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  • GENTE IN ASPROMONTE | Ripartire da Bova per salvare la cultura greca

    GENTE IN ASPROMONTE | Ripartire da Bova per salvare la cultura greca

    Bromu. Parpatulu: Pari ca veni d’a paddecaria. Zotico [Villano. Vagabondo. Sembra tu venga dalla terra dei greci. Zotico] : è la condizione in cui i grecanici hanno vissuto il progressivo sfilacciamento – e il vilipendio – della loro cultura.
    Bova, Vua, ne è la capitale, prima per tradizione, ora per vocazione. Raccontarla oggi non è semplice. Oltre al rispetto verso la sua storia, Bova è l’emblema del pieno e del vuoto, dei suoi conflitti. Dei suoi accatastamenti culturali. È simbolo dell’orgoglio delle minoranze, della lotta per la sopravvivenza contro il degrado, della fierezza del riconoscersi.
    A Bova ho viaggiato molto e ogni volta ho incontrato attori diversi: amministratori, attivisti, professionisti, operatori della cultura, commercianti e turisti.
    Ognuno mi ha fornito un punto di vista diverso per comprendere. Il mio intento era raccogliere storie di restati e ritornati per capire se esistesse davvero il “modello Bova” e se potesse essere utilizzato per ispirare strategie di sviluppo delle aree interne. Poi ho avuto il contatto di Alessandra e alle categorie dei restati e dei ritornati si è aggiunta quella degli arrivati.

    Alessandra Ghibaudi: da Genova a Bova

    «Vivo a Bova dal 2004, sono esperta di sviluppo locale e sono consulente del Gal (Gruppo di azione locale) Area Grecanica. Non sono un’oriunda. Sono nata a Genova e fino ad allora avevo vissuto a Como. Sono capitata qui per caso, dopo un master in sviluppo locale all’Università di Milano che offriva la possibilità di farvi uno stage. Poi ho deciso di rimanere. Adesso mi considero calabrese. Mio marito è un greco di Calabria».
    Nella sua casa, che è anche un b&b affacciato sui costoni dell’Aspromonte, Alessandra usa la prima persona plurale. Noi. E nelle sue parole si riflette lo sguardo di chi ha saputo guardare questo territorio isolato con gli occhi delle opportunità.

    La storia di un arrivo 

    «La dimensione a misura d’uomo, il patrimonio naturalistico e culturale, il fermento di rinnovamento che percepivo nei ragazzi del luogo mi hanno affascinata. Mio marito era uno di questi. Guida ufficiale del Parco Aspromonte, aveva realizzato la cooperativa San Leo che si occupa di ricettività, enogastronomia e trekking in montagna. Con lo stage mi è stato chiaro che Bova aveva una strategia di sviluppo. Ho capito che sarebbe diventata la mia nuova casa. Per chi sapeva oltrepassare le narrazioni discriminatorie e stereotipate che l’hanno caratterizzata, la Calabria, e quest’area in particolare, era una terra piena di opportunità inesplorate».
    Una narrazione poco mutata e ancora replicata che passa dai sequestri, alle maxi-inchieste, alle serie tv, al sottosviluppo.
    «Tutti i miei – continua Alessandra – biasimavano la mia scelta. Me ne sono fregata forte delle mie competenze sulla progettazione con i fondi pubblici. Sono stata fortunata, perché, a distanza di tempo, ho potuto constatare che la Calabria non è meritocratica e forse anche questa è una concausa dei suoi ritardi. Ma i valori di prossimità, la sussidiarietà tra le persone, il senso di comunità mi hanno rapita».

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    La Rocca di Bova

    Ospitalità internazionale made in Bova

    Una porta si apre. Entra un ospite straniero. Alessandra si alza e fornisce qualche indicazione sulla ristorazione in inglese.
    «Nonostante e proprio perché mi occupassi di sviluppo locale, con mio marito, abbiamo aperto un b&b. Questo ci permette di avere scambi interessanti con i tanti che scelgono Bova come meta di turismo, attratti dalla sua storia, la sua lingua, la possibilità di sperimentare itinerari di nicchia, quasi esotici, combinati con esperienze naturalistiche vissute in Aspromonte. È un elemento importantissimo per il nostro lavoro: ci aiuta a comprendere ciò che realmente un turista esperienziale cerca. Questo mi dà molti spunti per pianificare progetti a vantaggio di tutta la comunità. Mi fa mantenere lo sguardo sempre vigile e aggiornato sui bisogni e sulle opportunità».

    L’impegno nel Gal

    Alessandra è una progettista: traduce idee in processi, azioni, opere, servizi finanziabili.
    «Il mio è un lavoro che incide. Si opera in team per e con la comunità: Comuni, associazioni, enti del terzo settore, imprese. Gal Area Grecanica è una società consortile pubblico-privata che lavora come un’agenzia di sviluppo. Conta nella sua governance i Comuni dell’area, diverse aziende, associazioni del versante agricolo e culturale. Partecipiamo ai bandi regionali con approccio Leader. Questi assi riguardano lo sviluppo locale rurale: in particolare, la misura 19 dell’ultima programmazione regionale. Sono bandi tarati su piccoli territori, simili alle linee di intervento del Programma di sviluppo rurale. È essenziale sapere come muoversi. Il che significa non disperdere le energie applicandosi a tutte le call, ma individuare quelle che collimano con la strategia di sviluppo dei territori interessati. E Bova ha questa strategia».

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    Una targa in lingua grecanica

    Bova tra ieri e oggi

    Nonostante i suoi limiti, oggi Bova rappresenta un modello di proto-sviluppo.
    Ha solo 500 abitanti e i servizi essenziali a rischio chiusura. Non ha un presidio medico ma ha un endemico deficit del mercato del lavoro. Tuttavia, la piccola comunità grecanica è inserita nella rete dei borghi più belli d’Italia. Quindi è quella a cui “dovremmo guardare per capire come fare”.
    Mi hanno ripetuto questo refrain in quasi tutte le realtà con cui sono venuto a contatto.
    Arroccata a oltre 900 metri sul mare, la capitale dell’antica Bovesìa è il centro nevralgico della cultura della Calabria greca e un esempio cui molti operatori e amministratori dell’area grecanica guardano.
    Tra Bagaladi, Bruzzano Zeffirio, Cardeto, Ferruzzano, Montebello Ionico, Palizzi, Roccaforte del Greco, Roghudi, San Lorenzo e Staiti, Bova spicca. Fucina di contaminazioni in cui si incrociano Oriente e Occidente, cattolicesimo ed ebraismo, negli anni ha dimostrato come un paese sperduto dell’Aspromonte, con tortuose vie di accesso, abbia lavorato sul proprio rilancio.
    Oggi a Bova si fa turismo: è nata una rete di ospitalità diffusa. Inoltre, esistono due musei – quello della lingua greca dedicato a Gherard Rohlfs e quello della Paleontologia e delle Scienze naturali dell’Aspromonte -, una biblioteca, una giudecca e progetti per la rivitalizzazione del grecanico, di cui mi occuperò a parte.

    Bova e non solo: Naturaliter in prima linea 

    In questo processo è stata determinante Naturaliter, cooperativa con sede a Bova dedicata al turismo escursionistico, all’ospitalità e all’offerta di pacchetti cuciti su misura.
    La sua formula è inedita: il coinvolgimento attivo della comunità nelle dinamiche di accoglienza.
    In particolare vuole favorire e implementare la cooperazione tra le comunità locali nelle aree scarsamente popolate del Mediterraneo, sulla base di uno sviluppo eco-compatibile e di occasioni di interattività socio-culturale con i viaggiatori della natura.

    Andrea Laurenzano

    Il sentiero dell’Inglese

    Spiega Andrea Laurenzano, uno dei fondatori: «Il lancio del Sentiero dell’Inglese ha dato una grande spinta. Per noi è essenziale puntare sul coinvolgimento di chi abita i territori. Questo coinvolgimento consente un’esperienza immersiva a 360 gradi e dà impulso alle economie locali. In secondo luogo contribuisce a promuovere i territori ospitanti per chi arriva, dall’altra fa capire agli autoctoni il valore delle terre che abitano, invogliandoli a investire e a crederci. Perché se arrivano turisti dalla Svizzera, dalla Baviera o dal Nord Europa significa che qualcosa di bello ci deve essere. Qualcosa che a volte noi stessi non siamo più capaci di – o non siamo stati abituati a – vedere. Perciò, ad esempio, per i servizi logistici, preferiamo sopportare costi superiori, ad esempio per il noleggio di transfer, piuttosto che fornirci da una singola ditta. Ad oggi siamo una delle poche agenzie di viaggi a piedi con sede all’interno del Parco Aspromonte».

    Il ruolo muto dell’Aspromonte

    Che il Parco rappresenti un’opportunità è noto. Secondo i dati raccolti da Naturaliter nel 2013 (gli unici oggi disponibili) il nuovo turista è un viaggiatore adulto, esigente in termini di standard di qualità, con interessi legati a percorsi culturali, religiosi gastronomici e sensibile all’ecosostenibilità.
    Tra il 2013 e il 2014 le presenze turistiche sono balzate dalle 4 alle 5 mila presenze, così ripartite: 60% italiani, 20% francesi, 15% svizzeri e 5% americani, inglesi e tedeschi.
    Questi numeri, come conferma Andrea senza stime ufficiali, continuano a crescere. L’Aspromonte è il centro di questo movimento.
    «Bova è già all’interno del Parco ed è lo snodo di antichi sentieri che collegano tutti i paesi grecanici. Nel bene e nel male l’Aspromonte – dice Alessandra – è la storia di questo luogo. Una storia che ha permesso di vivere a queste comunità e nel frattempo le ha mortificate. Quando comunicavo a mia suocera che saremmo andati a fare un giro ai campi di Bova, per prima cosa si chiedeva quale disgrazia fosse successa. Credo che la nascita del Parco abbia lanciato un nuovo messaggio: pensiamo e agiamo questa montagna in modo diverso. Ho imparato, attraversandola, che non è un luogo scontato, con tappe obbligate, ma un posto in cui, quando raggiungi una meta, hai l’impressione di essere l’unico e il solo. E questo è il segreto del suo grande fascino. Tutti elementi che le nuove generazioni hanno compreso molto bene».

    Santo Casile alla Festa delle Pupazze

    Quale strada per Bova: il parere di Santo Casile

    Che Bova abbia saputo indicare un percorso è assodato. Filippo Paino, neo-sindaco di Condofuri e Presidente del Gal, indica un dato: «il reddito di Bova cresce».
    Su Bova fa il punto Santo Casile, primo cittadino e greco-parlante: «Ho in mente una strategia legata al turismo.
    Siamo già parte della rete dei Borghi più belli d’Italia e questo ci ha dato una grossa mano. Abbiamo una buona rete di ospitalità, il turismo escursionistico funziona bene e il bagaglio della cultura grecanica e della sua promozione fa il resto.
    Bova è inoltre beneficiaria di un finanziamento di 1.500.000 di euro sul Por 2013-2020 per il progetto Borgo della Filoxenia che stiamo finendo di implementare. Abbiamo movimentato investimenti pubblici per circa 5 milioni di euro. La metà dei lavori è stata già consegnata.
    Di questi 1 milione e 250 mila sono serviti a irregimentare le risorse idriche rurali. 2 milioni e 700 mila per interventi contro il rischio idrogeologico. Ma i problemi sono tanti e riguardano diversi aspetti. Con l’inverno demografico che stiamo vivendo, Bova sparirà in dieci anni. Come sta succedendo a Staiti, dove ha chiuso anche il museo delle icone bizantine. O a Roccaforte del Greco».

    Servizi a rischio e poco lavoro

    Dei 500 abitanti del paese, 140 sono ultraottantenni. Manca completamente un presidio medico stabile, i servizi, (le poste, ad esempio) sono a rischio chiusura perché il numero di abitanti rischia di andare sotto soglia.
    Il lavoro, organizzato in unità produttive e filiere scarseggia ed è una delle cause di una continua emorragia demografica che le statistiche hanno fotografato senza pietà: in Calabria in 10 anni la popolazione si è ridotta del 5,3% .
    Nel frattempo nell’ultimo decennio, secondo i dati della Snai (Strategia nazionale per le aree interne)-Area Grecanica, la Calabria ha perso il 21% di aziende agricole e i comuni grecanici sono arrivati a meno 25,12%.

    Un dettaglio del borgo di Bova

    Casile sottolinea che «L’unico investimento produttivo partito riguarda la filiera del suino nero di Calabria: 3 milioni e mezzo per installare un allevamento che, nelle migliori prospettive, creerà appena 20 posti di lavoro. Nel frattempo l’agricoltura resta al palo a causa della mancanza di acqua. E la persistenza di allevamenti è spesso solo dovuta al contributo statale dato agli allevatori: 1.200 euro per capo all’anno. I nostri cittadini reclamano una maggiore attenzione ai loro diritti costituzionali, come quello alla salute che è poco garantito. Con la Snai verrà realizzata una Casa della Salute in uno dei tre vecchi capannoni di un ex corpo di fabbrica del territorio. La paura maggiore riguarda gli anziani: in caso di emergenza, rischiano di morire perché non esiste un presidio medico vicino».
    Non dimentico nemmeno le parole di Pasquale Faenza che mi aveva ammonito su ristrutturazioni selvagge del patrimonio architettonico o sulla promozione di un greco più pubblicizzato che vivo. Questa denuncia non è nuova: l’aveva fatta anni addietro Paolo Martino nel suo articolo “L’affaire Bovesía: un singolare irredentismo”.

    Snai Area Grecanica: una goccia nel mare

    Bova e l’intera area grecanica rappresentano un pezzo importante della Snai.
    Sono una delle aree pilota in cui il governo investe con fondi regionali, nazionali e comunitari. A questi si aggiunge il Pnrr.
    Filippo Paino chiarisce: «La Snai locale, a rilento nell’attuazione, punta a rafforzare i servizi essenziali che negli anni sono scomparsi. La domanda di fondo è: riusciamo a rallentare e invertire la desertificazione? Nella nostra idea questi fondi devono creare le condizioni per cui sia di nuovo appetibile abitare queste aree.
    L’obiettivo a lungo termine è riportare residenti. Cerchiamo di farlo investendo nel potenziamento dei servizi sanitari e scolastici e, parallelamente, finanziando infrastrutture di collegamento tra i territori.
    Un esempio per tutti è il progetto di Smart School a Bagaladi: una struttura che rafforza l’offerta scolastica per l’intero comprensorio in termini di prestazione, qualità e prossimità. E con la quale coprire il fabbisogno di istruzione della zona del Tuccio. Bagaladi dovrebbe ospitare studenti di Roccaforte, Chorìo e Fossato. Perciò abbiamo previsto un finanziamento che realizzi una strada tra quel paese e Fossato con una coerenza negli investimenti.
    A prescindere dal criterio di economicità. Bova oggi, con la nuova strada, è meglio collegata alla marina. Arrivarci e spostarsi è più agevole e veloce. Però bisogna anche avere l’ardire di restare e di dare il buon esempio».

    Carmen Barbalace

    Le condizioni per restare

    Per restare, tuttavia, serve il lavoro. Che manca.
    Nonostante Paino mi abbia annunciato che il Gal ha promosso 2 cooperative di comunità e che altre 5 siano pronte a essere finanziate, Casile dice di non vedere al momento altra strada percorribile se non il turismo. Che comunque non può arrivare a creare massa critica per lo sviluppo strutturale di un territorio.
    La vera strategia sarebbe diversificare, puntando su settori complementari.
    Carmen Barbalace, dirigente della Regione Calabria per il settore Borghi, è molto chiara: «Dobbiamo fare in modo che i fondi già spesi o in procinto di esserlo per gli interventi programmati rappresentino davvero un investimento senza diventare una mera spesa che poi resterebbe un vuoto a perdere. Abbiamo necessità di definire in modo chiaro cosa è un borgo, che è quello che è mancato nella vecchia programmazione. Dobbiamo perseguire la formazione e la transizione digitale».
    Ma per operare nell’economia digitale servono le infrastrutture: copertura capillare della rete e banda larga. In Calabria il progetto Bul punta a dotare la Regione della banda larga. Ma, i dati di Infratel sull’avanzamento al 31 agosto 2023, raccontano un forte ritardo per l’area.
    Tra i comuni collaudati per l’area grecanica c’è solo Condofuri.

    Veduta di Gallicianò

    Ripartire dagli stranieri per riportare gli altri

    Attendere la realizzazione e l’impatto degli investimenti programmati potrebbe voler dire arrivare troppo tardi. I tanti braccianti o invisibili immigrati che vivono nelle aree interne potrebbero rappresentare un tassello importante.
    Senza buonismi o pauperismi. Con il pragmatismo che serve a elaborare un piano di inclusione reale: ad esempio partendo dal loro coinvolgimento, insieme ai pochi giovani rimasti, nei progetti di aging attivo già sperimentati con successo dalla Regione. O dalla promozione di cooperazione mista tra italiani e stranieri per creare posti di lavoro. Nei piccoli paesi, colmi di terre abbandonate o a rischio abbandono, nei piccoli centri dove è più facile instaurare solide relazioni sociali all’insegna dell’apprendimento e del riconoscimento reciproco, forse questa potrebbe essere una via per fermare il trend. In attesa che investimenti, opere, servizi ed effetti delle attuali strategie portino il resto dei loro frutti.

  • Il mare non bagna Lamezia

    Il mare non bagna Lamezia

    Apriamo assieme una nuova pagina di Google, sul computer o telefonino che sia. Clicchiamo sulla barra e scriviamo quanto segue: “Marina di Lamezia Terme”. Basta un attimo: “Ma-ri-na di La-me-zia Ter-me”.
    Cosa compare nell’elenco dei risultati? Un sito generalista in cui sono inzeppate le spiagge – vere o presunte – di tutto il Paese. A corredo, una fotografia che non pare per nulla Lamezia Terme. E poi cos’altro? Vaghi suggerimenti di spiagge del Tirreno prossime alla città della Piana di Sant’Eufemia e una manciata disordinata di canali per prenotare viaggi su gomma e su rotaia.

    Forse abbiamo sbagliato noi la ricerca; perciò riproviamoci e scriviamo “Lamezia Terme Lido”. Cosa troviamo adesso? Nuovamente altre cittadelle vicine, ma non ciò che desideriamo, e una lista di megasiti di viaggi che ci propongono esperienze non di nostro interesse. In una parola: decine di risultati che non soddisfano affatto la nostra ricerca.
    Ci sorge, a questo punto, un dubbio, una domanda legittima: ma Lamezia Terme è bagnata dal mare?

    I due lungomari di Lamezia Terme

    Ebbene sì, Lamezia Terme è bagnata dal mare. O perlomeno sembrerebbe. Esiste anche un lungomare. In vero addirittura due – il “Falcone-Borsellino” e quello (senza denominazione ufficiale) di località Ginepri – di costruzione anche abbastanza recente (inaugurati nell’estate 2014). Per circa due chilometri corrono paralleli alla linea della battigia, toccando le altre due località rivierasche ricadenti nel territorio comunale lametino di Cafarone e Marinella.
    La risposta al nostro interrogativo, pur senza il sostegno di Google, pare esserci giunta: Lamezia Terme è bagnata dal mare. E, approfondendo la nostra ricerca, veniamo a sapere che lo è anche per una buona dozzina di chilometri, dal confine con la contigua spiaggia del comune di Gizzeria a Nord fino al pontile della ex Sir, l’area industriale della città, fra i simboli del flop (o della truffa) della industrializzazione della Calabria partita negli anni settanta del Novecento, a Sud.

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    Il pontile dell’ex SIR a Lamezia

    Dai brasiliensi ai “lamentini”

    Del tratto costiero, passato circa a metà dal fiume Amato (l’antico Lametos da cui ha origine parte del nome alla città), però in pochi sono concretamente a conoscenza. In primis gli abitanti della città-miraggio nata il 4 gennaio 1968 a seguito della unione coatta dei tre ex comuni autonomi di Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia, primo esempio di conurbazione fra municipalità che non ha mai portato ai risultati sognati oltre mezzo secolo fa. Quelle bizzarre fantasticherie avrebbero voluto Lamezia Terme la Brasilia del Sud Italia (curioso binomio fondato sulle origini politiche della capitale pianificata, messa in piedi fra il 1956 e il 1960 sull’altopiano del Planalto Central per unire e dare sviluppo a tutto il Brasile, ma forse – ipotesi cialtronesca dell’autore – soltanto perché i dialetti calabresi hanno un suono parente alla lingua portoghese parlata nella nazione al di là dell’Oceano).

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    Vita nel campo di Scordovillo

    L’ambizioso obiettivo era rendere Lamezia il centro politico e culturale dell’intera regione. Così non è stato – chissà se lo sarà mai – con buona pace dei lametini più campanilisti, o anche più ottimisti. Una anomalia sociale quest’ultima, comunque una sparuta minoranza, ché i lametini sono chiamati localmente e bonariamente “lamentini” per la loro tendenza a lamentarsi; una indole spesso aprioristica e ingiustificata, data dalla scarsa coscienza del fatto che attorno, entro i confini regionali, insistono situazioni di degrado e incuria socioculturali ben maggiori rispetto a quelle della città della Piana, in cui la situazione più difficile è storicamente concentrata nel campo rom, il più vasto del Mezzogiorno, di Scordovillo.
    Ma questa è un’altra storia.

    L’estate sta finendo… ma è cominciata?

    Riprendiamo a passeggiare lungo il bagnasciuga del mare che probabilmente c’è di Lamezia Terme. Lo scenario è lo stesso da sempre: attorno a noi pochi bagnanti, perlopiù indigeni, amareggiati dalle acque difficilmente pure e cristalline di questo tratto di costa bagnato dal Golfo di Sant’Eufemia, cronicamente afflitto dai problemi legati alla depurazione e agli sversamenti abusivi di liquami.
    Il sole sta per tuffarsi in acqua, lo sta facendo sempre qualche minuto prima rispetto al giorno precedente. La silhouette di Stromboli si inscurisce e capiamo che un’altra estate sta volgendo al termine. Inizia il tempo in cui stilare un bilancio, ma a Lamezia oramai neppure ci si pone più il problema se sia andata bene oppure no la stagione balneare, ché una vera stagione balneare non è mai cominciata nella breve striscia di spiaggia pressappoco antropizzata con il lungomare dedicato ai due giudici uccisi da Cosa nostra nel ’92 e la pineta in parte vandalizzata e a cui sovente viene donata una nuova incivile destinazione d’uso, quella di parcheggio.

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    Un panorama del Golfo di Sant’Eufemia

    Purché si organizzi…

    L’estate 2023 ha visto sul lungomare “Falcone-Borsellino” di Lamezia Terme spettacoli d’arte, serate musicali e qualche sagra paesana per nulla attinente alle tradizioni locali – delle penne all’arrabbiata, della pizza, della birra, del tartufo di Pizzo. Decine e decine di eventi culturali e culinari – ché il panem et circenses è una garanzia da millenni –, di certo non inediti, non così attraenti per i turisti e svolti con alterne fortune, ma che hanno dato una boccata di ossigeno ai pochi, stoici stabilimenti balneari aperti sulla costa lametina.

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    Il tradizionale (non a Lamezia) tartufo di Pizzo

    Serate che, a detta di molti, non hanno trasmesso grande organizzazione – anzi, piuttosto a emergere era una certa improvvisazione –, in specie dal punto di vista della comunicazione. Eventi senza grosse aspettative, insomma, come se si dovesse per forza organizzare qualcosa al fine di sentire, anche a Lamezia, l’estate addosso; nulla che possa essere ricordato oltre la notte della festa, che lasci un “alone duraturo” nella vita sociale cittadina. E questo è un gran peccato, che riga di rammarico i volti dei tanti lametini – la stragrande maggioranza – che, magari pur non ammettendolo neppure sotto tortura, amano la loro città.

    Cultura e turismo a Lamezia Terme

    Ci si sta focalizzando sugli aspetti turistico-balneari della città, non sulla sua vitalità, ché è indubbio che Lamezia Terme sia una città effervescente. Le associazioni culturali germogliano e lavorano senza sosta, non soltanto quando piovono in casa i soldi di qualche bando. Si svolgono festival letterari e cinematografici con ospiti di caratura nazionale, esiste un museo archeologico statale, dei siti storici e architettonici fruibili come la Abbazia benedettina di Santa Maria di Sant’Eufemia risalente alla seconda metà dell’XI secolo; ci sono caffè letterari, teatri, librerie e biblioteche: un’offerta culturale da fare invidia a quasi tutti gli altri paesi della regione e non solo.

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    L’Abbazia benedettina

    Il turismo poi, seppur la città non abbia mai avuto una spiccata vocazione turistica e nemmeno questo impellente interesse a diventarlo, esiste. Contenuto, che non produce lunghi “oooh” di stupore, ma esiste. Da maggio a settembre, gruppi di turisti, italiani e stranieri, passeggiano per le vie del centro e affollano i locali. Pernottano nei molteplici alberghi e b&b da qualche anno spuntati come porcini e gallinacci in ogni angolo della vastissima città, non soltanto nel centro o nei dintorni dello scalo ferroviario principale o dell’aeroporto internazionale.

    L’aeroporto di Lamezia Terme e i turisti

    Di sicuro l’aeroporto internazionale di Lamezia Terme “Sant’Eufemia” codice IATA: SUF – ché è questa la sua unica denominazione possibile – è il principale artefice della notorietà della città e del flusso turistico locale, sia di passaggio che stazionario. Efficiente punto di riferimento per i viaggiatori e turisti che vogliono visitare la arcaica e misteriosa Calabria – ché mica è cambiata poi tanto la visione della Calabria all’estero rispetto a quella dei viaggiatori del Grand Tour –, quello di Lamezia è pure per tantissimi versi anche il solo autentico scalo aeroportuale della regione, con voli a basso costo di compagnie internazionali volte a promuovere il modo di fare turismo del nostro secolo.

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    L’aeroporto di Lamezia

    Certo, buona parte delle persone che atterrano sulla pista parallela al mare lametino (che c’è allora!) poi si spostano verso le mete turistiche più gettonate e attrezzate della nostra terra (Tropea e Soverato), facendo ritorno nella città della Piana soltanto per salire la scaletta dell’aeroplano del ritorno. Ma è chiaro che a Lamezia qualcuno si fermi, anche per una sola notte, e financo il meno obiettivo dei lametini/lamentini non potrà non ammettere che una corposa affluenza turistica si è vista in città questa estate. E il medesimo poco obiettivo lametino non potrà ugualmente non convenire sul fatto che forse la città non è sembrata così pronta.

    Un piccolo sforzo in più

    Peccato. Un luogo strategico come Lamezia Terme, al centro della Calabria, del Sud e del Mediterraneo, e con una popolazione così vibrante potrebbe fare quel pizzico di sforzo in più per rendersi conforme e più appetibile alle esigenze del turismo d’oggigiorno. Oppure che sia proprio questo il punto? Non sarà mica solo una tattica per non omologarsi ai dettami della società di massa?
    Potremmo rifletterci, ma siamo troppo stanchi, siamo ancora così fiaccati dalla lunga calura estiva. Perciò assopiamoci col rincrescimento – per carità, nulla che ci tolga né la fame né il sonno – di un’altra estate perduta. Senza somme da tirare, senza orizzonti, senza sogni e senza mare.
    Oh, che peccato che il mare non bagni Lamezia.

  • IN FONDO A SUD | Il taccuino dei Berenson

    IN FONDO A SUD | Il taccuino dei Berenson

    Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.

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    Una Fiat 3½ HP

    Otto macchine sulle strade calabresi

    Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.

    Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Calabrie per stranieri e viaggiatori

    Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.

    Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.

    Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.

    Addio Grand Tour

    Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.

    Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.

    La Guida Touring del 1940

     

    Granturismo Calabrie

    Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.

    Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.

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    Bernard Berenson a “I Tatti” sulle colline fiorentine

     

    Calabria, Berenson e il diario

    Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.

    Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.

    Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria

    Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.

    Piazza Parrasio nel centro storico di Cosenza in una foto d’epoca

    I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.

    L’amico di Marcel Proust

    Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.

    Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».

    Old Calabria

    Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.

    Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.

    Le bandiere blu ante litteram

    Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.

    I Berenson da giovani

    Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.

    Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.

    Il reportage di Berenson sulla Calabria

    Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.

    Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.

    La Calabria che non c’è più

    Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».

    Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».

    L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.

    Tempi di mezzo

    Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».

    Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.

    Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.

    Prima della cementificazione

    E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».

    Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».

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    Una parte della spiaggia nel territorio di Praia a Mare

    Praia a Mare: fine del viaggio

    L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».

    Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.

  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

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    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

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    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

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    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.

  • Locri, mare e cultura di una piccola Grecia d’Occidente

    Locri, mare e cultura di una piccola Grecia d’Occidente

    Ho trascorso una breve vacanza a Locri, cinque giorni presso l’Ostello Locride, una struttura che fa parte della galassia GOEL, un gruppo di persone, progetti, attività economiche, attivo ormai da venti anni in questo pezzo di Calabria. Una storia interessante, la si può leggere sul sito dell’Ostello. Un immobile sequestrato alla ‘ndrangheta, acquisito dal Comune e dato in gestione appunto a GOEL. Goel è un nome biblico, colui che riscatta e libera le persone.

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    L’ostello nello stabile dato in gestione a Goel

    Il mare dei Greci

    A Locri si può andare al mare, ovviamente, ma pure visitare un vasto parco archeologico, esteso oltre i limiti comunali, nel limitrofo territorio di Portigliola. Il mare richiama, evoca, la storia antica di questa terra e pure quella attuale, dato il continuo arrivo di barconi e gommoni stracarichi di fuggitivi di tutte le guerre del mondo.
    Le spiagge di questo lembo di Calabria sono immense, bianche di sabbia e piccoli ciottoli; a Locri sono presenti i lidi, ma tra uno e l’altro i tratti liberi sono molto estesi, attrezzati di docce, bidoni per la raccolta differenziata dei rifiuti e accessi facilitati. Parcheggi gratuiti e intervallati da posti riservati a disabili e madri con bambini piccoli. Enumero questi particolari perché in altre rinomate e blasonate località sul mare il parcheggio si paga (quando ve bene, anzi, benissimo) 2 euro l’ora, le spiagge libere sono ridotte a qualche scampolo, e il mare non sembra neanche pulito, con tutto il rispetto per le bandiere blu.

    Da cosentino attempato mi chiedo, poi, quali colpe ancestrali dei nostri mitici antenati o quali attività fantasiose e creative più recenti abbiano portato alla distruzione delle spiagge della mia infanzia, sul Tirreno cosentino, dato che lungo la Statale 106 non ho visto battaglioni di carabinieri impegnati a sorvegliare il bagnasciuga, come lo chiamava un tale famoso.

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    Reperti nel Parco archeologico di Locri

    Visita (non guidata) al Parco archeologico

    Torniamo alle processioni sacre della Magna Graecia, che è meglio. Il parco archeologico è vasto, percorrerlo a piedi sotto la canicola per me sarebbe letale, mi limito a qualche passeggiata simbolica, fino all’area di Centocamere, il quartiere degli artigiani, con i forni per cuocere le anfore oggi in mostra nel museo. Torno indietro, l’allestimento del museo è recentissimo, la climatizzazione funziona a meraviglia, l’apparato illustrativo e i video sono stati realizzati in modo così chiaro, efficace, che pure i lanzichenecchi di Elkann, nel caso di una trasferta a Locri, si orienterebbero.

    Le donne di Locri

    Le aree di scavo sono distanti una dall’altra, la città doveva essere vasta e le ricerche sono state condotte in tempi recenti, la mancanza di fondi ostacola ulteriori campagne di scavi, dato che i nuovi ritrovamenti poi andrebbero sorvegliati e protetti. Le foto in bianco e nero mostrano il sito di una fonte sotterranea, dove le donne di Locri si recavano in processione, per i bagni rituali. Le più giovani per sancire la loro condizione di nubende, pronte alle nozze. Le altre per invocare fecondità e abbondanza, in occasione dei culti in onore della dea Demetra, la protettrice dei raccolti.
    In onore di Demetra le suddette signore sacrificavano dei maialini, seppelliti vivi, immolati alla fecondità dei campi. Dovevano strillare parecchio, i maialini, ma ai tempi la Protezione animali non era stata inventata, anzi gli studiosi sono sicuri che in epoche più oscure i sacerdoti immolassero persone, sugli altari posti davanti ai templi. Le ragioni? Placare gli dei, vincere la guerra, ottenere raccolti abbondanti.

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    Ripensando al Pasolini di Calabria

    Questo viavai di processioni femminili oggi si svolge soprattutto tra il lungomare, le spiagge e i lidi, in forma decisamente incruenta e molto gradita alla popolazione maschile di ogni età. Tutti ricordano le frasi di Pasolini, quando visitò le spiagge meridionali, durante un suo celebre reportage, scrisse che erano popolate da frotte di maschi annoiati e disperati, che non riuscivano a incrociare una ragazza, neanche una, su quelle spiagge desolate.
    Sarà per lasciarsi alle spalle questo passato imbarazzante e deprimente che le donne di tutte le età occupano militarmente i punti strategici di ogni lido, di ogni spiaggia, oppure corrono in bicicletta sul lungomare, amazzoni scattanti e vigili. Intanto i maschi, prostrati dal caldo, cercano di darsi un tono con una birra in mano, ormai calda e imbevibile.

    Cassandra

    Vicino alla mia postazione un bambino chiama insistentemente la nonna, che infine, seccata, emerge dal lettino: abbronzatissima, ossigenata, occhiali da sole e bikini leopardato. Sono questi i momenti in cui si avverte l’assenza della penna di Pasolini.
    Di sera si può andare a teatro, in scena Cassandra Site Specific di e con Elisabetta Pozzi, che dirige anche la rassegna annuale: Tra mito e storia. Festival del teatro classico di Locri Epizefiri.
    Appuntamento a Portigliola, presso il Palatium romano di quote San Francesco. Per non perdermi lungo la statale 106 digito tuto il toponimo e il navigatore mi deposita davanti allo spiazzo, dove la Pozzi e i tecnici stanno provando microfoni e luci. Alla fine siamo almeno duecento persone, il luogo è suggestivo, il personaggio di Cassandra viene attualizzato con riferimenti a vicende recenti, modificando il testo che la Pozzi porta in scena da oltre un decennio.

    Nessuno dava ascolto a Cassandra, come potevano essere così dissennati i suoi concittadini? Come potevano fidarsi dei Greci e del cavallo di legno lasciato sulla spiaggia?
    Anche oggi ci sono ministri che dicono che va tutto bene, fa caldo, è estate, ripetono, mentre il termometro indica temperature da incubo.

    Elisabetta Pozzi

    Dopo lo spettacolo Elisabetta Pozzi chiacchiera con il pubblico, la notte è quasi fresca, il peggio dell’estate, forse, è passato.
    Ci guardiamo intorno prima di andare via, si tratta di una campagna disseminata di masserie, agrumeti e orti, forse pure sotto il pavimento di questi edifici si troverebbero le anfore per il vino e l’olio di duemila anni fa, come è accaduto sotto la masseria Macrì, che oggi, inglobata nel museo, mostra le stratificazioni romane e quelle greche più giù. Perché dopo i greci qui sono arrivati i romani, a quindici chilometri da Portigliola si può visitare la villa romana di Casignana, enorme, migliaia di metri quadrati di edifici ancora da riportare alla luce. Le due parti visibili della villa, scoperta casualmente nel 1963, sono collegate da un sottopasso su cui scorre il traffico della statale 106. Dal triclinio si vede il mare oltre un boschetto; era una dimora da ricconi, mosaici dappertutto e impianti termali. Bella vita.

    A Locri c’è pure il cinema all’aperto, a palazzo Zappia, proiettano Astolfo, di Di Gregorio. Un vecchio professore, distratto rispetto ai suoi interessi, si trova costretto a tornare nella dimora di famiglia, in abbandono da anni. Dove però incontra persone interessanti e forse si innamora. Palazzo Zappia è un po’ malandato, ma questa Locri di fine Ottocento ha un suo fascino. Qui e nei palazzi vicini hanno pensato di staccarsi da Gerace, di ottenere, nel 1905, l’autonomia per Gerace Marina. E poi, dal 1934, fregiarsi del nome prestigioso della città riemersa dopo venti secoli. Persone intraprendenti.

    Una targa ricorda una data importante per la comunità locrese

    Il cameriere oratore

    Ultima sera a Locri, cena all’aperto, in un locale che è insieme ristorante pizzeria. Il cameriere è alle prese con un tavolo di ragazzini pestiferi. Consapevole di trovarsi forse nell’antica agorà di Locri Epizefiri (ancora non localizzata) prova a convincerli con un discorso razionale, sulle orme degli antichi oratori. Chiede di votare per alzata di mano, come si usa in democrazia, vorrebbe riepilogare le ordinazioni, cerca di attrarre l’uditorio con argomentazioni ineccepibili (poi dite che non vi arriva quello che avete chiesto, poi vi lamentate con i vostri genitori).

    Ma come accadeva oltre duemila anni fa, il demos, il popolo non ascolta la voce della ragione. I ragazzini se ne sbattono dell’accorato discorso, l’oratore rinuncia, va via sconfitto, come tanti brillanti filosofi, estromessi dalla voce volgare del demagogo di turno. Anzi i greci li hanno messi a morte i loro uomini migliori oppure mandati in esilio, che era peggio della morte per un greco. Così finì miseramente la democrazia antica, così naviga in acque pericolose la nostra, propensa a seguire il Trump di turno. Domani mattina restituirò la brocca cerimoniale e tirerò le somme di questa vacanza sostenibile in terra di Locri. Ma posso già ammettere che i conti sono positivi, posso dirlo già qui, in piazza, dove ancora oggi si svolge il confronto delle idee che tanta luce ha portato alla nostra traballante civiltà.

  • STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    Esiste un libro, costosetto, sui “linguaggi fischiati”. Un saggio scientifico, roba serissima, con tutti i crismi accademici, scritto da due linguisti: Meyer & Busnel. Busnel ne aveva già scritto uno più ridotto, assieme al collega Classe, quarant’anni prima. Esistono infatti ancora parecchie popolazioni, al mondo, che sanno fare uso di una vera e propria lingua alternativa e, appunto, fatta di soli fischi.

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    Illustrazione sulle diverse modalità di fischiare utilizzando le dita

    C’è un grido per le vacche, uno per i tacchini

    Ho recuperato entrambi i libri, per un motivo che c’entra solo a metà con queste Strade Perdute: anni fa restai affascinato dalla varietà di grida utilizzate da una certa famiglia di contadini nel dare varie indicazioni ad animali di diversa tipologia. Potenza della vita civilizzata (sono ironico): riescono a sorprenderci cose che fino a 150 anni fa avremmo ascoltato forse quotidianamente, senza troppe difficoltà… Per fortuna c’è chi ancora queste cose le sa, ne fa uso, le tramanda per necessità: c’è il grido per le vacche, quello per le pecore, per i tacchini, le oche, i cavalli, i muli. Il grido per avvicinarli, per allontanarli, eccetera. Leggevo da qualche altra parte che addirittura i bufalari in Terra di Lavoro affibbiano specifici nomi ad ogni capo. E i capi comprendono, registrano, rispondono solo se chiamati con quel nome. Guai a sbagliarsi, i bufali sono orgogliosissimi.

    Il tempo si è fermato a Montegiordano

    A due passi – si fa per dire – dal centro storico di Montegiordano vive una famiglia di contadini e allevatori esemplare. La cultura rurale alla massima potenza: figli e figlie hanno imparato a due anni ad andare a cavallo senza sella, tutto si produce in casa, dal pane alla carne passando ovviamente per i prodotti dell’orto. Sei raffreddato? Devi fare un giro all’alba nelle stalle, a respirare l’odore del letame fresco.

    Sei febbricitante? Raccogli la liquirizia, la metti a bollire in tre litri d’acqua, con tre foglie d’alloro, tre fichi secchi e tre fascette di camomilla. Quando i tre litri sono evaporati fino a diventare un litro solo, allora bevi. Tutto ciò accade in una masseria ubicata in mezzo a un paradiso terrestre: un’ex grangia cistercense di impianto addirittura duecentesco, che gli appassionati di studi federiciani dovrebbero considerare un po’ di più, senza limitarsi alla solita solfa dei castelli e dello scenografico sistema difensivo. E se lo dico c’è un motivo…

    Ruderi della grancia cistercense in agro di Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Perfino l’archeologo Lorenzo Quilici visitò la masseria nel 1961. Perfino lo scrittore Tiziano Fratus l’ha recentemente perlustrata e ne ha annotato gli alberi più monumentali tutt’intorno. Mentre qualche anziano contadino di quello stesso circondario ancora utilizza – e perciò ancora ‘possiede’ – un vocabolo dialettale apparentemente avulso dalla semplicità del contesto rurale, e invece profondamente connesso: lo spartagguale, ovvero l’equinozio, segno di un’antica conoscenza contadina dei rudimenti astronomici (mettiamocelo in testa: il vocabolario di un analfabeta di duecento anni fa era molto probabilmente più vasto di quello di un comune ignorante odierno).

    Io mi diverto invece a porre al capofamiglia domande imbarazzanti, del tipo se lui abbia mai visto in zona un roi de rats  (risposta: no) oppure «come mai non si produce il formaggio di donna?». Solo che la risposta è ancora più imbarazzante: «Perché il sapore non è buono». Colpito e affondato nei nuovi dubbi. Mi racconta che in una cucciolata di maialini ogni piccolo sceglie un determinato capezzolo materno da cui attingere. Da lì in avanti non avviene nessuno scambio: a ciascuno il suo. E se un cucciolo muore anzitempo, il “suo” capezzolo rinsecchisce. C’è poco da scherzare: quanto alle mie provocazioni in merito al latte di altri mammiferi (scrofe, cagne, cavalle, coniglie, gatte), pare che il problema sia molteplice.

    Latte di porco 

    Vi è innanzitutto una questione quantitativa: questi animali fanno troppo poco latte e per periodi troppo brevi (ergo l’investimento potrebbe non risultare vantaggioso); e una questione qualitativa: il latte di questi animali non è effettivamente gradevole al palato umano (chiediamoci: se fosse stato minimamente commestibile… davvero milioni di poveri contadini nella storia dell’umanità non ne avrebbero mai approfittato?). E però entrambi questi fattori oggi possono essere superati in un mercato di nicchia, dato che non è affatto difficile trovare accaniti consumatori di cibi tanto ‘esotici’ quanto apparentemente rivoltanti alla vista e al gusto (tempo fa andava di moda il costosissimo caffè fatto con chicchi precedentemente mangiati, digeriti e defecati da un simpatico zibetto).

    Chicchi di caffè di zibetto

    Il problema del gusto quindi non si pone per quanto riguarda il latte umano, visto che tutti l’abbiamo bevuto. E ci piaceva pure. Quanto alla quantità: quanti bambini sono stati allattati da balie che lo facevano di mestiere? Il problema sta semmai nella pastorizzazione. Sulla legalità della cosa, in linea di massima non sussisterebbe alcun problema, rientrando comunque negli atti di disposizione che non ledono in modo permanente l’integrità fisica della persona (si posso vendere i propri capelli, le proprie unghie (ammesso che vi sia domanda). Perché poi il latte d’asina sì, e il latte di cavalla no?

    Contadini con la C maiuscola a Montegiordano

    Ma torniamo alle cose commestibili: invitato a pranzo da questi Contadini (la maiuscola, qui, è d’obbligo), davanti al ben di Dio c’è poco di che applicare la regola della “creanza del cardalana” che consisterebbe nel lasciare educatamente sempre qualcosa nel piatto: la usavano gli esperti cardatori, lavorando a domicilio e perciò necessariamente invitati a pranzo, per evitare di apparire troppo famelici.

    E dopo il primo, l’agnello al forno, le cotenne e le orecchie di maiale, le polpette, la soppressata, le cicorie selvatiche, cipolle&uova, i piselli, le olive e litri di vino, tra i fumi dell’alcool e della digestione, un indovinello dialettale e un altro, mi rendo conto che più passano i minuti meno ho la lucidità di afferrare il loro discutere di mandrie e greggi da recuperare qua e là, fuggitive per la pioggia; e così arrivo all’ebbra conclusione che questi, c’è poco da scherzare, parlano greco. Un greco travestito da italiano. Altro che Area Lausberg, nel cui mezzo ci troviamo optime, ovvero quella zona linguisticamente nota con il nome di Mittelzone, quella ‘zona arcaica calabro-lucana’ che si contraddistingue per il particolare sistema vocalico equivalente a quello sardo.

    Il vecchio cementificio lungo la Statale 106

    Montegiordano e il Nordest di Calabria

    Siamo nei boschi un tempo appartenenti a Oriolo Calabro (Ursulus, Orgilus, Ordiolus), prima ancora che il paese di Montegiordano venisse fondato dove – carte del 1015 alla mano – sorgeva il castello di Petra Coeci e il monastero di Sant’Anania, che non stavano affatto in territorio di Nocara, come da qualche archeologo locale erroneamente affermato. Se andiamo avanti così, archeologi di questo tipo faranno fatica tra cent’anni persino a individuare il vecchio cementificio montegiordanese lungo la vecchia statale 106, interessante esempio di rudere industriale in mezzo al profumo dei pini d’Aleppo.

    E proprio lungo questa statale si può ancora accedere ad una delle spiagge più appartate e scenografiche: una contorta pineta naturale, scogli affioranti – gli scogli della Grilla e della Galera – e acqua trasparente, il tutto preferibile a giugno o a settembre, quando vi si incontrano solo sparuti gruppi di pescatori all’alba, cioè prima o dopo della ressa luglio-agostana – tendenzialmente apulo-materana, va detto – che purtroppo fa di questa spiaggia una mezza discarica.

    Ma siamo già al confine con il Comune di Roseto Capo Spulico come già annotava comicamente un atto del 1742, per niente avaro di sostantivi reiterati con funzione di moto per luogo: «Comincia detto confine dalla volta della Grilla, canale canale esce alla terra della Caprara, confinante col territorio di Roseto, e serra serra per lo lago del Vintrioso, che confina col territorio di detta Terra d’Oriolo, serra serra và al Monte grande confine colla Rocca Imperiale, scende nuovamente serra serra per la Timpa di Vitale, scende al Canale, che confina con detta Terra di Rocca Imperiale e canale canale esce al batto del mare e marina marina và al piano della volta della Grilla medesimo fine». Musica.

    La pineta naturale presso lo Scoglio La Grilla (foto L.I. Fragale)
  • GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    L’Aspromonte ha avuto un suo Rinascimento. Qualcuno direbbe che ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo di quello italiano.
    Pochi sanno infatti che i borghi della Montagna Lucente ospitano un vero e proprio patrimonio diffuso di beni storico-artistici, spesso celati, comunque poco conosciuti. O addirittura sequestrati perché all’interno di immobili inaccessibili o a rischio crollo.
    Che i beni artistici italiani non siano valorizzati a dovere è noto. Ma che l’Aspromonte nasconda opere scultoree di rilevanza nazionale e mondiale, lo sanno in pochi. Anzi pochissimi Pasquale Faenza, storico dell’arte e già direttore del Museo Rohlfs della Lingua Greca di Bova, ha aperto a me e a molti questa finestra.
    Partito con l’intento di scandagliare il cosiddetto modello Bova e di inserire il suo museo in una più ampia narrazione della capitale della Calabria greca, avevo sondato qualche conoscenza per ampliare lo spettro della mia ricerca.
    Tra i contattati c’era Pasquale. Con lui il discorso è caduto sui beni culturali che rendono l’Aspromonte di per sé opera d’arte, quasi un museo a cielo aperto.

     

    L’arte d’Aspromonte: dal Rinascimento al Barocco

    È una torrida mattina di luglio. Il sole è già implacabile e l’aria comincia a rarefarsi. Seduto davanti a una tazza di caffè troppo calda, tra il vociare degli astanti, ascolto Pasquale.
    «Proprio dall’Aspromonte sorge il Rinascimento. Boccaccio e Petrarca imparano il greco attraverso Barlaham di Seminara, padre dell’Umanesimo, e Leonzio Pilato, tra i primi promotori dello studio della lingua greca nell’Europa occidentale e traduttore di Omero.
    È il tempo in cui la Calabria con il suo monachesimo è très d’union tra Costantinopoli e l’Europa cristiana.
    In questo contesto l’Aspromonte ottiene un ruolo di primo piano. Grande contenitore di legname e pece e sito di produzione della seta, è una terra florida per commerci e interscambi, sede di cenacoli culturali pari a quelli del Centro Italia.
    Fioriscono botteghe, vengono prodotte e fatte circolare opere d’arte di pregio per arricchire i moltissimi luoghi di culto che insistono su quei territori. Tutto questo ci porta a comprendere il ruolo che ha avuto questa montagna non solo per la Penisola, ma per l’intera area mediterranea».

    Un passato eterno tra riti e simbologie 

    Pasquale si riferisce al periodo tra ’400 e ’600. In questa epoca la Calabria ha un ruolo centrale nella crescita demografica ed economica del Paese.
    È un momento in cui «esisteva un’economia che oggi non c’è più, ma che è stata fondamentale per la nascita di questi movimenti culturali».
    Le tracce di questo passato, oggetto di una devozione popolare estremamente radicata, si riflettono nei culti mariani e nella rappresentazione dei santi guerrieri e degli elementi che li corredano.
    Ad esempio, San Leo con la palla di pece in mano, o le varie Madonne che ostendono le mele, ’i pumiceddhi, tipiche di queste latitudini. O San Teodoro e San Michele, miliziani, emblema di difesa dalle invasioni saracene.
    Questa simbologia svela le ricchezze e le criticità di un intero territorio, fino ad arrivare al culto pagano della Grande Madre e della fertilità, cristallizzato nell’effige della Madonna di Polsi. O nelle Pupazze di Bova. Oppure nella raffigurazione di Sant’Anna e sua figlia.

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    La Madonna con Bambino di Giuseppe Bottone

    Arte d’Aspromonte: capolavori nascosti

    Insieme alla Fondazione Scopelliti, Pasquale promuove Capolavori d’Aspromonte. questo progetto, a sua volta, deriva da Rinascimento di Aspromonte, ideato e gestito qualche anno fa insieme a Giuseppe Bombino, allora presidente del Parco.
    «Tutto è iniziato col restauro dell’Annunciazione di Gagini nella chiesa di Bagaladi condotto assieme all’antropologa Patrizia Giancotti e promossa poi con la realizzazione di contenuti digitali collegati a un QR code. È stato un grande successo».
    Capolavori d’Aspromonte, continua Pasquale, «parte da quell’esperienza e nasce per valorizzare il patrimonio storico-artistico poco noto e diffuso in tutto l’Aspromonte.
    Ogni centro storico possiede un’opera d’arte databile tra ’400, ’500 e ’600.
    Da Gagini, a Montorsoli a Pietro Bernini, i nostri borghi traboccano di opere importantissime che ci consentono di creare percorsi di conoscenza e riscoperta per rileggere il Rinascimento italiano sotto una nuova luce. Attraverso una lente che esce dal seminato del toscano-centrismo.
    La storia dell’arte è stata letta partendo dalle grandi capitali degli Stati italiani, ma quello che conosciamo è solo una parte».

    Arte d’Aspromonte: un percorso tra i borghi

    La lista dei siti dove sono presenti sculture marmoree databili tra XV e XVII secolo è lunga e articolata.
    Passa dalle ultime colline che diradano verso il mare fino al cuore della montagna.
    Sono cinquantadue borghi che vanno da Bova a Pentedattilo, da Scilla a Seminara, da Bagaladi a Roccaforte del Greco, da Gallicianò ad Africo Vecchio, da Caulonia a Stilo, da Oppido Mamertina a Terranova, da Sant’Eufemia a Palizzi.
    In alcuni di questi siti sono state già organizzate escursioni e molte altre sono già programmate.
    In un luogo in cui germinano le proto-filiere del turismo lento, Pasquale ha un obiettivo: unire i percorsi e arricchire le escursioni naturalistiche con un’offerta più sfaccettata.
    «La meta finale è potenziare la fruizione turistica coinvolgendo le guide turistiche. In particolare, le guide del Parco, che conoscono l’Aspromonte e lo battono quotidianamente.
    La Fondazione finanzierà la redazione della guida che sto compilando in due versioni, cartacea e digitale. Una volta tracciati i siti e individuati i percorsi, le guide diverranno veri e propri moltiplicatori di nuovi viaggi di senso. La creazione di sentieri della cultura attorno a percorsi naturalistici già battuti, apre scenari nuovi. Questi sono collegati a un Rinascimento aspromontano sconosciuto. Ciò rappresenta di per sé una notizia e, in seguito a studi dedicati, potrebbe riservare grandi sorprese», prosegue Pasquale.

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    La Madonna della Candelora di Giuseppe Bottone

    Tutti gli ostacoli da eliminare

    Proprio lo studio e la ricerca sono il primo ostacolo.
    «Sul territorio mancano gli enti che se ne occupino. Non mi pare che le Università calabresi abbiano mai aperto un filone di studio e ricerca sul tema né che l’Accademia di Belle Arti di Reggio abbia prodotto pubblicazioni dedicate.
    Guarda invece l’escursionismo naturalistico: molte tra le guide hanno solidi studi di agraria alle spalle e l’Università Mediterranea ha sempre fatto la sua parte.
    La carenza di approfondimento scientifico sui beni culturali in Aspromonte intacca l’avvio di un percorso che punta alla valorizzazione e all’apertura di nuovi comparti del mercato turistico».
    A ciò si aggiungono altre criticità non proprio secondarie: i siti che ospitano tale patrimonio artistico sono spesso inaccessibili.
    Sono chiese secondarie, a volte fatiscenti, che soffrono la mancanza di parroci e personale.
    «Nelle chiese dei territori più isolati, tutto va gestito con cautela. Ma l’indotto economico potrebbe diventare uno sprone per far riaprire quei luoghi. Basta vedere quello che è successo a Pietrapennata di Palizzi».
    Nella chiesa dello Spirito Santo è conservata la Madonna dell’Alica, un gruppo marmoreo cinquecentesco attribuito ad Antonello Gagini nel periodo della maturità.
    «La chiesa era inaccessibile e pericolante. Con il coinvolgimento del Fai, della comunità e del parroco di Palizzi, abbiamo puntellato il tetto pericolante e abbiamo organizzato delle escursioni.
    E poi, grazie al tramite di una guida, alcune donne del luogo hanno preparato e venduto le colazioni. Tutto molto alla buona, ma questo inizio ha fatto comprendere il ruolo di traino che un bene turistico può esercitare. Il web, poi, può fare il resto».
    Lo stesso meccanismo è stato avviato anche ad Ardore con la Madonna della Grotta di Bombile, o ad Oppido con le opere custodite nella diocesi, dove due parroci hanno incentivato la valorizzazione di questi patrimoni.

    La Madonna della Grotta di Antonello Gagini

    Etnografia e arte in Aspromonte: oltre il turismo lento

    Alla base serve un lavoro amplio che va dallo studio alla catalogazione, dall’aggiornamento alla divulgazione.
    Con incursioni che si spostano dalla storia dell’arte all’etnografia. Perché il patrimonio diffuso in Aspromonte non ha solo un valore artistico, ma soprattutto etnografico.
    «Più che altrove, in Aspromonte sono rimasti una forte devozione popolare, un senso di comunità mai sopito e una ritualità che ancora si tramanda vividamente.
    Al valore storico-artistico del territorio si associa la devozione popolare che lo rende vivo e lo trasforma in vero e proprio bene immateriale.
    Sul settore etnografico la Calabria è scoperta. A parte il lavoro svolto all’Unical da Vito Teti, oggi in pensione, c’è stato poco. In questo momento ci saranno uno o due etnografi presso le Soprintendenze. Da direttore del Museo Rohlfs ho dovuto realizzare in autonomia le schede di catalogo. È un vero peccato: l’aspetto che potrebbe avere maggiormente successo è anche quello poco studiato».
    Il passaggio verso la valorizzazione etnografica – che oggi è il grande richiamo all’arcaico o all’esotico – è un percorso lungo e non facile.
    «Significa lavorare sulle e con le comunità, solitamente gelose e diffidenti se si sentono esautorate del ruolo di protagoniste assolute. È un lungo lavoro di preparazione, ascolto, confronto e persuasione.
    Ma quando inizi a comprendere il valore dell’effige di devozione che caratterizza il tuo paese, il ruolo che ha avuto, ad esempio, il tuo antenato, quello della tua comunità, fino ad arrivare a quello della Regione in un contesto mediterraneo allargato, riscopri un tesoro.
    Il fatto che una nuova generazione possa conoscere il proprio Rinascimento o il processo di sviluppo della Calabria, arricchisce i centri storici e i borghi che rischiano di diventare contenitori vuoti, pieni magari di neonate botteghe, ma privi di contenuti. È questo percorso che crea il valore aggiunto di un brand autentico».

    Arte: quale brand per l’Aspromonte

    In una recente intervista, Francesco Aiello, docente di Politica economica dell’Unical, è stato netto: non è possibile mettere a punto un sistema turistico basato solo sul turismo lento.
    In una breve conversazione telefonica con chi scrive, il prof di Arcavacata ha affermato: «Chi sostiene che il turismo lento possa arrivare a costituire il 13% del Pil regionale non dice la verità.
    Oggi registriamo una forchetta che va dal 4 al 5% con margini di miglioramento. Ma il bacino di utenza del turismo lento non può spingere la quota parte del nostro prodotto interno lordo a una doppia cifra.
    Serve piuttosto lavorare su strategie in grado di caratterizzare il sistema montagna, differenziandolo dall’offerta presente in altri territori. Perché scegliere Camigliatello o Gambarie invece di Roccaraso?»
    Questo induce una riflessione sul fatidico brand Aspromonte di cui avevo parlato con Tiziana Pizzati a Samo.
    Anche Pasquale insiste molto su questo tema: «La nostra cultura (e la conseguente narrazione) si è sempre fermata all’archeologia, ad una Magna Grecia più raccontata che “resuscitata”.
    Così quando arrivi in Calabria, in particolare nel Reggino, ti aspetteresti di vederla, ma non la trovi. Non puoi basare l’identità su un elemento commerciale, come sono vissuti i Bronzi di Riace a Reggio. Se a questo aggiungi che la popolazione calabrese, in media, ignora la propria storia, il cerchio si chiude».
    Quest’esperienza, quindi, rischia di sconfinare nella mitopoietica. Certo, un percorso di promozione turistica è iniziato. Tuttavia, questa lenta operazione ha una grande lacuna. Spiega ancora Pasquale «Non puoi pensare di creare una crescita turistica di lungo periodo se non hai portatori autentici di quel vissuto, testimoni viventi, presenti, narranti e agenti di una storia cristallizzata in opere, rituali e costumi di cui ignori origini e sviluppi.
    Non puoi permetterti di basare una strategia di sviluppo sull’idea del selvaggio e sul dramma dell’abbandono.
    Se invece lavori per potenziare questi luoghi, esaltandone la cifra culturale ed etnografica, puoi creare un modello autenticamente sostenibile con ampli margini di crescita. Puoi intercettare nuovi target e utenze: penso ad appassionati di arte, operatori del settore, e così via. Ecco perché è necessario insistere sulla formazione delle comunità e dei suoi membri. Solo questa riscoperta può scardinare un senso di inferiorità interiorizzato».

    Domenico Guarna

    La voce delle guide

    Su tale aspetto concorda Domenico Guarna, giornalista e guida escursionistica Agae: «Il turismo è una scienza sociale ed economica e da tale va trattata. Ciò implica studiare operazioni scientifiche basate su dati, proiezioni, valutazioni di mercato.
    Inoltre, occorre coinvolgere le comunità, altrimenti si rischiano danni. Resta il fatto che non conosciamo quello che abbiamo e quindi non siamo in grado di presentarlo».
    Domenico si riferisce a un fatto accaduto a Montebello Jonico. Lì era in programma il restauro della statua marmorea della chiesa madre. La comunità era stata informata e coinvolta in modo troppo blando.
    Ne scaturì una polemica, dovuta alla paura che l’opera fosse sottratta e mai restituita. Le posizioni si irrigidirono e, nonostante i tardivi incontri di mediazione, quel restauro non andò in porto.

    Raccontare la montagna: la forza del sapere

    «In territori come i nostri le guide hanno un valore specifico. Luoghi abbandonati, privi di elementi che ne facilitino la decodifica, hanno bisogno di un racconto competente. Serve un ripensamento del paradigma economico: oltrepassare il turismo lento o l’organizzazione di un evento culturale spot per costruire delle vere e proprie economie», continua Domenico.
    La parola chiave è mettere a sistema perché, ad esempio, ad oggi manca un circuito unitario dei beni storico-culturali: «L’inaccessibilità di certi posti non può più essere tollerata. Guarda cosa succede con l’area archeologica Griso Laboccetta di Reggio.
    Perché per quest’area, come per innumerevoli altre in città o in Aspromonte, non è stato studiato un sistema di ingresso a ciclo unico?
    E perché dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il bando guide emanato dalla Città Metropolitana, competente in materia turistica, nessuno è intervenuto per colmare il vuoto legislativo evidenziato? E dire che il numero delle guide turistiche in Calabria è talmente esiguo da necessitare un rimpolpamento», chiosa Domenico.

    L’Epifania di Giovambattista Mazzolo

    Aspromonte: il programma che non c’è 

    Che a tutto questo si sommi un deficit di pianificazione da parte degli enti pubblici non è una novità.
    Così, al riguardo, Pasquale: «Le istituzioni non sono mai riuscite a creare itinerari fruibili. Pensa che sui parchi archeologici avevo iniziato un lavoro per fare riemergere la biodiversità archeologica.
    Funzionava così: mentre si effettuava uno scavo, con il supporto di botanici e genetisti, venivano utilizzati i pollini rinvenuti per recuperare certe piante che poi dovevano essere coltivate.
    Questo ti permetteva di ricreare l’ambiente originario e di mettere a punto diverse produzioni (fichi antichi, nocciole, ecc) da vendere all’interno del parco stesso o presso i circuiti museali. Il parco stesso diventava un’azienda. Avevo proposto l’idea al Parco Archeologico di Locri. In diversi mi avevano risposto che non era una strada percorribile. Oggi lo sta facendo Pompei…», chiude Pasquale.

    Chiese Aperte

    Per parte sua, la Diocesi di Reggio, attraverso l’Ufficio per i Beni Culturali guidato da Don Mimmo Rodà, ha promosso il progetto Chiese Aperte.
    Dal 2012 al 2017 l’iniziativa ha formato circa 300 volontari nel quadro della valorizzazione degli edifici di culto di rilievo storico per farne operatori turistici delle loro stesse chiese di appartenenza.
    Il tutto con un obiettivo finale: spingere i beneficiari di quella formazione a realizzare cooperative e associazioni in grado di dare impulso al settore del turismo culturale e religioso.
    Secondo Lucia Lojacono, direttrice del Museo diocesano di Reggio Calabria, «non si è riusciti ad avviare queste forme organizzate.
    È necessario ripartire con forme di intervento diverse. Ad oggi restiamo una componente fondamentale nel sistema beni culturali: costituiamo la Consulta regionale in costante dialogo con Regione e Soprintendenza e siamo sollecitati a produrre elenchi dei beni su cui intervenire prioritariamente». Anche perché, spiega Don Rodà, «abbiamo una flessione importante dei proventi dell’8×1000, utilizzati per finanziare Chiese Aperte.
    Il deficit di fondi ci impedisce di intervenire come vorremmo e non siamo in grado di coprire da soli le spese per il restauro delle chiese secondarie. A maggior ragione abbiamo bisogno di un cofinanziamento da parte delle comunità residenti.
    Ma c’è una notizia: abbiamo sottoscritto un protocollo con la Regione che ci permette di partecipare ai bandi europei di finanziamento, impossibile fino a ieri perché, come enti ecclesiastici, non eravamo assimilati agli altri enti privati. Abbiamo aderito con convinzione al progetto Capolavori d’Aspromonte a cui partecipiamo attraverso le diocesi di Oppido-Palmi e Locri-Gerace».

    Don Mimmo Rodà, il direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Reggio Calabria

    Le amministrazioni facciano la loro parte

    Carenza di personale, poco coordinamento pubblico, esiguità di fondi, deficit di pianificazione, incapacità di promuovere sistemi di cooperative legate al privato sociale sono le principali criticità. Mescolare un approccio misto bottom-up e up-bottom potrebbe costituire una soluzione per rafforzare quanto già in atto e per cui è essenziale la regia delle amministrazioni pubbliche – Regione, Province, Comuni, Parco Aspromonte – soprattutto in termini di strategie e di processi a lungo termine di project financing.

  • Raganello, 5 anni dopo: guide assolte, ma Gole ancora chiuse

    Raganello, 5 anni dopo: guide assolte, ma Gole ancora chiuse

    Il 20 Agosto di cinque anni fa una piena improvvisa nelle Gole del Raganello si portava via dieci escursionisti, causando il ferimento di altre decine. In quella occasione il Soccorso Alpino calabrese dispiegò tutte le sue energie, impegnandosi in quello che resterà l’intervento di soccorso più lungo e difficile. Come era prevedibile la Procura di Castrovillari avviò delle indagini che si concretizzarono in due inchieste. La prima riguardava l’accusa di omicidio colposo e coinvolgeva anche il sindaco di Civita e due responsabili delle società coinvolte nell’accompagnamento dei turisti quel giorno. La seconda invece si concentrò sulle guide che in generale conducevano il tour della discesa delle gole.

    Raganello: due gradi di giudizio, tutti assolti

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    Luca Franzese

    Questo secondo filone giudiziario si avvia oramai alla conclusione dopo aver affrontato due gradi di giudizio che hanno visto l’assoluzione delle guide e dei soci delle società turistiche perché il fatto non sussiste.
    «Dopo essere riusciti ad affermare le nostre tesi circa l’inconsistenza delle accuse alle guide e soci delle società turistiche in primo grado e in appello, ora aspettiamo la Cassazione», spiega Luca Franzese, avvocato e al tempo della tragedia presidente del Soccorso alpino. Franzese in quella circostanza fu tra i primi ad intervenire e a coordinare i soccorsi, trovandosi ad affrontare una emergenza che mai era stata immaginata. Infatti numerose erano state le esercitazioni che i tecnici del Soccorso aveva tenuto nelle gole, ma sempre avevano riguardato il recupero di una ipotetica vittima di un incidente, non una tragedia di quelle dimensioni.

    L’esposto delle Guide alpine

    A causare il coinvolgimento dei soci e guide delle associazioni che portavano i turisti nelle gole fu un esposto che presentò il Collegio nazionale delle Guide alpine, . Queste da Milano sollevarono, qualche giorno dopo la tragedia, la questione della legittimità di quelle escursioni. Nessuna  delle guide del Raganello aveva, infatti, il titolo professionale di Guida Alpina. In sua assenza, le guide del Raganello non avrebbero avuto l’abilitazione a condurre le escursioni nelle Gole sia per la difficoltà tecnica del percorso sia per la necessità dell’uso di corde e imbraghi per la progressione in sicurezza nel torrente. In sintesi, le si accusava di esercizio abusivo della professione.

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    Escursione lungo le gole del Raganello

    «L’accusa era completamente infondata ed ingiusta. L’esposto del Collegio delle Guide Alpine fu firmato da chi non era mai stato nella sua vita a Civita e dunque non conosceva le Gole del Raganello. Ci toccò spiegare ai giudici che per quelle escursioni non si poteva applicare la legge 6 del 1989 che obbliga, in terreni particolari di montagna, per gli accompagnatori il titolo professionale di Guida Alpina,. Nel tratto turistico delle Gole non occorreva alcun imbrago, né uso di corde. Di conseguenza, le guide che operavano in quel territorio, in possesso del titolo di Guida Ambientale ed Escursionista non erano assolutamente abusive», afferma Franzese.

    Raganello e Marmolada: due pesi e due misure?

    Serviva però un parere autorevole a riguardo. Così la difesa delle guide chiamò, come perito di parte, dalla Valle D’Aosta Adriano Favre, maestro guida alpina ed istruttore di guida alpina, di indiscusso valore. Favre discese il Raganello, ispezionando con meticolosità ogni passaggio. E certificò la non applicazione della legge sulle Guide Alpine e la mancata necessità di usare corde ed imbraghi.
    La sua perizia finì per risultare determinante nel sostenere la tesi dell’avvocato Franzese. Portò infatti al proscioglimento delle guide del Raganello anche in sede di appello, con sentenza di alcuni mesi fa.

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    I soccorsi sulla Marmolada dopo il distacco del ghiacciaio a luglio 2022

    Se dunque uno dei filoni d’indagine si avvia verso una conclusione, resta dai giorni della tragedia la chiusura delle gole. Erano state per molto tempo attrazione turistica e fonte economica per i territori circostanti, ma ancora oggi risultano sotto sequestro.
    Franzese non si rassegna all’uso nazionale di pesi e misure differenti davanti a tragedie assai somiglianti. Il suo riferimento è alla tragedia della Marmolada, quando agli inizi di luglio dell’anno scorso una valanga travolse e uccise 11 persone.
    Dopo le prime indagini, i sentieri che conducono sulla montagna furono riaperti immediatamente e con essi il flussi turistico. Qui invece dopo molto più tempo nessuno si assume la responsabilità di riaprire le Gole al turismo.

    Le possibili soluzioni e il dibattito che non c’è

    «Eppure – sostiene Franzese – si potrebbe fare. Risulta che la Regione abbiano stanziato cifre importanti per mettere in sicurezza la Gola, attraverso strumenti per monitorare la portata dell’acqua e la collocazione di allarmi. Inoltre, per rendere ancora più sicura la discesa del torrente si potrebbe contingentare il flusso dei visitatori con regole chiare e sicure». In realtà ad impedire di prendere in considerazione l’apertura delle Gole e ridare fiato all’economia del territorio è stata anche una certa arrendevolezza della popolazione. Così come una mancanza di iniziativa dei Comuni e della politica in generale.

    «Nel Nord Italia la pressione dell’opinione pubblica, determinata a non accettare la chiusura di interi suoi territori e risorse naturali da una parte, e gli interessi degli operatori turistici dall’altra hanno svolto un ruolo efficace», conclude l’avvocato.
    Purtroppo il recente incidente avvenuto sul fiume Lao, evento assai differente per molti aspetti, non aiuta la discussione a riguardo. E invece bisognerebbe affrontarla con l’obiettività necessaria e la sensibilità verso i territori che fin qui è sembrata mancare.

  • Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Tropea: gelato a peso d’oro, esulta il sindaco

    Spennati e contenti. A quanto pare ci sarebbe da festeggiare per i turisti a Tropea dopo che Omio – piattaforma di prenotazione di treni, autobus e voli – ha rivelato come una pallina di gelato sulle spiagge della Perla del Tirreno risulti tra le più care d’Europa. Secondo la ricerca, che ha coinvolto 75 spiagge di 20 Paesi diversi – si spenderebbero di media, infatti, 3,50 euro.
    Per pagare di più toccherebbe andare nella ben più dispendiosa Francia a Tolone, Cannes, Marsiglia oppure, in alternativa, a Bournemouth nel Regno Unito. Negli altri 70 litorali sotto esame si spende o quanto nella località calabrese  – a Saint Tropez, Nizza, Positano, San Pietro-Ording (Germania) – o decisamente meno. Basti pensare che in templi del turismo di lusso come Capri o la Costa Smeralda il prezzo di una pallina di gelato è di parecchio inferiore a quello che Omio attribuisce a Tropea.

    Caro gelato, esulta il sindaco di Tropea

    Il mini salasso in questione però, si diceva, incontra i favori dell’amministrazione comunale. Che prima mette in dubbio l’attendibilità del dato – «non ci risulta» – poi lo dà per buono. E lo valuta così: «Non una bocciatura ma semmai una promozione».

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    Il sindaco di Tropea, Giovanni Macrì

    Il sindaco Giovanni Macrì, novello Elkann/Briatore de noantri per l’occasione, lo dice apertamente. Il dato «confermerebbe l’esatta e coerente direzione intrapresa da Tropea in questi anni: posizionarsi in alto nei mercati turistici, per la sempre maggiore qualità complessiva della proposta ricettiva ed esperienziale, inclusa quella enogastronomica ed artigianale di cui il gelato è forse il simbolo più forte». E pensare che qualcuno tende ancora ad associare l’enogastronomia di Tropea alla cipolla e non al gelato…

    Ciao poveri

    Quindi, largo ai sillogismi. «Se il gelato a Tropea risulta tra i più costosi d’Europa significa anzitutto che è anche uno dei gelati più buoni, per qualità delle materie prime e della preparazione artigianale delle nostre gelaterie», continua Macrì. Che poi si complimenta con i gelatai locali per l’ottima posizione nella classifica degli esosi.
    «La qualità – afferma – si paga sempre e Tropea continua a non voler essere una destinazione per tutti i target, per i tutti i gusti e per tutte le tasche».

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    La Tropea da cartolina

    Il sindaco vuole «selezionare la domanda dei visitatori e non ricercare o accontentarsi dell’indistinto sovraffollamento stagionale» Perché, se non fosse chiaro, fare in modo che chi ha poco in tasca ma vorrebbe comunque godersi il mare della Costa degli Dei non si faccia vedere da quelle parti è «doveroso ed auspicabile».

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    U rigugghiu. L’argento vivo nelle vene, frutto di una rabbia da trasformare in opportunità. Mi accolgono quasi a quest’urlo i ragazzi di We are South: Giulia Montepaone, Aldo Pipicelli, Adele Murace, Guerino Nisticò, Sofia de Matteis, Raffaele Dolce, Annalisa Fiorenza, Valentina Murace, Giorgio Pascolo e Luca Napoli.
    Formano una rete che unisce gli ultimi paesi della Locride con i primi del catanzarese. Qualcosa che va oltre le cooperative o le iniziative dei singoli borghi e che cerca di fare modello e sistema.

    Che cos’è We are South

    We Are South non è solo una rete, ma un metodo di collaborazione, uno standard di qualità affiancato dall’adesione a una certa etica, l’essere partecipi e solidali.
    Resistenza. Resilienza. Coraggio. Sotto questo marchio si lavora nel rispetto delle stesse mission e vision: l’esigenza di fare comunità lavorando sui luoghi e sulle persone, il rispetto e la tutela dell’ambiente, la salvaguardia e la diffusione dei patrimoni, la cultura biologica.
    É una storia che va raccontata per due motivi: rappresenta una best practice e costituisce una cinghia di trasmissione tra le anime della Calabria.

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    La vallata dello Stilaro

    Siamo in una terra di confine, periferia della periferia, a cavallo tra Aspromonte e Serre: la valle dello Stilaro. Ma anche qui qualcosa si muove. Bivongi, Stilo, Monasterace, assieme a Guardavalle, Santa Caterina dello Ionio e Badolato sono il cuore di questo nuovo ecosistema. Lavorano insieme sotto un unico marchio per promuovere quei territori, ricucendo ferite e connettendo persone. Il loro brand nasce per facilitare le persone a riconoscere lo standard e i valori comuni, attraverso un marchio e un logo che dall’identità visiva, la forma, si proietta in sostanza.

    Lo Stilaro fa rete

    La tappa a Samo e Natile, mi aveva messo di fronte a molti interrogativi e altrettanti dubbi: il rapporto tra autentico e mitopoietico, il marketing territoriale, i legami di comunità, la resilienza e la questione femminile.
    Quando ho scoperto che nello Stilaro c’era qualcosa che rappresentava un altro passo in avanti nello sviluppo di processi di rete per la rigenerazione territoriale, sono partito per Bivongi.
    Remoto borgo di centenari che, assieme a Stilo e Pazzano, domina la vallata dello Stilaro. Bivongi è un abitato nascosto in mezzo alle ultime pendici dell’Aspromonte. Un luogo di acque termali, di cascate e di vecchie miniere. Un toponimo incerto che Rohlfs fa risalire al greco Boβὸγγες presente nel Brebion, documento greco del 1050 circa, ritrovato nella biblioteca privata dei conti Capialbi a Vibo Valentia.

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    Uno scorcio della piccola Bivongi, paese dei centenari

    Avevo preso appuntamento con Adele Murace, artigiana orafa, ambientalista, attivista, femminista e animatrice di We are South. Arrivando dalla marina e risalendo la vallata, una curva dopo l’altra, questa terra remota sembrava schiudersi con verecondia agli occhi del viaggiatore, tra il bianco abbagliante delle rocce e l’ampio greto di un fiume, un tempo navigabile, che oggi mostra le sue nudità. Era molto caldo e il verde intenso delle foreste che si arrampicavano sulla montagna circondava un borgo che sembrava appeso e sospeso tra le pendici della vallata.

    La (nuova) vita di Adele

    Al mio arrivo Adele mi ha accolto con un gran sorriso, dandomi il benvenuto. Durante i primi contatti al telefono mi aveva accennato del suo impegno a 360 gradi. E, soprattutto, di questa necessità di raccontare queste terre con uno spirito diverso, nuovo, lontano dal senso di vergogna e di inferiorità che i suoi stessi abitanti avevano fatto proprio.
    «Avevo capito che la narrazione, un nuovo storytelling poteva contribuire a cambiare la percezione negativa, il senso di arrendevolezza e la prostrazione che molti di noi hanno interiorizzato. Sul mio canale Instagram avevo realizzato la rubrica SudProud: interviste per raccontare storie di riscatto e di vittoria dei calabresi e diventare esempio per tutti noi. Avevo ragione. Dopo i primi video i miei follower locali avevano iniziato a scrivermi. Tutti dicevano la stessa cosa: grazie per gli esempi che ci hai mostrato. Se ce l’hanno fatta loro, posso farcela anche io».

    Adele è una ritornata: «Ho vissuto qualche anno al nord dove ho lavorato in fabbrica e aziende. Il senso di malessere che provavo mi ha riportato a casa dove ho costruito la vita che desidero. Oggi sono un’artigiana orafa, ho la mia azienda, mi auto-gestisco e questo mi permette di potermi anche muovere sul territorio».
    Adele, come gli altri membri di We are South, non è solo una partiva IVA che ha deciso di investire nella sua terra.

    Tartarughe, consultori e bimbi a scuola

    È una donna che combatte per salvaguardarla e promuoverla: «Sono impegnata sul territorio perché credo che sia imprescindibile. Durante la pandemia abbiamo costituito il gruppo WWF Stilaro Vibo Valentia, sollecitati da chi ci diceva che, con ogni probabilità, le Caretta Caretta venivano a nidificare anche alla nostra marina. Mancava però un monitoraggio strutturato che confermasse la teoria, poi risultata vera. Quell’anno trovammo venti nidi. Oggi, dal gruppetto sparuto che eravamo, siamo in cinquanta: tuteliamo gli ecosistemi marini, quelli montani e quelli dunari. Parte delle mie battaglie è dedicata alle donne e alla condizione femminile nella Locride. Ho promosso la riapertura del consultorio di Bivongi e continuo a lottare per la piena applicazione della legge 405. E si sa che istruzione, sanità e infrastrutture forniscono le condizioni minime per vivere nelle aree periferiche».

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    Alla ricerca delle Caretta Caretta

    Nel documento appena approvato dalla Regione per la riprogrammazione della rete sanitaria territoriale il consultorio di Bivongi entrerebbe nel cosiddetto “modello spoke” assieme a tutti gli altri 6 consultori della Locride: 36 ore settimanali lavorative garantite coperte da ostetrica, assistente sociale e oss. Non sono previsti però psicologi né ginecologi: «Avanzeremo queste proposte di modifica, cui anche Occhiuto ieri ha aperto, e chiederemo la disposizione di strumentazione di prevenzione».
    Ma la sanità non è tutto. «L’ultimo autobus che parte da Bivongi esce alle 16.30 mentre l’ultimo che entra arriva alle 21. Il prossimo anno la scuola elementare non aprirà perché ci sono solo 4 bambini. Come cittadini, non comprendiamo i limiti a una collaborazione tra paesi attigui per salvare la presenza di un servizio così importante in tutti e tre».

    We are South: tutti insieme appassionatamente

    U rigugghiu di Adele è lo stesso sentimento di cui a turno mi parlano Guerino, Annalisa, Giulia e Aldo ed è quello che ha impresso un’accelerazione definitiva ai loro progetti di vita. Perché, mi dice, «ho imparato negli anni che, se ognuno fa la sua parte, l’entusiasmo può essere contagioso. Si chiama legge dell’attrazione e il territorio sta rispondendo bene».
    Uniti sotto un unico brand che raffigura i Bronzi di Riace, stanno ricostruendo sulle macerie dell’abbandono e della sfiducia, ognuno con le proprie competenze.

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    Giulia Montepaone

    Guerino, badolatese, restato, cresciuto a pane e politica, rappresenta la memoria storica della vallata e ha una lunga militanza nei movimenti dal basso.
    Valentina, ritornata nel 2020 per affiancare il padre nella gestione dei vitigni eroici di famiglia, un passato come top manager del Marriot di Venezia, ha deciso di mettere a frutto l’esperienza maturata trasmettendo un metodo organizzativo per rafforzare percorsi di turismo etico.
    Aldo, restato, è un disegnatore e un grafico, ha creato il logo della rete e gestisce una nota pagina social con cui divulga proverbi calabresi. Giulia, botanica, è impegnata nella difesa dei sistemi dunari e botanici.
    Annalisa, albergatrice e ristoratrice, ha resistito alle minacce del racket. «Il pilastro di legalità che non ha mai mollato e che continua a rimettersi in gioco», sottolinea Adele. «Andiamo da Guerino», mi esorta.

    Piccolo è bello, ma serve una strategia

    Dalla montagna, scendiamo al mare dove lui ci aspetta. «Oggi questo isolamento, questa marginalità, può diventare punto di forza. Ma, attenzione, pensare di ripopolare un paese interno per come era è una mera masturbazione intellettuale. Invece con diverse attività, strategie, progetti i borghi possono essere resi vivibili sia per chi ancora ci risiede, sia per chi potrebbe venirci. Servono però piani strategici nazionali e internazionali. Quelli tanto sbandierati durante il periodo pandemico. Tutto fumo e niente arrosto.

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    Guerino Nisticò

    Guerino è un fiume in piena: «L’Italia è tutta una questione meridionale. Anzi è la questione meridionale di una nuova questione europea. Noi siamo il sud del sud dell’Europa. Sotto la presidenza Oliverio fu presentato il progetto Crossing per la ripopolazione dei borghi: 136 milioni di euro per un fallimento totale. Ora ci si riempie la bocca di PNRR. Sulla misura A (420 milioni da ripartire tra Regioni e Province Autonome, ndr) il comune di Gerace ha ottenuto un finanziamento di 20 milioni di euro. Per la misura B (580 milioni su base nazionale da dividere tra 229 borghi, ndr) sono stati stanziati 11 milioni di euro da suddividere per 133 progetti. Ma di che cosa stiamo parlando?!?».

    Aree interne e finanziamenti

    Secondo le linee guida del Governo, Gerace sarebbe stato scelto come borgo “pilota” a rischio abbandono. Una sorta di laboratorio in cui sperimentare per ricalibrare o riapplicare. La questione delle aree interne rappresenta in effetti un vero vaso di Pandora. Fabrizio Barca, da ministro, aveva intuito l’importanza del tema e aveva elaborato la Strategia Nazionale per le Aree Interne, poi resa strutturale dal collega Provenzano. La nuova programmazione 2021-2027 inserisce nella strategia 56 nuove aree che si vanno ad aggiungere alle 67 del settennato precedente: 1904 Comuni e una popolazione di più di 4 milioni e mezzo di persone. A questo si aggiunguno i 15 milioni per il 2023 previsti dalla cosiddetta “legge salva borghi.

    Per le aree interne, la Calabria vanta un ampliamento: a quelle già presenti, tra cui la Jonio–Serre riconfermata nella nuova programmazione, se ne sono aggiunte altre. Tra queste quella del Versante Tirrenico Aspromonte. La Regione, tramite il Dipartimento Programmazione, stabilisce criteri e linee guida degli interventi assegnando la competenza sui bandi ai diversi settori di pertinenza: turismo, mobilità, ecc. Un tema che va inserito in una più generale analisi della capacità di spesa dei fondi europei, per cui la Calabria non ha mai brillato.

    L’Ue non basta

    Il documento presentato dall’ISTAT Vent’anni di mancata convergenza sulle politiche di coesione per il Sud fotografa un peggioramento generalizzato del sistema-Italia con picchi negativi al Sud e in Calabria. Un dato che, affiancato alle recenti tendenze demografiche, «fa presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa». Secondo la Commissaria UE alle Politiche Regionali Ferreira «da sola la politica di coesione non può guidare lo sviluppo di un’intera regione o di un paese». Traduzione: servono investimenti pubblici nazionali.
    Bisogna migliorare «la capacità dei beneficiari e degli enti intermedi di pianificare gli investimenti, costruire linee progettuali e svolgere procedure di gara» In proposito, «nel quadro finanziario 2021-2027 vengono stanziati 1,2 miliardi di euro per lo sviluppo delle capacità amministrative e l’assistenza tecnica che si concentra interamente sui beneficiari e sugli organismi di attuazione nel Sud».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dopo un’analisi di contesto la Regione Calabria ha deciso di investire per lo più sui progetti per l’invecchiamento attivo. Alcune fonti mi hanno confermato che i progetti di aging e telemedicina, su cui investe SNAI Calabria, sono risultati vincenti. La logica rispecchia la conformazione della popolazione delle aree interne, per lo più anziana, su cui si è deciso di investire (1.200 milioni su fondi PNRR) attivando progetti di assistenza capaci di incentivare un’economia basata sull’alleanza tra giovani e anziani.

    Il sistema Badolato

    Si tratta di uno dei modelli possibili. Guerino mi dice che a Badolato da anni esiste un sistema rodato: case a 1 euro e accoglienza degli stranieri. Il borgo è rinato grazie al turismo residenziale a alla comparsa di nuovi nuclei familiari. È stata scongiurata la chiusura della scuola. «We are South lavora in questa direzione. Questo gruppo che abbiamo creato, si innesta su percorsi attivi da tempo. Il nostro innato senso di accoglienza e ospitalità facilita e aiuta certi percorsi di incoming. Siamo esperti in turismo relazionale e puntiamo all’internazionalizzazione di questi territori. Il confronto con l’altro può aiutare questi luoghi a evolvere il proprio modo di pensare e di pensarsi. Ci sono storie simili alla nostra in tutta la Calabria: un processo che si è velocizzato negli ultimi 5 anni».

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    Badolato, uno dei paesi nella rete We are South

    Salutato Guerino ci spostiamo da Annalisa, la prima a immaginare un filo che unisse tutti i paesi di questo progetto assieme ad Adele: «Siamo partite con i mercatini di Natale e poi tutto è venuto da sé». Annalisa è albergatrice e ristoratrice e membro del consorzio GOEL. 67 ettari all’interno del parco archeologico dell’antica Kaulon affacciati sul promontorio di Punta Stilo a un passo da dove, nel 2012, Francesco Scuteri, “l’archeologo scalzo”, Direttore del Museo di Arte contemporanea di Bivongi, ha ritrovato il mosaico del drago, delfino e ippocampo, uno dei più grandi e importanti dell’età greca.

    «Collaboravamo già per la vendita degli agrumi, ma ho aderito al consorzio nel 2013 dopo il secondo attentato incendiario del 2012 che ha distrutto il tetto e il primo piano del nostro agriturismo». Sospesi a picco sul mare in questo luogo ucciso e rinato sette volte, mi pare di avere davanti lo spirito di un’araba fenice magnogreca. Annalisa non si è mai arresa.

    Bio, attentati e solidarietà

    «Produciamo tutto quello che vendiamo, anche il pane e la pasta realizzati con farine calabresi. Faccio il bio dal 2013. Dei sette attentati subiti, due sono stati devastanti: nel 2015 è stato dato a fuoco il capannone con tutta l’attrezzatura, trattore compreso. GOEL ci ha aiutato facendo letteralmente da scudo. Stare all’interno di una cooperativa ti scherma. Non sei più solo. Sono stati loro a spingerci a raccontare la nostra storia. Abbiamo poi creato fondo, anche con piccole donazioni, che consentisse alle vittime del racket di ripartire, perché la difficoltà maggiore delle vittime è ricominciare. Finché non terminano le indagini l’assicurazione non risarcisce. Siamo arrivati a 70.000 euro».

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    Annalisa Fiorenza

    Il rogo risaliva al 31 ottobre di quell’anno e abbiamo deciso che a dicembre avremmo inaugurato il nuovo trattore acquistato con la Festa della Ripartenza. Ci sono stati anche due ministri. Questa reazione cosi forte ha evidentemente spiazzato. Non c’è stato più alcun attentato. Quello che mi ha lasciato l’amaro in bocca è che a sostenerci sono venuti da fuori, perché sul territorio si ha paura. Abbiamo comunicato che è possibile trasformare il dolore in una storia vincente. Ed è l’esempio che cerchiamo di veicolare anche con We are South».

    We are South: l’unione fa la forza

    Ospitalità, tutela, valorizzazione e promozione dei territori, riconversione della rabbia in opportunità rappresentano ormai i topoi che, tappa dopo tappa, ricorrono. Ma, in questo caso, We are South sviluppa quanto fatto sia a Natile, sia a Samo. I ragazzi hanno capito che l’unione fa la forza, che occorre mettere in rete i borghi e che, per ottenere risultati, è imprescindibile coinvolgere le comunità. Solo attraverso questo passaggio le reti si rafforzano, le economie nascono e si trasformano in ecosistemi di crescita. Ed è solo così che una qualsiasi forma di brand diventa autentica e incarna quello che Guerino chiama lo spirito del luogo.

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    Un altro scorcio di Bivongi

    «Qualche tempo fa, a Bivongi, fu avviato il progetto albergo della longevità: furono realizzati 40 posti letto, un ristorante e un’enoteca con standard da 4 stelle. La comunità non era pronta, le infrastrutture e l’apparato politico nemmeno. Ad oggi rimane davvero poco di quel sogno. Noi possiamo fare il nostro, come stiamo dimostrando. Ma c’è bisogno di coraggio politico».
    È lo stesso messaggio che mi ha indirizzato Monsignor Bregantini: le persone, le reti, le imprese, le comunità, il terzo settore possono fare molto. Ma serve una regia politica chiara, coraggiosa, visionaria. Quella che ad oggi in Calabria e in Italia continua a latitare.