai sistemi di ingranaggi complicati quanto quelli di un enorme orologio a pendolo da ricaricare con la manovella ogni quattro ore, fino ai moderni computer che gestiscono automaticamente l’accensione delle lanterne e l’attivazione dei sistemi di emergenza in caso di avaria. Tecnologie cambiate radicalmente nel corso nel tempo e che condividono un unico obbiettivo: tenere costantemente acceso il cono di luce che garantisce la navigazione sicura. Resta quello il punto di riferimento certo per le imbarcazioni anche in un’era fatta di gps e transponder.

    Sulle orme del mito

    Nell’immaginario collettivo, i fari sono generalmente associati all’idea di solitudine e isolamento. Una delle particolarità dei fari calabresi è quella però di sorgere in posti già fortemente antropizzati. A Capo Colonna, ad esempio, il faro sorge proprio accanto al tempio di Era Lacinia.E fu proprio la sua costruzione a favorire un nuovo impulso alle scoperte archeologiche di Paolo Orsi, che su quel promontorio ripercorse i fasti di uno dei templi più importanti dell’età antica. Un legame così profondo quello tra la lanterna di Capo Colonna e la sua storia che, a guardia della torre, i costruttori dell’epoca misero una serie di teste leonine che richiamano da vicino i reperti trovati nell’area sacra.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Fari calabresi, acropoli e santi

    Seguendo la costa verso sud, anche il faro di Punta Stilo sorveglia dall’alto il parco archeologico dell’antica Kaulon e poggia le sua fondamenta su quella che gli archeologi considerano l’antica acropoli cittadina. Fu al largo di Punta Stilo che la marina militare inglese mise subito in chiaro la disparità di forze in campo con quelle schierata dall’Italia fascista, in quella che è passata alla storia come la prima battaglia in mare che vide impegnata la marina italiana nella seconda guerra mondiale.

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    Il faro di Capo Spartivento (foto Ivan Comi)

    A testimonianza di quella battaglia, sono rimasti i relitti delle navi affondate a qualche centinaio di metri dalla costa. Risalendo ancora lo Jonio verso lo Stretto, a capo Spartivento l’antico capo d’Ercole – il punto posto più a sud dell’Italia peninsulare, la leggenda racconta di quando San Cristofaro apparse a Sant’Elmo, che in una grotta su quel promontorio viveva da eremita, per ordinargli di accendere una lanterna nelle notti di tempesta per aiutare il passaggio delle navi.

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    Il faro di Punta Pezzo nel comune di Villa San Giovanni (foto Ivan Comi)

    A difesa dei naviganti: dallo Stretto a Paola

    Operativo dal settembre del 1867 è considerato dalla Marina come uno tra i cinque fari più importanti del Paese. Qualche chilometro ancora, e a presidio dell’ingresso nello Stretto, nel comune di Villa San Giovanni, si trova il faro di Punta Pezzo. Costruito alla metà degli anni ’50, accoglie con la sua luce rossa intermittente i natanti che attraversano il braccio di mare che la separa dalla Sicilia. E poi Scilla, dove la lanterna è stata sistemata dentro il cortile dell’antico castello dei Ruffo. Proprio sul promontorio dove Omero fa vivere il mostro marino dalle multiple teste flagello dei naviganti.

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    La luce che spunta dal faro di Scilla (foto Ivan Comi)

    E, ancora, Capo Suvero, risalendo il Tirreno. QUi la luce del faro illumina la costa che secondo il mito ospitò il corpo senza vita di Ligea, la sirena “melodiosa” punita con la morte per l’inganno di Ulisse, che era riuscito a evitarne i richiami facendosi legare all’albero maestro. E infine Paola, dove la lanterna è custodita all’interno della vecchia torre di guardia. Quella che un tempo serviva ad avvisare la popolazione delle incursioni saracene e che ora guida al sicuro le imbarcazioni che si avvicinano alla costa.

  • “Alla Salute”: on line il video di Jovanotti girato a Scilla e Gerace

    “Alla Salute”: on line il video di Jovanotti girato a Scilla e Gerace

    Da oggi è on line il video della canzone di Jovanotti “Alla Salute” girato in Calabria. Lorenzo Cherubini, 55 anni e non sentirli, diventa guida una banda per le strade di Gerace e poi canta su una barca nel mare davanti a Chianalea di Scilla. Il regista del video è un talento calabrese come Giacomo Triglia, che ha realizzato lavori per altri musicisti importanti come Dario Brunori.  Il videoclip è stato realizzato in collaborazione con la Calabria Film commission guidata dal neo presidente Anton Giulio Grande.

    Jovanotti tornerà in Calabria per il doppio appuntamento (12-13 agosto a Roccella Jonica) del Jova Beach party 2022.