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  • Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

    Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

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    Un cittadino dona una casa a un gruppo di ragazzi un po’ cresciuti e con la voglia di rischiare. La sistemano tra mille difficoltà e di tasca loro. Diventa un museo. Con questi pochi ed essenziali gesti nasce nel 2021 Muzé a Pallagorio, in provincia di Crotone. Una collina sullo Jonio, il mare che ha spinto e portato i greci ad occidente.

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    Una delle stanze del museo Muzè a Pallagorio, in provincia di Crotone

    Muzé: museo e comunità

    Muzé è un presidio di cultura e idee in terra arbëresh: un pezzo d’Europa, quella del margine, dell’entroterra, dell’osso. Nulla di statico. Migrazioni, spostamento e contaminazione si condensano nel cammino di tre paesi a pochi chilometri l’uno dall’altro: Carfizzi, Pallagorio, San Nicola dall’Alto. La bellezza fonetica e levantina dell’Arbëria crotonese contro il logorio della Calabria dei luoghi comuni: peperoncino in primis. Una specie di etichetta che ritrovi ovunque. Al di là della indiscutibile bontà a tavola, ha un po’ rotto le scatole.

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    Gruppo musicale arbëresh a San Nicola dall’Alto (foto pagina facebook Fili Meridiani)

    Immagini, abiti tradizionali, oggetti del quotidiano accompagnano il patrimonio immateriale e più importante di questo museo a Pallagorio: libri, idee, incontri, persone sedute in circolo, gente che si parla.
    Più che uno storytelling (parola accantonata pure da Christian Salmon, uno dei suoi primi utilizzatori) si tratta di viaggio rituale e visuale nel passato. La comunità torna al suo atto fondativo: nel XV secolo il condottiero dell’Albania ancora cristiana Giorgio Castriota Skanderbeg porta il suo popolo in salvo dalla furia ottomana. Elemento chiave della cultura arbëresh, celebrato ogni anno nelle danze circolari chiamate vallje.

    Fili meridiani: da Cambridge a Pallagorio

    L’idea di Fili Meridiani nasce in piena pandemia dopo una serie di incontri on line sulle piattaforme ormai entrate nel lessico famigliare di tutti. Ursula Basta è un architetto che, dopo gli studi a Firenze, ha vissuto e lavorato alcuni anni a Cambridge. Ha deciso di tornare nel paese dei genitori e dei nonni e lanciare insieme ad altri tre amici questo laboratorio di pensieri e innovazione. Lei ha già in mente il nome. Ispirato dal Pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano.
    Fabio Spadafora ha frequentato Scienze politiche all’Unical. Si è occupato di comunicazione e analisi politica. Ma con una fidanzata di Pallagorio, non lontano dal paese dello scrittore Carmine Abate, non poteva che essere coinvolto nel progetto. Gli altri sono il videomaker e fotografo, Ettore Bonanno e la grafica Francesca Liuzzo. Dei tre solo Fabio non ha origini arbëresh: un cosentino con una madre presilana, cosa che rivendica con orgoglio. Ma la Calabria è una terra di mescolanze, di diversità intrecciate.

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    I calanchi del Marchesato

    Instaruga

    Instaruga è un progetto di promozione turistica del Marchesato crotonese. Unisce associazioni, guide e cittadini. Ed è pure una piattaforma digitale. Il nome fa pensare subito a Instagram. Ma non è così. C’è altro. «In‘sta ruga significa “in questa ruga”, dentro il vicinato, dentro i paesi, dentro la Calabria». Così si legge sul portale web di Fili meridiani. Che passano con estrema facilità dalle gjitonie agli algoritmi della comunicazione social.

    Alternano escursioni nei calanchi di Cutro oppure scorribande tra le vigne del Cirò. Piccole meraviglie del Crotonese per chi vuole uscire fuori dai percorsi turistici troppo noti e battuti. Alla ricerca di tanti piccoli fili meridiani disseminati nelle calabrie nascoste.

  • Pubblicità alla Calabria, la Regione salda dopo 11 anni

    Pubblicità alla Calabria, la Regione salda dopo 11 anni

    Quando i calabresi (e non solo) hanno appreso degli oltre due milioni e mezzo di euro spesi dalla Regione per far pubblicità alla Calabria dentro (e di fronte a) la stazione di Milano Centrale non sono stati pochi a storcere il naso, Tra questi, lo stesso governatore Roberto Occhiuto, che già nei mesi precedenti aveva battibeccato indirettamente con l’assessore al Turismo (oggi senatore) Fausto Orsomarso per altre iniziative promozionali. Troppo calda ancora la figuraccia fatta col mitico corto di Muccino, costato l’ira di Dio tra realizzazione e messa in onda, per permettersi nuovi passi falsi nel campo del marketing territoriale e del turismo.

    A volte ritornano

    Una soluzione per evitare – o, quantomeno, posticipare – nuovi esborsi monstre dai risultati imprevedibili, però, alla Cittadella la conoscono già. Basta fare come con mamma Rai, che per farsi pagare quanto le spettava dopo aver promosso la Calabria in tv ha dovuto aspettare un’eternità. Risale infatti al 2011 una pratica riemersa dai cassetti e riapparsa in queste ore sul Burc. Cosa c’è scritto? Che i contribuenti calabresi si troveranno a spendere nei prossimi giorni oltre 800mila euro destinati a pubblicizzare il nostro territorio oltre un decennio fa.

    Miss Italia a Reggio Calabria, pubblicità per la regione

    All’epoca dei fatti a regnare sulla Cittadella è Peppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio. Ed è proprio in riva allo Stretto che si terrà la finale di “Miss Italia nel mondo”. La Rai ha 180mila buone ragioni per far svolgere l’evento lì, tante quanto gli euro (Iva esclusa) che la Regione sborserà per la copertura dell’evento e la celebrazione dei luoghi che lo ospiteranno. Ed ecco i vertici di Germaneto e Saxa Rubra stipulare una prima convenzione il 5 agosto 2011. Ne seguirà, quattro mesi dopo, una seconda. La cifra, stavolta, è più alta, il doppio della precedente. Per 360mila euro più Iva la Calabria troverà spazio in alcune trasmissioni della Tv di Stato nel corso del 2012: Uno Mattina, Linea Blu, Sereno Variabile e la Giostra sul Due.

    Impegni

    Gli italiani vedono la Calabria sulla Rai, ma la Rai non vede un centesimo dalla Calabria. Gli anni passano e in viale Mazzini iniziano a lamentarsi del ritardo. Email e telefonate alla Cittadella si susseguono, le risposte però non sono quelle che ci si aspetterebbe. Soldi, infatti, a Roma non ne arrivano. Dal Bilancio provano a saldare parte del debito con i quattrini impegnati per la promozione turistica illo tempore, ma la somma basterebbe a versare più o meno la metà del dovuto. Del resto del denaro (e dei relativi impegni di spesa) non c’è traccia. Ci si mettono pure di mezzo problemi informatici alla piattaforma dei pagamenti. E così dalle casse regionali finisce per non uscire neanche un centesimo.

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    La sede della Rai in viale Mazzini a Roma

    Il tribunale dà ragione alla Rai

    A essere scomparsi, oltre ai soldi che ci si aspettava già impegnati alla luce delle due convenzioni, sono anche quelli del Dipartimento Turismo, a cui toccherebbe gestire la vicenda. A nulla valgono le sollecitazioni dei colleghi che si occupano dei conti regionali. Nonostante la Rai chieda soldi ormai dal 2016, nonostante abbia fornito più volte negli anni ogni documento possibile (a partire dalle fatture), nonostante abbia pregato la Regione di non farsi portare in tribunale per farle sborsare il dovuto, nonostante in tribunale ci sia effettivamente andata e quest’ultimo abbia riconosciuto con un decreto ingiuntivo ormai esecutivo da maggio 2021 che quei soldi la Rai dovrà averli entro i successivi 40 giorni, non succede nulla fino a quest’estate.

    Regione Calabria, riecco i soldi per la pubblicità

    È il 28 giugno 2022 – qualcuno trova la formula più efficace per svegliare dal torpore anche il più inoperoso dei burocrati: se ci saranno ulteriori aggravi di spesa, a pagare di tasca propria saranno funzionari e dirigenti rimasti immobili fino a quel momento.
    Come per magia – ma senza troppa fretta, alle tradizioni non si rinuncia – riparte l’iter. Prima (siamo in autunno) arriva la copertura finanziaria per circa 400mila euro. Poi, con atto del 14 dicembre pubblicato sul Burc di ieri, si ufficializza come debito fuori bilancio da sentenza esecutiva il resto della somma. Che nel frattempo, tra interessi e spese legali è arrivata a poco più di 816mila euro. Se una parte dovrà essere a carico di qualche burocrate regionale è materia da Corte dei Conti. Ma una cosa è certa: se fossimo nei panni della concessionaria che si occupa della Calabria Straordinaria targata Orsomarso nella stazione Centrale, di fronte a precedenti come questo, qualche preoccupazione per il futuro l’avremmo.

    La cittadella regionale di Germaneto
  • STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    Popi popi vita mia: all’insegna di questa non eccellente lode amorosa si intraprende il 50% approssimativo dei viaggi autostradali degli abitanti di Rende (per chi non ci avesse fatto caso, sta scritta con lo spray sul lato sud di un cavalcavia a breve distanza dallo svincolo di Rende-Cosenza Nord). Tutto un programma, insomma, e soprattutto un’altra buona ragione per ignorare il tracciato autostradale e deliziarsi sul vecchio, su quell’antica Strada per Napoli, la borbonica, la Regia, delle Due Sicilie o come volete chiamarla.

    Quella che a Rende da svariati decenni, dopo secoli di doppi sensi di circolazione per i carri, le carrozze, i cavalli, i pedoni e pure gli alfieri, e infine poi per i primi mezzi a motore, è stata declassata a strada urbana a senso unico – sacrilegio! – sotto il nome di JFK, della Resistenza, di Giuseppe Verdi e di Alessandro Volta, nell’ordine da sud a nord: né santi né poeti né navigatori, quindi, per la strada che separa in due “Rende di Sotto”, e che un tempo separava soltanto una campagna da un’altra campagna.

    Lungo questa strada, fino a un secolo fa, sorgeva al massimo qualche casupola e forse riusciva a intravedersi, poco più a valle, la cappelletta nel mezzo degli ulivi, dei peri e degli eucalipti, della Commenda di San Giovanni Battista.

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    “Popi popi vita mia”, genio anonimo rendese

    Nord Sud Ovest Est

    Il panorama più lontano è rimasto un po’ più invariato: a ovest l’opprimente cortina scura della Catena Costiera: alta e monotona, sempre in ombra (anche quando non lo è, sembra esserlo), quasi una tenda pesante e opaca appesa al cielo.

    Là dietro ci sarebbe pure il mare, vicino e irraggiungibile, impercettibile. Ma è come se non ci fosse: un muro di acacie e di faggete impenetrabili. Dell’oscuro profilo della Catena si distingue solo il pizzo di Monte Cocuzzo. A sud, un pizzico del centro storico di Cosenza e un accenno di basse Serre. A nord, lontane ma più illuminate, le cime aguzze del massiccio del Pollino, spessissimo innevate nei canaloni a dirupo.

    Anzi, non tutte aguzze, quelle cime: fa eccezione il semicerchio glassato e goloso di Serra del Prete, di fianco al triangolino equilatero del Monte Pollino e all’altro scaleno della Serra Dolcedorme. A est? Gli ampi archi a sesti ribassati della Sila, feriti dai viadotti obliqui, messi lì come spillette su una risma di fogli neri: diagonali, a due due, luccicanti, taglienti nel buio delle abetaie e pinete silane. Insomma, una valle di lacr…, volevo dire un’infelice valle piovosa, quella rendese, anche a giudicare dalle precipitazioni medie.

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    L’elegante Casino Telesio nella contrada Feudo Telesio di Castrolibero (foto L.I. Fragale)

    Toponimi familiari

    Eccettuato il centro storico di Rende di cui anche troppo si scrive, e la chiesina di cui sopra, qua intorno resta d’antico poca roba oltre alla masseria S. Agostino – già dei nobili Spada – munita di propria cappella, posta ai piedi della collina omonima ma che omonima non era mai stata e semmai sempre indicata – assieme a contrada Difesa – come Monte Ventino, toponimo dimenticato. Là dietro, nella zona più impervia e selvaggia di tutto il territorio comunale (l’unica che avrebbe qualche spessore paesaggistico e persino naturalistico… chi se la ricorda la quasi pasoliniana “valle dei fossi”?), sorge l’enorme discarica a deturpare il tutto, nei pressi della Fontana Frassine e delle Destre Spizzirri, sopra la stradina che conduce a Ortomatera.

    E qui comincia l’avventura – per citare Sergio Tofano – della toponomastica prediale della zona, che ripete i cognomi delle più o meno antiche famiglie di proprietari terrieri. Spizzirri, De Matera, quindi, ma anche i fondi Monaco e persino il rione Cavalcanti, presso quella contrada Crocevia – con piccola ex-masseria di impianto cinquecentesco – da cui si arriva dritti dritti a Feudo Telesio, in territorio di Castrolibero, poco alle spalle della buffa contrada “Fontana Che Piove”. Tutto vero.

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    Contrada Fontana che piove

    E si potrebbe sconfinare fino a Cosenza, con questo criterio onomastico, fino alla contrada Mollo (città 2000 – Rende) o alla contrada Muoio (già possedimento della famiglia Mojo, che – chiariamo – non è Mollo pronunciato alla spagnola…) ma non mi va: restiamo in territorio rendese e cambiamo una vocale, passando da Mojo a Piano di Majo, la collina che soffre di complesso di inferiorità rispetto alla fintamente blasonata collina di Piano Monello alias, più modestamente, Serra Lupara, paradiso del parvenu da una cinquantina d’anni in qua.

    Una pseudo Beverly Hills in miniatura a Rende

    Non è l’“Italia in miniatura” ma più ambiziosamente una velleitarissima “Beverley Hills in miniatura”: telecamere, villa con piscina, villa con campo da tennis, villa con tutte e due, villino con ascensore per fare mezzo piano che non si sa mai, torretta d’avvistamento, casetta degli gnomi, castelletto delle fiabe, villone da Miami, cottage inglese, villino azzurro, villino rosa, tutta un’accozzaglia cromatica e stilistica da bazar del dubbio gusto (altrove, in altra zona rendese, addirittura un assai maldestro omaggio a Gaudì…). Torniamo a noi e dalla lupara scorgiamo contrada Femmena Morta, altrettanto ameno toponimo rimpiazzato dal più asettico “Failla” (chissà chi decise il maquillage…).

    La cappella Spada-Alimena, lungo il torrente Mavigliano (da Facebook)

    Ma torniamo alle strade: vogliamo andare a nord? E riprendiamola, questa benedetta strada borbonica! Anzi, zigzaghiamo tra lei e la vecchia strada consolare romana, perché in questo tratto la borbonica è troppo trafficata (siamo in territorio di Montalto, lì dove è una tragedia di semafori, rotonde, brutte insegne di altrettanto brutti negozi e svincoli per centri commerciali, e manifesti pubblicitari orripilanti, fino alla chiesa della SS. Trinità ovvero, più prosaicamente, fino al bivio d’Acri). A contrada Gazzelle – altro feudo telesiano – sorge l’ottocentesca e molto poco autoctona cappella Alimena-Spada, già dei marchesi Episcopia, in stile neogotico-neoceltico-neoirlandese. Una neobomboniera, insomma, a conferma che il problema del buon gusto non è recente.

    La casa nella prateria

    Con buona pace di questa, e poi di quella curva inaspettatamente boscosa – quasi un errore spaziotemporale – sul torrente Mesca, a metà strada tra il bivio per Montalto e Taverna, conviene invece scendere verso Coretto o Coretta, cioè su una parte di ciò che resta dell’antica Popilia. Precisamente sotto l’evocativa contrada Tesauri/Tesori (il tratto precedente della Popilia, dal confine nord del Comune di Cosenza, è impercorribile oltre Santa Chiara e Santa Rosa di Rende, all’altezza della confluenza tra il Surdo e l’Emoli).

    Qui si continua dritti e si infila la vecchia stradina che corre parallela all’autostrada. Qualche buca di troppo ma ne vale ampiamente la pena, specie quando ci si può beare del fatto che, di fianco, gli automobilisti in autostrada vanno spesso più lenti di noi. Una curva obbligata a sinistra, si passa sotto alla suddetta autostrada e ci si immette di nuovo sulla borbonica, all’altezza di una grande casa antica, in mattoni, di cui nemmeno le vecchie mappe registrano la titolarità. Poco più avanti, una casetta minuscola in mezzo alle erbe selvatiche era già crollata ad agosto. A settembre ne restava solo qualche mattone. Era bella, m’è dispiaciuto.

    Casetta scomparsa, lungo la vecchia strada tra Montalto e Torano (foto L.I. Fragale)

    Arrivano i Cavalcanti

    Ed eccoci a Torano Scalo, palma d’oro alla bruttezza – pari merito con almeno altri due Scali in questa provincia, come già accennavo altrove. Eppure questo deprimente abitato è sorto proprio in mezzo a un bel pezzo di storia, in quanto divide in due un antico nucleo feudale: a est, la contrada Sellitte (già Sellitteri/Sellitano) fu il primo possedimento calabrese dei nobili Cavalcanti fiorentini che qui si insediarono proprio per questo motivo (fu Filippo Cavalcanti a riceverlo in dono nel lontano 1363 direttamente dalla regina Giovanna d’Angiò, di cui era ciambellano); a ovest tutta la teoria dei principali insediamenti cavalcantiani: Sartano, Cerzeto e Torano Castello (e, poco più lontano, anche Rota Greca), ognuno con il proprio Palazzo dei duchi Cavalcanti in più o meno bella mostra.

    Portale del Palazzo Cavalcanti di Torano Castello

    Coincidenze

    Perché mi dilungo tanto? Per un dubbio: Wes Anderson è stato qui? Vi starete domandando cosa c’entri. Succede che nel 2013 questo regista ha dato alla luce, su commissione di Prada, un cortometraggio di 8 minuti – delizioso come tutte le sue opere – ambientato in un immaginario paesino italiano degli anni’50, alle prese con il passaggio non della Mille Miglia ma dell’altrettanto immaginaria Molte Miglia. Un pilota – Jed Cavalcanti – si schianta contro una statua nel mezzo del paese, ma sopravvive e scopre che il paese si chiama Castello Cavalcanti ed è proprio quello dei suoi antenati (ecc. ecc. e non vi dico altro). Solo alcune cose non mi quadrano: la livrea di Prada è bianca e rossa; quella della Mille Miglia idem; bianco e rosso sono pure gli smalti dello stemma Cavalcanti, allora perché mai Wes Anderson ha preferito optare per una livrea rossa e gialla? Chissà… Seconda domanda: perché in Calabria non ci si accorge mai di queste coincidenze?

    Il cortometraggio Castello Cavalcanti (Wes Anderson, 2013)
  • Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

    Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

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    I viaggiatori politicamente corretti si riconoscono subito, fanno tenerezza. Ricordano Silvio Orlando in Ferie d’agosto, quando cerca vanamente di isolarsi dai rumori, dalla cafonaggine e dall’invadenza dei suoi vicini. Tenta inutilmente di arginare il mondo reale, rifugiandosi in un paradiso naturale, senza acqua corrente né elettricità, che rivelerà, però, tutti i suoi limiti.

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    Silvio Orlando in Ferie d’agosto (Paolo Virzì, 1996)

     

    I viaggiatori motivati, informati, consapevoli non li incroci nei luoghi più affollati. Se anche dovessero transitare su un lungomare, o in un centro commerciale, non si farebbero notare. Vestono in modo sobrio, quasi dimesso. Non ostentano videocamere e altre apparecchiature elettroniche. Non si espongono neanche troppo agli sguardi, dato che il più delle volte sono pallidi per le ore trascorse sui libri più in voga, nei musei e nei teatri.
    In un posto come Stilo, in provincia di Reggio Calabria, li individui subito, invece, perché spiccano in mezzo agli abitanti del borgo che ha dato i natali a Tommaso Campanella.

    Stilo, la terra dell’utopia

    Come accade in ogni paese del Sud, anzi in ogni meridione, i nativi osservano con sguardo compassionevole e divertito i viaggiatori che ammirano il paesaggio, rapiti dallo spettacolo. Per un nativo di Stilo quello è il panorama quotidiano, abituale, delle faccende di ogni giorno, lavoro, spesa, scuola, chiacchiere. Per un viaggiatore colto e curioso sbarcare a Stilo significa calpestare la terra dell’utopia, dove è nata la trama de La Città del Sole, la comunità perfetta immaginata dal filosofo.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Non per caso ha scelto di chiamarsi Città del Sole anche l’albergo che affaccia sul corso del paese, ricavato da un immobile sequestrato alla criminalità. Un posto confortevole, funzionale, di misurata eleganza, con un bel terrazzo a disposizione degli ospiti, che riposando lì possono rielaborare i pensieri affiorati alla mente durante le passeggiate tra le chiese e le case di Stilo. Tommaso Campanella fu rinchiuso per quasi trent’anni in un carcere dagli spagnoli, per aver organizzato una congiura contro il dominio straniero, da queste parti. A quei tempi spagnoli e baroni, oggi la ‘ndrangheta e i suoi legami con la politica.

    Marulla e granite nel silenzio

    Il luogo di maggior richiamo ovviamente è la Cattolica; oggi la piccola chiesa bizantina è inserita in un percorso che segnala eremi e chiese rupestri, per viaggiatori che amano muoversi a piedi o in bicicletta, un turismo lento e rispettoso dei luoghi e del silenzio che regna, un bene prezioso da tutelare.
    Infatti intorno alla Cattolica i visitatori sono decisamente à la Silvio Orlando, ammiriamo la bellezza del sito e scrutiamo le pietre e le colonne, alla ricerca di una rivelazione misterica. Individuato come cosentino dal vigilante, vengo informato che il grande Gigi Marulla è nato a Stilo, il mio interlocutore è suo cugino. Non è proprio una rivelazione trascendentale, ma mi accontento. Sul calcio sono sprovveduto, devo compiere un percorso di iniziazione.

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    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    Unica concessione al consumismo, davanti all’ingresso dell’area della Cattolica, un piccolo chiosco di bibite e gelati, segnalato in rete per la bontà delle granite artigianali. Mi concedo pure io la granita, anche se sono arrivato in macchina. Cerco di essere un viaggiatore politicamente corretto, ma subisco tutto il fascino del turismo becero. Poi col caldo di fine estate non sarei mai arrivato vivo a Stilo, marciando attraverso la montagna, con le provviste in spalla, come i fieri escursionisti che mi circondano, sudati e soddisfatti.

    L’eremo a Pazzano

    Il direttore dell’albergo Città del Sole insiste, dobbiamo assolutamente visitare l’eremo di Santa Maria della Stella, a Pazzano, comune confinante con Stilo. Così lasciando Stilo elaboro un breve itinerario mistico-montano e ci avviamo.
    Dopo pochi chilometri e tante curve arriviamo all’eremo, in una posizione meravigliosa, con una vista splendida sullo Ionio. Naturalmente arrivano alla spicciolata altri viaggiatori consapevoli, alcuni con bambini al seguito, che per ora subiscono i viaggi culturali imposti da mamma e papà, in attesa di diventare grandi e fuggire verso le discoteche dello sballo.
    Cerchiamo di capire come accedere alla grotta, è stato organizzato un sistema di apertura con moneta, un euro a persona, come contributo per l’illuminazione e le pulizie del luogo.

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    L’eremo di Santa Maria della Stella

    Una signora piuttosto scorbutica non si degna di rispondere alle educate richieste di spiegazioni. Temiamo di rimanere rinchiusi per sempre nell’eremo, una volta entrati. Potrebbe essere pure una soluzione a tanti problemi della vita che tentiamo di lasciarci alle spalle andando per eremi bizantini. Vedo inconsapevoli bambini seguire fiduciosi i genitori nella grotta, quando capiranno i rischi a cui sono stati esposti saranno dolori.

    Un viaggio nel tempo fino a… Bivongi

    Ultima tappa a San Giovanni Theristis, nel comune di Bivongi. Un monastero bizantino riportato in vita da un monaco greco, partito dal Monte Athos per recuperare questo angolo di Medioevo dimenticato dai calabresi. Solita strada orrenda, soliti viaggiatori pazienti alla ricerca del sacro. Sembra davvero di viaggiare nel tempo, qui. I monaci non ci degnano, passano silenziosi attraverso il prato, immersi nelle proprie faccende. Caprette e galline negli spazi riservati alla vita quotidiana.

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    Bivongi, il monastero di San Giovanni Theristis

    I monaci non colgono gli sguardi desiderosi di ascesi e incuriositi dei turisti pellegrini dello spirito. Si comportano sempre così, forse la loro regola li obbliga a mantenere le distanze. Non si coinvolgono come i sacerdoti cattolici, sempre in mezzo alla gente, a sbracciarsi nell’accoglienza e nell’inclusione delle pecorelle smarrite (sennò papa Francesco li rimprovera), a mostrarsi comprensivi e indulgenti verso le magagne dei peccatori. I monaci ortodossi, mi pare, non si fidano dei cattolici, custodiscono ancora la memoria della crociata del 1204, quando i cavalieri con la croce, anziché attaccare i musulmani, saccheggiarono Costantinopoli e le sue chiese. Certo che dopo ottocento anni potrebbero pure metterci una pietra sopra. Poi non credo ci siano molti cattolici praticanti tra i visitatori degli eremi sperduti.

    Via dal paradiso

    Andiamo via consapevoli che il paradiso terrestre per ora non possiamo permettercelo, ci tocca tornare nella vita quotidiana. Sosta a Monasterace Marina per qualche conforto materiale. Spiagge affollate, musica ad alto volume, corpi abbronzati ed esposti impudicamente, pure quando le pance e i culi cascanti richiederebbero veli pietosi. Sempre il solito dilemma, godersi i beni terreni più immediati o faticare per distaccarsi dalle miserie del mondo? Ci vorrebbe un consiglio bibliografico di Tommaso Campanella. Durante i trent’anni di carcere avrà avuto modo di chiarirsi tante questioni per noi ancora irrisolte.
    Intanto ci tocca la statale 106, un purgatorio moderno.

  • MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

    MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

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    «Anche via Popilia è Cosenza»
    (frase attribuita a Tonino Napoli, visibile su una recinzione di lamiera)

    Finirà che dovremo ringraziare la grande distribuzione per questo lento eppure costante processo di integrazione che interessa via Popilia, un processo che in vent’anni la politica a Cosenza non è riuscita a portare a termine.
    Ora che anche la Lidl ha aperto un supermercato sulla antica strada consolare romana, è ufficiale che non è bastato l’abbattimento della secolare linea ferrata per inglobare nel tessuto urbano ’a petrara (così detta un tempo in virtù dei ciottoli del fiume Crati che le scorre a est): i binari erano un diaframma che la isolava da un centro incredibilmente ravvicinato. E oggi di nuovo allontanatosi.

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    1910, Crati: Santa Maria degli Angeli e foresta, poi via Popilia

    Il rilevato ferroviario è stato sostituito da un viale ibrido (alberato ma anche asfaltato e con pista ciclabile ma anche pedonale) che continua a non avere pace tra annunci di restyling e cantieri sospesi e riaperti, anzi no; ma nel frattempo anche la presunta rinascita edilizia dei primi anni Duemila sembra fallita, con molti palazzoni in gran parte ancora vuoti e che iniziano a invecchiare seppur disabitati fin dalla costruzione.
    Oggi almeno si registra un ritrovato attivismo da ricondurre ai Bonus 110 sulle tante cooperative nate già da fine anni Ottanta. Fu quella la prima “riconversione” del quartiere (una scommessa di gentrificazione ante litteram), quando viale Parco era ancora un progetto – a cui però, evidentemente, i costruttori credevano.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal centro città

    Subito dopo, la diffusa colata di cemento del nuovo millennio non è servita a rendere via Popilia più vivibile: all’aumento della volumetria non ha fatto seguito un parallelo miglioramento dei servizi.
    La spazzatura accatastata all’ultimo lotto, a qualche decina di metri in linea d’area dai lussuosi appartamenti rendesi, è un simbolo perfetto di questo abbandono assoluto, che fa ancora più rabbia dopo la prosopopea dell’ultima campagna elettorale in cui si prometteva l’ennesima rinascita.

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    Rifiuti all’ultimo lotto di via Popilia a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perché se una legge non scritta della politica a Cosenza vuole da sempre che «le elezioni si vincono a via Popilia», alle ultime amministrative, questo elemento è apparso come qualcosa di più di una indicazione, rivelandosi piuttosto la conferma dell’esistenza di un blocco di consenso decisivo nel ballottaggio che ha incoronato Franz Caruso: proprio in nome della «attenzione per le periferie», o meglio per la periferia cosentina per antonomasia.

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    La protesta, organizzata dall’allora consigliere di maggioranza – diventerà assessore poco dopo, carica che riveste anche oggi nella Giunta Caruso – De Cicco contro il progetto di un campo rom a via Popilia

    Capannoni tutti uguali per salvare le periferie?

    Di certo questo isolamento non è attribuibile (solo) agli ultimi arrivati a Palazzo dei Bruzi.
    Viale Mancini e la bretella fantasma a est di via Popilia (ex via Reggio Calabria, con innesto sul ponte di Calatrava) rappresentano due simboli della più totale inadeguatezza amministrativa a Cosenza essendo, rispettivamente, un’eterna incompiuta e un cantiere che non parte mai: due confini più o meno immaginari – il primo incerottato d’arancione, il secondo solo tracciato – che corrono paralleli e continuano a condannare l’ex stradone popolare alla marginalità, a rimanere il ghetto che si credeva di aver cancellato – diciamo spostato nel ghetto/bis di via degli Stadi – oltre vent’anni fa con il “trasloco” della vecchia baraccopoli (dicembre 2001) e il viale Parco poi intitolato al sindaco che lo immaginò e ne inaugurò i primi spezzoni mentre era ancora in vita.

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    La baraccopoli demolita per volere di Mancini: il ghetto trasloca a via degli Stadi (foto Ercole Scorza)

    Di recente, un lunedì mattina in cui molti se le aspettavano proprio su viale Mancini – annuncio di due esponenti di giunta in una trasmissione tv –, le ruspe si videro spuntare nel tratto centrale della petràra. Veloci e aggressive come solo quelle di un privato, per di più forestiero, sanno essere.
    La tabella dei lavori conferma la vox populi di un nuovo supermercato Lidl e il polverone dovuto al livellamento del terreno, misto agli sventramenti di antiche palazzine basse e disabitate, ufficializza come conclusa la parabola che dalla guerra di mafia ha portato a una ben più innocua guerra dei supermercati, passando da quella del mattone: forse, quest’ultimo, un conflitto dormiente e sempre dietro l’angolo.

    Cosenza, i lavori per realizzare un nuovo supermercato a via Popilia

    I capannoni tutti uguali della Gdo si confermano dunque elemento antropico e urbanistico prima che commerciale eppure, in questo, via Popilia è solo l’ultima frontiera se si pensa ai tanti precedenti (EuroSpin e ancora Lidl su via degli Stadi, un’altra Lidl con annessa rotatoria lungo viale Principe a Rende solo per restare agli ultimi): perché, prima di diventare area degli acquisti per residenti e pendolari, questa era e rimane l’arteria delle scuole (anzi di recente si sono aggiunti lo scientifico e il geometra), delle farmacie che si spostano rinnovandosi e delle edicole che chiudono (aumentano solo quelle votive), dei presidi di legalità come la polizia stradale all’estremità sud e i carabinieri al confine nord, del carcere, dell’Agenzia delle entrate e del palazzetto dello sport.

    Gnugna e tressette, scommesse e munnizza: «Questa è la realtà»

    Qui, accanto alla Comunità Bethel, un orto si affaccia sulla strada dove le auto sfreccerebbero a 100 all’ora se non ci fossero i dossi in cemento più alti di Cosenza (due, ma fanno egregiamente il loro lavoro…): un gruppo eterogeneo gioca a carte nel cortile di quello che fu un frequentato centro per anziani.
    Il welfare ha da tempo abbandonato queste latitudini, come se la cementificazione avesse portato anche inclusione: l’associazione di volontariato “IoNoi” ha sede nei locali della fu VII circoscrizione, un tempo anche ludoteca per i bambini della zona.

    Spariti anche i luoghi della politica – un processo comune ai quartieri centrali ma qui forse più doloroso – si è passati dalle sezioni di partito alle sale scommesse come luogo di aggregazione.
    Nel blocco che si vuole costruito coi soldi del piano Marshall – siamo nel tratto centrale, zona sopraelevata – sono quasi stinti i murales tracciati sulle palazzine basse color senape. Uno dei progetti, meritevoli per carità, ma che durano il tempo della foto assessorile e del seguente comunicato stampa: ma almeno in questo casa resta il monumentum, lo stimolo visivo a ricordare.

    Un furgone abbandonato in una traversa di via Popilia

    Tutt’intorno, auto e furgoni abbandonati, ancora spazzatura, siringhe. È anche vero che se la gnugna (l’eroina, ndr) non è mai scomparsa – continua anzi ad avere periodici ritorni di fiamma –, questa periferia non appare più inaccessibile e infernale come un tempo, quanto piuttosto sospesa in un limbo purgatoriale; può essere però ben definita con un verso sempre dantesco ma dal Paradiso (XV, v. 106): «Non avea case di famiglia vote». Il Sommo si riferiva agli appartamenti fiorentini disabitati perché sproporzionati al bisogno delle famiglie, qui siamo piuttosto nel territorio della superfetazione di solai fine a se stessa che ingrassa la lobby dei costruttori mentre altri strati sociali sono condannati all’emergenza abitativa e all’esclusione sociale.

    Uno stallo che raramente permette il salto da uno status a quello superiore, una stratificazione immobile che Lugi, alias Luigi Pecora, orgogliosamente afro-popiliano, racconta benissimo in un pezzo rap (Questa è la realtà) in cui passeggia idealmente da casa sua – l’ultimo lotto che sembra un block di Spike Lee – al centro.

    Via Popilia, dalle guerre di mafia (e del mattone) a quella dei supermercati

    Il culto del dio cemento e il cristianesimo convivono a via Popilia

    Nel 2005 si contavano tredici gru su viale Mancini (intanto saturatosi), nel frattempo altrettante ne sono spuntate su via Popilia (oggi in realtà sono una decina, sparse tra i Due Fiumi e la casa circondariale).
    I due delitti eccellenti al giro di boa dei due secoli e due millenni – tra il semaforo in zona carcere e l’ultimo lotto – sembrano un ricordo lontanissimo. Ora la guerra – dopo quella combattuta a colpi di cazzuola nel ventennio passato – se la fanno i supermercati, a colpi stavolta di oneri di urbanizzazione: a fine aprile 2019 la storica baracca di Felicetta con annessa fontanella fu abbattuta per permettere la spianata con relativa rotatoria in funzione EuroSpin.

    L’ex sindaco Occhiuto e gli allora assessori Caruso, Vizza e Spataro in posa simil Beatles per l’inaugurazione della rotatoria

    Come allora apparve chiaro che servisse un supermercato per cucire la viabilità rimasta monca (in quel caso per collegare il ponte di Calatrava con viale Mancini), adesso un altro mega gruppo (Lidl) invade i territori Conad sbloccando i lavori in un’area pensata in origine come parco – e così “venduta” una quindicina di anni fa agli acquirenti dei nuovi e coloratissimi palazzoni sorti nella zona della chiesa di Cristo Re.
    Urbanisticamente rivoluzionario, il mega-cantiere è l’ennesima dimostrazione che dove non arriva il pubblico tocca al privato. Dovesse leggerci qualcuno di EsseLunga e decidesse di avventarsi su via Popilia: di lotti abbandonati ce ne sono a bizzeffe, tocca soltanto scegliere.

    COSA VEDERE

    Il quartiere è il più classico degli ibridi urbanistici tra case popolari e palazzoni moderni. Da vedere i murales del secondo lotto (ma anche quello di Marulla al Marca) e le tante edicole votive, segni della fede autoprodotti. In assenza di negozi storici – sbranati dal cemento come Carlino o scomparsi come il mitico maniscalco –, un tour a piedi può essere illuminante soprattutto per “pesare” la mancata saldatura della zona cuscinetto venutasi a creare a est di viale Mancini e poi, oltre, nella fascia tra via Popilia e il fiume.

    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    DOVE MANGIARE

    La pizzeria di Roberto Presta, figlio del compianto Franchino detto “’a chiacchiera” per il gusto di intrattenersi con i clienti, merita una tappa anche per la piccola rosticceria: fondata nel 1975, si trova al civico 160. Da provare anche il pesce del Pirata, pescheria-trattoria di mare (via Anna Morrone, zona sud) e gli arancini di Cusenza Piccante (n. 60/62)

    DOVE COMPRARE

    Ma se passate da via Popilia non potete non provare la pasta di mandorle di Gaudio! Un antro al civico 230 in cui il tempo si è fermato e dove è possibile trovare anche gli ultimi esemplari di “pastarelle” formato grande: addirittura il diplomatico e il mega-choux con tanto di “gileppo”. Tra l’altro vi servirà uno degli ultimi negozianti cosentini dotato di sorriso…

    (2. continua)

  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

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    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

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    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

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    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

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    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?

  • Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

    Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

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    Dalla terrazza di piazza San Rocco si gode un panorama meraviglioso, la Sicilia, lo Stretto, il castello dei Ruffo, la Marina Grande e Chianalea, le due zone di Scilla più affollate di vacanzieri. Ho scoperto che dall’anno scorso è in funzione un ascensore che dalla piazza porta giù sul lungomare, in pochi secondi. Al costo di un euro. Provvidenziale specie se dal lungomare si vuole andare su, perché con l’afa di questi giorni affrontare le gradinate non sarebbe piacevole. L’ascensore decolla in uno slargo, accanto alla chiesa dello Spirito Santo. Proprio il nome giusto per questa ascensione al centro storico, e a qualche momento di tranquillità, rispetto al trambusto di sotto.

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    L’inaugurazione dell’ascensore di Scilla con l’allora presidente f.f. della Regione, Nino Spirlì

    Intorno a piazza San Rocco le strade in salita sono tranquille, solitarie. Pochissimi locali, poco traffico, tranne sul  viale che porta giù, dove si incanala una fila ininterrotta di auto e moto. Che ci vai a fare a Scilla se non ti godi il traffico sulla statale 18 e sul lungomare? L’ascensore va bene per i pavidi come me. Quelli che una volta posteggiata la macchina non si azzardano a sfidare la sorte, incrociando in curva il gigantesco camion della raccolta rifiuti, con un autista mitico come gli antichi marinai di questo bellissimo borgo.

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    Il belvedere di piazza San Rocco a Scilla

    Dall’Odissea a Horcynus Orca

    Un luogo immerso nel mito, anzi nei miti, li riassume e li evoca quasi tutti. Anche ora che la navigazione non rappresenta più un’avventura come ai tempi di Ulisse e le navi gigantesche che passano in lontananza non temono certo i gorghi e le insidie di Scilla e Cariddi. Questo mare, cantato dai versi di Omero, in epoca più recente ha ispirato Horcynus Orca, il romanzo di Stefano D’Arrigo, del 1975.

    Un parco letterario lo ricorda, anche se ha sede in Sicilia. A Palmi un museo è dedicato a Leonida Repaci, i turbamenti del Previtocciolo di don Luca Asprea hanno avuto come sfondo Oppido Mamertina e altri luoghi di questo territorio così ricco di scrittori.

    Aumenta il volume e pure la temperatura

    La mattinata trascorsa in uno dei lidi di Marina Grande mi ha confermato che Scilla ormai ha consolidato il suo successo, si incrociano tutti i dialetti italiani e molte lingue straniere, sovrastate sempre più dalla musica che aumenta di intensità, con l’aumentare della temperatura.

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    In bicicletta a picco sul mare di Scilla (foto Gianfranco Donadio)

    Gli animatori dei lidi guidano la battaglia a colpi di decibel, riuniscono le truppe e le conducono allo scontro finale. I bambini più piccoli in questo marasma appaiono smarriti, percepiscono di non essere al centro dell’attenzione. Si sentono trascurati e piangono, i più fortunati riescono ad addormentarsi. Mi tornano alla memoria le vacanze degli anni Sessanta del secolo scorso, quando le marine erano silenziose, ma i neonati venivano portati in spiaggia all’alba e al tramonto, per proteggerli dal sole, e poi condotti a casa. Adesso pure le nonne stanno in bikini a tracannare birra, sotto la canicola.

    Pesce spada e nero di seppia

    Si pranza al lido, dato che nessuno torna a casa a cucinare, a proposito delle abitudini di un tempo. Vanno per la maggiore i panini al nero di seppia e gli arancini dello stesso colore, ripieni di parmigiana di melanzane e pesce spada. Hanno l’aspetto di palle di cannone, sono buoni, ma dove troveranno tutte queste seppie e pesci spada? Nei documentari in bianco e nero di Vittorio De Seta, girati da queste parti, le spadare spinte a forza di remi solcavano lo Stretto in cerca della preda. Ore di fatica per individuare un pesce spada, magari due se si riusciva a catturare prima la femmina, il maschio in questo caso si suicidava consegnandosi spontaneamente. Costumi cavallereschi di altre epoche. Ora le grandi navi per la pesca in mare aperto risucchiano tutte le creature marine. Neanche le sirene avrebbero scampo, se ci fossero. Non c’è nulla di romantico da raccontare.

    Il pranzo segna il momento parossistico nella vita del lido, lo scatenamento degli istinti e della volontà di sopraffazione. Le donne competono a colpi di bikini, gli uomini ostentano virilmente la pancia.
    Tutti insieme gli occupanti degli ombrelloni si sfidano a colpi di ordinazioni. Quattro ragazzi di Luzzi ordinano una bottiglia di spumante, poi un’altra, che gli vengono portate sotto l’ombrellone col secchiello regolamentare. Un trionfo, foto e video in tutte le pose. Come posso competere con la mia bottiglia di minerale naturale? Ci sarà una Coppa del nonno in edizione special, numerata?

    Scilla e il cardinale Ruffo

    Intanto gli animatori continuano ad incitare il loro pubblico, ad alzare ancora il volume della musica. Non reggo, me ne torno in albergo, pochi passi e sono in salvo.  Da queste parti nel 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo organizzò il suo esercito di contadini, per muovere contro i giacobini della Repubblica Partenopea. Scilla e Bagnara erano feudi della sua famiglia, i contadini accorsero a migliaia convinti di combattere in difesa della fede. In pochi mesi marciarono su Napoli e massacrarono i rivoluzionari meridionali.
    Nel dormiveglia pomeridiano mi appare il cardinale Ruffo, sulle mura del castello di famiglia. Guarda corrucciato le folle urlanti sulla spiaggia. Ma non li aveva eliminati tutti quei dissoluti nemici della fede? Fa puntare i cannoni con strani proiettili, sembrano i panini al nero di seppia. Ordina lo sterminio dei bagnanti. Alla prima cannonata mi sveglio, illeso.

    Turisti a mollo sulla spiaggia ai piedi del Castello Ruffo di Scilla

    Come cercare un altro modo di vivere le vacanze? Senza pensare necessariamente a rievocazioni storiche, forse questo patrimonio così ricco di miti e storie potrebbe essere valorizzato in qualche modo. Un percorso, una serata di lettura di testi, un museo virtuale. In un paese una libreria, a quanto pare, non può reggersi, ma tutti i libri ispirati da questi luoghi non meriterebbero visibilità? Non credo che esista un solo modello di sviluppo turistico, quello della riviera adriatica, di Rimini e dintorni. Ricordo Scilla affollata già tanti anni fa, le persone a passeggio tra le case dei pescatori.

    Un pescatore a Chianalea

    Scilla, un borgo per turisti

    La trasformazione dei borghi come Scilla, ma anche delle città d’arte, in una serie ininterrotta di locali e case per turisti sta mostrando i suoi limiti. Se si esagera vengono meno le ragioni per cui vale la pena andare in un certo luogo, perché finiscono per essere tutti uguali. A Chianalea ora si cammina a fatica tra un ristorante e un pub, tra un negozio di souvenir e un’agenzia, quante saranno le famiglie residenti ancora presenti? Intanto al centro storico non ci sono segni di attività, nonostante l’ascensore e la posizione panoramica. Forse questi fenomeni positivi di sviluppo andrebbero governati e indirizzati.

    Barche ormeggiate a Scilla

    Dopo due giorni a Marina Grande percorro la statale 18 verso Bagnara Calabra, costeggiando antichi mulini. I paesi distrutti dal terremoto del 1908 si riconoscono per la pianta urbana regolare della ricostruzione, strade parallele, edifici bassi e modesti. A Bagnara la spiaggia è molto lunga, ci sono i lidi e ampi tratti di spiaggia libera, la situazione mi pare tranquilla. I prezzi sembrano contenuti. Sul mare passa una spadara, come nel documentario di De Seta. Ci sistemiamo in un lido, con gesti furtivi da cospiratore scorro le proposte gastronomiche del giorno. Ritrovo i panini al nero di seppia, e tanti nomi esotici che evocano la Florida e i Caraibi. Non importa, meglio che Omero e Ulisse non diventino nomi di piadine e pizzette. Al momento l’animazione tace. Speriamo che non si accorgano della nostra presenza.

  • IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

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    Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
    Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
    Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.

    La riva sotto il sole

    Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
    Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
    Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.

    La Tropea di Escher

    Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
    Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
    Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.

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    Tropea raffigurata da Escher

    La metamorfosi del turismo

    Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
    Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
    Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.

     

    Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.

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    Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”

    Nella penna di Berto

    Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
    Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
    Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
    Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.

    Tropea, Capo Vaticano e la sibilla

    La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
    Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
    La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
    Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.

    Il faro di Capo Vaticano

    Una casbah ’nduja e cipolla

    Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
    L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
    Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
    Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.

    Cosa resta di Berto

    Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
    Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.

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    Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto

    Il ricordo della barista

    Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
    Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.

    Berto, un reazionario illuminato a Tropea

    Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
    Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

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    Berto con il suo cane Cocai

    Il riposo

    Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
    Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
    Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».

    Abusivi e kitsch: i vivi come i morti

    Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
    Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
    Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.

    La tomba di Berto

    Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
    Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
    Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.

    Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
    Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.

    Un disegno infantile

    La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi

    Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
    Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
    Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.

    «Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.

  • Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Dalla Campania con furore: i turisti mannari tornano nell’alto Tirreno

    Sono arrivati i turisti mannari: i consumatori di fritture di gamberi e calamari, gli occupatori di spiagge e qualsiasi cosa sia fruibile per trascorrere una giornata estiva. Conoscono tutte le aree picnic lungo i fiumi, tutte le spiagge libere, le scogliere profumate di iodio. E si alzano la mattina presto per portarvi sedie a sdraio, ombrelloni, perfino barbecue. Tutto è privatizzato secondo questa mentalità che tende a togliere spazi pubblici – o comunque non propri – agli altri. Da decenni va avanti questa occupazione. Da decenni una popolazione intera si riversa dai propri territori originari a quelli vicini. Salta a pie’ pari aree di confine della Campania, come la costiera amalfitana e quella di Agropoli.

    Il motivo? Lì i prezzi sono alti da sempre. Poi il mare non ha la profondità e la trasparenza che ha nelle coste calabre. E qui si sentono padroni di ogni cosa. Perché hanno comprato casa trent’anni fa, perché i loro genitori venivano qui fin dagli anni ’70, perché qui pagano le tasse dell’immondizia e dell’acqua. Se non ci fossero loro moriremmo di fame, ripetono quando discutono con qualche commerciante o residente, e tutte le amministrazioni abbozzano. Ma qualcosa si sta rompendo. Il sindaco di Scalea ha cominciato a mettere dei paletti con un’ordinanza.

    Scalea e la guerra agli ombrelloni

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    Polizia municipale all’Ajnella

    La storica spiaggia cittadina dell’Ajnella, con una scogliera unica e l’acqua sempre pulita, era diventata inaccessibile a molti residenti e turisti. Sempre occupata da ombrelloni che vi rimanevano per mesi interi. Nessuno li spostava per non incorrere in risse o aggressioni, come avvenuto negli anni scorsi. Chi si alzava prima la mattina aveva privatizzato la spiaggia piantando file di ombrelloni per gli amici, i parenti ed anche per chi pagava dieci euro al giorno per farsi piazzare il proprio ombrellone.

    Le proteste e le denunce del passato si erano rivelate inutili. Ignorate, in nome del turismo e della gente che porta danaro qui e «non fa morire di fame i negozianti». Quest’anno la svolta con l’ordinanza del sindaco Perrotta. Chi vuole bagnarsi all’Ajnella potrà farlo solo con un telo da mare. Niente ombrelloni o sedie. E, soprattutto, niente barbecue.

    L’Arcomagno sotto attacco

    Il grido d’allarme arriva da Italia Nostra che con un comunicato stampa stigmatizza il comportamento dei turisti-mannari. In questo caso quelli che, come accadeva all’Ajnella, si piazzano armi e bagagli nella piccola spiaggetta suggestiva ed unica di San Nicola Arcella.

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    Turisti “mannari” sulla spiaggia dell’Arcomagno

    L’associazione chiede con una lettera al sindaco Eugenio Madeo, a che punto sia «l’affidamento del servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerente le visite controllate all’Arcomagno» per tutelarlo da comportamenti inadeguati. Italia Nostra auspica la scomparsa di «bivacchi, attendamenti notturni e diurni, ombrelloni», da sostituire con «visite guidate per piccoli gruppi, controlli, nel rispetto della fragilità ambientale del luogo».

    Madeo e la sua Giunta hanno già deliberato il 24 maggio scorso di affidare il «servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerenti le visite controllate all’Arcomagno e vigilanza serale e notturna». L’amministrazione ha approvato la proposta di una ditta di Belvedere e ora sono trascorsi i termini per l’acquisizione di una eventuale altra proposta migliorativa. A questo punto, chiede Italia Nostra, occorre di sbrigarsi, così da garantire «il modo migliore per valorizzare il patrimonio ambientale del nostro territorio, il modo migliore e moderno per fare turismo». Nonostante la lettera degli ambientalisti, l’occupazione dei turisti mannari continua indisturbata anche qui con pedalò e barbecue.

    Non c’è pace neanche per i fiumi

    La foce del Lao era diventata un’area picnic: c’era, addirittura, chi metteva i tavoli nell’acqua all’ora di pranzo e poi buttava i rifiuti nel fiume che li portava via. E così via, lungo l’Abatemarco e l’Argentino. Anche le aree picnic sono ad uso e consumo di chi si alza prima. Auto a pochi metri dal fiume, comportamenti da spiaggia, musica ad alto volume, giochi con pallone, divertimenti vari, compreso il lancio di pietre nel fiume.

    Calabria vs Campania

    Nei cartelloni estivi lungo l’Alto Tirreno cosentino non c’è traccia di cantanti, comici o attori calabresi. Qui primeggiano i napoletani, da Nino D’Angelo a Biagio Izzo o Gigi Finizio. In alternativa si può scegliere un Riccardo Cocciante alla modica cifra di 82 euro. In tutta la costa primeggia la neomelodica napoletana. La si sente ad alto volume nei lidi balneari o la sera negli improvvisati karaoke di fronte alle pizzerie prese d’assalto dal primo pomeriggio.

    Bisogna andare verso la Calabria del sud, a Palizzi e Bova per sentire la tarantella calabrese durante il festival Palearizza, che in calabro-greco significa “antica radice”. È un festival itinerante della musica e delle tradizioni popolari della Calabria greca, completamente gratuito. Si svolge di solito tra la fine di luglio ed il mese di agosto, nei borghi dell’Area Grecanica. Un’area che ancora è calabrese e dove si balla la tarantella tenendo i piedi per terra e le mani a coltello che circondano la donna.

    Una tarantella in costume grecanico

    È vietato il saltarello tipico della tarantella napoletana o pugliese. Lo testimonia un episodio a cui ho assistito a Riace Marina: durante un concerto dei Kumelca, il cantante scese dal palco per dire a due giovani ballerini di origine campana di smettere di fare il saltarello e seguire una coppia calabrese che ballava secondo tradizione. «Imparate la nostra tarantella, quando tornate a casa fate il saltarello», disse loro, fra gli applausi di tutti i presenti.

    Andando un po’ più a nord sulla linea jonica si distingue Roccella Jonica. Qui ogni anno un festival jazz attira turisti di qualità da ogni parte d’Italia. Si respira aria diversa, tranquilla, non invadente. Qualche anno fa l’intero festival fu dedicato a Frank Zappa: questo fa capire che tipo di turista si vuole e che tipo di cultura si pratica.

    Il Tirreno cosentino derubato della propria identità

    Una volta, pochissimi anni fa, non era così. Il Tirreno cosentino era solcato da pescatori, non da lussuosi yacht ormeggiati nei porti di Cetraro o Maratea. Erano tantissime le marinerie di Cetraro, Amantea, Diamante, Scalea, Cittadella del Capo. Ed erano loro, i pescatori, i padroni del mare. Quasi 70-80 in ogni paese. Uscivano in mare la notte e tornavano la mattina con carichi di pesce che vendevano direttamente ai turisti e ai residenti in attesa sulla spiaggia.

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    Una bella immagine della spiaggia dell’Arcomagno

    La strada del Tirreno cosentino era ancora quella costruita da Mussolini nel 1927 e solo nel 1970 fu costruita la variante SS 18. Ora è diventata intasatissima, teatro quotidiano di incidenti stradali con morti e feriti. Si viaggiava per forza di cose lentamente e gli incidenti erano rari. La mattina, il risveglio nei paesi della cosiddetta Riviera dei cedri profumava davvero di cedro. Oppure dello iodio profuso dalle scogliere ricche di ricci di mare e “capelli di mare” ormai scomparsi. Ora si sente il profumo dell’olio delle barche a motore, degli scarichi fognari clandestini, dei depuratori malfunzionanti.

    L’arrivo dei turisti mannari

    Gli unici turisti presenti erano quelli della “Cassa di Risparmio” di Cosenza, che mandava nella costa tirrenica i propri dipendenti in caseggiati appositamente costruiti per loro. Ai cosentini che avevano costruito ville a Diamante, Sangineto, Cittadella, si affiancarono turisti romani e così fu fino agli inizi degli anni 80. Poi arrivarono loro, i turisti mannari. Certo, non tutti sono turisti mannari. Esistono persone che hanno acquistato casa e si sentono calabresi, ma la maggioranza non rispetta il residente. Emblematica fu l’uccisione di un giovane cosentino, accoltellato a Diamante da un napoletano per futili motivi.

    Mafia e politica, Dc in primis, si allearono e cominciò la grande distruzione. Si cominciò a costruire ovunque. Senza legge. Senza ritegno. Derubarono le spiagge della sabbia per farne cemento. Colonizzarono i fiumi per realizzare impianti per il prelievo della sabbia. Le ruspe cominciarono ad abbattere ogni cosa per far posto a enormi villaggi turistici. Ed ecco che a migliaia acquistarono mini appartamenti di 30-40 mq. Tutti ammassati come formiche in condomini dai nomi bellissimi e ingannevoli. Niente venne risparmiato. E ora correre ai ripari invocando un turismo di qualità o un turismo sostenibile è pura fantasia. Questo è il Tirreno cosentino e questo sarà per i prossimi anni. Facciamocene una ragione.

  • In fondo al mar: le meraviglie della Calabria sommersa

    In fondo al mar: le meraviglie della Calabria sommersa

    «Il Mediterraneo è morto», diceva Cousteau in una delle sue ultime interviste. Era una provocazione, ma certo il nostro mare già allora non stava bene e oggi sta peggio.
    Lo sguardo che daremo andrà oltre la schiumetta che troppo spesso galleggia sulla superficie. Si porterà nelle profondità dei fondali della Calabria, dove si celano forme di biodiversità di straordinaria bellezza, la cui tutela potrebbe funzionare anche da attrattore turistico. Coniugare la protezione dell’ambiente con la turisticizzazione degli spazi non è facile. Ma il turismo subacqueo è particolare: non è di massa, è specializzato e per questo pregiato sul piano propriamente commerciale.
    Le aree protette in Calabria sono il Parco di Isola Capo Rizzuto e cinque altre zone tra Tirreno e Ionio. A gestirle sono Raffaele Ganeri e Ilario Treccosti.

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    Gorgonie sul fondale di Scilla (foto Cristina Condemi)

    Qui va tutto benissimo. O quasi

    Ganeri è a capo del Parco di Isola Capo Rizzuto, tornato alla gestione della Provincia di Crotone dopo circa tre anni di affidamento alla Regione. «La legge Delrio aveva sottratto alle province la gestione delle partecipate e per tre anni tutto è rimasto abbandonato», spiega Ganeri. Poi insiste sulla necessità di ripartire quasi da zero con i progetti e le infrastrutture. «Siamo in piena fase di ripresa dei lavori, con ricognizioni sull’area e rilancio delle attività subacquee per il turismo e con il coinvolgimento dei pescatori del luogo». Più ampia e dislocata su punti tra loro lontani è invece l’area protetta cui deve vigilare Ilario Treccosti.

    Le riserve sono cinque, dal nord del Tirreno incontriamo la Riviera dei Cedri, dall’Isola di Dino fino alla Scoglio della Regina, passando da Cirella; poi gli scogli d’Isca, tra Belmonte ed Amantea; la zona tra Ricadi e Pizzo; la Riviera dei Gelsomini e sullo ionio la baia di Soverato. «Le condizioni delle aree tutelate sono eccellenti», giura Treccosti. Che annuncia anche opere di protezione attorno alle zone di maggior pregio per impedire la pesca a strascico su quei fondali, ma anche il posizionamento di cartelli indicatori sulle strade in corrispondenza della presenza di aree marine protette.

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    Un branco di barracuda (foto Cristina Condemi)

    Il biologo: i controlli, questi sconosciuti

    «Quello che manca sono i controlli», dice senza esitazioni Domenico Asprea, biologo marino che ha lavorato all’Asinara e in Liguria. Indicare un’area come protetta e poi non proteggerla è un bel guaio. Le cause sono essenzialmente legate alla logistica e alle risorse. Molte zone sono lontane dai porti dove fa base la Capitaneria e poche sono le imbarcazioni su cui il corpo può contare. Ed ecco che «frequentemente sono stati segnalati fenomeni di pesca abusiva nell’area di Capo Rizzuto». Ma c’è anche un altro problema ed è legato al monitoraggio. «Non è corretto che le risorse della Regione Calabria per la tutela ambientale vadano a società di altre regioni, qui ci sono competenze e professionalità di alto livello», spiega il ricercatore, aggiungendo che a governare certe decisioni sono «scelte chiaramente politiche».

    La febbre del mare

    «Il Mediterraneo ha la febbre», dice Eleonora De Sabata, giornalista e appassionata di immersioni. Per questo ha deciso di andarne a misurare la temperatura, proprio come farebbe un medico con un paziente. Eleonora è protagonista dell’Associazione MedFever, che sostiene assieme ai centri subacquei la ricerca. Si immerge, e posiziona a quote prestabilite dei rilevatori di temperatura, andando poi periodicamente e registrarne i dati. Il progetto è appoggiato dall’Enea e vede la collaborazione dei Diving. «In Calabria abbiamo posizionato diverse stazioni di rilevamento sui fondali di Scilla. Questo lavoro colma un vuoto. I satelliti rilevano la temperatura del mare con precisione, ma i dati sono quelli della superficie. Così invece avremo i dati a varie quote».

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    Un cavalluccio marino (foto di Ernesto Sestito)

    I termometri sono stati posizionati a 5, 15 e 30 metri. Ma considerata la caratteristica dei fondali di Scilla e la loro unicità, alcuni termometri sono stati posti fino a 70 metri. «È ancora troppo presto per trarre conclusioni, ma abbiamo cominciato a raccogliere i dati, importanti soprattutto in aree come Scilla dove il respiro del mare, l’incontro tra le correnti fredde dello Ionio e quelle più calde del Tirreno, fanno segnare sbalzi significativi».

    Le sentinelle dei mari

    Il lavoro di Eleonora De Sabata si poggia molto sulla collaborazione dei professionisti delle immersioni. Loro sono una sorta di sentinelle delle condizioni mutate del mare. «Scilla ha una delle foreste di Gorgonie più belle del Mediterraneo, con un ecosistema meraviglioso, ma molto fragile», racconta Paolo Barone.
    Romano, ma calabrese da sempre, è lo storico leader dello Scilla diving center. Barone viene da mille immersioni e spedizioni esplorative. E aggiunge che quell’habitat negli ultimi cinque anni è stato messo a dura prova dal mutamento climatico. Per questo quei luoghi magici sono costantemente monitorati, affinché chi verrà dopo ne possa godere. Incredibilmente però, malgrado le straordinarie bellezze nascoste nei suoi fondali, Scilla non è tra le aree protette e questa “distrazione istituzionale” non aiuta.

    Lo spirografo, un’altra meraviglia degli abissi marini (foto Cristina Condemi)

    Giorgio Chiappetta è un altro storico istruttore subacqueo e il suo diving è difronte l’Isola di Dino. Chiappetta si dice soddisfatto del grado di conservazione dell’habitat dei fondali dell’isola, dalle gorgonie sul frontone che guarda al largo a tutti gli altri siti. Annuncia l’inizio di un progetto di riforestazione della Posidonia, una pianta marina fondamentale per la vita dei fondali. «Si tratta di un progetto portato avanti assieme all’amministrazione comunale e consiste nel piazzare in aree ben individuate dei contenitori bio solubili che rilasciano i semi della posidonia favorendo la sua ricrescita»

    Sempre meno cavallucci

    Oreste Montebello è un fotografo con un passato di guida e imprenditore del turismo subacqueo. Nel corso del tempo ha visto il graduale declino della presenza del Cavalluccio marino nella Baia di Soverato. «Per 15 anni ho portato turisti in immersione nella baia, per mostrare loro i Cavallucci. Se ne potevano incontrare decine nel corso di ogni immersione, oggi sono significativamente diminuiti», racconta Montebello.
    Quali sono a suo parere le cause della diminuzione dell’Ippocampo? «L’introduzione sistematica di ingegneria marina, con bracci e porti, ha modificato l’arrivo di nutrienti della Cymodocea nodosa, che costituisce l’habitat del Cavalluccio», spiega il fotografo che può essere considerato una specie di testimone del mutamento dei fondali di Soverato. Del resto dei cinque centri di immersione che si affacciavano sulla baia, ne è rimasto operativo uno solo, segno di come siano andate le cose.

    Una murena attaccata allo scoglio (foto Cristina Condemi)

    Il corallo ad Amantea

    L’altro testimone del mare calabrese è Piero Greco, probabilmente il più vecchio tra gli istruttori subacquei della regione. Quando lo sentiamo è appena uscito da una immersione a 56 metri nei fondali di Amantea. Subito racconta «che laggiù è ancora presente il corallo, ma assottigliato, meno rigoglioso». Greco non pensa si tratti di inquinamento, ma dei primi segni di riscaldamento del mare, «mentre in buone condizioni rimane la prateria di posidonia nel mare di Diamante». I segni negativi però ci sono tutti, «basti pensare che a Briatico è presente una colonia di pesci pappagallo, segnalati qualche tempo fa nel mare della Sicilia. Forse questo vuol dire che il Mediterraneo si sta tropicalizzando». E non è una buona notizia.