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  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

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    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

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    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

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    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

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    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

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    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

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    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

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    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

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    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.

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    La Tropea da cartolina

    Una mare di Museo a Tropea

    Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
    Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
    Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).

    Undici milioni di anni fa

    Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.

    Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea

    Una balena a Cessaniti

    È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.

    La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.

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    Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea

    Le giraffe di Calafrica

    Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.

    Il riccio di mare dedicato al direttore del museo

    Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.

    Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo

    Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.

    Lo squalo di 20 metri 

    Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
    La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
    Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

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    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

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    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

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    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

    Cortici
    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

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    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.

     

  • Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Da una quarantina d’anni si è diffuso in Calabria il costume di dipingere con monumentali affreschi le mura, gli esterni dei palazzi, i portoni dei paesi con l’auspicio di dare loro nuova linfa vitale. Non è un’operazione semplice, ma pare che l’idea, oramai ben radicata, stia dando i suoi frutti. Uno degli ultimi esempi è quello di Vena di Maida, frazione arbëreshe del comune di Maida fondata, affidandosi ad alcune fonti, nella seconda metà del Quattrocento, nell’ambito della diaspora albanese dai Balcani successiva alla conquista turca di Costantinopoli e alla morte dell’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, capo della rivolta contro gli Ottomani.

    Da qualche mese, Vena di Maida ospita un percorso artistico a cielo aperto che rimembra e magnifica le sue antiche tradizioni albanofone.
    Il murale – da non confondere col deturpante graffitismo – è un’opera d’arte pubblica offerta alla collettività. Ma è anche una forma di comunicazione che, ridando tono a strutture e angoli disabitati, interloquisce più direttamente con le classi rurali, coi ceti meno avvezzi agli incontri con l’arte, e che sovente si fonda su una chiara connotazione sociale e ideologica.

    In principio fu Diamante

    La vicenda dei murali – o murales – in Calabria cominciò già nel 1981 quando a Diamante, comune dell’Alto Tirreno Cosentino, partì la cosiddetta Operazione Murales su spinta del pittore Nani Razetti e col placet del sindaco di allora Evasio Pascale. Fu una scommessa vincente: oggi, con oltre trecento affreschi a illuminare i suoi vicoli, Diamante è una tra le cittadine più dipinte d’Italia e tra le località turistiche di maggiore notorietà della Calabria e dell’intero Meridione.
    Nel corso di questi ultimi quarant’anni, l’impresa adamantina ha registrato svariate repliche quasi sempre sul solco di quella onesta ottica di valorizzazione, salvaguardia e riqualificazione dei luoghi.

    Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)

    Discorsi ben conosciuti e una terminologia che è stata adottata anche dalla politica e di cui, purtroppo, talvolta ci si riempie la bocca – e così diamo senso al precedente “quasi sempre” –, ma che eticamente, e forse pure fiabescamente, convergono verso quel desiderio comune di riabitabilità dei luoghi, di far sì che essi siano riguardati, nel duplice senso suggerito da Franco Cassano ne Il pensiero meridiano: di avere riguardo, cura dei posti e di tornare a guardarli veramente come luoghi vivi e non come presepi da percorrere un festivo all’anno; luoghi palpitanti che ancora potrebbero dare all’umanità che ospitano.

    Murales: arte e memoria alla portata di tutti

    Sia chiaro: consci che queste iniziative non debbano essere vissute col furore della apologia del “piccolo mondo antico” e che i nostri non sono né la sede né il tempo per confezionare un giudizio su un’operazione ancora nuova, possiamo sostenere senza tema di smentita che, anche tramite i moderni mezzi di comunicazione sociale, per il suo forte impatto e la sua carica popolare l’arte del murale permette a una platea sempre più vasta di conoscere luoghi mai sentiti prima e che fino a non troppi decenni fa soltanto una ridotta cerchia di eletti – studiosi, viaggiatori, persone fornite di una cultura specifica – poteva essere in condizione di conoscerli.

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    Altre due porte coinvolte nel progetto a Vena di Maida

    In una visione di ampliamento, di omogeneità della conoscenza, perciò, questo è di certo uno strumento valido – non l’unico, non il principale, non il solo possibile da mettere in atto, seppur tra i più semplici e immediati – per non lasciare scivolare negli inghiottitoi della storia paesi spopolati e ruderi che un tempo hanno conosciuto “altra vita e altro calore”, per dirla con Cesare Pavese, e per impedire che essi possano entrare – e con ottime probabilità restare, sino alla perdita della memoria storica – nel lungo elenco dei paesi fantasma, termine tanto alla moda che piace ai fotografi della domenica che in quei luoghi abbandonati da Dio e dagli uomini non ci vivrebbero neppure per ventiquattro ore.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    In buona sostanza, la sana e non propagandistica operazione di riqualificazione dei luoghi non può che avere un doppio obiettivo, uno a medio e uno a breve termine: quello di attrarre nuovi possibili abitatori e quello di fare restare i prodi, ultimi abitatori indigeni, ché «restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali», come afferma l’antropologo Vito Teti nel suo Nostalgia (Marietti, Bologna 2020).

    Vena di Maida da Dumas padre ai murales

    E pure questa volta abbiamo divagato. Ritorniamo perciò a Vena di Maida, centro che oggi conta circa ottocento abitanti e che, sotto i Borbone, tra il 1831 e il 1839 fu comune a sé, breve parentesi entro la quale però a visitarla fu, nel suo fortuito passaggio a dorso di mulo in Calabria dell’autunno del 1835, da Alexandre Dumas padre che strabiliò dinanzi alla bellezza del costume tradizionale delle donne venote. Quella sosta oggi è ricordata con una targa affissa sull’antico caseggiato dirimpetto alla Chiesa arcipretale di Sant’Andrea Apostolo.

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    Una delle Porte d’artista a Vena di Maida

    Nell’estate del 2022 la piccola comunità arbëreshe – una delle trentatré tuttora presenti in Calabria –, grazie al patrocinio del Comune di Maida e alla direzione artistica di Massimo Sirelli – artista poliedrico, diplomato in Digital e Virtual Design all’Istituto Europeo di Design di Torino, autore di recente di una serie di murali a tema magnogreco tra Bivongi, Cinquefrondi, Locri e Monasterace per celebrare il cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace –, è stata coinvolta in un progetto che ha visto undici artisti dipingere le porte del paese con linea guida la sua identità albanese.

    Le porte d’artista a Vena di Maida

    Porte d’artista è il nome del progetto che, sempre la scorsa estate, ha interessato altri due paesi del Catanzarese, Sersale e Uria (frazione di Sellia Marina), e che in questi giorni sta aggiungendo un’altra tappa: Marcellinara. Tra gli artisti, tutti calabresi, coinvolti nel progetto, oltre Massimo Sirelli: Antonio Burgello, Marco “Moz” Barberio, Claudio “Morne” Chiaravalloti, Vincenzo “Zeus” Costantino, Martina Forte, Andrea “Smoky” Giordano, Immacolata Manno, Alessia Moretti, Roberto Petruzza e Maria Soria.

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    Un’altra porta dipinta nella frazione albanofona di Maida

    Tra i murali freschi di tinteggiatura per le stradine di Vina (questo il toponimo arbëreshë di Vena di Maida) si riconoscono la veste tradizionale che piacque a Dumas, l’aquila nera a due teste della bandiera albanese, figlia diretta del sigillo di Scanderbeg, ma anche immagini contemporanee come quella che ricorda il glottologo di Cirò Marina Giuseppe Gangale.

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    Il ritratto di Giuseppe Gambale

    Dopo Verbicaro, Rogliano, Favelloni Piemonte, Plataci – comune del Pollino i cui affreschi sono improntati pure sulla sua cultura arbëreshë –, San Pietro Magisano, Sant’Agata del Biancodi recente dipinta con un magnifico ciclo murale dedicato a un suo figlio illustre, lo scrittore Saverio Strati –, un altro paesino calabrese gioca la carta dell’arte di strada per scongiurare il rischio che secoli di incontri, commistioni etniche e linguistiche e tradizioni uniche possano essere spazzati via e che il degrado originato dall’abbandonato fisico dei luoghi possa cancellarne la memoria.

  • Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Rispetto è la parola chiave, la stella polare degli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione che partiranno dalle prossime settimane alla Abbazia di Santa Maria di Corazzo, sita nella frazione Castagna di Carlopoli, comune di circa 1.500 anime della Presila catanzarese.
    I lavori avranno un approccio corretto, equilibrato e delicato, nel rispetto dell’immenso valore storico, culturale, religioso, paesaggistico e ambientale di quello che è senza dubbio uno dei monumenti più significativi e suggestivi dell’intera Calabria, terra di mare, certo, ma anche di monti, di storia, di tradizioni, di diversità linguistiche e culturali, di beni mobili e immobili di eccezionale pregio. Un patrimonio di cui essere consapevoli e da riguardare, fedeli alla duplice accezione suggerita dal sociologo e saggista Franco Cassano, vale a dire di avere riguardo, premura dei luoghi e di tornare a guardarli e a viverli davvero.

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo: dalle origini all’abbandono

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo – per secoli parte dell’Università di Scigliano – prende il nome dal vicino fiume Corace e la sua fondazione risale all’XI-XII secolo. Una più precisa collocazione temporale e susseguente paternità risultano ancora difficili da definire. È confermata la presenza dei monaci cistercensi e dell’abate Gioacchino da Fiore nell’arco di tempo che va dal 1157 al 1188 circa. Non trova, invece, al momento attestazione l’ipotesi caldeggiata da molti di una precedente edificazione dei monaci benedettini.
    La fine dell’Abbazia coincide con i drammatici terremoti del 1638 e 1783 che sconvolsero la popolazione calabrese e cambiarono per sempre l’aspetto paesaggistico della regione. Dopo un secolo e mezzo di trascuratezza e silenzio, dal 1934 il sito è tutelato dallo Stato italiano (legge di Tutela n. 364 del 1909).abbazia-di-santa-maria-corazzo-cartello

    Rispettoso, conservativo e delineato a seguito di un’attenta analisi conoscitiva, il progetto di restauro e consolidamento punta a valorizzare il bene tenendo fissa in mente la sua funzione originaria. Quindi non condannandolo, tracciando la strada, a una futura trasformazione in una luccicante attrazione turistica e macchina per fare soldi nell’interesse di pochi e a scapito di tutti gli altri.

    Malazioni simili vedrebbero l’imponente Abbazia vittima di un altro “terremoto”, non di minore entità – anzi, assai più grave considerato che sarebbe generato da chi è soltanto ospite della Terra e non da chi la governa – rispetto alle calamità naturali che ne determinarono prima la distruzione, poi l’abbandono – seppur documenti ne attestino residenti sino ai primi anni dell’Ottocento – e infine la progressiva espoliazione dei materiali e delle opere che vi erano conservate. Tra questi da citare quello che dovrebbe essere il portale della navata principale, collocato nella chiesa di San Bernardo della vicina Decollatura.

    Ritorno all’antico pensando al futuro

    L’intento è dunque di agire soltanto sulle problematiche in atto – sulle lesioni dannose e la vegetazione deleteria per l’integrità degli elementi delle murature –, lungi dall’alterare l’aspetto dell’antico monumento.
    Nello specifico, l’intervento consterà nella installazione di stampelle di acciaio per sorreggere le creste murarie, di griglie metalliche poste a copertura degli ambienti ipogei, di parapetti e luci gentili, non impattanti, che accompagneranno, giorno e notte, i visitatori. Una serie di operazioni per rendere sicuro e accessibile il rudere medievale, anche per le persone diversamente abili.ruderi-abbazia-santa-maria-corazzo

    Dettaglio importante e che manifesta una lieta sensibilità e lungimiranza: gli interventi di consolidamento e restauro di questa gemma preziosissima del patrimonio artistico e culturale della Calabria, eredità per l’intera regione, saranno potenzialmente reversibili. I componenti impiantati, un domani, potranno essere estratti, non intralceranno l’operato di più avanzate attività che potrebbero avere luogo nei decenni e secoli futuri. Rispetto sia per il bene sia per le generazioni postere, per l’appunto.

    Il progetto per l’Abbazia di Santa Maria di Corazzo

    Il progetto ha ottenuto il via libera – diversamente da un altro, assai più aggressivo e snaturante, che prevedeva l’installazione di pareti in cristallo e di un tetto in legno lamellare, presentato nel 2020 (allora si parlò di «intervento di tipo conservativo ma allo stesso tempo innovativo») – dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle province di Catanzaro e Crotone.

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    Rendering del progetto di restauro respinto

    A realizzarlo, il Comune di Carlopoli e i professionisti della Giannantoni Ingegneria srl: gli ingegneri Andrea Giannatoni e Isabella Santeramo, l’architetto Luisa Pandolfi. L’elaborazione ha beneficiato del supporto e della consulenza scientifica dell’archeologo e docente Francesco Cuteri, del soprintendente Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone Stefania Argenti, del docente e architetto Riccardo dalla Negra, del docente e architetto Giuseppina Pugliano e del geologo Marcello Chiodo.

    La presentazione del progetto

    A presentare gli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione della Abbazia di Santa Maria di Corazzo sono stati invece Wanda Ferro, sottosegretario al Ministero degli Interni, Mario Amedeo Mormile, presidente della Provincia di Catanzaro, Emanuela Talarico, sindaco di Carlopoli, Antonio Chieffallo, presidente dell’associazione Muricello, all’interno del Municipio di Carlopoli lo scorso 19 marzo nell’ambito degli eventi di chiusura del Premio Muricello.

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  • STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:

    • la Marlane,
    • l’isola di Dino,
    • il Cristo di Maratea,
    • il disastro edilizio intensivo di Scalea,
    • il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.

    Il conte, il monte e il Cristo

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    La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro

    Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
    L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…

    Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.

    Un fallimento dopo l’altro, il pioniere piemontese lasciò in terra calabra ricordini non esemplari e scelse di farsi seppellire in una grotta praticamente inavvicinabile, in un anfratto dello sperone sotto al Cristo, mentre l’ENI acquistava il poco che era rimasto, con buona pace delle velleità del conte discendente in verità da agricoltori-fabbri-addetti ai telai. I ricordini di cui sopra sono i lanifici Rivetti poi passati sotto il nome di Marlane, a Tortora e Praia a Mare, ovvero quella fabbrica di veleni che ha regalato nel golfo di Policastro patologie incurabili, mortali, a decine di operai.

    Vestivamo alla marinara

    E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.

    Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.

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    Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino

    Nel frattempo? Parecchia immondizia. Reale e… reality. Fatevi un giro su Google Maps, ad ammirare legittimamente gli edifici sventrati, i rottami e gli orrori dell’incuria (persino automobili abbandonate…). Era un paradiso, poteva continuare ad esserlo. E invece no.

    La sfida degli ecomostri

    E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.

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    Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella

    Oceano mare (Tirreno)

    Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
    E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
    E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.

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    Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford

    Esoterismo e presepi viventi

    Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.

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    Torre Talao, primi del Novecento

    Erre come Livorno

    Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.

    Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…

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  • STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

    STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

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    Nel 2020 scoppiava – oltre alla pandemia – la non meno diffusa indignazione dei calabresi per l’agghiacciante domanda posta da Raoul Bova nel corto-marchetta di Muccino per la Regione Calabria: «Dove vuoi che ti porto?». Giusto! Quell’errore grammaticale era assolutamente poco realistico. E io aggiungevo: sarebbe stato tristemente più veritiero un «dove vuoi portata?».
    Sia come sia, ne venne fuori un’insopportabile polemichetta sulla rappresentazione da cartolina, sui filtri ferocissimi, le coppole e i gilet, gli agrumi estivi e i fichi in spiaggia: segno che in tanti avrebbero preferito non tanto uno spot turistico ma un servizio in stile Report (tanto i turisti stanno comunque alla larga). Contenti loro, ma bisognava capire che una cosa è la promozione turistica, altra la denuncia.

    Tropea o tromba d’aria?

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    La Tropea da cartolina

    Tutta questa premessa per dire che l’Oscar per la cartolina trita e ritrita spetta e spetterà sempre a Tropea (al secondo posto: l’Arcomagno, ma ne parliamo un’altra volta). Tropea, trupìa, tempesta, temporale. Anche le tropee, così come le trombe marine, vengono “tagliate” dagli anziani del posto.

    Nella Calabria tirrenica «quando si approssima una tropea, venti improvvisi che in estate-autunno si scagliano a vortice dal mare sulla costa, il più anziano dei contadini la “taglia”, recidendo in tre parti un tralcio di vite. Si rivolge verso la tropea che avanza e in atto solenne, mentre taglia, pronuncia alcune parole rituali» (lo scriveva pure Orazio Campagna, in un eccezionale libro pubblicato nel 1982 e oggi abbastanza introvabile: La regione mercuriense nella storia delle comunità costiere da Bonifati a Palinuro). Ma in questo caso non si tratta di una vera e propria tromba marina. E allora torniamo a Tropea con la T maiuscola e ai suoi dintorni.

    La magia delle donne

    Poco più a Sud, nel circondario di Palmi, la tromba marina è detta cuda d’arrattu: in questo caso «le donne del luogo, guidate da una che ha poteri magici, corrono sulla spiaggia impugnando nella destra un coltello a punta, col manico d’osso bianco, e con esso sciabulìano ’u celu con larghi, decisi fendenti. Colei che le guida punta il coltello contro la tromba e le urla “Luni esti santu / marti esti santu / mercuri esti santu / juovi esti santu / vènnari esti santu / sabatu esti santu / dumìnica è di Pasca / cuda ’e rattu casca“; e ogni volta che dice “esti santutraccia nel cielo, sempre in direzione della tromba, una croce, subito imitata dalle altre donne; poi, quando arriva a “dumìnica è di Pasca / cuda d’arrattu casca“, vibra un fendente da destra a sinistra e un altro dall’alto in basso, squarciando così il mostro».

    Non solo cristianesimo

    E che c’è di strano? Nulla: se nelle invocazioni contro le trombe d’aria i marinai timorati di Dio (e ancor più di Satana) fanno uso, allo stesso tempo, di formule cristiane e di formule salomoniche, dobbiamo ricordare – sto scherzando ma non troppo – che a due passi da qui nacque e morì Antonio Jerocades, l’abate eretico e massonissimo. Anzi, uno dei primissimi “grembiuli” della Penisola.

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    L’abate Antonio Jerocades

    Insomma, lo scriveva – ahinoi – anche il verboso De Martino: ««Il momento magico si articola in raccordi e forme intermedie che concernono il cattolicesimo popolare e le sue accentuazioni magiche meridionali, sino al centro dello stesso culto cattolico». Frasetta adatta all’uditorio marxista del tempo, manca solo “nella misura in cui”. Ma la sostanza c’è. De Martino voleva dire, per farla un pochino pochino più semplice, che il teismo o è contemplato in forme integrali, che comprendano ogni sottospecie di pratica cultuale che vi si possa connettere, o perde coerenza e crolla. Ma, per carità, torniamo a Tropea.

    Tropea oltre Muccino

    No, scordatevi che io scriva delle bellezze naturali e storiche del luogo oppure della cipolla rossa venduta a peso d’oro (il pomo della concordia… La pietra filosofale? Oppure l’occultus lapis che si rinviene, appunto nelle interiora terrae?). Butterò soltanto un’informazione poco nota: al diavolo i pernottamenti di Garibaldi in almeno 366 luoghi diversi all’anno (almeno 367 negli anni bisestili ma, si sa, lui era più trino che uno), a me pare molto più interessante scoprire che nell’agosto del 1965 a Tropea ha dormito Georges Perec.

    Lo annotò nei suoi diari, come in un Tripadvisor privatissimo: «La spiaggia è assai lontana, molto bella, in basso; la camera è grande, persiane chiuse a causa del caldo». Ne tracciò persino una mini-planimetria (il foglietto, per la precisione, sta a Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Fonds privé Georges Perec, Lieux où j’ai dormi, 48.6.2, 14r). Questo per dire che si può rispondere a Muccino, eccome. Ma con argomenti di qualche auspicabile spessore. E certo, mi direte voi (?): Perec nel ’65 non era ancora nessuno, stava appena esordendo con Les Choses. Dici niente!, vi rispondo io.

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    Appunto dai diari di Georges Perec

    Massoni e sedie impagliate

    Ma abbandoniamo sia le cartoline sia i dagherrotipi: lasciamo stare Tropea, gli agosti calabri, e dirigiamoci verso l’interno, per tornare a Nord. A occhio e croce, la strada più difficile è quella che da quaggiù passa per Soveria Mannelli, e allora facciamola. Aggiriamo Girifalco, anche perché di massoneria ho già parlato troppo e non sarei il primo a ricordare che proprio in questo paese sorse la primissima loggia d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra: ah, la precocità!).

    Passiamo invece per Migliuso, amenissima frazione rurale della più lontana Serrastretta. A dividerle, una strada non proprio intuitiva. Ulivi, ulivi, ulivi, panorami meravigliosi e una trattoria dove – e poi se la prendono con Muccino! – dei bambini tornati da scuola suonano la fisarmonica; dove ordino un secondo senza contorno e la signora mi porta anche le patatine: «tanto… le dovevo fare per i bambini, le faccio pure per Voi». E dire che Serrastretta passerà alla storia più che altro per essere il paese degli impagliatori di sedie e, ancor di più, per aver dato i natali ai genitori di Iolanda Gigliotti in arte… vabbé, che ve lo dico a fare?

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    Sedie serratrettesi doc

    Incappucciati

    Ma non c’è tempo per riposare le terga sui manufatti locali… pieghiamo per Gimigliano e non c’è niente da fare, impossibile restare lontani da un po’ di sano anticlericalismo calabro e di esoterismo locale: qui nacque Tiberio Sesto Russilliano (o, meglio, Rosselli) il quale, senza farla lunga, nel 1519 pubblicò l’Apologia contro i chierici, ovvero l’Apologeticus adversus cucullatos (si, lo so, “cucullatos” sta per “incappucciati” ma non bisogna fraintendere, qui si riferisce proprio alla pretonzoleria). E qui nacque pure il cucullatissimo francescano (abbastanza eretichello) Annibale Rosselli, morto a Cracovia nel 1592, autore di un monumentale commento in sei tomi al Pimandro  attribuito a Ermete Trismegisto.

    Insomma, la Calabria centromeridionale non ha partorito solo Mino Reitano. Rimettiamoci in cammino: passiamo per Carlopoli, Castagna e per la bella frazione di Colla. I boschi si fanno mano mano più fitti e siamo già a Conflenti, Martirano Lombardo, Martirano non lombardo, San Mango d’Aquino, paesi arrampicati sopra gli orridi dell’ultimo tratto del Savuto o, per i più superficiali, sopra gli omonimi svincoli autostradali delle tratte più infelici dell’Italia d’oggi. Altra storia.

  • Treni storici fra identità, turismo e l’arte di Rovella

    Treni storici fra identità, turismo e l’arte di Rovella

    Il treno a vapore nella pittura e nella fantasia di Luigi Rovella. È questo il titolo della personale inaugurata ieri, mercoledì 28 dicembre 2022, a Villa Rendano e che chiuderà i battenti il 30 dicembre. Una riflessione a più voci ha preceduto il taglio del nastro. Mostra e workshop sono stati promossi dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani. Il direttore del museo Consentia Itinera, Anna Cipparrone, ha introdotto i lavori e stimolato la discussione con una serie di domande e riflessioni.

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    Una delle tele di Luigi Rovella esposte a Villa Rendano

    La personale dedicata a Luigi Rovella, artista scomparso prematuramente, si snoda lungo un percorso creativo lungo 4 anni. Dal 2017 al 2020 il pittore ha realizzato dodici tele. Una di queste porta il nome della storica locomotiva a vapore della Sila.

    Deborah De Rose, anima di Interazioni creative, ha ricordato il contributo di Luigi Rovella al “Cose belle festival”: «È stato un protagonista del nostro festival, artista della luce e persona che ci è stato vicina nei momenti topici dell’organizzazione della kermesse». Deborah De Rose ha richiamato alla memoria anche la profonda gentilezza di Rovella: «Non dimentico quando ci diede un bellissimo albero di Natale che aveva realizzato in cartone».

    Due opere di Lugi Rovella che fanno parte della mostra aperta fino al 30 dicembre a Villa Rendano

    Treni e turismo lento

    I treni storici «una volta entrati in crisi come mezzi di trasporto sono diventati destinazioni turistiche». Un fenomeno «partito dal Regno Unito» e che da molto tempo ha contagiato anche l’Europa continentale, Italia compresa.
    Lo ha spiegato Sonia Ferrari, docente all’Unical di Marketing del turismo e territoriale. Subito dopo ha chiamato in causa due treni storici ormai diventati simboli e suggestioni letterarie: Orient Express e Transibieriana. E il treno della Sila? La docente dell’Università della Calabria ha sottolineato come sia un elemento tipico del «turismo lento e sostenibile», in linea con i trend di un settore che costituisce una nicchia importante.

    Treni e letteratura: la morte di Tolstoj

    Dopo aver tratteggiato le suggestioni delle tele di Rovella, Pino Sassano ha compiuto un piccolo tour tra letteratura e treni. Partendo da una riflessione perentoria: «Non esiste uno scrittore dall’Ottocento in poi che non abbia avuto come riferimento il treno». Inevitabile il riferimento del librario e professore a Lev Tolstoj: «La parte finale della sua vita si svolge su un treno, poi l’ultima fermata nella stazione di Astapovo dove muore circondato dal popolo e dai cronisti dell’epoca». Ma Sassano non si ferma alla letteratura. E chiama in causa lo sguardo di Luigi Ghirri, il fotografo che ha rivoluzionato la percezione del paesaggio. E i treni ne sono sempre stati parte integrante.

    Un momento del workshop di ieri a Villa Rendano

    Treni e identità

    Dalla fredda stazione di Astapovo alla fredda stazione di San Giovanni in Fiore. L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio, non ha dimenticato il treno che passava dall’altopiano.
    «Ha spostato centinaia di migliaia di persone in un esodo drammatico dal Sud verso il Nord dell’Italia e dell’Europa». In quel treno di sofferenza e speranza «c’è oggi un carattere identitario». Lo stesso che Mario OIiverio vede nel treno storico della Sila, un progetto nato per una sua precisa volontà politica. Quella locomotiva che corre nel “Gran bosco d’Italia” può e deve essere «veicolo di crescita e sviluppo, attrattore turistico come scoperta e non solo come vacanza».

  • La città delle donne? Qui in Calabria non c’è, ma si può fare

    La città delle donne? Qui in Calabria non c’è, ma si può fare

    «Stai attenta. Fatti riaccompagnare, se fate tardi. Quella strada è pericolosa se sei da sola, soprattutto la sera. Allunga il passo e non rispondere».
    Questi sono alcuni dei moniti che le ragazze iniziano a sentirsi ripetere appena sono abbastanza grandi da poter uscire e sperimentare gli spazi urbani senza la supervisione dei propri genitori o di altri adulti. Quando passeggiamo da sole, soprattutto in alcuni quartieri e soprattutto dopo il calar del sole, mettiamo in atto un meccanismo di autodifesa automatico che dovrebbe tutelarci dalle molestie in strada. Che siano verbali o fisiche, dal catcalling ai palpeggiamenti nei mezzi pubblici finanche allo stupro, le molestie rappresentano un rischio costante alla base di un’ansia generalizzata e spesso normalizzata che circonda le donne di ogni età.

    Queste premesse sono utili per capire la sorpresa quando, a distanza di un mese dal mio trasferimento da Cosenza a Vienna, dissi a un’amica di sentirmi estremamente sicura nella nuova città. Avevo dimenticato di mettere in valigia quelle preoccupazioni o in questa città c’è qualcosa di diverso? Parlando con altre donne che vivono qui ho scoperto trattarsi di una sensazione abbastanza diffusa. È un caso o, al contrario, è il risultato di un progetto ben preciso? Le risposte sono due: gender mainstreaming e femminismo urbano.

    Gender mainstreaming e femminismo urbano

    Per gender mainstreaming intendiamo un approccio strategico gender-oriented alla definizione, alla scrittura, all’attuazione e alla valutazione delle politiche pubbliche. L’obiettivo è quello di combattere le diseguaglianze di genere in ogni ambito della società, a partire dalle norme che regolano la società stessa.
    Ma il femminismo urbano, invece? Prima di rispondere facciamo un passo indietro e chiediamoci cosa sono le città. Un insieme di edifici e strade? La riflessione sulle città inizia con i processi di urbanizzazione durante la rivoluzione industriali.

    I primi sociologi, per esempio, iniziarono a riflettere sugli effetti dell’urbanizzazione sulle persone e sulle loro relazioni sociali. Già nell’Ottocento era chiaro che negli spazi urbani i mattoni non sono solo mattoni. Oltre agli aspetti quantitativi che le definiscono, come le dimensioni e la densità della popolazione, le città sono costituite dalla stratificazione sociale di gruppi con caratteristiche diverse e tra i quali esistono forme di disuguaglianza. Il femminismo urbano, come si può prevedibilmente intuire dal nome, ha come focus principale le diseguaglianze tra uomini e donne.

    Le città e i pericoli per le donne

    La geografa Leslie Kern, nel saggio La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, mostra come le città contribuiscano a plasmare i rapporti sociali. L’ansia e la paura per gli approcci sessuali non richiesti e le molestie di cui parlavamo prima, ne sono un esempio. Kern spiega come le città siano percepite e fatte percepire come luoghi pericolosi per le donne.

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    Leslie Kern

    «Molestie e approcci sessuali non richiesti nutrono questa paura: le donne si sentono costantemente sessualizzate, oggettivate e a disagio», ma questa paura è proiettata all’esterno e non verso la casa o la famiglia. «Al contrario la violenza domestica, gli abusi su minori e altri crimini ‘privati’ molto più diffusi ricevono decisamente meno attenzione». «Il lavoro qualitativo femminista sulla paura delle donne nelle città rivela quelli che sembrano problemi contraddittori e insormontabili: le donne hanno paura negli spazi chiusi e aperti, nei luoghi affollati e in quelli deserti; sui mezzi di trasporto e mentre vanno a piedi; sole sotto una luce intensa o invisibili nel buio».

    Sicurezza non è solo controllo

    Che fare? Una risposta semplice potrebbe essere il ricorso a un approccio securitario ma, come evidenzia la stessa Kem, «l’aumento della sorveglianza statale e aziendale, la polizia militarizzata e la privatizzazione dello spazio pubblico, hanno la stessa probabilità di diminuire la sicurezza per gli altri», laddove con altri ci riferiamo ad altri gruppi sociali marginalizzati come i migranti o gli appartenenti a gruppi etnici minoritari.

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    L’Università della Calabria

    Nei miei anni da studentessa all’Università della Calabria, per esempio, ricordo nitidamente le richieste di alcune associazioni studentesche come RDU di aumentare la videosorveglianza e la vigilanza per garantire più sicurezza. Era questa la risposta ai casi di molestie o aggressioni ai danni delle studentesse dell’ateneo. Si sollevarono discussioni in merito, ma la domanda di fondo restava una: si possono garantire spazi più sicuri per le donne senza ricorrere a svolte securitarie?

    Bisogni differenti

    Vienna, in questo senso, mi ha dimostrato che gender mainstreaming e urbanismo femminista possono lavorare assieme per creare una città vivibile e inclusiva. Tutto ebbe inizio nei primi anni Novanta con l’idea di disegnare una città che funzionasse tanto bene per gli uomini quanto per le donne. La prima domanda essenziale fu: quanto diversi sono i bisogni degli uomini e quelli delle donne in città? Nel 1991 Vienna condusse un primo studio per valutare come variasse l’uso di mezzi di trasporto in base al genere e ne emerse che gli uomini quotidianamente si spostano soprattutto in bici e in auto mentre le donne prediligono i mezzi di trasporto pubblico e due terzi dei pedoni sono donne.

    Nello stesso anno Eva Kail e Jutta Kleedorfer, due urbaniste, organizzarono una mostra fotografica chiamata Wem Gehört Der Öffentliche Raum? Frauenalltag in Der Stadt (Chi possiede lo spazio pubblico? Vita quotidiana di una donna in città), in cui veniva documentata la quotidianità di varie residenti appartenenti a classi sociali diverse. Per esempio, si passava dalla vita di una giovane studentessa a quella di una signora anziana passando per una migrante turca casalinga. Ciò che ne emerse era l’esigenza per tutte di vivere spazi più sicuri e in cui fosse più facile muoversi.

    Città su misura (anche) delle donne

    Nel 1999 fu condotto un nuovo studio per capire come e perché i residenti viennesi attraversassero la città. La routine maschile era abbastanza semplice, gli uomini si spostavano prevalentemente tra casa e lavoro. Gli spostamenti delle donne, al contrario, erano vari e coinvolgevano l’accompagnare e il riprendere i figli da scuola, le spese per negozi e supermercati, le visite mediche per la famiglia e le visite familiari agli anziani. Si è così iniziato a lavorare seriamente sull’accessibilità, la sicurezza e la facilità di movimento. Per esempio, hanno migliorato l’illuminazione stradale in modo che sia più sicuro camminare di notte, ampliato più di un chilometro di marciapiede e introdotto semafori a misura di pedone. In Italia, in Calabria – e a Cosenza in particolare – non mi sembra siano stati condotti studi tanto mirati, ma possiamo riflettere su alcune informazioni.

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    L’attesa del proprio bus all’autostazione di Cosenza

    Per esempio, è facile intuire che le routine di spostamento di una donna viennese e di una donna cosentina siano più o meno simili: sulle donne grava maggiormente il lavoro invisibile ed il lavoro di cura, quindi, saranno le donne a spostarsi per accompagnare i figli a scuola, a fare sport e saranno soprattutto le donne ad occuparsi delle spese e delle altre attività connesse al lavoro di cura. Eppure, è possibile a Cosenza muoversi agevolmente solo attraverso i mezzi pubblici? Dalla mia esperienza personale, di donna sprovvista di un’automobile, posso dire di no. E quali sono le condizioni dei marciapiedi? Una persona che porta un passeggino riesce a muoversi tranquillamente in città?

    Aspern, un quartiere al femminile

    Ma non si tratta solo di interventi di illuminazione o di sicurezza pubblica. Si è condotto uno studio sui visitatori dei cimiteri, in cui è emerso che sono in maggioranza donne anziane. Per adattare i cimiteri alle loro esigenze si è iniziato a lavorare si è iniziato a lavorare ad una segnaletica ben visibile, all’installazione di servizi igienici sicuri e all’aumento delle panchine.
    Nel 2015, invece, le giovani ragazze di una scuola vicino a Reumannplatz sono state invitate a raccontare che tipo di spazio urbano avrebbero voluto attorno. Dal confronto con le ragazze si è deciso di costruire uno spazio per spettacoli all’aperto e di ridisegnare un’area giochi non molto distante per renderla più accessibile e sicura.

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    Il quartiere Aspern

    Tra i progetti in via di realizzazione c’è il quartiere Aspern, i cui lavori dovrebbero concludersi nel 2028 e che dovrebbe ospitare 20.000 persone e 20.000 lavoratori giornalieri. Il quartiere è costruito attorno al lago Alte Donau e metà dell’area è stata dedicata alla costruzione di spazi pubblici. L’intero quartiere è stato pensato per rispondere ai bisogni delle famiglie e delle donne. Come gesto simbolico tutte le strade, le piazze e gli spazi pubblici sono stati intitolati a delle donne, da Hannah-Arendt-Platz a Ada-Lovelace-Straße.

    Toponomastica? Roba da uomini

    Certo, i nomi delle strade sono solo un simbolo, ma la toponomastica incide sui volti della città i nomi di persone si pensa siano state importanti e, tristemente, in genere si pensa solo a uomini. E la toponomastica cosentina? Su oltre 500 strade intitolate a uomini, meno di 50 portano il nome di donne e quasi la metà sono sante, madonne o donne di chiesa. Ma oltre alla simbologia dei nomi, quanti spazi pubblici in città sono sicuri per le donne o sono dedicati ai bisogni delle famiglie? Oltre al Parco Piero Romeo, realizzato dalla Terra di Piero, non trovo altri spazi in cui porterei un bambino o una bambina a giocare nello spazio urbano.

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    Il parco Piero Romeo a Cosenza

    Oltre agli interventi di urbanistica, c’è di più. Una parte del progetto femminista viennese, infatti, riguarda anche la sensibilizzazione. È stata lanciata una campagna chiamata “Vienna la vede diversamente” per sensibilizzare e informare il personale amministrativo, che lavora presso il comune, e i cittadini sulla posta in gioco del gender mainstreaming.

    Per esempio, i cartelli che indicano i fasciatoi raffigurano uomini intenti a cambiare il pannolino ai bambini, mentre nei cartelli stradali in cui si avverte che ci sono lavoro in corso sono state mostrate donne lavorare nel settore dell’edilizia. Inoltre, in diversi centri per bambini si è scelto di adottare un’educazione attenta alle questioni di genere. Ciò consiste nell’evitare stereotipi di genere nel gioco o rivedendo materiale scolastico e canzoni per evitare cliché sessisti.

    Non c’è solo il centro

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    Vienna, l’arcobaleno su Stephansplatz

    La forma che si decide di dare ad una città incide fortemente sulla qualità della vita di chi la abita, ma le città non sono solo vetrine di cui mostrare fieramente il solo centro. Le attività che hanno interessato Vienna, protagonista di oltre 60 progetti dedicati alla città, non hanno riguardato solo Stephansplatz e i luoghi più frequentati dai turisti. Il quartiere Aspern, per esempio, si trova nel ventiduesimo distretto ed è ben distante dal centro. I progetti di cui Vienna è stata protagonista hanno messo al centro i bisogni delle cittadine e dei cittadini e non solo l’immagine riflessa da mostrare a chi passa qui non più di una settimana.

    Francesca Pignataro