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  • Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Dal 1969 ad oggi un abuso lungo 52 anni segna la storia di uno dei tratti di costa più suggestivi della Calabria. Caminia, provincia di Catanzaro, comune di Stalettì, è una lingua di terra costeggiata da macchia mediterranea e da un mare caraibico.
    Un paradiso che si è riusciti a deturpare stuprandolo con abusi di ogni tipo: costruzioni “ignoranti” ammassate una sull’altra, casette poggiate sulla spiaggia a pochi metri dal mare, canaloni di scolo di cemento armato da cui non scola più niente perché non hanno mai visto neanche un’ora di manutenzione.

    Un mostro sul mare

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    Ci sono voluti più di 45 anni perché qualcuno, in questo caso la Procura di Catanzaro, accendesse un faro su questa vergogna nazionale.
    Inizia tutto nel 2015 con il progetto per la costruzione di un megavillaggio proprio sopra la baia di Caminia. Arrivano le ruspe e fanno il loro lavoro. Scavano e producono detriti, una enorme quantità di detriti, che vengono gettati a valle e ostruiscono i 2 canaloni di scolo che costeggiano un villaggio vacanze. Sono nove piccoli bungalow e un parcheggio sorti sul demanio marittimo proprio sotto il costone del fondo Panaja di Caminia.

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    L’area recintata al cui interno sorgevano i bungalow demoliti e quel che resta degli arredi interni

    È a questo punto che Caminia esce dal cono d’ombra e si scopre, grazie all’indagine coordinata da Nicola Gratteri, che si tratta di un’area demaniale di 5.000 mq sottoposta a vincolo paesaggistico e identificata come zona a rischio frana, alluvione e inondazione dal Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico Regionale.
    Il 17 dicembre 2020 i proprietari di un villaggio e i residenti di una settantina di villette a schiera a pochi metri dalla spiaggia di Caminia ricevono il provvedimento di sequestro dei fabbricati.
    Passano altri 6 mesi e, il 22 giugno scorso, la Procura della Repubblica di Catanzaro invia il provvedimento esecutivo. Le demolizioni iniziano il 20 luglio e terminano come da cronoprogramma il 16 agosto 2021.

    Il deserto degli abusivi

    Oggi il paesaggio è spettrale: i bungalow sono stati rasi al suolo e uguale sorte dovrebbe toccare a tutte le villette che dal “villaggio Aversa” arrivano alla fine della spiaggia di Caminia. Una schiera interminabile di casette – tutte rigorosamente abusive – abbandonate in fretta dai proprietari che dopo la comunicazione dell’Autorità giudiziaria non possono più abitarle anche se hanno presentato un ricorso in Tribunale per bloccare l’esecutività delle demolizioni. Ci vorrà del tempo, ma la sorte, anche per queste costruzioni, dovrebbe essere la stessa.

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    Case abusive sotto sequestro a pochi metri dalla spiaggia di Caminia

    In un primo momento i proprietari del villaggio hanno tentato la strada della mediazione con l’aiuto di un legale. A quanto è dato sapere la famiglia Aversa era anche riuscita ad arrivare a un compromesso. Avrebbe dovuto sborsare oltre 2 milioni di euro per arrestare l’iter delle demolizioni senza la certezza però di acquisire la proprietà del terreno. Un incognita per il futuro e un rischio troppo grosso.
    Hanno desistito, anche su consiglio del procuratore Mariano Lombardi, storico frequentatore della spiaggia di Caminia.

    E gli Aversa, che oltre al villaggio abbattuto gestiscono lo stabilimento balneare lido Panaja, quest’ultimo perfettamente in regola per concessione e pagamento dei tributi, hanno preferito prendere in locazione una vasta area nella zona di Pietragrande, a poche centinaia di metri da Caminia, da adibire a parcheggio. Da lì, con le navetta, accompagnano i clienti alla spiaggia.

    Il Comune in cerca di idee

    Il futuro comunque qualche porticina la lascia aperta. Si parla di un bando del comune di Stalettì per la gestione dell’area in cui sorgeva il villaggio. Notizie precise ancora non ce ne sono. Sulla questione il sindaco di Stalettì, Alfonso Mercurio ci ha detto: «Stiamo lavorando a un concorso di idee per l’area oggetto di demolizione. Il bando sarà pubblicato in autunno e il miglior progetto sarà scelto da un’apposita commissione e riceverà i finanziamenti previsti dalla Regione Calabria».

    La baia di Caminia, il golfo di Copanello, le vasche di Cassiodoro sono solo tre dei tesori naturali del Comune di Stalettì. «Siamo un piccolo comune – precisa Mercurio – e non abbiamo le risorse sufficienti. Per portare a reddito e rendere attrattive queste aree abbiamo bisogno di contributi pubblici. Ben vengano dunque le risorse stanziate dalla Regione per il rifacimento delle fognature e per il ripristino della zona archeologica Fonte di Panaja».

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    La baia di Caminia vista dall’alto

    Ma perché solo uno dei villaggi presenti sul demanio è stato raso al suolo? «La Cabana – spiega Mercurio – è titolare di concessione. Gli Aversa, invece, hanno costruito senza mai riconoscere la proprietà del demanio a differenza di quanto fatto con lo stabilimento balneare Panaja».

    Legambiente teme il bis

    La presidente di Legambiente Calabria, Anna Parretta, commenta così la vicenda: «Restiamo in attesa della demolizione di tutte le villette abusive, incluse quelle ancora sub iudice, un vero ecomostro diffuso per come è stato definito, e del conseguente recupero ambientale effettivo del territorio. Non vogliamo che restino ferite aperte come quella, ben visibile, rimasta a Stalettì dopo l’abbattimento di parte di villaggio Lopilato, seguito ad anni di lotte ambientali». Nei progetti dell’amministrazione il rilancio di Caminia passa da «un adeguato piano parcheggi e da una mobilità sostenibile. E quando arriveranno le risorse del Recovery plan noi saremo pronti».
    Speriamo che non abbia in mente un’altra colata di cemento.

  • Il film-maker arbëreshë contro i luoghi comuni à la Muccino

    Il film-maker arbëreshë contro i luoghi comuni à la Muccino

    Davide Imbrogno è una delle menti artistiche più interessanti che siano sbocciate negli ultimi anni nelle Calabrie. Esperto di comunicazione e pubblicità, film-maker, scrittore, sceneggiatore, ha viaggiato tanto, mantenendo solidi legami con la propria terra d’origine. Di recente ha realizzato un cortometraggio nel quale in tanti vedono un’alternativa intelligente alla bucolica e pseudoromantica rappresentazione offerta dal costosissimo corto del regista Muccino, finanziato dalla regione Calabria.

    Il titolo del tuo cortometraggio Me Shëndet in arbëreshë significa “Con Salute”. È anche un messaggio augurale verso un pianeta che negli ultimi anni s’è riscoperto malato?

    «In lingua arbëreshë è usanza salutare il prossimo dicendo Rri mirë, ovvero “stammi bene”, e l’altra persona, come consuetudine risponde Me Shëndet” “con salute”. Infatti è proprio uno scambio di battute che ho riportato sul finale del corto. Augurare di star bene al prossimo credo sia un concetto di umanità, oggi più che mai da ribadire. È un pianeta ammalato sotto tutti i punti di vista il nostro: ecologico, salute delle persone – questa pandemia ne è l’esempio più lampante – ma soprattutto è ammalato nelle relazioni verso il prossimo. L’individualismo è forse la malattia peggiore. Mi piace pensare che ognuno di noi possa avvertire l’esigenza di augurare al prossimo di star bene».

    Davide Imbrogno, filmaker di San Benedetto Ullano
    Davide Imbrogno, film-maker di San Benedetto Ullano
     Cosa significa valorizzare luoghi e culture originarie in un tempo attraversato dal sovranismo identitario?

    «La parola identità è un termine bellissimo. Attraverso l’identità ognuno di noi si distingue dall’altro. Le persone, i luoghi, le comunità, senza identità non avrebbero la propria cultura, le proprie tradizioni. Ma oggi la parola identità viene strumentalizzata spesso dalla politica. L’identità viene confusa con il concetto di difesa dei confini e questo ci induce a pensare, e credere, che le identità altrui siano quasi una minaccia per la nostra. Credo che bisogna solo essere consapevoli di ciò che siamo, e, questo, deve portarci ad esser consapevoli di comprendere il prossimo. Nel corto ho parlato di accoglienza, di confronto. Non a caso partendo dall’identità arbëreshë – ho voluto inserire all’interno del film altre culture, altre storie – apparentemente differenti dalla nostra. La comunità di San Benedetto Ullano da anni accoglie il prossimo, ne è un esempio il lavoro magistrale che sta compiendo lo Sprar accogliendo ragazzi provenienti da tutto il mondo. E anche loro sono stati protagonisti del corto. San Benedetto è stato un luogo che cinquecento anni fa ha accolto gli arbëreshë in fuga, oggi accoglie ragazzi che provengono dall’Africa, dal Pakistan ecc. Credo che questo sia uno degli aspetti principali dell’identità di San Benedetto Ullano: accogliere il prossimo. Non trovi meraviglioso tutto questo?».

    Personaggi del corto di Imbrogno in costume tradizionale di San Benedetto Ullano
    Personaggi del corto di Imbrogno in costume tradizionale di San Benedetto Ullano
    Non sono pochi i registi teatrali e cinematografici, nonché i fumettisti – mi riferisco a quelli non indigeni -, che negli ultimi anni sono venuti quaggiù a descrivere le Calabrie o ad ambientarvi i loro lavori. Riproponendo scenari da Grand Tour, alcuni ne hanno inquadrato la componente selvatica, altri quella malavitosa, pochi sono andati però alla ricerca di una bellezza scevra da riflessi esotici o maligni. Ma è davvero così complesso ascoltare e far parlare questi territori?

    «Non credo sia così complesso, dipende da ciò che si vuole narrare. Credo che si possa fare del marketing territoriale senza cadere nello stereotipo dei paesaggi – stile servizio televisivo da trasmissione pomeridiana come “Geo e Geo” (con tutto il rispetto per la trasmissione). I paesaggi, le bellezze mozzafiato le possiede la Calabria, e le possiedono i luoghi di tutto il mondo. Puoi far vedere ogni bellezza, da quella paesaggistica a quella culturale, cercando di raccontare il tutto con un punto di vista differente da quello comune. Altrimenti rischiamo di finire nello stereotipo. Non è ciò che fai vedere o ciò che racconti, la differenza sta nel “come” esponi un luogo. Non sono un documentarista e non sarei capace di realizzare un documentario. Amo raccontare un luogo attraverso le sensazioni che quel luogo mi trasmette. Ad esempio nel film, a metà racconto, la protagonista si imbatte in un sogno. Per uno spettatore che non conosce San Benedetto Ullano e la cultura italo-albanese può apparire che quelle immagini siano frutto della mia fantasia. In realtà quelli sono luoghi, tradizioni, persone, costumi, canti arcaici appartenenti alla nostra cultura. Avremmo potuto far vedere il tutto attraverso delle immagini di reportage. Invece lo abbiamo fatto attraverso un linguaggio onirico. Magari piacerà, o magari no, ma il concetto non è se piace o non piace, il concetto è quello di mostrare le cose attraverso la scelta di un lessico che sia differente rispetto a quelli usati e strausati fino ad oggi. Questo crea la differenza tra un’opera o un’altra. Al di là di qualsiasi valore estetico».

    L'incrocio tra culture raccontato nel cortometraggio di Davide Imbrogno
    L’incrocio tra culture raccontato nel cortometraggio di Davide Imbrogno
    Questo tuo ultimo film, al di là di qualsiasi tentazione polemica, rappresenta anche una risposta al cortometraggio del regista Muccino. Ti è piaciuto il suo lavoro commissionato dalla Regione?

    «Non era la mia intenzione dare una risposta al corto di Muccino. Sarei un megalomane se pensassi questo. In primis vista la differenza di budget e quindi di strumentazione, produzione ecc. e di esperienza e talento che un regista come Muccino possiede. Detto ciò… il corto di Muccino non mi è piaciuto. E non solo per tutti gli stereotipi presenti nel racconto, ma soprattutto perché c’è sempre il concetto che dobbiamo essere noi “calabresi” a spiegare al prossimo cosa siamo e chi siamo – il personaggio di Raoul Bova che rientra in Calabria spiega e mostra alla compagna la nostra terra. È forse questo lo stereotipo più grande: spiegare agli altri chi siamo e cosa possediamo, facendolo apparire migliore rispetto a tutto il resto. Il bergamotto lo abbiamo solo noi e nessun altro! Penso che non ci sia forma di campanilismo peggiore».

    Se fosse toccato a te il compito di realizzare il corto di Muccino, quali linguaggi e contenuti avresti scelto?

    «Lo avrei raccontato attraverso “gli altri”. Non attraverso i calabresi. Mi sarebbe piaciuto fare una ricerca di tutte quelle persone, donne e uomini, provenienti da altre parti del mondo che hanno scelto per un motivo di vivere qui. Perché lo hanno fatto? Mi sarebbe piaciuto fare un corto sulle scelte altrui. Perché hai scelto di venire a vivere in Calabria? E attraverso le loro risposte, sono sicuro che si sarebbero mostrati paesaggi, cultura, luoghi, atmosfere, amore – perché ognuno di questi aspetti magari rappresenta il motivo di una scelta. Vedi, nel cortometraggio Me Shëndet tra i protagonisti c’è il mio amico Josh Gaspero, editore statunitense. Che dopo aver trascorso una vita in giro per il mondo, frequentando il jet set di New York, Los Angeles ecc. vent’anni fa ha scelto di venire a vivere ad Altomonte (CS), abbandonare la sua vita, la sua nazione, per trasferirsi in un borgo della Calabria. Penso che ci siano tante storie simili a quella di Josh. Sarebbe bellissimo raccontarle, e spiegare il perché di queste scelte. Perché si possa scegliere di vivere in un luogo piuttosto che in un altro, a maggior ragione se quel luogo non ti ha dato i natali».

    Posso chiederti quanto è costato produrre “Me Shëndet”?

    «È un corto low budget. Il comune di San Benedetto ha aderito ai contributi per la tutela e la valorizzazione delle lingue e del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche e storiche della Calabria – il contributo è stato di circa duemila e quattrocento euro. Il resto ho deciso di co-produrlo io, ringraziando anche tutto il cast tecnico ed artistico – che hanno creduto nel progetto e mi hanno agevolato nella realizzazione del film, condividendo il progetto. È un’opera realizzata con meno di 10 mila euro totali».

    In quali contesti circolerà? Dove e come sarà visionabile?

    «Per prima cosa la divulgazione sul web. Oggi è la forma di divulgazione mediatica che con costi bassi ti permette di divulgare al meglio, geo localizzando e “targettizzando” il tuo pubblico di riferimento. Inoltre abbiamo l’intenzione di portare il corto fuori attraverso la partecipazione a festival e non solo, ma anche coinvolgendo centri linguistici e multiculturali esteri».

    Di recente hai sposato la bellissima Sonia Tiano. Auguri! La tua musa è cantante ricca di talento e musicoterapeuta. Nella cura delle ataviche malattie sociali della Calabria, quanto possono contribuire la musica e le arti in genere?

    «Sarà felicissima mia moglie per questa domanda! Ti ringrazio. Credo che le arti siano non uno dei rimedi, ben sì siano il “Rimedio”. L’arte, non solo per coloro che la producono, ma soprattutto per coloro che ne usufruiscono (traendone beneficio), è lo strumento che può far scaturire nell’essere umano la curiosità. La curiosità è la chiave di volta. Pensa al mito della Caverna di Platone, pensa ad Ulisse. Platone faceva dire a Socrate, nell’Apologia “senza curiosità l’esistenza non è umana vita…”. Solo attraverso di essa possiamo approfondire, capire e cercare le soluzioni a tutte le malattie sociali che ci circondano. Auguro a tutti noi tanta curiosità, e che essa possa scaturire dall’arte, dalla cultura e dalla consapevolezza priva di qualsiasi forma di campanilismo di ciò che siamo e di ciò che vogliamo divenire».

  • Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Forse, chissà, tra mille anni i reperti archeologici da cui si ricostruirà la storia della nostra epoca saranno pilastri grigi da cui fuoriescono barre di ferro tendenti al cielo. I tour virtuali tra i resti del cemento antico, magari, sostituiranno l’attuale feticismo fotografico dei tramonti e dei panorami. Le nuove rovine, gli edifici non finiti, sono ormai parte del paesaggio. Sono i segni lasciati da partenze e non ritorni. Sempre lì, fermi, come a narrare la necessità di rimandare all’infinito ciò che si voleva fare e che è rimasto incompiuto, una speranza che si rinnova e mai si realizza.

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    Tramonto con piloni a Taurianova (foto Angelo Maggio)
    L’anormalità diventa invisibile

    Se dovesse nascere davvero un giorno il culto del cemento la Calabria potrebbe divenirne la capitale e Angelo Maggio, fotografo di Catanzaro che da anni segue e immortala le tracce del «non finito calabrese», sarebbe una star. Ma quelli che fotografa, spiega lui stesso, sono dei «monumenti alle aspettative deluse» e non certo opere d’arte. Per capirne la dimensione sociale bisognerebbe parlare con quei padri che hanno alzato muri mai intonacati e piani interi rimasti vuoti. E con i figli che, per scelta, necessità o entrambe le cose, non li abiteranno mai.

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    Miss Italia sfila per le vie di Sinopoli (foto Angelo Maggio)

    Le foto del non finito restituiscono una realtà più cruda della realtà stessa. Non si sforzano di determinare il contesto fino a renderlo rispondente a un’idea precostituita ma, al contrario, ne illuminano le contraddizioni. Quegli edifici sono per noi così normali da risultare ormai quasi invisibili. Eppure raccontano, più di tante narrazioni stereotipate, più della retorica delle eccellenze e delle negatività, la storia della Calabria contemporanea, fatta di crepe che non si ricompongono mai. Di cemento e di vuoto.

    Annunci e stereotipi elettorali

    Ecco, cemento e vuoto non sono (solo) delle tracce antropologiche, ma elementi con cui misurare come e quanto sia lontana dalla realtà l’idea di paradiso naturale tracciata da molti attuali e aspiranti decisori politici che, statene certi, con la campagna elettorale già in corso rinverdiranno presto il filone con nuove e più immaginifiche dichiarazioni sulle «potenzialità inespresse» e sugli intramontabili «volani di sviluppo».

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    Belvedere Marittimo, un manifesto dell’ex assessore regionale ai Lavori pubblici Pino Gentile (foto Angelo Maggio)

    C’è un posto che è l’emblema di questa incompiutezza, un mausoleo di occasioni mancate: l’area industriale di Lamezia Terme, oggi nota per l’aula bunker del maxiprocesso Rinascita-Scott – prima ospitava un call center – e per la sede della Fondazione Terina. Era nata negli anni ’70 come sogno industriale della Calabria centrale – l’ex Sir in cui lo Stato mise bei miliardi ma che non partì mai – e oggi in mezzo a capannoni abbandonati e pecore che pascolano tra l’immondizia si promette di realizzare una specie di piccola Hollywood.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ma l’emblema, a pensarci bene, sono quasi tutti gli abusati «800 km di costa» soffocati dalla cementificazione, costellati di villaggi, residence, resort, lidi, lungomari e parcheggi. Come lo sono le (poche) città in cui i palazzi si mangiano i marciapiedi e le persone vanno in terapia per un parcheggio. E come lo è anche l’entroterra dei «borghi», dei piccoli centri storici fatti di pietra dove interi vicoli scompaiono perché piano piano, negli anni, allunga un muro di là e chiudi una tettoia di qua, qualcuno se ne appropria gli spazi. Li chiude, magari per farne dei nuovi vuoti.

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    Propaganda elettorale per Francesco Antonio Stillitani, ex assessore al Lavoro e alle Politiche sociali nella Giunta Scopelliti
    Un report che fa riflettere

    Si chiama consumo di suolo, un logoramento continuo che trasforma il territorio e causa la perdita di importanti servizi ecosistemici. Un rapporto ogni anno ne documenta lo stato di avanzamento e anche quello del 2021, che analizza cosa sia successo nell’anno della pandemia, non porta buone notizie. Lo realizza il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) grazie al monitoraggio congiunto di Ispra e delle Agenzie regionali come l’Arpacal.

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    Un ufficio della Provincia di Reggio Calabria in un edificio non finito (foto Angelo Maggio)

    Il Rapporto dice questo: «Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 kmq, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato, e fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole. Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali».

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    Mongrassano, religione e cemento (foto Angelo Maggio)

    Va detto che la Calabria è al di sotto della media nazionale ed è tra le 8 regioni che, quest’anno, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari. Nella nostra regione il cemento non è comunque andato in lockdown: il suolo consumato è oggi il 5%, ovvero 76.116 ettari, con un aumento di 86 ettari nel 2020 rispetto al 2019. Ma bisogna analizzare anche il contesto – la Calabria ha molte aree non edificabili – e il grado di urbanizzazione. Nel 2018 il nostro territorio rurale era di 13.155 kmq, nel 2019 è sceso a 13.150 e nel 2020 a 13.148. Crescono invece, di poco ma costantemente, le zone suburbane e quelle urbane.

    I primati della Calabria

    Altri dati interessanti. Da un’analisi effettuata attraverso il confronto con il Pil regionale emerge la distribuzione del consumo di suolo in relazione alla dimensione dell’economia: Calabria, Sardegna e Basilicata registrano i valori più alti di suolo consumato rispetto al numero di addetti impiegati nell’industria. L’agricoltura: nel periodo 2006-2012 la perdita di superfici a oliveto ha visto proprio in Calabria il valore più alto con circa 12mila quintali di prodotti in meno, mentre tra il 2012 e il 2020 si sono persi frutteti in grado di produrre potenzialmente quasi 40.000 quintali. Un altro primato poco desiderabile è quello della regione con la percentuale più alta di suolo consumato (13,4%) nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica. Infine, la Calabria ha una delle percentuali più elevate (5,8%) di suolo consumato tra le aree a pericolosità sismica molto alta.

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    Caulonia (foto Angelo Maggio)

    Il Report dell’Ispra restituisce un altro paradosso che non ha bisogno di grandi interpretazioni: due «perle» del turismo calabrese, Tropea e Soverato, sono tra i Comuni che al 2020 hanno le percentuali più alte di suolo consumato (il 35% la cittadina tirrenica e il 27% quella jonica). Dopo gli interventi legislativi approvati nell’ultimo ventennio (la legge urbanistica 19/2002, le “norme sull’abitare” 41/2011, il “contrasto dell’abbandono e del consumo di suoli agricoli” 31/2017) sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non abbia funzionato, a partire dalla mancanza di sistemi di monitoraggio, di abbandonare gli slogan e provare a capire come, perché e per responsabilità di chi succeda che un territorio storicamente violentato venga ancora sacrificato sull’altare di un finto progresso: il dato sul suolo consumato pro capite dice che, ad oggi, per ogni calabrese sono andati persi 402 mq.

  • Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Ci sono storie di uomini che si sono fatti la guerra sul mare e navi che sono affondate con i loro segreti che continuano a tornare come fantasmi inquieti.
    Il 3 Luglio del 1941 un convoglio composto da tre navi mercantili – la Mameli, la Pugliola e la Laura C – scortate da due cacciatorpediniere aveva appena superato lo Stretto di Messina con destinazione il Nord Africa. Di lì in poi veniva la parte più insidiosa della navigazione, dove maggiormente era probabile un attacco inglese. E infatti alle 10 e 30 del mattino il sottomarino britannico Upholder (che solo qualche giorno prima aveva affondato la motonave Lillois al largo di Scalea) nascosto in agguato tra i flutti del mare di Saline Joniche, lanciava due siluri.

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    Il sommergibile Upholder, che affondò la Laura C, in una foto d’epoca
    Un carico esplosivo

    Possiamo solo immaginare le strisce parallele lasciate dalla corsa degli ordigni, la concitazione a bordo delle navi, gli ordini gridati ed eseguiti per evitare l’impatto e poi le esplosioni a bordo della Laura C quando venne colpita. Il resto è il tentativo di salvarsi manovrando verso la costa, dove a meno di cento metri dalla riva la nave è affondata portando con sé sei membri dell’equipaggio (uno dei quali proveniente da Paola) e il carico.
    Il libro di bordo racconta di stive con beni di conforto come fiaschi di Chianti, birra, bottiglie di Campari, farina, stoffe e macchine da cucire, biciclette per i bersaglieri, anche profumi e boccette di inchiostro di china. Ma, soprattutto, armi, munizioni e tritolo.

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    Il telegramma con cui il prefetto annunciava al Ministero dell’Interno l’affondamento della nave
    Il tritolo stragista

    Oggi la Laura C dorme tra i trenta e i sessanta metri di profondità ed è diventata una ricchissima oasi di vita sottomarina, ma il suo è un sonno inquieto.
    Nel corso degli anni in cui si è registrata una certa corsa al pentitismo, diversi collaboratori di giustizia hanno sostenuto che il tritolo conservato nelle stive della nave affondata poco al largo di Saline era una specie di polveriera a disposizione dei clan. Da quelle stive sommerse sarebbe stato prelevato l’esplosivo per diversi attentati, tra cui quello mancato e poi rivelatosi finto, a Giuseppe Scopelliti.
    Ma nella mitologia ‘ndranghetistica perfino le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio vennero realizzate con il tritolo dei tempi della seconda guerra mondiale.

    In realtà le indagini condotte dalle Forze dell’ordine, dalla magistratura antimafia e perfino dal Sisde, riuscirono a trovare conferme parziali a tali dichiarazioni. Furono condotte delle analisi sulle tracce di esplosivo usato in alcuni degli attentati e in parte fu trovata compatibilità con l’esplosivo conservato nel ventre della nave. Era sufficiente perché le autorità decidessero di chiudere le stive del relitto, per impedire qualunque possibilità di trafugamento.

    La prima bonifica

    Il primo intervento di bonifica fu realizzato dalla ditta di lavori subacquei Cormorano Srl di Napoli e costò quasi quattro miliardi di vecchie lire. Ma i lavori non furono efficaci, a causa del cemento pompato nelle stive, la nave si piegò su un lato, vanificando almeno in parte l’opera. Per un tempo infinito quella nave è stata l’oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per tutti quanti operano nel settore del turismo subacqueo. La Laura C non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, ma è anche spunto per riprese video mozzafiato ed è facilmente raggiungibile dalla costa.

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    La natura si è fusa con quel che resta della Laura C sul fondo del mar Jonio

    Una grande occasione perduta per un settore del turismo calabrese, magari di nicchia, ma molto esigente e ricco. Scendere sulla Laura C resta una esperienza potente. Dopo avere nuotato poche decine di metri in superficie ci si immerge trovando subito l’albero di prua che esce dalla sabbia che copre per intero la parte anteriore del relitto. Si prosegue dunque verso poppa, conquistando quote piuttosto impegnative e scorrendo lungo la fiancata della nave si possono vedere le mille forme di vita che ne hanno colonizzato le lamiere.

    Divieto di turismo

    Ma è una esperienza che resta nei ricordi di chi l’ha potuta vivere, visto che malgrado le operazioni di bonifica siano state dichiarate concluse con successo, il relitto resta un sogno proibito. Già nel 2002 due senatori dell’Ulivo, Boco e Turrroni, rivolgevano al Ministero dell’Ambiente e a quello dell’Interno un’interrogazione per domandare quando la nave potesse tornare fruibile turisticamente, considerata la sua valenza naturalistica, caratterizzata anche da rarità biologiche.

    Nel 2015 le autorità militari e la magistratura annunciarono che «dopo un duro lavoro svolto dai sommozzatori della Marina e dalla Guardia Costiera», la Laura C non era più una polveriera. Sembrava poter venire meno l’interdizione alle immersioni e invece dopo anni di lavori, moltissimo denaro speso, immergersi lì non è ancora possibile. Perché come diceva Conrad, le navi hanno sempre un carico «di desideri e rimpianti».

  • VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    Fa acqua da tutte le parti. Con l’aggravante che si tratta di acqua sporca, che fuoriesce dagli scarichi fognari attraverso troppe tubature non regolarmente collettate e finisce direttamente e abusivamente nei corsi d’acqua che sfociano a mare. Da anni il sistema di depurazione calabrese minaccia – e l’inchiesta Archimede ne è una prova – lo stato di salute del mare degli oltre 800 km di costa tra Jonio e Tirreno. Proprio sul litorale ovest molto spesso appaiono enormi chiazze, strisce e bollicine giallastre, che inibiscono i bagnanti dalla voglia di fare un tuffo e, in generale, rischiano di tenere lontani i turisti.

    Le istituzioni minimizzano, i cittadini si indignano

    E così sono ripartite le polemiche, tra social network, comunicati e conferenze stampa di assessori e sindaci che accusavano i cittadini indignati di fare «cattiva pubblicità» al Tirreno calabrese con la diffusione di «immagini di mare sporco non veritiere». Non si tratta di «merda», ha spiegato Fausto Orsomarso, ma di semplice e naturale «fioritura algale» e chi dice il contrario rischia una denuncia.

    Il giudizio dell’esperto

    Una analisi approfondita prova a farla un veterano dell’ingegneria idraulica dell’Università della Calabria. Il professor Paolo Veltri spiega che «il mare calabrese è di tipo oligotrofico, cioè presenta pochi nutrienti e, anche in presenza di alte temperature, non dà luogo a fioritura di alghe. Può succedere – sostiene Veltri – ma non è di certo un fenomeno sistematico». Il problema dell’acqua marrone del Tirreno resta quella depurazione finita a più riprese nel mirino della magistratura.

    Promesse e protocolli

    Intanto, mentre Capitano Ultimo ha promesso lo sblocco dei fondi – circa 70 milioni di euro – per sanare le procedure di infrazione e i depuratori malfunzionanti, si aspetta l’adesione di tutti e 21 i Comuni del Tirreno cosentino al protocollo d’intesa promosso dalla Provincia di Cosenza su input determinante del comitato “Mare Pulito”. Si chiede soprattutto monitoraggio costante e la trasparenza sui dati dei sistemi di depurazione. 

  • Cinque cerchi, cinque zeri: quasi 600mila euro alla Rai per il Muccino olimpico

    Cinque cerchi, cinque zeri: quasi 600mila euro alla Rai per il Muccino olimpico

    La Regione pagherà poco meno di 600mila euro alla Rai per l’esordio a cinque cerchi del discusso cortometraggio di Gabriele Muccino sui canali della tv nazionale. Nonostante la presentazione dello spot risalga alla tarda estate del 2020, nei successivi undici mesi la battaglia legale tra la Cittadella e la Viola Film, società di produzione individuata dal regista, per la condivisione anticipata del filmato ha fatto sì che quest’ultimo circolasse, con non troppe fortune e numerose parodie, soltanto sul web. Passata la tempesta di critiche iniziali, le visualizzazioni si sono sempre più ridotte mentre l’estate si avvicinava.

    Un aiuto in regia per Muccino

    Il corto, però, ufficialmente è rimasto nei cassetti fino a fine luglio. La diatriba in tribunale si è chiusa in primavera con uno sconticino alla Regione, che si è accaparrata l’opera per poco meno di un milione e 400 mila euro (circa 300mila in meno del previsto), e la promessa di ritocchi – a spese (circa 90mila euro, recitano gli atti) della Viola – per qualche scena particolarmente infelice.

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    Nino Spirlì sul set a Palmi per la nuova versione di Calabria Terra mia

    «Come può raccontare l’Amore, l’Eterno Bello, le profonde rughe dell’Arte, che sono l’Anima di questa Calabria, morbida e tortuosa, solennemente silenziosa e guardinga, seppur maternamente amorevole, un uomo che non conosce la fraternità, il “cum patire”, la solidarietà, l’equità?», chiedeva, d’altra parte, proprio Spirlì soltanto dieci mesi fa riferendosi a Muccino. All’inizio di giugno, invece, il successore di Jole Santelli era sul set di Palmi per la realizzazione della nuova versione riveduta e corretta dello spot.

    Tokyo costa

    Nonostante l’illustre supporto istituzionale alle riprese, per avere il remake di Calabria Terra mia – questo il titolo scelto da Muccino – in Cittadella hanno atteso il 2 luglio 2021 e altri quindici giorni sono passati per il preventivo della Rai. In Regione avranno pensato che, visto che un anno era andato già perso, tanto valeva far partire la campagna promozionale in ritardissimo ma col botto. E cosa fa più spettatori delle Olimpiadi in questo periodo? Nulla. In più Tokyo 2020 arriva un anno dopo il previsto. Proprio come lo spot, che avrebbe dovuto portare i turisti quest’anno e non il prossimo.

    Quindi ecco 482.435,45 euro per mamma Rai, di cui 417.437,45 per il piano TV e 65.000 per quello digital. Tutto condito da un altro centinaio abbondante di migliaia di euro per l’Iva. Totale 588mila e rotti euro, che sommati al milione e quattro speso per girare il corto portano il costo dell’operazione Muccino a poco meno di due milioni.

    Sulla Rai per due settimane

    Ma è un conto che presto dovrà essere aggiornato: l’accordo con la Rai prevede la trasmissione degli spot soltanto dal 24 luglio all’8 agosto. Poi per farci rivedere ancora Raul e Rojo sul piccolo schermo alla Cittadella toccherà di nuovo allentare i cordoni della borsa. Sarà anche per questo che sempre Spirlì dalla sua bacheca Facebook ha annunciato urbi et orbi gli orari indicativi della messa in onda dei filmati per il weekend, non sia mai ce ne perdessimo uno.

    Dopo il bombardamento di sabato, infatti, con il corto di Muccino andato in scena una quindicina di volte, stando al palinsesto diffuso dal presidente f.f. già domenica si era scesi a cinque passaggi in tv. Aumenteranno di nuovo? Diminuiranno? Ai followers l’ardua sentenza. Per capire se, invece, gli spot porteranno davvero nuovi turisti ormai toccherà aspettare l’estate prossima.

  • Così la ‘ndrangheta affossa le principali mete turistiche della Calabria

    Così la ‘ndrangheta affossa le principali mete turistiche della Calabria

    Un recentissimo studio condotto da Demoskopika ha quantificato in 2,2 miliardi di euro la stima dei proventi della criminalità organizzata derivante dalla infiltrazione economica nel comparto turistico italiano. Di questi, ben 810 milioni sarebbero ad appannaggio della ‘ndrangheta: il 37% degli introiti complessivi. A seguire la Camorra con 730 milioni (33%) e la mafia con 440 (20%) e criminalità organizzata pugliese e lucana con 220 (10%).

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    I dati elaborati da Demoskopica mostrano il peso della criminalità organizzata nell’economia turistica

    Più volte, nei convegni, nella letteratura sul tema, si sono dette o lette le frasi, più o meno testuali, «la ‘ndrangheta penalizza il turismo» oppure «la ‘ndrangheta frena lo sviluppo della Calabria». Sembrano frasi vuote. Da cultori della materia. E anche studi come quelli di Demoskopika appaiono ai più numeri vuoti. Quasi teorici. Ma non è così. Perché la ‘ndrangheta è riuscita e riesce a condizionare l’economia turistica delle principali mete calabresi. Da Tropea e Pizzo Calabro, passando per Diamante e Praia a Mare, fino ad arrivare a Soverato e Isola Capo Rizzuto.

    Il caso Scilla

    L’ultimo caso, emblematico, è di pochi giorni fa. Un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria, denominata “Lampetra” ha documentato il controllo asfissiante che le famiglie Nasone e Gaietti avevano sull’economia illegale e legale di Scilla. Una perla sul mar Tirreno in provincia di Reggio Calabria.

    Lì, le due cosche che, da sempre, si dividono il territorio non solo gestivano il mercato della droga e il giro delle estorsioni. Ma, cosa ancor più inquietante, si infiltravano nell’economia legale. Dagli atti dell’inchiesta, infatti, emerge l’interesse degli affiliati per le assegnazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari. Una circostanza non di poco conto.

    Per svariati motivi. In primis, perché Scilla è stata quasi sempre vista e dipinta come una sorta di isola felice, dove lo strapotere della ‘ndrangheta non raggiungeva i picchi delle roccaforti storiche. E poi perché gli stabilimenti balneari sono uno degli aspetti più importanti dell’economia scillese, che si alimenta e vive grazie a quei tre o quattro mesi estivi in cui si può far valere la spinta turistica. Insomma, la ‘ndrangheta va quindi ad attingere al polmone vitale del sostentamento della comunità.

    La Costa degli Dei

    E sono molteplici gli episodi che dimostrano l’interesse e l’ingerenza delle cosche vibonesi sui due luoghi più iconici del turismo calabrese: Pizzo Calabro, ma, soprattutto, Tropea. Un ruolo egemone, ovviamente, è rivestito, da sempre, dal potente casato dei Mancuso. Ma in quei luoghi, il turismo viene strozzato anche dai La Rosa, che ai Mancuso sono federati.

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    Anche Tropea, eletta borgo più bello d’Italia in questo 2021, deve fare i conti con i clan locali

    Fin dal 2012 vengono, ciclicamente, effettuate operazioni di polizia che certificano l’ingerenza delle cosche nel settore turistico. Un controllo che può essere esercitato attraverso il metodo più “classico” e basico, quello dell’estorsione, ma anche attraverso meccanismi più raffinati, come quelli della intestazione fittizia. Nel 2016, l’inchiesta “Costa Pulita” poi scaturita in un processo che, in primo grado, ha portato a numerose condanne. Dagli hotel ai villaggi vacanze, passando anche per la gestione dei traghetti turistici. Le cosche non lasciavano nemmeno le briciole in quei luoghi: da Parghelia a Briatico. Purtroppo, a distanza di tre anni dalla sentenza di primo grado, il processo d’appello è iniziato appena un mese fa.

    E, invece, la ‘ndrangheta corre. Corre veloce, quando c’è da fare affari e denaro. Tra le numerose condotte che il maxiprocesso “Rinascita-Scott” sta ricostruendo c’è la rete di relazioni, anche di natura massonica, su cui la cosca Mancuso poteva contare. Anche per il progetto di un enorme complesso turistico alberghiero da costruire a Copanello di Stalettì, considerata la perla dello Jonio catanzarese. E poi, gli interessi su un villaggio Valtur di Nicotera Marina, nel cuore della Costa degli Dei, a poca distanza proprio da Tropea.

    Gli uomini giusti al posto giusto

    Per raggiungere i propri obiettivi, la ‘ndrangheta sempre più spesso punta su professionisti, uomini cerniera, colletti bianchi. Per sbrogliare la vicenda nel Catanzarese, i Mancuso si affidano allavvocato ed ex senatore di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, considerato un uomo forte della massoneria deviata.

    Nell’ambito dell’inchiesta “Imponimento”, sono stati inoltre sequestrati i villaggi Napitia a Pizzo Calabro e Garden Resort Calabria a Curinga. In quell’indagine, in cui è finito anche l’ex assessore regionale al Lavoro, Francescantonio Stillitani, sarebbe stata documentata l’ingerenza delle cosche Anello e Fruci di Filadelfia. Il focus della Guardia di Finanza si è concentrato sulle aziende che avrebbero fatto da schermo alla ‘ndrangheta, per permetterle di gestire quelle strutture di lusso.

    La recente inchiesta “Alibante”, condotta sempre dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, avrebbe invece dimostrato la rete di protezioni di cui godeva la famiglia Bagalà nel Medio Tirreno Catanzarese. «Opachi legami» è scritto nelle carte d’indagine, che avrebbero consentito ai Bagalà di crescere a dismisura negli affari. Puntando anche sul settore turistico. Grazie a un cospicuo numero di prestanome, i Bagalà avrebbero messo le mani su una serie di strutture e villaggi turistici. Soldi, tanti. Ma anche location per svolgere summit di ‘ndrangheta o nascondere latitanti. E, anche in questo caso, viene documentata la presenza di uomini giusti al posto giusto, nelle amministrazioni comunali, per superare eventuali ostacoli o lungaggini burocratiche. E da altre indagini emergono anche gli appetiti sui porti turistici di Soverato e Badolato, sempre nel Catanzarese.

    «Solo qui ho avuto problemi»

    Il meccanismo non si discosta molto da territorio a territorio. A svelare le dinamiche del territorio crotonese è il pentito Dante Mannolo, coinvolto nell’inchiesta “Malapianta” e Infectio. Mannolo ha raccontato come funziona lo sfruttamento dei villaggi turistici. Da Porto Kaleo a Serenè. Aste pilotate e investimenti delle varie famiglie del Crotonese. Su tutte, ovviamente i Grande Aracri di Cutro. Che poi impongono anche i fornitori. «Ho villaggi turistici in tutta Italia e solo qui ho avuto problemi» ha detto in aula l’imprenditore Fabio Maresca, proprio con riferimento al villaggio Serenè.

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    Capo Colonna

    Ma, anche in questo caso, si tratta solo delle vicende più recenti. Perché gli affari dei Grande Aracri o degli Arena nel settore turistico crotonese hanno radici profonde. E le inchieste hanno documentato i desideri, spesso realizzati, su opere importanti. Quali porto turistico di Le Castella, ma anche su Capo Colonna, tesoro archeologico a Isola Capo Rizzuto. L’inchiesta “Borderland”, di alcuni anni fa, ha dimostrato come i Trapasso di San Leonardo di Cutro, costola dei Grande Aracri, riuscissero a estendersi fino alla confinante Botricello (in provincia di Catanzaro) per rastrellare le estorsioni sui villaggi turistici affacciati sul tratto di costa ionica compreso tra Crotone e Catanzaro.

    Terre di confine

    Il settore turistico è da sempre un terreno privilegiato per i grandi clan. Non solo per gli introiti che fa incassare, ma anche per il prestigio che porta essere i padroni delle strutture più esclusive del territorio di competenza criminale. Lo insegna Franco Muto, il “re del pesce” di Cetraro, che per trent’anni ha inquinato il settore turistico e inondato di droga l’Alto Tirreno Cosentino. Il suo ruolo, già esplicitato, negli anni, da numerosi collaboratori di giustizia, viene tratteggiato a tutto tondo con l’inchiesta “Frontiera”, che mostra lo strapotere sulle attività ricettive, ma anche la forza monopolistica sul mercato ittico, che, ovviamente, coinvolgeva la distribuzione nei ristoranti e che si spingeva addirittura fino al Cilento. La droga commercializzata dal clan Muto scorreva a fiumi nelle zone turistiche e balneari del Cosentino: da Diamante a Praia a Mare, passando per Scalea.

    Terre di confine, Scalea e Praia a Mare. In estate, nelle bellissime spiagge di fronte all’Isola di Dino è più facile sentir parlare napoletano che calabrese. Anche sotto il profilo criminale. A Praia a Mare, ‘ndrangheta e camorra convivono tranquillamente. Storica la presenza dei Nuvoletta, uno dei clan più noti della camorra, in passato alleati anche dei Corleonesi.

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    L’isola di Dino

    Così, quindi, si arriva a quelle cifre e quelle percentuali messe nero su bianco da Demoskopika. Perché quei rapporti sono il frutto delle attività concrete, vive, della ‘ndrangheta sul territorio. Quel territorio devastato e abbandonato. Come gli edifici in costruzione, che dovevano essere strutture ricettive, ma che sono stati bloccati dalle indagini ancor prima di sorgere per l’infiltrazione ‘ndranghetista. O come villaggi e resort abbandonati dopo il sequestro dalla parte della magistratura. Un abbandono che alimenta il falso mito sulla ‘ndrangheta che “dà posti di lavoro”. E intanto, centinaia di chilometri di spiagge incontaminate e mare cristallino, come nella Locride, risultano abbandonate, allo stato brado. Non un lido, non un camping o un villaggio. Chilometri e chilometri di nulla. Terra bruciata.

  • Turismo e comunicazione, la Calabria non impara mai

    Turismo e comunicazione, la Calabria non impara mai

    «Il turismo è una cosa complessa», sussurra Sergio Stumpo, cosentino, Ceo di Target Euro, società che si occupa di consulenze per realizzare progetti di sviluppo, con uno sguardo mirato al turismo, impegnata in 60 paesi con 120 professionisti in rete.
    Il concetto da cui partire e che Stumpo ripete come un mantra è: collaborazione e partecipazione attiva, strumenti necessari per competere e crescere sul piano sociale ed economico. Non esattamente quel che accade in Calabria.
    «Qui c’è una separazione tra il tessuto imprenditoriale e la politica», comincia a spiegare Stumpo, al punto da sospettare una forma di bipolarismo. «Senza condivisione, senza convergenza, non si va da nessuna parte». E se manca un progetto cui aderire, la partita è persa sin da subito.

    La bellezza non basta

    Eppure, magari pochi lo ricorderanno, il turismo in Calabria ha conosciuto una stagione di crescita. «Erano gli anni settanta – rievoca Stumpo – e la voglia di crescere era tanta. Scalea, Copanello, Tropea, si proiettarono verso lo sviluppo turistico». Quella spinta si fermò presto, naufragando, nella maggior parte dei casi nella speculazione edilizia, nella conurbazione esagerata, nel saccheggio dei territori. Si mandò in fumo la bellezza e con essa il futuro.
    Tuttavia «promuovere la bellezza non serve a nulla», dichiara lapidario Stumpo, che vede le opportunità costruite sulla progettualità. Avere spiagge da sogno può risultare paradossalmente inutile, se a sostenere la promozione di quella bellezza manca una idea strutturata.

    Uno è meglio di cento

    A mancare di progettualità sembrerebbe solo chi ci governa, invece Stumpo su questo aspetto è apparentemente indulgente. Spiega che «la classe politica è il prodotto del meccanismo democratico». L’accusa, dunque, pare rivolta anche a chi l’ha nominata quella classe politica. Eppure questo legame si dissolve, perché «la politica non vede ciò che dovrebbe rappresentare».
    Oggi, piuttosto tardivamente, chi governa la Regione propone 100 marcatori identitari. Ma Stumpo storce la bocca. «Sono troppi, creano confusione. Ne basterebbe uno: su cosa si vuole puntare? Cultura, paesaggi, storia?».

    Questo errore, che possiamo definire generalista, emerge pure nelle parole di Aldo Presta, docente di Comunicazione visiva all’Unical, responsabile dell’Identità visiva dello stesso ateneo ed Art Director designer.
    «Lo spot di Muccino, ma pure quelli precedenti, parlano di una Calabria indistinta e confusa», e comunque arrivano troppo tardi, sempre a ridosso dell’estate.
    Un approccio fragile ad un mondo competitivo come quello turistico, una realtà aggravata dal post Covid, che «impone riposizionamenti e marketing territoriali accurati», prosegue Stumpo.

    Il richiamo della Calabria poco efficace

    I due sguardi, quello dell’economista che crea progetti di sviluppo e quello del comunicatore che costruisce trame per veicolare le idee, convergono nel giudizio sconfortante. «Qual è l’idea di Calabria? Promuoviamo oggetti, non progetti», continua Stumpo, ponendo l’attenzione sulla grande assenza: una strategia.
    Si punta sulla presunzione di bellezza, illudendoci che questo basti a richiamare eserciti di turisti. Invece il richiamo resta vago, destinato a perdersi tra le offerte dei competitor, mirate, precise, facenti capo a un piano ben studiato.
    «Un progetto per il turismo – spiega Presta – deve partire da una analisi di ciò che si deve comunicare» e in Calabria non sappiamo se questa analisi esiste. Il turismo è un fenomeno complesso e il successo o l’insuccesso sono determinati da quello che fanno tutti i protagonisti di un territorio. Avere un albergo bellissimo, ma con la spazzatura sulla strada, vanifica ogni sforzo. «Se dichiari di avere in Sila l’aria migliore, allora i quad e i fuoristrada devono restare fuori, dando spazio alla montagna dolce, ai cavalli».

    Dal turismo ai turismi

    Ma c’è una difficoltà in più. Come avvisa Presta, «oggi parliamo di turismi, al plurale, e dobbiamo scegliere su quale puntare per potere individuare i soggetti cui parlare». E oggi i soggetti del turismo usano lingue differenti, al punto che non si parla più di target, ma di tribù, comunità che si raccolgono attorno a pratiche sportive, passioni gastronomiche, istanze culturali.
    «Con i soldi dati a Muccino si sarebbero potuti finanziare quattro progetti finalizzati a differenti obiettivi», prosegue Presta sconfortato.
    Un’altra difficoltà attende la promozione del turismo in Calabria. Nell’era della Rete il digitale non perdona e se i servizi sono deludenti rispetto all’offerta, allora sei spacciato.

    Il turismo calabrese sembra imprigionato nello stereotipo che è nella testa dei politici. «La responsabilità è del committente, non dell’efficacia della comunicazione ed è inutile inseguire nomi famosi, da Toscani a Muccino. Se quella è l’idea della Calabria, ogni sforzo è destinato al fallimento», conclude Presta.
    Stumpo va oltre: «Siamo abituati a ricevere i turisti, non a conquistarli. La Spagna, la Grecia sono avanti, hanno progettato le isole Covid Free. Qui da noi nessuno parla di progetti turistici, eppure le prossime elezioni regionali sono alle porte».