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  • Borghi di Calabria, la bellezza oltre la retorica del marketing territoriale

    Borghi di Calabria, la bellezza oltre la retorica del marketing territoriale

    La Bellezza – intesa come ideale paesistico e artistico – è un asset strategico del Bel Paese. Non c’è bruttura, scempio o speculazione che riesca a sradicare questo stereotipo che viene esaltato e celebrato fino allo sfinimento da coloro che, non avendo altri argomenti, vivono in una eterna dimensione estetica, o forse cosmetica, dell’esistenza.

    Dietro la bellezza

    La bellezza per loro è una panacea. Purtroppo, non è così. Anzi dietro la bellezza di facciata si scopre spesso un mondo reale abbrutito dall’incuria. Prendiamo per esempio i borghi d’Italia. Non esiste un altro paese al mondo che possa vantare un patrimonio di piccoli centri pari a quello del nostro Paese. Le loro pietre custodiscono un’eredità culturale, storica e artistica che si è stratificata nei secoli, generazione dopo generazione. Possono essere appollaiati sulla sommità di un colle, oppure rannicchiati nell’ansa di un fiume. Possono accoglierti a braccia aperte fra i moli di un piccolo porto, oppure vivere in simbiosi con una città materna; in ogni caso, la loro storia può vantare con orgoglio il titolo dell’unicità e della fierezza identitaria.

    Borghi come miniera di saperi

    I borghi sono una vera e propria miniera di saperi, di mestieri, di architetture, di invenzioni urbane e di civiltà. Sono da tempo immemorabile le cellule vive del nostro modo di abitare e vivere in comunità. Ebbene, questi nuclei di vita che nel loro provvidenziale e laborioso rapporto con il territorio hanno contribuito a costruire la famosa bellezza del paesaggio italiano, rischiano (in numero crescente) di essere travolti dalle spietate leggi della domanda e dell’offerta. Abbandono, incuria, oblio sono i mali peggiori. Per decenni è sembrato anacronistico abitare in luoghi lontani dalla “modernità”. Per anni emigrare e non tornare mai più o ritornare solo per le ferie è stata la nota dominante dei flussi demografici. Le officine del “benessere economico” chiedevano mano d’opera e le difficoltà del vivere lontano dalle luci delle città fornivano un valido alibi all’esaltazione del Boom economico.

    Le virtù taumaturgiche del marketing territoriale

    Oggi le cose sono cambiate. Ananke, la Necessità, ci chiama ad affrontare con rinnovata intelligenza le sfide climatiche, economiche, tecnologiche che la transizione ecologica impone. Sfide che la pandemia (catastrofico catalizzatore del cambiamento) ha reso non dilazionabili. Le città, nei mesi del confinamento e nella quotidianità del distanziamento sociale, hanno mostrato un volto ostile, desolato, alienato. Ogni periferia è diventata un ghetto della solitudine. La vivibilità dei borghi che già serpeggiava nei discorsi per addetti ai lavori sulle riviste patinate e dei fondi d’investimento ha invaso la scena politica. Sindaci di tutta Italia, preoccupati per la sorte dei loro bilanci hanno scoperto le virtù taumaturgiche del marketing territoriale per attrarre compratori, ospiti paganti e investitori. Case in vendita a prezzi simbolici. Vacanze gratis. Promesse di mitiche emozioni agrosilvopastorali. Esperienze uniche e irripetibili.

    Una promozione non si nega a nessuno

    “Promozione” è la parola magica pronunciata nei convegni e nei seminari come toccasana per arginare il declino dei piccoli comuni. Il pubblico applaude, partecipa, si esalta. Ma il problema della giusta direzione da prendere resta. I luoghi non possono vivere solo d’estate o durante il fine settimana, hanno bisogno di continuità, di perseveranza e di pazienza. Oggi che lo spirito del tempo ci suggerisce con sempre maggior forza di avvicinarci alla natura, di ascoltare il suo respiro, di domandarci quale sia il vero posto degli esseri umani nel mondo, un numero crescente di persone scopre che le pietre antiche custodiscono i segreti perduti dell’abitare. Probabilmente perché nei borghi dimora ancora quel genius loci che dona all’habitat un calore e un sapore particolari. Un tenore di vita che potremmo chiamare slow life.

    I borghi di per sé non sono la soluzione

    Bisogna però evitare le favole idilliache. I borghi di per sé non sono la soluzione. La vita è sempre stata dura anche lì. Non si può pensare che un trasloco e la volontà di cambiamento risolvano tutto. Che bastino pochi euro e un po’ di iniziativa per invertire la tendenza. Bisogna analizzare la dinamica messa in moto dalle trasformazioni epocali che stiamo vivendo e capire che non è più il tempo dei quartieri dormitorio delle grandi metropoli. Il tempo delle borgate è terminato e prima che sia troppo tardi la politica, l’impresa, il lavoro e la cultura devono guardare con occhi nuovi al territorio e all’ambiente. La forza attrattiva delle città deve trovare un nuovo punto di equilibrio in favore dei piccoli centri. Oggi i mezzi di comunicazione consentono di tessere efficaci relazioni lavorative anche da remoto. Modalità che solo qualche decennio fa erano impensabili oggi sono normali. I piccoli comuni posso rifiorire e tornare ad essere dei luoghi vivi e produttivi.

    Se tutto gira intorno ai b&b

    A patto però che si argini la stucchevole narrazione dei borghi più belli d’Italia. La bellezza non è una cartolina, non è una foto che gli occhi digitali del turista rubano al paesaggio come souvenir. Nel nostro caso essa è un bene che si conserva solo attraverso la cura costante della vitalità sociale ed economica degli abitanti e del decoro delle case, delle strade e dei monumenti. Se una località viene ridotta al rango di meta turistica e tutta l’economia del villaggio gira soltanto intorno ai B&B – con il corollario di speculazione edilizia che esso comporta – in poco tempo la bellezza sfiorisce usurata dai passi svelti e dagli sguardi distratti di un’umanità perennemente in gita. Turisti incapaci di abitare, che hanno perduto il senso della misura e divorano le mete una dopo l’altra, lasciando dietro di sé l’inquietante omologazione della “gentrificazione”.

    La gentrificazione rischia di fagocitare i borghi

    Il fenomeno è arcinoto e impatta soprattutto le grandi città d’arte, ma rischia di dilagare nei piccoli borghi che si devono difendere dall’invasione degli “extra-turisti” opponendo una decisa resistenza. Non al turismo sostenibile, ma alla monocoltura vorace del diporto, della ricreazione, del puro svago al limite dello svacco. Viaggiare è un bene di grande valore se genera conoscenza, cultura, confronto, divertimento. Ciò che rende nefasto il turismo di massa nelle località storiche sono le conseguenze che esso produce: abbandono, stagionalità, esproprio, monocultura dell’accoglienza, parassitismo. Venezia è un caso limite e preoccupante. Chi abita se ne va e chi arriva si ritrova a vivere tra estranei.

    Ma i borghi calabresi che c’entrano?

    A questo punto qualcuno potrà chiedersi, ma la Calabria che c’entra? C’entra, eccome! Sia perché i borghi della Calabria sono tantissimi e incantevoli, sia perché la tenacia con cui molti paesi calabresi lottano contro lo spopolamento va compresa, difesa e premiata. Prendiamo per esempio l’iniziativa con cui la Regione Calabria ha deciso di “aiutare” le persone che vogliono trasferirsi in uno dei nove borghi selezionati dal Progetto Reddito di residenza attiva. Si tratta di un’azione senz’altro lodevole. Eppure, eppure se i finanziamenti seguono solo un iter burocratico e la realtà del singolo Comune non viene analizzata e compresa caso per caso, borgo per borgo si corre il rischio come minimo di sprecare un’occasione.

    I finanziamenti per essere efficaci devono entrare in rapporto con i bisogni di una comunità vera, non astratta. Ogni paese lotta a suo modo contro lo spopolamento. Le ragioni dell’abbandono non sono tutte uguali. Con tutta probabilità ci sono fattori comuni, ma ciò non toglie che ogni realtà deve essere valutata singolarmente. Studiandone la storia, l’economia, gli andamenti demografici, i rapporti con i comuni vicini, e soprattutto ascoltando le parole degli abitanti. Se invece ci si limita a finanziare una tantum un albergo, un ristorante, un bar, una fattoria, un laboratorio artigiano o un negozio senza coinvolgere in prima persona gli abitanti nulla cambierà perché non è detto che manchino le attività. Forse mancano alcuni servizi essenziali, o forse quel senso di appartenenza in grado di invertire la tendenza.

    Premiate chi resta, non chi arriva

    Più che premiare chi arriva bisognerebbe incoraggiare chi ha deciso di restare. Persone che spesso dimostrano una resistenza eroica. Persone che vogliono ad ogni costo abitare la loro casa e tenacemente difendono la propria vita e la vita del proprio borgo. Nel 2019 è stata pubblicata una ricerca molto interessante su questo tema dal titolo Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste. Antonio De Rossi, che ne ha curato la pubblicazione, sostiene la necessità di: «Invertire lo sguardo. Guardare all’Italia intera muovendo dai margini, dalle periferie. Partendo dalla considerazione che l’Italia del margine non è una parte residuale; che anzi si tratta del terreno decisivo per vincere le sfide dei prossimi decenni.»
    Guardando con altri occhi ai borghi calabresi, ascoltando i racconti dei loro abitanti scopriremmo forse che molti di loro non sono solo belli, ma anche fortunati perché chi li abita li custodisce come un bene comune.

    Giuliano Corti

  • Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Una delle miniere più antiche d’Europa si trova in Calabria. Per la precisione, nella Valle dell’Esaro.
    Un’ulna (cioè, un pezzo d’avambraccio) appartenuta a un ventenne preistorico e sepolta sotto un masso nell’ingresso, fa capire che questo posto è frequentato da tantissimo tempo: oltre 20mila anni, stando ai risultati del radiocarbonio.
    Che ci fa un resto umano così antico in una grotta? Probabilmente, indica una “presa di possesso”. «È probabile che nell’alta preistoria queste enormi cavità naturali fossero considerate luoghi sacri», spiega Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari,
    L’umidità, fortissima, ha lavorato le rocce nel corso dei secoli. Una, in particolare, somiglia a un volto umano e dà il nome al sito: Grotta della Monaca.

    Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari
    Tra i più antichi minatori

    Sembra strano immaginare la Calabria “attrattiva” per persone in cerca di lavoro. Ma nella preistoria, a cavallo del neolitico e dell’eneolitico, ovvero all’inizio dell’età del rame, era così.
    La Grotta della Monaca era la meta di tribù che probabilmente vivevano nella vallata, tra l’Esaro e il Tirreno. Con tutta probabilità, questi nostri antenati sono stati tra i più antichi minatori dell’umanità.
    Solo alcuni di loro, probabilmente le donne, si dedicavano all’agricoltura. Gli uomini, i ragazzi e i bambini passavano gran parte delle loro non facili esistenze a estrarre i minerali colorati, prodotti dal miscuglio del ferro e del rame col calcare, che erano molto utilizzati per la concia delle pelli e, più tardi, per tingere i tessuti.
    Oggi, questi minerali hanno dei nomi (scientifici e comuni) piuttosto bizzarri: malachite, azzurrite, goethite, azzurrite, yukonite e aragonite.

    I minerali presenti nella struttura
    Il rame era un medicinale

    Il minerale predominante, tuttavia, è il rame, estratto in gran quantità.
    Ma non per fonderlo: «Secondo i criteri dell’epoca, questi erano giacimenti enormi, tuttavia non sufficienti per ricavarne lingotti», spiega ancora Larocca, che è il responsabile scientifico del sito archeologico.
    «Il rame», prosegue il ricercatore, «era utilizzato soprattutto come medicinale». I minerali estratti «non erano destinati all’autoconsumo, come i prodotti agricoli, ma allo scambio».
    La Calabria preistorica, in cui iniziavano le prime attività lavorative “specializzate” dà lezioni alla Calabria contemporanea, da cui scappano persino i braccianti, non appena possono.

     

    La grotta

    Ma com’è strutturato questo sito suggestivo e arcano? L’aggettivo “spettacolare” calza a pennello alla Grotta della Monaca, che è sotterranea quasi per modo di dire. L’ingresso, dov’è stato trovato l’antico avambraccio e dove c’è il “volto” della suora, è sull’ingresso di una collina a seicento metri di altitudine.

    Particolare del volto della “Monaca” (foto di Felice Larocca).

    È una sala piuttosto grande, piena di massi caduti dalle pareti, che conduce a una seconda cavità dal nome piuttosto inquietante: la Sala dei pipistrelli, una grotta nella grotta, lunga sessanta metri e larga trenta, che si chiama così per via dei suoi “ospiti” abituali.
    I quali vi risiedono tuttora, disturbati solo dal team di archeo-speleologi del Centro regionale speleologico “Enzo dei Medici” diretti dal professor Alfredo Geniola e dal menzionato Larocca per conto dell’Università di Bari, che gestisce gli scavi dall’inizio del millennio.

    La sala dei pipistrelli nel sito Grotta della Monaca

    Dalla Sala dei pipistrelli si dipana una serie di cunicoli, che si spingono per un altro centinaio di metri nelle viscere dell’altura. Qui è davvero difficile inoltrarsi, se non a carponi o, addirittura, strisciando.
    Il sito misura cinquecento metri circa in tutto. Un mezzo chilometro importantissimo nell’economia dell’Europa preistorica.

     

    Il duro lavoro

    Alcuni residui di ossa animali e di pietre lavorate fanno capire come lavoravano questi nostri antenati: afferravano il minerale più morbido, soprattutto la goethite, a mani nude, oppure lo strappavano dalle pareti con picconi ricavati dalle corna delle capre.

    Un piccone preistorico ritrovato nella Grotta della Monaca

    Nei casi più estremi, facevano a pezzi le rocce con mazze di pietra. Ma senza esagerare, perché il rischio di crolli era alto.
    Lo testimoniano delle “colonne”, cioè delle parti di minerale non estratto ma lasciato lì per reggere le volte dell’ingresso e della Sala dei pipistrelli. E dei muretti a secco, alzati per tenere sgombro l’ingresso dei cunicoli.
    Di lavorare si lavorava parecchio, ma le condizioni di vita erano grame: poco ossigeno, alimentazione non all’altezza e ritmi estrattivi enormi.
    D’altronde, non c’erano i sindacati e si faticava per sopravvivere.
    Un altro ritrovamento macabro dimostra oltremisura la pesantezza di questo stile di vita.

    Il cimitero

    Secondo gli archeologi, l’attività estrattiva è durata fino al 3.500 avanti Cristo circa, in pratica fino alle soglie della storia.
    Dopodiché, la Grotta della Monaca è diventata un cimitero. Gli archeologi, infatti, hanno trovato numerosi resti umani e hanno speso un bel po’ di tempo a ricomporli. Ne hanno ricavato un centinaio di scheletri, più o meno completi, che ci dicono tantissimo sugli abitanti della zona.
    Sono uomini, donne e bambini piccoli (alcuni, addirittura, appena nati), morti quasi tutti di infezioni o malattie. L’altezza media (1,60 per le donne e 1,70 per gli uomini) smentisce l’ipotesi che i nostri antenati mediterranei fossero “tappi”.
    Ma le condizioni delle ossa rivelano che comunque erano malnutriti e si ammalavano con una certa facilità di artrite e reumatismi, procurati dall’umidità del fiume Esaro e dal lavoro logorante. I più longevi raggiungevano a malapena i cinquant’anni e la mortalità infantile era quasi una norma.

    Rinvenimento di resti ossei umani durante le ricognizioni speleo-archeologiche del 1997 (foto di Felice Larocca)

    Si curavano alla meno peggio e, nei casi più estremi, si sottoponevano a una chirurgia rudimentale, come dimostrano i segni di trapanazione sul cranio di una donna adulta, probabilmente sopravvissuta all’“intervento” ma morta per l’infezione che ne seguì.

    La riscoperta

    Le estrazioni ripresero a pezzi e bocconi nell’antichità e si intensificarono di nuovo nel medioevo, quando minatori più attrezzati scavarono varie gallerie artificiali.
    L’abbandono definitivo, tuttavia, non fece dimenticare la Grotta, che lasciò tracce significative nell’immaginario degli abitanti della zona.
    La prima testimonianza contemporanea su questo sito è del sacerdote, poeta, scrittore e giornalista Vincenzo Padula, che parla della sua “terra gialla” come di una rarità.
    Il primo ad avventurarvisi, un po’ per spirito di avventura e un po’ per curiosità scientifica, è stato Enzo dei Medici, italiano di origine dalmata  (nacque a Sebenico, oggi Sibenik, in Croazia) che si recò nel Cosentino per censirne le innumerevoli cavità naturali, sotterranee e non.
    Appassionato naturalista e plurilaureato, dei Medici esplorò la Grotta della Monaca nel 1939 e ne diede per primo una descrizione accurata.

     

    L’interesse delle università di Bari, Salento e Ferrara

    L’iniziativa di questo pioniere della speleologia non ebbe seguito fino all’inizio del millennio, quando attorno al Csr dedicato a questo coraggioso esploratore si è coagulato uno staff importante, gestito come si è già detto dall’Università di Bari e a cui partecipano studiosi dell’Università del Salento e dell’Università di Ferrara.
    Tanto interesse potrebbe avere una ricaduta importante sul territorio, in particolare sul piccolo Comune di Sant’Agata d’Esaro, che tenta di trasformare la Grotta della Monaca in un attrattore turistico.

    Scavi all’ingresso della Grotta della Monaca

    La Calabria depressa di oggi tenta di mettere a frutto la Calabria iperattiva della remota antichità.
    Di sicuro, come spiega ancora Larocca, «c’è un fortissimo interesse della comunità internazionale degli studiosi sulla Grotta della Monaca e, più in generale, sull’area settentrionale della Calabria, che è piena di siti importanti, capaci di fornire informazioni dettagliate sull’Europa preistorica».
    Il turismo di massa, forse, predilige altro. Ma, per fortuna, i viaggiatori colti esistono ancora e in numero sufficiente a dare una spinta all’economia di questa parte di Calabria.
    E forse l’eventuale successo della Grotta della Monaca sarebbe il premio più bello alle fatiche dei nostri antenati.

  • Sila e sci: intoppi alla Regione, stagione a rischio

    Sila e sci: intoppi alla Regione, stagione a rischio

    Con l’inverno, cambiamenti climatici permettendo, arriverà nuovamente la neve sulle montagne della Sila. Ma se avete in un ripostiglio un paio di sci è possibile che anche quest’anno debbano restare lì a prendere polvere.
    Il motivo è che l’apertura degli impianti di risalita di Camigliatello e Lorica resta ancora assai incerta e ormai la stagione invernale incombe.

    Lorica e il nodo del gestore

    Come si ricorderà il destino sciistico di Lorica è stato segnato dall’incursione della Dda, che sequestrò gli impianti mandando in fumo i sogni turistici del comprensorio per i quali si prevedevano 13 milioni di euro di investimenti. Successivamente l’autorità giudiziaria autorizza la prosecuzione dei lavori, che prontamente riprendono e sono ormai prossimi alla conclusione.

    Il passaggio più importante deve però ancora essere formalizzato. È l’approvazione di un protocollo tra le parti interessate: la ditta che ha realizzato i lavori in Sila, il comune di Casali del Manco, nel cui territorio ricade l’area, e la Regione Calabria. Da questa intesa deve emergere il soggetto che gestirà gli impianti. La Regione, infatti, deve decidere se assumerne direttamente la conduzione, indire un avviso pubblico oppure procedere ad un affidamento diretto.

    Nessuna risposta

    «Stiamo inviando continuamente Pec alla Regione, sollecitando l’approvazione dell’intesa – ci racconta Roberto Esposito, coadiutore giudiziario della Lorica Ski – ma ancora non abbiamo ricevuto alcuna risposta». Al contrario, il comune di Casali del Manco ha rapidamente recepito la proposta di intesa della Lorica Ski, aderendo all’idea per sfruttare la stagione sciistica.

    Il nodo sta nel fatto che, pur finendo in tempi brevi i lavori, la ditta non saprebbe a chi consegnare “le chiavi” dell’impianto. E senza l’indicazione istituzionale di un gestore ogni sforzo verrebbe vanificato. A questo si aggiunga l’urgenza dettata dai tempi. Prima che gli impianti diventino concretamente fruibili da sciatori e turisti, è necessario provvedere ai collaudi che precedono ogni inaugurazione. E anch’essi esigono tempi ben precisi.

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    Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo

    A riguardo l’assessore Orsomarso replica non senza una certa irritazione, rivendicando di essere stato lui uno dei protagonisti dell’individuazione del percorso che ha portato al dissequestro degli impianti e alla ripresa dei lavori in Sila «grazie alla proficua collaborazione di tutte le parti, gli amministratori di Casali del Manco e i vertici di Lorica Ski», affermando quindi che la Regione la sua parte l’ha fatta tutta.
    Se i protagonisti di questa vicenda non parleranno la stessa lingua, quindi, gli appassionati potranno guardare la neve cadere ma senza sciarci sopra.

    Niente soldi a Camigliatello

    Per Camigliatello la situazione è diversa, ma non meno ingarbugliata. La struttura che consente di salire in quota sulle piste deve essere sottoposta alla verifica ventennale e per farlo serve denaro. E non poco. Sempre Orsomarso nei mesi passati aveva annunciato sui social che la Regione aveva stanziato 3,8 milioni di euro «perché l’Arsac aspettava da anni finanziamenti per la manutenzione ed autorizzazioni».

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    Il problema pareva risolto, ma per nulla disposti ad indulgere all’ottimismo invece sono all’Arsac. Carlo Monaco, responsabile amministrativo degli impianti a fune di Camigliatello, dice che ad oggi di quei soldi non c’è traccia. «Al momento siamo fermi e dobbiamo realizzare il collaudo ventennale, per il quale servono risorse. La Regione le ha promesse, ma concretamente qui non è arrivato nulla», racconta con disincanto Monaco.

    Tempi lunghi e/o prestiti

    Anche su questo aspetto Orsomarso cerca di fare chiarezza, spiegando che il denaro è stato stanziato, ma essendo stato spostato da un capitolo di spesa ad un altro, è necessario rimodulare la formulazione del finanziamento presso la Corte dei conti. I tempi previsti potrebbero estendersi fino ad ottobre inoltrato. Poi ci sono quelli richiesti per i lavori di collaudo, insomma molti mesi.

    Ma Orsomarso ha una soluzione: «L’Arsac con in mano la delibera può andare presso un istituto di credito e farsi prestare i soldi, così da procedere rapidamente ai lavori necessari». Per il futuro, secondo l’attuale assessore regionale al Turismo la gestione degli impianti dovrebbe essere assegnata alle competenze dei Trasporti, salvaguardando le professionalità che intanto sono state formate.
    Tra Pec cui non c’è risposta e risorse economiche che sono solo sulla carta, anche questo inverno la neve rischia di cadere invano. Almeno per chi vorrebbe sciare in Sila.

  • Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.

    La lingua del cuore e quella del pane

    «Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).

    «Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».

    Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».

    Sapori che si fondono

    Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».

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    Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
    Donne e uguaglianza

    Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».

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    «A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».

    Preti con moglie e figli

    Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».

    Mosaici e oro

    La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale di San Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battista con le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».

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    La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa

    O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a Spezzano Albanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».

    I luoghi del cuore

    Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».

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    Primo maggio alla Montagnella
    Mare nostro

    Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë è una via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».

    Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.

  • Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Ho viaggiato nell’estate grecanica con la voglia di capire e scoprire. Un viaggio di incontri, sorprese, amicizie e sconforti. Vacanze esaltanti e memorabili. Ho ancora negli occhi i bagliori dei fuochi e il cielo dantesco oltre il crinale dei colli che accompagnano al mare la fiumara dell’Amendolea, in una notte di mezzo agosto. Ma ho negli occhi anche le scogliere di Capo Vaticano e il profondo blu di Praia di Fuoco o i ruderi viventi di Roghudi. Bellezze paesistiche e opere dell’uomo si mimetizzano nelle infinite sfumature di verde di una terra che amo fin da quando ero studente.

    Rarità potenti, violentate dal triste spettacolo che a tratti, secondo una logica apparentemente gratuita si affaccia, dietro una curva fra gli ulivi, sotto forma di sacchi di plastica sventrati, esplosi in una sequenza horror. Come se la spazzatura segnasse il territorio. Inneschi, mimetizzati da pattume, pronti agli scopi dei fuochi criminali. Così, bellezza e degrado, cultura e incuria, luci e ombre sono stati il leitmotiv del tempo sospeso e meraviglioso delle mie vacanze nella Calabria Ulteriore. Tempo assolato e affascinante, tempo di letture del paesaggio, di meditazioni e di parole leggere, improvvise, ma capaci di arrivare al punto. Tempo di discorsi intorno a un tavolo tra persone appena conosciute.

    Il paradiso perduto

    La Calabria ci ricorda che l’Eden delle foreste incontaminate, delle acque limpide, delle spiagge aperte ai “naviganti”, il reame incantato dei borghi che ancora conservano il tepore domestico dei modi meridionali dell’abitare e le vestigia di una civiltà che affonda le proprie radici nel tempo immemorabile degli ancestrali, è a rischio. Un rischio grave, concreto, palpabile.

    Questo paradiso dello sguardo, che unisce in un inestricabile connubio la natura e la cultura si può trasformare improvvisamente nell’inferno dei boschi carbonizzati. Un’ecatombe arborea di cui porteremo il peso sulla coscienza per anni. Nella desolazione consumistica delle discariche estemporanee. Nel disordine urbanistico si annida un male antico, il male di vivere dell’indifferenza. È come se l’ignavia si fosse impadronita di un territorio lasciato a sé stesso, senza una guida degna di questo nome.

    Sventolano i panni stesi dell’abusivismo

    La qualità eccelsa del saper costruire nei borghi di Stilo, Badolato, Gerace, Ardore, e in moltissimi altri paesi si scontra con la miseria delle scatole di cemento spuntate non si sa come nelle periferie delle città o lungo i binari della ferrovia. Dove c’erano le pinete a protezione delle colture di bergamotti e di gelsomini adesso sventolano i panni stesi dell’abusivismo.

    La cura tenace, assidua degli uliveti e la geometrica perfezione dei giardini di Condufuri e delle vigne di Palizzi si contrappone al caos edilizio degli scali ferroviari lungo il mare, dove la pietra è stata sostituita dal fallimentare sodalizio tra i forati in laterizio e tondino. Tronchi di ferri e mattoni che arpionano l’orizzonte marino facendo sembrare le case relitti di una guerra fra poveri. Scempio che, per la verità, interessa non solo la Calabria, ma che lì fa più male perché il contesto ambientale è invece bellissimo.

    Qui non c’è, per così dire, l’attenuante delle periferie delle megalopoli. Lo scenario è mosso, vario, sempre diverso fra poggi e falesie, fiumare e castelli. Mentre nel regno vegetale prevale un ordine antico e sapiente, nei quartieri della speculazione domina l’arbitrio, l’improvvisazione e la prepotenza. L’elenco dei punti in cui le contraddizioni in Calabria sono plateale rischia tuttavia di rispolverare vecchi stereotipi, lamentele sapute e risapute, tic linguistici che coprono, con una coltre di trite doglianze, la ragione profonda di questi sintomi.

    Il lume antico e la barbarie

    In Calabria, nello stesso luogo, convivono il lume antico di civiltà millenarie e l’ombra della barbarie. Basta parlare con le persone per capire che il tessuto civile è contaminato da qualcosa che non si vede, non appare, ma si percepisce. Una mano invisibile che comanda, ma non si fa stringere, conduce il gioco protetta dal non detto. Dello Stato si parla come di un’entità metafisica, lontana e ostile, forse inesistente. La stessa Unità d’Italia e l’impresa dei Mille – per la verità non senza ragioni storiche – sono oggetto di critiche e sarcasmi.

    L’ombra del potere

    In ogni dove si aggira lo spettro dell’abbandono e del tradimento. Le istituzioni pare che abbiano lasciato mano libera a un potere invisibile, ma solerte e determinato. Un potere grigio le cui sfumature vanno dal tenue e sfumato clientelismo, fino al grigio piombo della malavita organizzata. Un potere silente, ma onnipresente che condiziona la vita dei cittadini e dunque i loro comportamenti, così il morale si piega allo sconforto. Un’entità sfuggevole, che potremmo chiamare, con un eufemismo, “l’ombra del potere”, oscura i cieli limpidi di questa catena di montagne piantate in mezzo al Mediterraneo.

    Un ponte di civiltà verso il sud, al quale la politica dovrebbe prestare estrema attenzione. Ma si sa che la politica politicante cerca il consenso facile. E così il serpente si morde la coda. I voti facili, basati sullo scambio avvelenano la politica. Un corto circuito suicida al quale i politici non badano, presi come sono da logiche di spartizione e di volontà di potenza. Le cronache e le inchieste su questi temi del malaffare di stampo politico sono alla portata di chiunque voglia informarsi.

    La guerra delle persone in carne ed ossa

    Basta parlare con un imprenditore per venire a sapere che ogni giorno deve scegliere il campo di battaglia: se combattere per l’acqua indispensabile alle colture e deviata per ragioni legate al consenso, oppure difendere la propria azienda da attacchi illegali. Basta parlare con il custode del museo per scoprire che i pochi addetti in servizio sono costretti a turni impossibili, mentre il clientelismo premia l’assenteismo e i musei restano chiusi. Basta guardare il viso di un negoziante in Aspromonte per capire che il rispetto per il cliente che ha di fronte va oltre ben lo zelo commerciale. Basta parlare con un abitante per scoprire che c’è del metodo della seminagione dei rifiuti.

    Però poi basta chiedere un’informazione a un passante per scoprire di essere un interlocutore gradito al quale si risponde con un sorriso e una serie di precisazioni e approfondimenti che fanno le veci del più convenzionale e spicciativo “Benvenuto!”. Gentilezza e garbo accompagnano il viaggiatore che, anche nelle località più affollate, non ha mai l’impressione di essere preso all’amo. Se parli con chi ti ospita scopri che l’arte dell’arrangiarsi è teorizzata con enfasi come l’unico modo che l’individuo ha per salvarsi dall’indigenza o dal servaggio.

    Una luce nel buio

    Che fare dunque? A nulla valgono le lamentazioni, le recriminazioni storiche, le pie illusioni. Per dissipare le ombre di un potere oscuro che uniforma tutto e tutto ammanta con una coltre infida di sospetti, dubbi e rinunce l’unica arma è la verità dei fatti. La denuncia permanente delle malefatte, spiegata ai quattro venti e minuziosamente descritta con dovizia di particolari. Molti alzeranno le spalle, qualcuno si volterà dall’altra parte, altri negheranno l’evidenza, ma i fatti messi nero su bianco resteranno a futura memoria.

    Basta luoghi comuni sulla Calabria

    Bisogna raccontare la verità non solo ai calabresi, ma anche a tutti gli italiani che troppo spesso parlano della Calabria come figlia di un dio minore. Va raccontata la verità e non la storiella stucchevole e ammiccante dello spot al bergamotto e al peperoncino come armi di seduzione turistica. È profondamente ingiusto blandire o stigmatizzare utilizzando luoghi comuni, bisogna invece scoperchiare i sepolcri imbiancati di chi lucra sulle macerie della convivenza civile. Purtroppo, contro le tenebre non esiste altro rimedio che la luce.

    Basta il lume di una candela tenuta accesa da un’intelligenza vigile per metter in crisi l’ombra del potere che si nutre di non detto, di parole a mezza voce, di sguardi sfuggenti e di agguati. Certo ci vuole coraggio e anche astuzia per gridare al mondo che il re è nudo anche qui alle falde dell’Aspromonte che nell’etimo grecanico significa Monte Bianco per nulla aspro o impervio. Non impraticabile dunque ma bianco come le crete che finiscono a mare tra Bova e Palizzi dove i greci attingevano la materia prima per i celebri vasi attici. Parliamo di cultura, di ambiente, di paesaggio per dire che questa terra non è solo una spiaggia, ma un enorme deposito di storia e bellezza tutta da scoprire.

    Giuliano Corti
    Scrittore e autore di testi per opere multimediali

  • Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Terme Luigiane, è l’ora del confronto: Molinaro dice sì, gli altri?

    Lo stop alle attività delle Terme Luigiane nel 2021 rappresenta, a prescindere da chi ne sia responsabile, una sconfitta per l’intero territorio e la sua economia. In questi giorni abbiamo provato ad approfondire per i nostri lettori i dettagli della vicenda, dando voce ai protagonisti. Abbiamo fatto parlare prima i lavoratori, gli utenti, la società che aveva in gestione il compendio, per poi ascoltare l’altra campana, quella della politica locale.

    Una scelta precisa, all’insegna dell’imparzialità e dell’approfondimento per il bene della comunità, che il nostro direttore intende portare avanti fino in fondo. Per trovare una soluzione, ha scritto nel suo ultimo editoriale, c’è bisogno che gli attori protagonisti del dramma delle Terme Luigiane si incontrino. E che parlino apertamente con i cittadini di ciò che è stato fatto e di ciò che bisognerà fare per arrivare a una soluzione come tutti auspicano.

    Il primo a dare la sua disponibilità per un confronto pubblico a più voci è stato il consigliere regionale Pietro Molinaro (Lega), inviandoci la lettera che potete leggere poche righe più sotto. La risposta del direttore, riportata subito dopo, conferma le nostre intenzioni di non lasciare che tutto si limiti a un rimpallo di responsabilità o al chiacchiericcio pre-elettorale.

    Ma, soprattutto, è un invito a tutti gli altri protagonisti – politici, imprenditori, lavoratori – della diatriba ad aderire a questa proposta.
    Confidiamo che contattino, così come ha fatto il consigliere Molinaro, la nostra redazione per partecipare a un dibattito aperto. Il dialogo e il confronto sono l’unico modo per restituire ai cittadini la fiducia nella politica e nell’imprenditoria locale.

    La lettera a I Calabresi del consigliere regionale Pietro Molinaro 

    Egregio direttore,

    mi riferisco al suo articolo Le Terme Luigiane muoiono, annegate dalle chiacchiere, ed in particolare alla parte in cui sollecita i politici a parlarne pubblicamente, “vis-à-vis con i lavoratori che hanno perso il lavoro, con gli operatori commerciali – albergatori in primo luogo – già messi K.O. dal Covid, con quei calabresi che alle terme ci debbono andare, nella propria terra, specie se qui possiamo vantare una volta tanto «un fiore all’occhiello»”.

    Condivido la sua opinione che i politici parlino in pubblico della vicenda delle Terme Luigiane, confrontandosi con le principali vittime dello scempio costituito dalla chiusura degli stabilimenti. Per questo, le esprimo la mia disponibilità ad accogliere il suo eventuale invito a parlare pubblicamente della vicenda delle Terme Luigiane ed a confrontarmi con chi riterrà opportuno. Se con il suo giornale vorrà organizzare un incontro pubblico a più voci sulla vicenda, non mancherò. Con l’auspicio che non serva ad alimentare polemiche ma a trovare soluzioni.

    I miei atti pubblici documentano il mio impegno, non a chiacchiere ma con atti politici ed amministrativi, per l’apertura delle Terme Luigiane. Ho preso posizione pubblicamente sulla vicenda fin dal dicembre 2020. Ho sollecitato, con comunicazioni scritte ufficiali, Orsomarso e Spirlì a far svolgere alla Regione un ruolo attivo per garantire le prestazioni sanitarie e l’occupazione. E l’ho fatto sia pubblicamente che in incontri personali.

    Ho scritto al Direttore generale del Dipartimento Attività produttive che il 1° luglio mi ha risposto ma successivamente ha interrotto la comunicazione, nonostante sia stato sollecitato più volte, sempre in forma scritta. Ho incontrato i lavoratori nel corso dell’occupazione pacifica dello stabilimento termale. Ho partecipato alla manifestazione pubblica dei lavoratori. Ho presentato una interrogazione alla Giunta regionale alla quale non ho ricevuto risposta. Ho presentato una mozione in Consiglio regionale che non è stata discussa. Mi sono mosso anche in altre direzioni istituzionali che per ora ritengo opportuno mantenere riservate. Non è bastato e ne sono dispiaciuto, ma onestamente, da consigliere regionale credo che non avrei potuto fare di più.

    Per svolgere il mio compito ho assunto una posizione di cui sono fermamente convinto anche se è molto distante da quella dell’Assessore Orsomarso e del Presidente ff. Spirlì. Facciamo parte della stessa maggioranza ma questo, per me, non vuol dire accettare tutto quello che fa la Giunta regionale. Su singoli atti, nel merito, considero doveroso e legittimo dissentire ed io l’ho fatto senza farmi frenare da vincoli di maggioranza. Da eletto, rispondo innanzitutto alla mia coscienza ed ai miei elettori e poi alla maggioranza di cui faccio parte. Ognuno legittimamente sostiene le proprie posizioni, ed io sarei disposto a cambiare posizione se Orsomarso e Spirlì mi fornissero motivazioni valide che finora non mi hanno fornito.

    Dunque, ben venga anche un’iniziativa pubblica organizzata dal suo giornale, per un confronto schietto tra le diverse posizioni che ci sono in merito alle Terme Luigiane. In ultimo, mi permetto di formularle i miei auguri per la nuova iniziativa editoriale de I Calabresi. Fin dalle prime settimane di vita il suo giornale si sta caratterizzando per essere realmente il “giornale d’inchiesta” che ha dichiarato di voler essere. Per questo mi complimento con lei e con i suoi collaboratori. La Calabria potrà trarre grande utilità da un’informazione sempre più ricca di inchieste che aiutino i cittadini ad andare oltre le apparenze ed il qualunquismo. Un cordiale saluto.

    Pietro Molinaro

     

    La risposta del direttore de I Calabresi, Francesco Pellegrini

    Egregio consigliere,

    Apprezzo molto la sua disponibilità ad un confronto pubblico con gli altri soggetti politici e istituzionali, ma anche con altri attori coinvolti nella crisi delle Terme Luigiane, di cui tutti, i lavoratori in primo luogo, auspicano e richiedono una pronta soluzione.
    Vi sono altri, molti altri problemi in Calabria a forte impatto economico e sociale che impongono alla classe politica, a tutela della sua credibilità ed onorabilità, che non pare godere di buona salute, un reale e trasparente confronto con i cittadini. Si preferisce invece – anche con la compiacenza di alcuni professionisti della “disinformazione” – il gioco stucchevole e penoso delle promesse avveniristiche, meglio se collocate in un tempo lontano – decenni, non mesi – che assicurano l’immunità ai falsi profeti.

    Noi, come Lei cortesemente ricorda, siamo nati per introdurre o rendere più ampia la pratica del confronto e della comunicazione pubblica, la sola idonea a determinare scelte politiche e convincimenti consapevoli della comunità dei cittadini.
    Quindi accogliendo la sua disponibilità chiediamo ai sindaci di Acquappesa e Guardia Piemontese, all’assessore Orsomarso, al presidente Spirlì, alla Sateca e, soprattutto, ai lavoratori delle Terme Luigiane di comunicare la loro condivisione della proposta del consigliere Molinaro. Noi, con le necessarie intese, provvederemo all’organizzazione dell’incontro presso le Terme – o, in alternativa, presso la nostra sede a Cosenza – e alla sua diffusione in streaming.

    Cordiali saluti
    Francesco Pellegrini

  • Lorica: impianti quasi pronti, ma si potrà sciare?

    Lorica: impianti quasi pronti, ma si potrà sciare?

    «Stiamo lavorando perché alla fine di ottobre i lavori relativi agli impianti di Lorica siano terminati», assicura Roberto Esposito, coadiutore giudiziario della Lorica Ski, tuttavia potrebbe accadere che non si possa lo stesso sciare e non per forza per mancanza di neve.

    Un progetto da 16 milioni

    La storia del progetto “Lorica Hamata in Sila Amena” è stata particolarmente tormentata. La Regione Calabria intendeva rilanciare il turismo invernale in un’area della Sila dove generalmente l’innevamento è più abbondante. E così aveva approvato il piano di rifacimento degli impianti di risalita, che erano parecchio vetusti. La somma stanziata, utilizzando i fondi comunitari, era cospicua: oltre 13 milioni di euro. Altri 3 milioni dovevano provenire dai privati che avrebbero successivamente gestito la struttura. Poi è giunta la tempesta giudiziaria.

    Interviene la Dda

    La Dda di Catanzaro a seguito di una indagine sequestra gli impianti. Poi, con l’operazione Lande desolate, procede agli arresti di Barbieri (lo stesso imprenditore che aveva realizzato piazza Bilotti a Cosenza) e di altri, ed indaga anche l’allora presidente della Regione, Oliverio. Il sogno di avere in Sila una struttura all’avanguardia, in grado forse di promuovere lo sviluppo di quell’area, svanisce.
    Il progetto riprende vita quando l’autorità giudiziaria autorizza la prosecuzione dei lavori, pur se il procedimento penale non è concluso. Di qui l’affidamento alla società Lorica Ski del completamento di quanto rimasto sospeso.

    Casali del Manco ha fretta

    A Casali del Manco, comune nel cui territorio ricade l’area interessata al progetto, sono fiduciosi. Sia il sindaco Stanislao Martire che l’ingegnere Ferruccio Celestino affermano di sperare di poter aprire al pubblico gli impianti, «perché manca poco». «E potremmo perfino partire – aggiungono – senza che siano pronti anche le attrezzature necessarie per produrre l’innevamento artificiale».

    In realtà a Casali del Manco si azzardano anche a guardare oltre. Sperano di poter presto avviare la realizzazione dell’altro grande progetto che vede la Sila protagonista, quello che consentirebbe il collegamento tra gli impianti di Lorica e quelli di Camigliatello. Ma sanno che per questo ci sono ancora mille difficoltà, visto che «mancano le autorizzazioni relative all’impatto ambientale e occorre verificare la copertura finanziaria».

    Ottimismo contro realismo

    A guardar bene, è probabile che sindaco e ingegnere pecchino di infondato ottimismo, la strada che conduce alla fine di questa storia pare ancora parecchio lunga. La Regione prevede che entro il 31 ottobre i lavori siano completati e per come si è pronunciato il coadiutore giudiziario, è possibile che questo avvenga. Si sta procedendo alla messa in sicurezza del rifugio a monte, alla revisione della sciovia e all’installazione dei cannoni spara neve, recuperando il ritardo imposto dall’emergenza Covid.

    Tuttavia sono ancora molte le cose da fare prima di consegnare ai turisti la nuova cabinovia e riguardano scelte amministrative e politiche. Intanto occorre procedere ai collaudi, ma soprattutto è necessario individuare il soggetto che gestirà la struttura. E i tempi sono molto stretti.

    Il nodo della gestione

    «I comuni non hanno alcuna competenza riguardo la gestione degli impianti – spiega ancora Esposito – quindi tocca alla Regione assumere una decisione a riguardo».
    Se i tempi relativi ai lavori saranno rispettati, la palla passerà alla Cittadella. Sarà lei a dover procedere ad un affidamento diretto della gestione della struttura, per esempio alle Ferrovie, oppure indire un avviso pubblico in grado di richiamare privati o, ancora, assumerne direttamente la conduzione.

    I tempi per tutto questo paiono ristretti, soprattutto perché la Lorica Ski ha presentato un protocollo in base al quale, una volta consegnati i lavori, si renderebbero immediatamente fruibili gli impianti, senza attendere i tempi infiniti della giustizia penale. Infatti la struttura è sul terreno demaniale e dunque del tutto estranea ai procedimenti giudiziari che ne hanno a lungo bloccato gli sviluppi.

    Questo protocollo è stato rapidamente recepito dal comune di Casali del Manco, mentre dalla Regione non è ancora arrivato nessun commento. Se da Catanzaro non dovesse giungere il consenso al protocollo, tutta l’urgenza impiegata per mettere in operatività gli impianti sarebbe vanificata. A riguardo oggi è intervenuto con una certa preoccupazione il consigliere leghista Pietro Molinaro, che in un comunicato sollecita la Giunta a prendere rapidamente posizione sulla vicenda e in generale ad attuare la Delibera “Santelli – progetto Sila”. Il leghista aveva già nel mese di giugno avanzato uguale richiesta, «ma senza ottenere alcun riscontro».

    L’annuncio dell’assessore

    Nel mese di marzo l’assessore Orsomarso era presente sul cantiere dei lavori. In quella occasione aveva assicurato che la Regione avrebbe chiesto il dissequestro della struttura e avviato quanto necessario per dare vita ad un bando per affidarne la gestione. E proprio ieri, sulla sua pagina Facebook, Orsomarso ha annunciato «che su Lorica forse abbiamo trovato la via d’uscita, lavorando proficuamente con amministratori giudiziari che hanno condiviso un percorso con i giudici, i comuni e la Regione». Una dichiarazione che, circa i destini di Lorica, sembra ancora piuttosto generica.

    Per gli impianti di Camigliatello anch’essi chiusi per motivi legati alla manutenzione dei cavi, sempre sui social Orsomarso ha annunciato novità. La Regione – si legge nel suo post – ha stanziato 3,8 milioni di euro, «perché l’Arsac aspettava da anni finanziamenti per la manutenzione ed autorizzazioni». La stagione invernale è in arrivo e occorre essere pronti. Altrimenti il paragone – piuttosto azzardato – con Cortina e Courmayeur, evocato dall’assessore regionale nel corso di una intervista rilasciata di recente proprio a Lorica, rischia di diventare meno di una barzelletta.

  • Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Terme Luigiane, il sindaco spara a zero su Sateca: «Il 90% dei lavoratori d’accordo con me»

    Francesco Tripicchio è il sindaco di Acquappesa, uno dei due Comuni coinvolti nella querelle che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane. Di critiche in questi mesi ne ha subite parecchie, ma sulla strategia per respingerle la pensa come Gentil Cardoso: la miglior difesa è l’attacco. Secondo lui, tutta la polemica intorno alla vicenda sarebbe una montatura costruita ad arte dai gestori storici – sono lì dal 1936 ed era previsto ci rimanessero fino all’affidamento di una nuova concessione (attesa dal 2016, data di scadenza della precedente ottantennale) a chicchessia, loro compresi, da parte dei due enti pubblici – degli stabilimenti. Quanto alla responsabilità dello stallo venutosi a creare, con tutti i danni economici che ha comportato per l’economia del territorio, non sarebbe sua e del suo collega di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti. Né della Regione, apparsa ai più poco incisiva nella crisi che ha portato alla paralisi il compendio termale, abbattendo anche l’indotto che generava. A stabilire chi abbia ragione, come spesso accade da queste parti, finiranno per essere i tribunali.

    Tutti dicono che la politica ha fatto chiudere le Terme lasciando a casa 250 lavoratori, lei cosa risponde?

    «Che la politica non ha fatto chiudere proprio nulla: è stata fatta una proposta alla società che gestiva il compendio termale da 85 anni e quella l’ha rifiutata. Le è stato detto di proseguire le attività nel 2021 a un prezzo di 90mila euro, tenendo presente che fino all’anno scorso ne pagava 44mila».

    Il canone è più del doppio del precedente, non trova normale che abbiano rifiutato?

    «No, perché fino al 2020 spese come la manutenzione delle strade, l’illuminazione pubblica e i consumi elettrici erano a carico loro. Adesso sono passate ai Comuni, che per questo hanno chiesto soldi in più che corrispondono a questi nuovi costi. La società non ha accettato, la loro proposta era di darci 30mila euro all’anno per 40 litri al secondo di acqua calda. Le nostre sorgenti forniscono in totale 100 l/s, di cui proprio 40 di acqua calda.

    Guarda caso vogliono tutta quella calda loro: significherebbe che nel resto del compendio non si può lavorare. Capisco che chi ha avuto un monopolio lo difenda con le unghie e coi denti, ma non può averlo più. E poi chiedevano garanzie per il futuro che nessuno può dar loro perché parliamo di beni pubblici che vanno messi a bando. Quindi Sateca, come tutte le società del mondo, deve partecipare a un bando. E chi lo vince gestirà gli stabilimenti nel compendio».

    I Comuni però non hanno fatto un bando…

    «C’è una manifestazione d’interesse, è la stessa cosa perché l’articolo 79 del Codice degli appalti prevede le manifestazioni d’interesse con procedure negoziate. Hanno partecipato in sei. Compresa Sateca, che ha fatto pure ricorso».

    La procedura scelta non aumenta la discrezionalità degli enti nella scelta del nuovo gestore?

    «Non è così, nessuna discrezionalità. Anche così ci sono parametri e paletti che la pubblica amministrazione deve mettere a tutela dei beni comuni. Chi presenta e chi valuta le proposte si deve attenere a quelli, non c’è nessuna differenza».

    Perché allora nell’avviso parlate di 40 litri al secondo in cambio di 70mila euro annui e a Sateca ne chiedete 90mila per il 2021 e quasi 400mila per il futuro?

    «La base d’asta è di 70mila euro, aumentabili, più una percentuale sul fatturato pari all’1%. Sateca ha lasciato macerie, chi andrà a gestire dovrà investire almeno un milione per poter operare perché la società ha portato via perfino le vasche dallo stabilimento tornato in nostro possesso. Questo sarà oggetto di separata azione giudiziaria. Il canone, comunque, non si discosta di tanto dai 90mila euro chiesti a Sateca.

    Ma di parecchio dai 400mila euro futuri…

    Abbiamo fatto un calcolo sulla base di quanto stabilito nella Conferenza Stato-Regioni del 2006, considerando i valori medi. E i valori medi hanno dato un risultato di circa 370mila euro. Abbiamo dato la disponibilità per applicare il nuovo corrispettivo da dopo il 2022 per arrivare ai 370mila euro progressivamente nel giro di 5-6 anni. Perché Chianciano e Fuggi pagano un milione di euro e le Terme Luigiane, che hanno acque di qualità superiore, dovrebbero pagare cifre molto inferiori?».

    Forse perché lì si parla di acque minerali oltre che termali?

    «Questa, perdoni il termine, è una grande cazzata. Così come 85 anni di gestione indisturbata sono un caso unico al mondo».

    Nei rapporti del Mef degli anni scorsi sulle acque minerali e termali c’è scritto altro, però. Le acque termali e le minerali sono distinte, così come i loro prezzi, e la storia del termalismo italiano è zeppa di concessioni perpetue…

    «C’è differenza tra concessione e subconcessione: la prima la hanno i Comuni, che poi affidano a terzi il servizio».

    La vostra concessione dura fino al 2036, giusto?

    «Sì, perché qualcuno l’ha trasformata. Quanto alla subconcessione, gli enti pubblici possono stabilire, giustificandoli s’intende, i canoni. Addebitare a Comuni e Regione la chiusura del compendio termale è vergognoso: è l’azienda che ha chiuso, che non ha voluto proseguire, che dice di voler tutelare lavoratori ma non tutela nessuno.

    A proposito, i lavoratori non sono 250, secondo i bilanci sono 44. Questo pseudocomitato che scrive a nome dei lavoratori vorrei sapere da chi è composto: il 90% dei dipendenti sono incazzati con la società, mi arrivano tantissimi messaggi e telefonate in questo senso, posso dimostrarlo».

    Le manifestazioni di questi mesi mostrano parecchi lavoratori in protesta però, non le pare che questo contraddica la sua versione?

    «C’è chi si porta i parenti, chi gli amici, mica sono lavoratori delle Terme Luigiane! E in quelle manifestazioni non c’è nessuno di Guardia o Acquappesa, anche perché i posti di rilievo la Sateca li ha dati tutti a gente che non è di qui. I lavoratori veri che protestano sono 3 o 4, se fa un giro per strada e parla con la gente del posto le diranno quello che dico io, non quello che dicono l’azienda o quei 3-4 lavoratori».

    Lo abbiamo fatto e ci hanno detto cose diverse dalle sue. Compreso il parroco, che ci ha raccontato di minacce subite per aver criticato voi politici…

    «Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato. Ma io e il mio collega di Guardia stiamo pensando di denunciarlo perché in un video pubblicato dal Corriere della Calabria ha detto che io e Rocchetti siamo dei mafiosi».

    Nell’avviso parlate di 15 anni più altri 15, quindi di una (sub)concessione fino al 2051, ben oltre il 2036…

    «Parliamo di un’opzione per i successivi quindici anni. Nel momento in cui avremo dalla Regione il rinnovo della concessione – magari verrà fuori che è stato fatto un abuso e che è illegittimo non averla mantenuta perpetua (la Consulta ha stabilito nel gennaio 2010 che modifiche di questo genere sono a norma, nda) – ci potranno essere gli eventuali altri quindici. Certamente non ci potranno più essere altri 85 anni di monopolio assoluto».

    In altre terme, anche calabresi, la situazione sembra identica a quella che c’era da voi e lei contesta. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Io mi occupo del mio Comune, non degli altri. E dopo 85 anni sto cercando di far rivivere le Terme Luigiane. Se responsabilità politica c’è nella situazione che si è creata, non è dei sindaci di Acquappesa e Guardia o di chi è ora alla Cittadella. Semmai è di qualche altro politico regionale precedente, che ha fatto ingerenze e interferenze degne dell’attenzione dell’autorità giudiziaria».

    L’assessore Orsomarso dalle colonne del Quotidiano del Sud ha parlato di «proroghe a ripetizione» prima del vostro avviso pubblico: quante sono state?

    «Due, nel 2016 e nel 2019. Qualcuno dice che i comuni non sono stati in grado di fare il bando negli ultimi cinque anni, ma non è così. I comuni hanno avuto la durata della concessione in loro favore il 18 dicembre 2019: prima cosa potevo mettere a bando se non sapevo per quanto avrei potuto affidare il servizio?. L’iter della trasformazione della concessione da perpetua a temporanea è iniziato in Regione nel 2015, sotto Oliverio».

    Che era stato appena eletto però, il tempo non lo avrà perso chi c’era prima ancora di lui? Si sapeva da 80 anni che la concessione sarebbe scaduta nel 2016

    «L’atto che reputo illegittimo lo ha fatto lui e per quasi cinque anni non ci ha dato la durata della concessione. Poi nel 2019 il sottoscritto si è messo ad andare quasi ogni giorno in Regione per ottenerla. Oliverio e i suoi hanno solo ostacolato i Comuni, l’ho detto anche all’autorità giudiziaria. Ho la coscienza pulita e non ho nulla da temere, faccio quello che la legge prevede di fare. Ora le Terme Luigiane devono rivivere, ma non a vantaggio di un privato che fattura 6 milioni di euro in 4-5 mesi e lascia nei Comuni 44mila euro, 25mila dei quali versiamo alla Regione. Per me i 370mila euro chiesti a Sateca sono pure pochi».

    Eppure anche Orsomarso nell’intervista contestava la vostra scelta di applicare i presunti prezzi medi e non quelli minimi…

    «Ripeto, per quest’anno chiedevamo 90mila euro. Orsomarso si riferisce agli anni dal 2022 in poi. Non c’entra nulla che le acque siano termali o minerali, noi abbiamo calcolato le somme per analogia, sulla base della Conferenza Stato-Regioni di cui parlavo, con il metodo di interpolazione lineare. I 370mila euro sono un prezzo più basso di quello che sarebbe venuto fuori con la media aritmetica».

    Il minimo auspicato dall’assessore, invece, a quanto ammonterebbe più o meno?

    «Circa 250mila euro. Io avrei optato proprio per il massimo, che sfiorava il milione di euro».

    Lei ritiene sia compatibile col mercato un prezzo simile?

    «Assolutamente sì. Solo di budget regionale per le prestazioni sanitarie accreditate Sateca prende da anni 2,7 milioni di euro, senza contare il non convenzionato. Che saranno 370mila euro a confronto?».

    Ci sono pure i costi per l’azienda però, quelli non li considera?

    «I costi li hanno anche gli enti, che peraltro hanno la Corte dei Conti a controllarli. Io ho il dovere di mantenere determinati parametri per evitare che la magistratura contabile mi contesti scelte».

    Il dissesto del suo Comune ha avuto peso nei calcoli sui nuovi canoni?

    «Se lo avesse avuto, avrei dovuto applicare il massimo. Anche sulle concessioni, come per le aliquote, i Comuni in dissesto dovrebbero applicare le tariffe più alte, ma considerando le particolarità del caso e le ricadute occupazionali sul territorio abbiamo chiesto di meno».

    Perché allora nell’avviso che avete pubblicato non si parla del mantenimento dei livelli occupazionali?

    «Una manifestazione d’interesse dà indicazioni generali. Poi, nella lettera d’invito ai partecipanti che hanno i requisiti si mettono una serie di parametri e in base a quelli si assegnano i punteggi. La lettera non è ancora partita, ma lì ci sarà il mantenimento dei livelli occupazionali come criterio premiale. Spero che al massimo entro una decina di giorni venga inviata».

    Come mai si è arrivati a uno scontro e allo stallo totale di fronte a ripercussioni economiche enormi per il territorio, tanto più in pandemia?

    «Nei mesi estivi qui c’è stato il pienone negli alberghi. Probabile che a settembre ci sia un calo, come lamenta qualcuno, ma ad agosto c’è stato un aumento delle presenze».

    Le Terme Luigiane però non lavoravano solo ad agosto…

    «Lo facevano 4-5 mesi all’anno. In base al bando che stiamo preparando dovranno restare aperte per almeno 8-10 mesi e, giocoforza, i livelli occupazionali aumenteranno».

    Altro problema: si parla di condotte a rischio danneggiamento per colpa della chiusura e di pericoli di inquinamento perché l’acqua sulfurea destinata agli stabilimenti ora finisce in un torrente. Cosa ha da dire a riguardo?

    «Il nuovo subconcessionario non utilizzerà quella condotta, perché quella riguarda proprietà della Sateca. In ogni caso al suo interno ci può essere qualche incrostazione di zolfo che con un minimo di pulizia si elimina, le tecnologie moderne lo permettono. Nessun danneggiamento quindi, né condotte da rifare ex novo».

    Quindi servono comunque nuove condotte se quella utilizzata finora è di Sateca?

    «No, quelle comunali ci sono già nel compendio. Abbiamo “chiuso l’acqua” nell’altra condotta per non farla defluire in una struttura privata che non aveva più un contratto in essere. Le pubbliche amministrazioni devono tutelare i beni pubblici e possono procedere anche senza l’autorizzazione dei giudici, come abbiamo fatto riprendendoci gli stabilimenti all’interno del compendio».

    Avete fatto almeno un’ordinanza prima di riprenderveli?

    «Non ce n’era bisogno procedendo con l’apprensione coattiva, tant’è che nessuno ci ha detto nulla. Non avevano contratto, l’acqua non gli spettava».

    E l’inquinamento potenziale?

    «Non c’è. Lo scarico utilizzato è quello storico, non si può neanche parlare di sversamento: chiusa la condotta va tutto lì, ma non è un agente inquinante, è quello che fuoriesce naturalmente dal sottosuolo. Se ci fosse stato pericolo d’inquinamento sarebbero intervenuti i carabinieri, no?».

    Le indagini spesso sono lunghe e gli interventi della magistratura arrivano dopo…

    «Al momento nessuno ci ha contestato reati ambientali. Se fosse stato illegale quello che facciamo la prefettura non ci avrebbe mandato forze di polizia a supporto quando abbiamo ripreso lo stabilimento comunale da Sateca».

    Gran parte delle strutture legate al termalismo in zona sono di Sateca, c’è il rischio che le Terme Luigiane muoiano se loro chiudono i battenti?

    «Lo stabilimento San Francesco d’ora in poi sarà di chi si aggiudica il bando e non è detto che gli impianti termali siano più piccoli degli attuali. Lo stabilimento ha tre blocchi, dipenderà dai progetti presentati. E i clienti potranno comunque andare in alberghi esterni, di Sateca come di altri. Se ci sono o meno loro, le Terme Luigiane vanno avanti lo stesso. Tant’è che se quest’estate la Sateca li avesse aperti avrebbe incassato: la gente è andata nei paesi vicini a dormire, avrebbero avuto ospiti come altri».

    Torniamo al “bando”: se Sateca perde e fa ricorso rischia di saltare anche la stagione termale 2022?

    «Chiariamo: io non ho problemi se vince Sateca. Loro cercano di mostrare la loro indispensabilità, ma tutti sono sostituibili al mondo. E i ricorsi possono arrivare da qualsiasi partecipante, non solo da Sateca, a prescindere da chi vinca la gara. Poi dipenderà dal Tar, se darà sospensive, se farà procedere a consegne in via d’urgenza o altro. Io mi auguro che non ci siano ritardi e farò di tutto perché si riparta a regime da subito».

    Cos’ha da dire sulle voci che parlano di imprenditori locali “chiacchierati” che beneficerebbero dello scontro per prendersi le Terme Luigiane?

    «È un tentativo di diffamazione: se, tranne Sateca, alla manifestazione hanno partecipato solo aziende non calabresi quali dovrebbero essere gli imprenditori locali chiacchierati?».

    Chi ha risposto al vostro avviso però non si occupa di termalismo, non lo trova strano?

    «L’ho notato anche io, ma immagino che sia una strategia degli imprenditori. Esiste l’istituto dell’avvalimento: io partecipo a una manifestazione d’interesse, poi nella fase successiva posso dire con chi faccio l’avvalimento. Magari anche Sateca presenterà un progetto in avvalimento con qualcuno. Al momento, tra l’altro, sono loro quelli con i maggiori requisiti, dopo si vedrà».

    Quindi gli imprenditori discutibili potrebbero rientrare dalla porta di servizio, non va specificato dall’inizio che si opera con dei partner?

    «No, solo dopo aver ricevuto la lettera d’invito. E i progetti saranno valutati con la massima attenzione. Io penso che aggiudicheremo la subconcessione entro i primi di novembre. Quindi anche se ci saranno ricorsi in un paio di mesi sarà tutto pronto. La stagione 2022 alle Terme Luigiane si farà. Vogliamo aprirci al mercato e in futuro non escludo che a offrire cure termali possano essere i Comuni stessi, magari in società con qualche privato, con benefici per la comunità e non solo per dei monopolisti».

     

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

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    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

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    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

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    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

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    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Porto di Paola, la soap opera calabrese di “Bonaventura” Orsomarso

    Un assegnone di venti milioni, sorrisoni delle grandi occasioni nella sala del Consiglio comunale di Paola, e via: Fausto Orsomarso, a fine luglio, è passato dal metacinema (chi ricorda il celebre “Ci nni vu bene ara Calabria”?) al fumetto.
    Forse in maniera inconsapevole (o forse no) l’assessore regionale uscente al Turismo ha rinverdito le strisce di Bonaventura, il mitico eroe del Corriere dei Piccoli, che alla fine di ogni avventura, raccontata in rime, sventolava soddisfatto l’assegno da un milione.

    L’assessore regionale Fausto Orsomarso consegna l’assegnone al sindaco di Paola, Roberto Perrotta
    Qui comincia l’avventura

    Il signor Bonaventura diventa 4.0. Anche questa nuova storia, che meriterebbe il racconto in rime baciate, è da fumetto: riguarda il fantastico (e fantasmatico) porto turistico di Paola.
    I venti milioni sarebbero il contributo della Regione alla maxi opera, che dovrebbe costarne cinquanta in tutto. E gli altri trenta? A carico dell’impresa che si assumerà gli oneri e gli onori della gestione in project financing (in parole povere: che finanzierà parte dell’opera e poi la gestirà come se ne fosse proprietaria).
    L’iniziativa, fin qui, non è nuova, visto che molte infrastrutture e opere pubbliche (si pensi alla problematica e cosentinissima piazza Bilotti) sono state ideate e lanciate in project financing.

    Perrotta si è commosso

    La storia del porto turistico non è nuova neppure per Roberto Perrotta, ritornato sindaco di Paola nel 2017, dopo il quinquennio di Basilio Ferrari.
    Di più: Perrotta, che si è commosso davanti al lenzuolo da venti milioni, è stato il sindaco che ha vissuto (e subito) di più la vicenda di questa infrastruttura marittima, che, almeno sulla carta, dovrebbe lanciare alle stelle l’economia della cittadina tirrenica.

    Infatti, l’avvocato paolano fu primo cittadino dal 2003 al 2012 e ha visto tutte le vicissitudini, gli alti e bassi, gli stop and go di questo porto, annunciato a più riprese e altrettante volte arenatosi, grazie anche all’immancabile intervento della Procura, che sembrava aver dato il colpo di grazia con un’inchiesta.
    Perché quest’opera è considerata tanto importante da essere diventata un oggetto del desiderio per tutte le forze politiche della città, esclusi alcuni gruppi di sinistra? E come mai la sua storia, finora, è stata tanto controversa?
    Lo vediamo subito.

    Il porto infinito

    Il progettone è da libro dei sogni: 658 posti barca, più infrastrutture ausiliarie importanti come parcheggi per auto, servizi taxi, ristorante, pizzeria e supermercato marittimo con prodotti tipici.
    L’impatto di un’opera così ambiziosa su una cittadina di ventimila abitanti, che vive essenzialmente di servizi e commercio e basa la propria economia sulla presenza del Tribunale e dell’Ospedale, sarebbe in effetti rivoluzionario.
    Ecco perché l’idea del porto è carezzata da anni e risorge a orologeria a ogni tornata elettorale.
    Quest’idea fu concepita in lire alla fine della Prima repubblica e si è evoluta in euro durante la seconda. È sopravvissuta a quattro amministrazioni, a due interrogazioni parlamentari e, un’inchiesta giudiziaria e al dissesto del Comune.

    La Ganeri lanciò l’idea

    La lanciò per prima Antonella Bruno Ganeri, che divenne sindaca nel lontanissimo ’93 a capo di una coalizione civica. La Bruno, c’è da dire, aveva gli agganci giusti per drenare i fondi e realizzarla: grazie al centrosinistra ulivista divenne senatrice nel ’94, restò a palazzo Madama fino al 2001 e, nel frattempo, fu confermata prima cittadina, direttamente dal Pds, nel ’97.
    Questo popò di ruoli non bastò a far decollare il porto, che divenne una patata bollente per tutte le amministrazioni.

    L’azzurro Gravina ci ha provato

    Alla Bruno e al suo centrosinistra seguì l’amministrazione azzurra di Giovanni Gravina, che durò appena due anni, durante i quali fece di tutto per realizzare il progetto, partito proprio a ridosso delle elezioni, con la costituzione di Porto dei Normanni Spa, una società mista, partecipata dal Comune e da due società private, Sider Almagià Spa e Sider gestione porti srl, entrambe espressioni dell’impresa romana Almagià, big di livello europeo del settore.

    Quanto costa?

    Il costo iniziale dell’opera ammontava a venticinque milioni, di cui 450mila erogate dal Cipe al Comune, che deteneva il 30% della società mista. La Almagià partecipava all’opera perché vincitrice del bando europeo lanciato dall’amministrazione.
    I presupposti per la realizzazione c’erano tutti. Tranne l’idrogeologia.
    Infatti, l’area individuata per creare il porto era la parte centrale del lungomare di Paola. Ma nelle sue vicinanze scorreva il torrente Fiumarella, che doveva essere deviato. Ma per spostare il letto di questo fiume occorreva il nulla osta definitivo dell’Autorità di Bacino e della Sovrintendenza dei Beni culturali.
    Inutile dire che il doppio ostacolo, naturale e burocratico, arenò l’opera.

    Il porto bonsai

    Ma intanto i primi danni erano fatti: l’area del cantiere aveva tagliato in due il lungomare, creando non pochi danni agli esercenti dei lidi, costretti a spostarsi a nord.
    Che fare? Chiudere la partita non si poteva, perché il guasto ambientale e urbanistico c’era già.
    L’architetto Renato Sorrentino, personalità di spicco della cittadina, aveva proposto una soluzione di compromesso: una darsena. Il classico “uovo” da mangiare subito anziché attendere la gallina.
    Quest’idea, il porticciolo bonsai, non incontrò grandi consensi nella classe dirigente paolana, che invece voleva tutto il pennuto. Sorrentino non riuscì a sostenerla a dovere, perché morì nel 2004 e l’unico che la rilanciò fu il giornalista Alessandro Pagliaro, candidatosi a sindaco nel 2007 a capo di una coalizione indipendente di sinistra.
    Ma i problemi tecnici e burocratici non erano i principali: come per ogni opera pubblica calabrese che si rispetti, non poteva mancare l’aspetto giudiziario.

    Il giallo della società fantasma

    Una vecchia interrogazione di Angela Napoli, pasionaria della legalità e rara stakanovista in un Parlamento pieno di assenteisti e vagabondi, chiarisce non poche ombre della vicenda, nel frattempo diventata un po’ inquietante.
    Nel 2005 la Sider Almagià decide di sganciarsi e di mollare le sue quote di maggioranza nella società Porto dei Normanni a una società spagnola.
    L’anno successivo la giunta guidata da Perrotta dà il via libera all’operazione. Tuttavia, i consiglieri di minoranza scatenano il caos e la vicenda finisce al vaglio della Procura. Tra una polemica e l’altra, emerge che la società spagnola sarebbe una scatola cinese e che le procedure di costituzione della società mista non sarebbero state il massimo della chiarezza.

    La delibera di Giunta

    Ma lo sganciamento di Sider Almagià era solo rinviato. Riesce l’11 dicembre 2007, pochi mesi dopo l’inizio della seconda amministrazione Parrotta, grazie a una delibera di Giunta approvata a maggioranza che autorizza la cessione delle quote a Cinabro Spa.
    Cinabro non è un fantasma, ma non è neppure in carne: possiede poca attrezzatura, per un valore di 2.500 euro. Neppure la sua liquidità è robusta: 19.500 euro depositati su un conto del Banco di Sardegna.

    Che fine hanno fatto i quattrini del Cipe?

    E non finisce qui: Cinabro risulta costituita il 21 ottobre 2006 ed è entrata in attività il 31 ottobre 2007. Oltre che magrolina, la società è giovanissima, anche in maniera sospetta: sembra nata proprio per rilevare le quote.
    La chiusa dell’interrogazione della Napoli lascia aperti interrogativi ancor oggi sinistri. Ad esempio: che fine hanno fatto i quattrini del Cipe? E quali sono i motivi reali dell’abbandono di Sider Almagia?
    Difficile sapere cosa risposero i titolari delle Infrastrutture e dei Trasporti. Certo è che Porto dei Normanni Spa collassò e, con essa, il porto.

    La ripresa?

    Nel 2011 entra in scena un nuovo soggetto: la società Marina di San Francesco, che dovrebbe finalmente realizzare il porto dei desideri. Ma i problemi idrogeologici e gli ostacoli burocratici sono persistenti e invalicabili.
    Neppure Basilio Ferrari, eletto sindaco nel 2012, riesce a venirne a capo.
    Parrotta, riportano le cronache, ha celebrato l’assegnone di Orsomarso con una metafora calcistica: la possibilità di realizzare, finalmente, il porto equivale, per lui juventino, a quella di vedere la Signora mentre vince la Champions League, il trofeo tabù della regina del calcio.
    Ma lo stanziamento milionario rischia di risolversi nell’ennesimo polverone elettorale bipartisan, con una variante ancor più pericolosa: stavolta i soldi promessi non sono spiccioli e sono tutti a carico di un ente, la Regione, le cui casse vacillano non poco.
    Di sicuro Almagià è fuori e non è intenzionata a tornare. Chissà che non arrivi qualche altro Paperone dalla Spagna.
    E, per citare l’eroe del Corrierino: qui finisce l’avventura del signor Bonaventura.
    Al momento.