Si pensa spesso al mare, che in realtà è più bello d’inverno, quando le località costiere sono vuote e le attività inquinanti al minimo.
Ma si trascura il suolo, che forse può diventare molto attrattivo, specie per chi invoca il turismo di nicchia. Al riguardo, il basso Tirreno cosentino è pieno di forre e di grotte, sotterranee e non, alcune delle quali sono anche giacimenti archeologici, che raccontano come, nella preistoria, la Calabria – oggi in vistoso calo demografico – fosse popolosa.
Forra tirrenica
Resti umani risalenti al Paleolitico
Lo rivela ’a grotta da ’ntenza – scoperta da Gianluca Selleri che vi si è calato nel 2017 – a cui si accede dalle pareti rocciose dei monti tra Falconara Albanese e San Lucido.
All’interno di questa cavità vi sono reperti poveri e antichissimi, che spiccano sul biancore della roccia calcarea: strumenti di osso e selce e vasellame in terracotta grezza che risalgono al Paleolitico. Più qualche resto umano.
«È una delle tante sepolture preistoriche che stanno venendo alla luce in quest’area», spiega Paolo Cunsolo, presidente dell’associazione Forre del Tirreno, che raduna un gruppo consistente di speleologi.
La Grotta da ‘ntenza
Varie di queste tombe primitive, in cui i nostri remotissimi antenati si facevano seppellire assieme agli strumenti della loro quotidianità, sono state scoperte un po’ più a Sud, per la precisione a Coreca, la bellissima scogliera tra Amantea e Campora San Giovanni.
Di questi ritrovamenti eccezionali si sta occupando ora Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari, che attualmente gestisce gli scavi e la manutenzione di un altro luogo antichissimo: la Grotta della Monaca, nella Valle dell’Esaro.
Grotta Sant’Angelo
Ma lo spettacolo più forte lo offre la natura. Ci si riferisce, in particolare, al sistema di grotte in località Sant’Angelo, sempre a cavallo tra Falconara Albanese e San Lucido.
La più importante di queste enormi cavità è Grotta Sant’Angelo, nota fin dai primi anni ’70 e tuttora meta degli speleologi calabresi e siciliani.
L’ingresso di questa grotta è un laminatoio, cioè una fessura scavata dalle acque, nella parete della montagna. Lo si attraversa strisciando per circa quattro metri e si arriva in una galleria ampia, di quasi un chilometro nel cuore del monte. Questa galleria termina con alcuni laminatoi, scavati da due sorgenti sotterranee importantissime.
L’acqua ha lavorato le rocce per secoli. E ha creato un vero e proprio mondo parallelo, fatto di tunnel e collegamenti quasi inaccessibili all’uomo.
Per esempio, quello tra Grotta Sant’Angelo e la vicina Grotta “Mario e Andrea”, che ha una storia particolare.
L’ingresso della grotta “Mario e Andrea”
In ricordo della tragedia di Rigopiano
La Grotta di “Mario e Andrea”, infatti, è stata scoperta cinque anni fa, in coincidenza con la tragedia di Rigopiano. E non è un caso che sia stata dedicata a due soccorritori morti nel tentativo di salvare gli ospiti del resort travolto dalla valanga.
Tralasciamo le coincidenze e dedichiamoci alla grotta, più difficile da esplorare e forse più spettacolare della sua vicina.
L’accesso è tutt’altro che facile e, specifica Cunsolo, quasi impossibile per i non speleologi: è una spaccatura sulla parete della montagna che conduce a due pozzi che si inabissano per quindici metri.
La grotta di “Mario e Andrea”
Al termine dei pozzi c’è una pietraia, che gli esploratori hanno dovuto aprire a mani nude. La loro fatica è stata premiata da una visione spettacolare: uno stanzone di circa novanta metri quadri e profondo tra i dieci e i quindici metri, pieno di stalattiti e stalagmiti. Segno di un forte lavorio delle acque, che è confermato dalla presenza di un fiume sotterraneo.
Profondissimo anche il vicino Inghiottitoio Provenzano, un’enorme cavità che si inabissa per quasi cinquanta metri.
La prossima sfida
La natura ha i suoi collegamenti che, tuttavia, non sono adatti all’uomo. Proprio per questo, gli speleologi di Forre del Tirrenotentano di aprire dei varchi tra queste grotte, sotto la guida del paolano Piero Greco, già tra i sub più forti a livello regionale.
Lo scopo, spiega ancora Cunsolo, è «rendere fruibile a un pubblico più vasto quest’impressionante mondo sotterraneo», praticamente ignoto, aggiungiamo noi, ai villeggianti, cosentini e non, che invadono le spiagge ogni estate».
Tuttavia, gli speleologi lavorano soprattutto d’inverno e in primavera, al riparo dai curiosi e, soprattutto, dagli imprudenti che potrebbero farsi davvero male nel tentativo di emularli.
Il momento più importante di quest’attività di esplorazione e ricerca, che confina quasi con l’archeologia, è giugno, quando le associazioni speleologiche calabresi e siciliane svolgono il loro raduno annuale, intitolato “Azzoppa ’u pede”, con un palese riferimento a una storia meno antica ma più suggestiva, cioè ai briganti che infestavano nella seconda metà dell’Ottocento l’antica via del mare che passava per il Monte Cocuzzo.
Il turismo nelle viscere della terra
Il turismo di massa ha poco a che fare con le grotte e le forre, che però attirano comunque una quantità non proprio trascurabile di specialisti, studiosi, speleologi (appunto) o semplici ambientalisti.
E queste scoperte recenti, se opportunamente valorizzate, potrebbero in effetti essere il punto di partenza per una nuova concezione del turismo, senz’altro più sostenibile di quello che ci si ostina a praticare, a dispetto dell’impatto ambientale alto e dei numeri in calo.
«La speleologia non è per tutti, specie nelle fasi di scoperta e nelle prime esplorazioni», spiega ancora Cunsolo, perché in questi casi richiede «addestramento e conoscenza di una serie di tecniche ben precise». In altre parole occorre essere un po’ alpinisti, un po’ minatori e, in qualche caso, anche un po’ sub. A tacere del fatto che queste attività non sono assolutamente adatte a chi soffre di claustrofobia.
Ciò non toglie che, una volta stabiliti dei percorsi sicuri, le grotte non possano essere visitate con guide adeguate, da un pubblico più vasto.
Un pubblico di nicchia? Senz’altro. Ma chi dice che nicchia sia sempre sinonimo di piccolo?
Il tentativo dell’amministrazione Occhiuto di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli un museo virtuale non ha funzionato, come ribadiscono anche alcune disavventure amministrative non proprio leggere. L’attuale sindaco Franz Caruso, ha dichiarato di preferire Telesio al re barbaro, mettendo probabilmente una pietra tombale su tutta la vicenda.
In Alarico la storia universale si mescola a quella locale, com’è avvenuto a Cosenza, dove il re goto sarebbe morto di malaria e quindi, sarebbe stato sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione, come tramanda la bella poesia di August von Platen.
Ma il dibattito, anche acceso, esploso sui social prova anche che Alarico continua a “fare immaginario”. Abbiamo chiesto al famoso storico del Medioevo, Franco Cardini, cosa ne pensa della questione Alarico.
Quanto c’è di vero o di verosimile in questa leggenda?
«Quanto ci sia di vero non è mai stato accertato. La verosimiglianza è valutabile in relazione a usanze funebri variamente attestate in ambito tanto celtogermanico quanto uraloaltaico (specie le sepolture equestri)».
Assieme ad Alarico e al suo cavallo sarebbe stato seppellito il tesoro razziato dai visigoti a Roma. Esiste davvero questo tesoro?
«Sepolture principesche caratterizzate da ricchi e preziosi corredi sono attestate. Per quanto Alarico fosse cristiano ariano, è probabile che, dato il suo rango principesco, le antiche tradizioni folkloriche gote fossero in qualche modo rispettate. Quella del “tesoro” razziato a Roma e sepolto nell’alveo del Busento sembra avere tutti i caratteri della leggenda folklorica».
A Cosenza si è tentato di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli, addirittura, un museo virtuale. Queste operazioni “simboliche” possono avere un senso? E, se sì, quale?
«Credo che, più che “simbolica”, l’iniziativa in questione dipenda in parte dalla prospettiva di costruirvi sopra un business e in parte dalla speranza che tutto ciò costituisca uno scoop. Ora, business e scoop hanno senza dubbio entrambi un senso e uno scopo nella società attuale. In questo caso, tuttavia, parliamo di un problema “simbolico”: simbolico di che? Simbolico a che scopo? L’Alarico-“barbaro” e l’Alarico-“eroe” sono entrambe dimensioni scarsamente spendibili oggi a livello mediatico, a meno d’introdurvi al riguardo criteri di “radicamento” e di “identità” oppure, al contrario, di cancel culture, che mi parrebbero entrambi sciocchi e inopportuni».
La gaffe sul tesoro di Alarico diventato di “Talarico” nel totem della Regione Calabria
Veniamo al punto centrale: barbaro distruttore per molti, figura eroica per altri. A quale di questi schemi corrisponde Alarico?
«Si tratta, appunto, di schemi valutativi: per giunta di carattere etico-retorico, soggetti ai cambiamenti di interpretazione delle vicende storiche e alle corrispondenti tavole di valori».
Non parliamo di un problema storico, insomma. Il sacco visigotico dell’Urbe fu un evento traumatico, considerato da tanti come il colpo letale all’impero e alla civiltà romane. Tuttavia, Alarico è considerato quasi un papà della patria da tedeschi e spagnoli. Come mai questa ambivalenza?
«Anche la valutazione da dare dell’evento del 410 deve essere spogliata da qualunque valore retorico o simbologico se si vuol darne una lettura storica. In realtà, ai primi del V secolo Roma aveva largamente perduto il suo carattere di centro politico e militare, mentre anche sul piano religioso il suo vescovo non aveva ancora la funzione che avrebbe avuto più tardi. Peraltro quella di Alarico fu più un’occupazione transitoria che un vero e proprio sistematico saccheggio (ben più grave sarebbe stato l’evento del 1527). La “paternità patria” di Alarico per tedeschi e spagnoli, a sua volta molto relativa, riguarda i secoli XVIII-XIX, quando questi valori venivano più densamente espressi».
Sempre a proposito di mito: i nazisti subirono la fascinazione di Alarico. Al punto che Himmler inviò degli agenti in Calabria per trovare le tracce della leggenda.
«Tutto va naturalmente riferito alla mitologia politica filobarbarica e postromantica che alcuni ambienti del governo e delle organizzazioni culturali nazionalsocialiste favorivano, con una buona dose di medievalismo wagneriano. Come in altri casi (l’interesse per il buddhismo-induismo che condusse a spedizioni antropologiche tra India e Himalaya, e quello per il catarismo, che comportò indagini nell’area pirenaica di Montségur), l’interesse nazista per il germanesimo – e quindi la rivendicazione di tutto quel che apparisse “germanico” – non condusse a esiti specifici sotto il profilo scientifico: nulla di paragonabile, ad esempio, rispetto al rapporto tra fascismo e romanità in tutti i loro aspetti. Tuttavia, nell’àmbito dell’organizzazione di ricerche archeologico-antropologiche della società Ahnenerbe (“Eredità degli avi”), sostenuta con forza dagli alti comandi delle SS, alcuni studi furono seri e interessanti: basti al riguardo il nome del grande Franz Altheim, che vi collaborò».
La brochure del Comune di Cosenza destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
Il tardo antico è un periodo storico suggestivo, carico di contraddizioni, come tutte le fasi di passaggio. È possibile esprimere un giudizio equilibrato sui capi barbari, più o meno romanizzati, che ne furono protagonisti?
«Tutte le fasi storiche sono, per un verso, “di passaggio”; e, per un altro, sono “convenzionali”, appartengono cioè più ai dibattiti storiografici che non alle realtà storiche effettive. I “capi barbari” in contatto con l’impero romano vanno pertanto considerati anzitutto appunto nel loro rapporto con una realtà dinamica caratterizzata però da grande flessibilità (basta pensare all’intelligenza, all’apertura e alla sensibilità con la quale l’impero guardava ai culti religiosi: se e quando in tale àmbito vi furono scontri, ciò va fatto risalire al rigore inflessibile di alcuni di quei culti, non all’incomprensione o al fanatismo romani che in genere non c’erano).
I capi barbari in contatto con l’impero furono molto spesso personaggi eccezionali, di grande intelligenza, in grado di mantenere la loro identità e di adattarla alle esigenze di un dialogo portatore di nuove sintesi. Casi come quelli di Ezio, di Stilicone, di Ataulfo, di Odoacre, di Teodorico, di Clodoveo, di Rotari, di Liutprando, sono per intelligenza, per lungimiranza, per cultura, la regola anziché l’eccezione. All’estremità di questo percorso c’è Carlomagno».
Dovrebbe essere sfatata l’idea dei barbari come “distruttori”?
«Dovrebbe senza dubbio: se tale idea esistesse o fosse mai esistita sul serio. In realtà, la “tesi” incolta e patriottarda dei “barbari germanici” quali distruttori dell’impero (che non a caso fa il paio con l’altra altrettanto ridicola e assurda, quella anticlericale del cristianesimo e dei cristiani come causa della decadenza e della caduta dell’impero romano) non è mai stata sostenuta sul serio da nessuno studioso valido, a parte qualche boutade spinta da esponenti dell’illuminismo più screditato e scadente: appartiene al sottobosco delle idee veicolate da dilettanti semicolti nell’ambito di una sottocultura-pseudocultura che è dura a morire proprio perché è troppo labile per uscire allo scoperto e confrontarsi in modo qualificato con la critica scientifica seria».
Particolare della statua di Alarico a Cosenza (foto Alfonso Bombini)
Perciò, non avendo mai prodotto nulla di serio e d’interessante, questa pseudocultura non è mai stata neppure degnata di una confutazione approfondita e sistematica. Ma, dal momento che non ha mai influito su nulla di scientificamente apprezzabile, riemerge di continuo a livelli di sostanziale ignoranza. Purtroppo la frana progressiva – e quindi la caduta a picco del tono culturale medio della società occidentale in genere, italiana in particolare, tipico degli ultimi decenni – ha finito col fornire un’autorevolezza specie mediatica del tutto fittizia e gratuita a solenni sciocchezze o addirittura a ridicole idiozie che hanno purtroppo libertà di diffondersi liberamente nei vari canali dei social. La falsa cultura acriticamente presa sul serio è una delle funzioni principali dell’analfabetizzazione della società in corso».
Trasformare i bunker in sale espositive, riconvertendo i cunicoli del malaffare scavati nel ventre del paese in moderne “passeggiate” sotterranee aperte ad «arte ottica e concettuale, folklore, sistemi con pannelli e mostre». Un progetto che il comune di Platì intende portare avanti – al costo di oltre due milioni di euro – per provare a dare nuova (e diversa) vita al sistema di capillari collegamenti criminali scavati nella roccia in quasi mezzo secolo per nascondere latitanti, prigionieri, droga e armi. Un “controcanto” che il piccolo centro – poche migliaia di abitanti sul versante jonico d’Aspromonte – vorrebbe intonare per mostrare il volto ripulito di una cittadina che, suo malgrado, è considerata da sempre come una della capitali storiche della ‘ndrangheta.
Contrastare il binomio Platì-criminalità
Un progetto dai tratti vagamenti bipolari, nato per smarcarsi da una nomea pesantissima e che non manca di cedere alla retorica un po’ vittimistica di tv, giornali e social che «le hanno riccamente documentate, spesso in maniera malevola con intenti di criminalizzazione generalizzata della popolazione» in una narrazione «folkloristica che contribuisce a infangare l’intera comunità». Da una parte vuole contrastare il binomio Platì uguale mafia. Dall’altra intende portare i turisti proprio in quello che a lungo è stato il regno sommerso di alcune delle più influenti famiglie di narcos a livello globale.
L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
La città nascosta
E d’altronde erano state proprio le cosche platiesi a costruire la città sotto la città. Gallerie, cunicoli, bunker e stanze nascoste che i boss, in anticipo di un ventennio sulle gallerie scoperte al confine tra Messico e Stati Uniti, avevano commissionato per i propri intenti criminali. E che squadre di “bunkeristi” specializzati avevano realizzato collegando le nuove strutture a vecchi scarichi fognari e grotte naturali per un reticolo imponente di nascondigli e vie di fuga che a lungo avevano protetto i segreti del crimine organizzato locale.
Era il marzo del 2010 quando i carabinieri del gruppo di Locri durante una retata si erano imbattuti nella “catacombe” platiesi. Perquisendo un garage nella disponibilità del clan Trimboli, i militari avevano scovato un portello automatizzato e ben mimetizzato tra calcinacci e vecchi mobili. Dietro si nascondeva l’ingresso al “sottosopra” criminale platiese. Un mondo al contrario che le cosche avevano fatto scavare negli anni e che, grazie al lavoro mastodontico di una serie di operai “specializzati”, aveva sostituito le precedenti gallerie (meno sofisticate) scoperte nel 2003.
Opere di carpenteria nei bunker di Platì
Ingegneria mineraria al soldo dei clan
Gli investigatori, che a lungo tennero riservata la notizia del rinvenimento, si trovarono di fronte ad una vera e propria opera di ingegneria mineraria. Dal piccolo box nel cuore del paese vecchio infatti, partiva una galleria lunga più di 200 metri costruita 8 metri sotto il livello del suolo e larga poco meno di un metro. Dotata di un moderno impianto di aerazione che consentiva il continuo ricambio dell’aria e di un funzionale impianto di luci al neon, la galleria collegava diversi bunker, a loro volta infrattati nelle intercapedini nascoste delle case dei boss, per un sistema quasi perfetto di mimetizzazione. Grazie ad esso capi e gregari delle cosche – che, come da tradizione mafiosa, difficilmente si allontanano dal proprio feudo d’appartenenza – erano rimasti a lungo al sicuro.
Fuori case senza intonaco, dentro rubinetti d’oro
E così, attorno alle case cadenti del centro storico, le magioni dei mammasantissima – nudo intonaco fuori, rubinetti d’oro nei bagni e mobilio d’ebano nel tinello –erano state dotate, tra picchi d’ingegneria mineraria e folkloristiche immagini della Madonna di Polsi lasciate a presidiare il territorio, di un sistema “arterioso” artificiale che poteva essere usato di volta in volta dalle primule rosse del malaffare della montagna. Un mondo al contrario che, scavato sotto i ruderi di un paese in rovina e stritolato dallo strapotere dei clan di ‘ndrangheta, oggi vuole essere riconvertito in un’operazione “acchiappaturisti” dal retrogusto amaro.
Militari davanti a un’abitazione di Platì
Vita da topi
E se le “catacombe” di Platì rappresentano, probabilmente, un unicum dell’ingegneria votata al malaffare, i bunker dentro cui si rintanano i pezzi da novanta del crimine organizzato calabrese sono invece una presenza costante in tutto il territorio reggino. Anche perché una delle regole non scritte del crimine organizzato, prevede che un capo, anche se braccato, non si allontani mai troppo dal proprio territorio di “competenza”. E così, nascosti dietro finte pareti, occultati dietro porte scorrevoli e botole meccaniche, i nascondigli dei boss sono sempre più sofisticati e costruiti con tutte le comodità dettate dai tempi moderni, per consentire un soggiorno degno del blasone di chi lo ha commissionato.
Il “bilocale” di Ciccio Testuni a Rosarno
Come nel caso del mini appartamento che Francesco Pesce, alias Ciccio Testuni, si era fatto costruire proprio sotto un deposito giudiziale nelle campagne di Rosarno. Braccato dalle forze dell’ordine in seguito all’operazione All Inside, l’allora reggente del potentissimo clan della Piana, si era “sistemato” in un bilocale sotterraneo di circa 40 metri quadri costruito di nascosto da veri esperti del settore. Tv satellitari, impianto di video sorveglianza esterno, collegamento internet e consolle per videogiochi: nella residenza nascosta di Pesce, i carabinieri del Ros (che la mattina del ritrovamento si presentarono al cancello della Demolsud con ruspe e scavatori meccanici) trovarono tutto l’occorrente per trascorrere una latitanza tranquilla.
Militari nelle gallerie sotterranee dei clan a Platì
I muratori specializzati nei bunker
Una tradizione, quella dei bunker, che coinvolge praticamente tutte le cosche criminali del territorio e che ha creato, paradossalmente, operai specializzati che le stesse cosche si contendono: «Ricordo – aveva raccontato agli inquirenti la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, che di Ciccio Testuni è prima cugina – di avere più volte visto un muratore di Rosarno, uscire dalla casa abbandonata di mia nonna. Era sempre vestito con una tuta da lavoro e mio padre mi spiegò che l’operaio stava ristrutturando per conto suo un vecchio bunker nascosto nella casa».
I soldi per il Parco archeologico di Sibari c’erano, ma nessuno li ha usati. E così il progetto di rendere fruibili i suoi tesori dopo il tramonto ha fatto un buco nell’acqua, che in zona di problemi continua a darne parecchi. «È una storia tristissima», commenta l’economista Fabrizio Barca. Durante l’allagamento del 2013 da ministro della Coesione territoriale si era speso per salvare il sito e il Comune di Cassano Jonio di recente gli ha conferito la cittadinanza onoraria proprio per questo. Nell’occasione si è tornati a parlare del fallimento del progetto Sibari di notte, promosso proprio da Barca.
Fabrizio Barca riceve dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
I soldi restituiti
L’idea era di valorizzare il parco del Cavallo, l’unica area visitabile del sito archeologico di Cassano Jonio. Il Ministero dei Beni culturali (che lo gestisce) siglò un accordo con la fondazione Con il Sud, presieduta da Carlo Borgomeo. Il progetto prevedeva la ricostruzione virtuale – attraverso fondi privati e mediante l’ausilio di strumenti multimediali – di particolari delle strutture dell’antica polis della Magna Grecia. Barca e Borgomeo hanno criticato aspramente il Governo sostenendo che ormai i soldi sono stati riconsegnati agli investitori. Non è possibile visionare il progetto, ma abbiamo contattato l’ex ministro per avere un suo commento.
«La valorizzazione notturna di Sibari – dice – è fallita negli anni passati. L’idea nasce nel 2013 sull’onda del disastro, per rilanciare il parco e non per tamponare. Si concretizza con una disponibilità straordinaria dell’imprenditoria locale e l’apertura del ministero. Sei mesi fa, però, abbiamo preso atto del fallimento e durante il conferimento della cittadinanza il consiglio comunale di Cassano, dalla maggioranza all’opposizione, con grande unità è tornato in quella sede a esprimere la speranza che si possa riprendere l’itinerario. Insieme a Patrizia Piergentili, membro attivo nel progetto, abbiamo retrocesso con enormi difficoltà le donazioni che un gruppo di imprenditori del territorio aveva fatto ed erano rimaste lì in attesa del via. Le difficoltà precedono l’autonomia data dal ministero a Sibari – conclude Barca – e la domanda da farsi è: ora ci sono le condizioni per superare queste criticità?».
L’autonomia
L’autonomia a cui fa riferimento l’economista riguarda la scelta del ministero della Cultura di inserire nel 2019 anche il Parco archeologico della Sibaritide – comprensivo del vicino museo e di Amendolara – tra gli enti autonomi. Significa affidargli la gestione degli incassi e l’opportunità di appaltare lavori e servizi, a differenza degli altri musei statali. Per rendere operativo il parco archeologico, inoltre, il ministero ha inserito Sibari nell’elenco dei “Grandi progetti beni culturali” stanziando tre milioni di euro nel bilancio preventivo di quest’anno. Altri importanti finanziamenti sarebbero in arrivo.
È approdato un nuovo direttore, Filippo Demma, e il museo della Sibaritide ha aperto nuove sale multimediali in edifici mai entrati in funzione. È in corso la riorganizzazione degli spazi espositivi e, prima di sbarcare per la prima volta alla Borsa del turismo a Paestum, è stato il turno di darsi una più moderna identità visiva con logo e sito web. Lo scorso aprile i carabinieri del nucleo Tpc agli ordini di Bartolo Taglietti hanno consegnato qui oltre 600 monete recuperate con attività investigative per restituirle alla collettività in un allestimento museale. Secondo il sindaco di Cassano, Gianni Papasso, questi sono «passi in avanti rispetto all’immobilismo degli ultimi anni».
Gli allagamenti continuano
Ma se è fallito così miseramente Sibari di notte, è invece visitabile il parco archeologico di giorno? L’acqua minaccia lo spazio aperto al pubblico – tanto da renderlo pericoloso – e le altre zone non accessibili ai visitatori, fino a lambire lo stesso museo che è fornito di pompe per risucchiarla. «Nonostante sia fallito prima del mio arrivo qui – afferma Demma sul progetto di Barca – lo considero importantissimo per la valorizzazione e per il coinvolgimento di artisti internazionali. Ho anche intenzione di riprendere questo piano e ne ho parlato proprio con lui qui a Cassano. Il punto è questo: come faccio ad autorizzare investimenti privati se ora abbiamo il sito completamente allagato perché le pompe per l’aspirazione dell’acqua sono di 50 anni fa e le trincee drenanti non sono mai state fatte?».
I vigili del fuoco in azione dopo l’alluvione del 2013
La golena e la falda
Nel report presentato dopo l’alluvione del 2013 al Senato il sindaco Papasso parlava della presenza di coltivazioni non autorizzate nella golena del fiume che hanno ostacolato il deflusso dell’onda di piena. E il Comune, infatti, ha ordinato l’eradicazione di un agrumeto di un privato. Poi ricorso al Tar e la palla passa nel 2014 per competenza al Tribunale superiore delle acque pubbliche. Barca ricorda che nel 2013, quando era a Cassano per l’allagamento del sito, era palese una situazione di utilizzo non appropriato dei terreni in quell’area. «Da quanto ne so, il decreto di rimozione del famoso agrumeto è diventato efficace solo ora».
Gli scavi sommersi dall’acqua del Crati nel 2013
«Il problema ora non è il Crati – sostiene Demma – ma riguarda la falda acquifera tra il fiume e il canale degli Stombi. Bisogna canalizzare quest’acqua prima che arrivi sotto il parco. Vuole sapere cosa sto facendo intanto? È in atto un intervento per sostituire il sistema di pompe well-point per l’aspirazione dell’acqua nel parco del Cavallo in modo da tenerlo asciutto e in sicurezza. Poi, grazie al Pnrr, si vuole mettere in sicurezza anche il museo, che pure soffre questi problemi di allagamento, e il resto dell’area archeologica: Casa Bianca e il cosiddetto “prolungamento”». «È necessario notare – afferma l’archeologa Maria Teresa Iannelli – che i livelli più antichi dell’arcaica Sybaris e della più recente Thurii, tranne poche eccezioni non sono visibili. L’area fruibile al pubblico è relativa all’ultima e più recente fase di occupazione del sito, cioè quella della città romana di Copia».
Non solo acqua
In autunno perlomeno la golena del Crati non ha dato preoccupazioni, ma problemi di altro genere non sembrano mancare. Una struttura ricettiva a Casa Bianca è stata spogliata di infissi e quadri elettrici e quest’estate un deposito (non utilizzato) è andato a fuoco. «Intimidazioni inaccettabili», secondo le deputate del Movimento 5 stelle Anna Laura Orrico ed Elisa Scutellà. E lo stesso Demma raccontava soltanto qualche mese fa a Maurizio Molinari sulle pagine di Repubblica che «la polizia ha documentato come si pratichi prostituzione anche in casotti e ricoveri di fortuna all’interno di zone archeologiche»
Il deposito a fuoco nell’estate 2021
Orario ridotto
La pianta organica del parco archeologico di Sibari, poi, prevede 48 tra vigilanti, amministrativi e archeologi. In servizio però ce ne sarebbe solo un terzo. E anche i tirocinanti della Regione non hanno rassicurazioni per un eventuale rinnovo di contratto nel 2022. «I 23 tirocinanti, impegnati diverse ore a settimana, ci consentono di tenere aperti il parco e i musei. Senza di loro da gennaio dovrò contrarre l’orario di visita», lamentava Demma quando lo abbiamo sentito. Passato il weekend di Capodanno, la conferma con un lungo e sconsolato post su Facebook: niente proroga ai contratti da parte della Regione, ora tocca a Roma rimediare. Nel frattempo, orari ridotti per carenza di personale. «Siamo sicuri – scrive Demma – che il Ministero della Funzione Pubblica porterà rapidamente a termine le procedure e potremo festeggiare anche il rientro degli ex-tirocinanti insieme al nuovo ampliamento delle aperture. Ma purtroppo non è questo il momento».
Già prima della pandemia, in base ai dati ufficiali, non si rischiavano assembramenti di turisti. Il flusso in entrata nel 2019, in attesa dei numeri sul 2021, parla di 13 mila ingressi. Corrispondono al 3,4% del totale delle persone che nello stesso anno hanno visitato musei, castelli e siti archeologici gestiti dallo Stato in Calabria.
Per crescere come merita al parco archeologico servono maggiore attenzione e un interesse concreto delle istituzioni. Il grande progetto per Cassano Jonio prenderà vita grazie all’autonomia o sarà il bis di “Sibari di notte”?
La società calabrese contemporanea ha ormai consolidato una negativa abitudine a convivere con qualsiasi forma di degrado possa manifestarsi, sotto ogni diversa e sempre più grave forma. Si tratta di una pericolosa assuefazione alla sciatteria, precarietà, marginalità e abbandono che interessa, per diversi ed eclatanti effetti, ogni luogo, pubblico soprattutto, ma al contempo privato.
L’ultimo episodio che racconto qui di seguito, e che è l’apice di una catena di infelici incontri con il brutto e negativo calabrese, risale al 15 dicembre scorso, in piena atmosfera natalizia, che, a queste nostre traballanti latitudini, è la peggiore ed effimera illusione che ubriaca tutti, per il tempo necessario a dimenticare il peggio che viviamo e, forse, vivremo.
Vaccinati in una palestra lercia e polverosa
Il pomeriggio, mi reco fiduciosamente, per la mia civica terza dose “anti-Covid”, al cosiddetto “hub” vaccinale di Via degli Stadi s.n.c. -che sta per senza numero civico, e già questo doveva preoccuparmi- e con sorpresa noto che mi trovo all’esterno di un anonimo edificio, privo di qualsiasi minimo requisito ambientale, con una insegna appena visibile e pure storta, facciate malamente scrostate e con uno sbarramento da manifestazione di massa, posto al controllo degli accessi.
L’interno ha i requisiti – molto sbiaditi – di ciò che era una palestra, oggi lercia e polverosa, con un paio di box di controllo e personale medico all’addiaccio, muniti di camici con sotto i cappotti, il fiore della rinascita dell’Italia (ma quando mai!) è malamente incollato su uno dei box della sala e sta per staccarsi, sintomo di quanto sia poco importante, alle nostre latitudini, comunicare bene messaggi collettivi di fiducia!
Ogni protesta è vana
Sul pavimento ci sono almeno due dita di polvere, qua e là, sparse nella grande sala, una ventina di sedie male assortite, assemblate tra attesa pre-vaccino e post, al soffitto un paio di lampadine fioche e mortacine da magazzino merci in disarmo. Poche persone infreddolite siedono in attesa fiduciosa della dose salvifica, e l’operatore sanitario, che mi inietta il farmaco, al quale faccio notare la situazione disastrosa, allarga le braccia e mi dice che ogni protesta (loro e nostra suppongo) è vana, perché l’azienda sanitaria non ha, da tempo, orecchie per sentire alcuna lamentela.
La rassegnazione che colgo tra tutti gli astanti è imbarazzante, sono l’unico che prova a far notare l’evidente stato di degrado e conseguente disagio, e ancora una volta mi sovviene che su questa rassegnazione una intera generazione di politici ha costruito le proprie fortune elettorali e che il tempo di qualsiasi vera, efficace protesta è stato sostituito da qualche, inutile, invettiva sui social media.
Lamezia airport 2021
Mi attraversano, come in un film, i fotogrammi di una infinita serie di recenti situazioni di degrado calabrese, abbandono, precarietà e ordinarietà: le baraccone di plastica, posticce, dell’aeroporto di Lamezia, altro presunto “hub internazionale”, nate provvisorie e divenute permanenti, e nelle quali si stipano, ormai da anni come sardine i passeggeri; le sale di attesa delle stazioni ferroviarie, spoglie, disadorne, male arredate; i pronto soccorso dei diversi ospedali; gli atri di gran parte degli uffici pubblici, con segnaletica posticcia, arredi rabberciati, personale svogliato e poco educato a ricevere e accogliere…
Calpestare la bellezza
E poi ancora, ovunque, auto in terza fila, buche per le strade, autobus che non passano mai, intonaci cadenti, facciate dai colori sbiaditi. Persino i “salotti buoni” di Cosenza, lungo il Corso, e dei lungomare di Reggio, di Catanzaro, appaiono posticci, sbrecciati, mal rifiniti e senza alcuna costante manutenzione. Persino i resti “nobili” di un glorioso passato, come la colonna superstite di Crotone, circondata dal cemento insieme a tutta l’area archeologica, il sito dell’antica Sibari tagliato in due dalla statale 106 (statale, si noti!), con le sale del museo che sembrano il residuo di un vecchio e decrepito deposito ottocentesco di reperti.
Rifiuti a Lungocrati, sullo sfondo la chiesa di San Domenico a Cosenza
Un modello turistico perdente
E per completare il tour basta andare nelle “ridenti” località silane, Camigliatello su tutte, e trovarsi nel mezzo di un bazar confuso e sconclusionato di oggetti caotici, che occupano lo spazio pubblico del “corso”, senza dignità estetica, regole e buon senso, e che lasciano immaginare la qualità di un modello turistico che altamente competitivo non è mai stato e mai lo diventerà.
Cittadini insensibili ai beni comuni
Il degrado, l’abbandono, l’incuria, la sciatteria dei luoghi, in Calabria, hanno tuttavia, almeno una triplice matrice: cittadini insensibili ad ogni minimo impegno civico che comporti una pur minima assunzione di responsabilità verso “ciò che non è mio”, ma è di tutti, amministrazioni pubbliche totalmente distratte da ben altre emergenze quotidiane per le quali questo genere di attività educative, e anche repressive quando necessario, sono del tutto secondarie. Le scuole che non formano più cittadini, ma più o meno scolari-studenti indirizzati alla nozione, a qualche superficiale conoscenza di programmi antiquati, nei quali e attraverso i quali è difficile far comprendere che essere buoni cittadini, colti e sensibili, preparati, farà buone città, buone comunità, buoni luoghi di vita, buone, sane nuove economie circolari.
I nuovi barbari
E’ un degrado fisico e sociale, dunque, ma è soprattutto culturale per aver smarrito la guida di una civiltà e bellezza millenarie, dai Greci in poi, aver rimosso la cultura contadina e la sua sobria eleganza e semplicità ed essersi tuffati a capofitto nelle pieghe di questa modernità malata e scomposta, finta, che genera ondate di nuovi barbari, insensibili, maleducati, assuefatti al brutto e all’indifferenza.
Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.
La vecchia cremagliera
La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.
Passeggeri in attesa della littorina a Paola
La prima vaporiera
“Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.
Dai soldati agli emigrati
A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.
La morte corre sui binari
Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.
In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.
La vecchia stazione di San Lucido
Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.
Testimoni di un’altra epoca
La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».
Il lungo addio
Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».
Emigranti in attesa a Milano Centrale
Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.
Il treno per Ferramonti
Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.
L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».
Internati a Ferramonti
A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.
L’ultima cremagliera della notte
Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.
La scrittrice Elsa Morante
Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».
Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».
I binari a Falconara Albanese
Il progresso divenuto rudere
Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.
Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.
Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.
L’aeroporto Tito Minniti fu pensato per essere porta d’ingresso per le due città metropolitane, canale d’arrivo e di partenza privilegiato per una fetta di Sud da oltre un milione di abitanti. Ma è finito nell’angolino più angusto del sistema dei trasporti del fondo dello Stivale. Lo scalo di Reggio Calabria arranca tra un emorragia di passeggeri che non conosce sosta – è all’ultimo posto per utenti trasportati tra gli scali calabresi – e un’offerta anemica che si limita a Roma e Milano, con prezzi da tratte internazionali che dirottano su altri aeroporti (Catania e Lamezia) anche buona parte dell’utenza “domestica”.
Il prezzo dell’incanto
Incastrato tra le ultime ombre d’Aspromonte e la meraviglia dello Stretto, lo scalo reggino paga, tra le altre cose, una serie di limitazioni dettate proprio dalla posizione in cui lo hanno costruito e dalla difficoltà nelle manovre di atterraggio. Dotato di due piste (anche se i voli di linea atterrano e decollano solo su quella principale) è uno dei pochi scali italiani a prevedere un’abilitazione particolare per il pilota (in fase di atterraggio è necessaria una manovra gestita direttamente in cabina).
Limitazione che si somma a quelle legate all’impossibilità di dotare lo scalo con i moderni sistemi di radiofaro per l’atterraggio strumentale degli aerei e che, di fatto, resta come un macigno sospeso sui progetti di sviluppo visto che molte compagnie, low cost in testa, preferiscono puntare su scali incatenati da minori restrizioni e quindi accessibili a costi più bassi.
Uno scalo per due
Reggio e Messina come bacino naturale, il Tito Minniti (in memoria dell’aviatore reggino protagonista della guerra colonialista d’Abissinia) non è mai riuscito a diventare veramente attrattivo per i viaggiatori in partenza e in arrivo dalla sponda siciliana dello Stretto. Più veloce e più comodo per l’area metropolitana di Messina (nonostante la maggiore distanza) raggiungere lo scalo catanese di Fontana Rossa, che garantisce una maggiore offerta e prezzi decisamente più competitivi.
Oggi, se un utente messinese volesse decollare da Reggio servendosi di mezzi pubblici potrebbe scegliere tra: prendere un autobus (privato) dalla città peloritana che, attraversato lo stretto via traghetto fino a Villa, lo lasci in aeroporto dopo il tragitto in autostrada o, in alternativa, prendere un aliscafo fino al porto di Reggio e da lì raggiungere lo scalo con un mezzo Atm: in entrambi i casi, oltre un’ora di tragitto scomodo e costoso che scoraggerebbe anche il più entusiasta dei viaggiatori.
Arrivare in aeroporto dal mare
Eppure qualcosa era stato fatto in passato per migliorare il collegamento. Nata durante la primavera di Reggio con Italo Falcomatà, l’idea di dotare il Minniti con un approdo pensato per gli aliscafi, si concretizzò nell’era Scopelliti, ma le cose non andarono bene. Modificato il vecchio molo della stazione aeroporto e “sistemata” la via d’accesso diretta tra la stazione e il Minniti, il nuovo percorso che consentiva l’accesso diretto allo scalo (con check in possibile direttamente a Messina) non riuscì mai a sfondare.
Troppo lungo il tragitto via mare (nell’entusiasmo di quei giorni un consigliere comunale arrivò a invocare l’adozione degli hovercraft per il collegamento super veloce delle due sponde dello Stretto), scomodo e lento il trasbordo sulla navetta dalla stazione. Il servizio rimase in piedi per una manciata di mesi soltanto. Poi, così come era venuta, l’idea di arrivare al Minniti dal mare è naufragata in fretta. E ha lasciato come (costosa) dote, un molo ristrutturato e ormai in disuso e un sottopassaggio inutilizzato prima vandalizzato da una discarica abusiva e poi mestamente chiuso al traffico.
Scartamento ridotto
Il Minniti è passato sotto la gestione di Sacal all’indomani del rovinoso fallimento della Sogas, la compartecipata pubblica che gestiva lo scalo andata a gambe per aria nel 2016 con uno strascico di 10 indagati. Ha evitato così una rovinosa chiusura grazie a una gestione provvisoria che gli ha consentito di non perdere le necessarie autorizzazioni. Ma l’aeroporto reggino ha continuato a perdere collegamenti e passeggeri in un’emorragia senza fine aggravata dal baratro Covid e dalle scelte di Sacal che, accusano da Reggio, «spinge Lamezia e lascia al palo Reggio e Crotone».
Il biglietto costa il doppio di Lamezia
Sul piatto restano i milioni del rinnovato piano industriale previsti dal gestore per i tre scali calabresi. Una fetta dovrebbe essere destinata a Reggio per l’adeguamento della pista e dell’aerostazione e il rilancio dello scalo: «Vogliamo portare Reggio a un milione di viaggiatori», disse l’allora facente funzioni Spirlì durante una conferenza stampa della scorsa estate.
In attesa del milione di passeggeri, al Minniti, nel mese di ottobre, si sono avventurati poco più di 13 mila utenti che rendono lo scalo reggino ultimo tra i tre aeroporti calabresi per numero di passeggeri. Anche perché, prenotare per la settima di Natale, un andata e ritorno sia da Roma che da Milano (uniche tratte sopravvissute alla desertificazione dei voli) costa al malcapitato viaggiatore poco meno di 400 euro. Circa 200 euro in più delle medesime tratte in vendita, nel medesimo periodo, sullo scalo lametino.
Royalties da investire e radiofari da collaudare, rotte a singhiozzo e utenti inferociti. Nemmeno un bar dove prendere un caffè o un’edicola per un cruciverba e un quotidiano in attesa di uno dei (pochissimi) voli. È tratteggiato a tinte fosche il futuro del moribondo aeroporto Pitagora, lo scalo aereo più anziano (e più derelitto) della regione.
Costruito, primo in Calabria, nel comune di Isola Capo Rizzuto come aviosuperficie per le esigenze belliche del secondo conflitto mondiale, il Pitagora apre alle rotte commerciali alla metà degli anni ’60. Lega il suo nome alla compagnia Itavia, che garantisce le prime rotte su Roma e Bergamo. E inaugura a stretto giro anche il servizio cargo e una serie di tratte coperte da voli charter che collegano quel pezzo di Calabria a diverse destinazioni internazionali.cc
Il DC-9 Itavia precipitato ad Ustica
Ma le cose sono destinate a durare poco. E quando, alla fine dei ’70, si inaugura lo scalo di Lamezia la situazione per Crotone cambia drasticamente. «Hanno trasferito la rappresentanza Itavia a Catanzaro, di notte. Poi – racconta Nicola Fodaro, per anni presidente dell’Aeroclub cittadino – hanno trasferito anche il servizio cargo spogliando San’Anna di ogni servizio. La chiusura era inevitabile, la tragedia di Ustica che ha mandato a gambe all’aria la compagnia ha fatto il resto».
Sull’altare di Lamezia
Sacrificato sull’altare della più appetitosa Lamezia e senza più traffico civile, l’aeroporto resta in piedi solo grazie all’aeroclub, che si garantisce un contratto con Alitalia per la prima formazione dei futuri piloti. Ma di prendere un volo per raggiungere una qualsiasi destinazione, neanche a parlarne. Si dovrà attendere il 1996, con l’arrivo di AirOne, per rivedere una aereo di linea atterrare a Crotone. Sembra la rinascita. Nel 2003 arriva l’inaugurazione del nuovo terminal, capace – almeno in teoria, visto che quei numeri non si sono mai raggiunti – di sopportare un traffico annuo di 250 mila passeggeri. Comunque l’aeroporto in quegli anni funziona e garantisce una serie di collegamenti (Venezia, Torino, la Germania) in grado di allentare l’isolamento di una città ristretta tra una statale da incubo e una linea ferroviaria da film in costume.
Un aereo fermo sulla pista del Pitagora
Arrivano anche nuovi investimenti – la nuova torre di controllo, il sistema di radiofaro per gli atterraggi che però non entrerà mai in funzione – ma anche in questo caso la favola dura poco. La “Sant’Anna spa”, la società che gestisce lo scalo, comincia a mostrare il fiato corto e volare da Crotone torna ad essere piuttosto complicato con i collegamenti ridotti al lumicino. Fino al 2018 quando la società finisce in bancarotta, e dallo scalo di Sant’Anna partono, di fatto, solo i charter del Crotone calcio e qualche sparuto volo turistico. Poi il bando Enac e l’approdo, assieme a Reggio e Lamezia, sotto la gestione Sacal.
Terno al lotto
Oggi, partire da Crotone è un terno al lotto. Quattro voli settimanali con destinazione Bergamo, tre collegamenti con Bologna, in attesa della primavera e del nuovo, temporaneo, collegamento con Venezia. Devono bastare per un’utenza calcolata sulla carta in oltre 450 mila utenti (compresi nel dittico 100km/1h di spostamento) lungo tre province. Anche perché il bando per le nuove tratte indetto a dicembre 2020, nonostante gli aiuti di Stato che avevano garantito allo scalo la continuità territoriale così come succede in Sicilia e in Sardegna, è andato mestamente deserto. E di quello nuovo ancora non si è vista traccia.
Due milioni di euro per nulla
In attesa delle nuove, fantomatiche, tratte verso Roma e Torino, se si ha la fortuna di trovare un biglietto (prenotando online in questi giorni, un collegamento andata/ritorno con la Lombardia nella settimana di Natale varia tra i 250 e i 400 euro) si deve sperare di trovare una bella giornata. In caso di maltempo e di scarsa visibilità infatti gli aerei non possono atterrare nello scalo di Sant’Anna che tra le sue mille contraddizioni, è riuscito a dotarsi di un moderno sistema Ils che garantisce l’atterraggio strumentale ma non lo ha mai messo in funzione. Siglato il contratto d’utilizzo e ultimata l’installazione infatti, il radiofaro (costato oltre 2 milioni) non è mai stato collaudato e di conseguenza mai utilizzato. Con buona pace delle speranze di capacità attrattiva dello scalo.
Le royalties
Eppure, per garantire i necessari collegamenti del crotonese con il resto del paese, qualcosa era stato fatto. Nel 2018, la Regione e i comuni del comprensorio (oltre al capoluogo, anche Crucoli, Isola, Cirò, Cutro, Strongoli e Melissa) avevano trovato un accordo con Sacal per la ripartizione di parte delle royalties (il 15% del totale) derivanti dallo sfruttamento in mare dei giacimenti di metano. Avrebbero dovute essere investite per la sopravvivenza dello scalo e lo sviluppo turistico dell’intera zona. Un gruzzolo di circa un milione di euro l’anno «che i comuni hanno garantito con la stipula di un formale protocollo, ma che è servito a ben poco» dice amareggiato Giuseppe Martino che da anni guida il comitato cittadino Crotone vuole volare.
La Calabria e la cultura non si incontrano. Neanche dopo che i fuochi fatui della propaganda elettorale si sono spenti. Restiamo ai fatti, a quelli di oggi. La politica non crede che il futuro di questa regione abbia a che fare con la “Cultura”. Che sarebbe anche quella cosa con la quale, in una democrazia degna di questo nome, si smette di essere sudditi e clienti e si diventa cittadini attivi e consapevoli. E non di rado, dato che la cultura «non è cosa libresca e astratta», ma appartiene «al mondo della vita ed è in grado di produrre effetti politici e di muovere l’azione storica» (A. Gramsci), è quindi anche “lavoro”, e col lavoro, persino in Calabria, si mangia. E invece no.
Nessuno si meraviglia se manca l’assessore alla Cultura
Dall’organigramma comunicato dal nuovo presidente della giunta regionale Occhiuto, a mancare è proprio un assessorato e un assessore regionale che nel nome in ditta abbiano proprio il sostantivo identificativo di “Cultura” (e non i suoi surrogati di marketing). Idem, è notizia di alcuni giorni fa, la scelta amministrativa fatta dal nuovo primo cittadino di Cosenza, Franz Caruso, che nella città di Bernardino Telesio, quella che un tempo ebbe fama di “Atene delle Calabrie”, ha pensato bene a sua volta, almeno per ora, di fare a meno di un assessore responsabile alla cultura a alle politiche culturali.
E questo in una città capoluogo, al centro di una vasta area urbana a cui risponde anche una popolazione universitaria, quella dell’Unical -la prima università- campus fondata in regione-, oggi seconda (dati Censis 2018) tra i grandi atenei statali italiani con circa 30.000 studenti e un migliaio di professori.
L’Università della Calabria
Una strategia bipartisan
Complimenti quindi per la scelta lungimirante e di grande efficacia strategica per il futuro della Calabria. Cultura: se ne fa a meno. Con accordo e spregio bipartisan che mette sullo stesso piano schieramenti politici, sulla carta, di diverso orientamento. La Calabria ha certo molte urgenze da risolvere. Altri problemi, molto compromettenti, si sono accumulati in decenni di malgoverno e di incuria. Sono sotto gli occhi di tutti, e tutti ne paghiamo caro il prezzo. Ma la crisi delle politiche culturali e lo stato di paralisi della cultura amministrata dai poteri pubblici in Calabria non può essere considerato il livello meno compromettente e preoccupante della crisi complessiva che attraversa da decenni la società regionale.
Lavoratori della cultura in ginocchio
Chi lavora nel teatro, nei musei, nello spettacolo, nella musica, nell’arte, nell’editoria e nell’associazionismo culturale, nelle attività di produzione di beni e servizi per la cultura, settori già colpiti e messi in ginocchio a causa della pandemia, spesso in Calabria si trova a combattere solo per la sopravvivenza, mentre si arranca da anni a colpi di immagine e di interventi spot privi di visione, tra indifferenze, favoritismi e inadeguatezze croniche e umilianti da parte di politica e istituzioni.
Protesta dei lavoratori dello spettacolo a Cosenza
Della cultura si può fare a meno qui
Fare a meno di assessori con deleghe specifiche (e dunque anche del sostegno di adeguate strutture amministrative) sancisce in fondo solo un dato di fatto, una realtà, che è nota e non da ora a chi è impegnato nel settore. Della cultura in Calabria si può fare a meno, senza troppi rimpianti.
Se non è questo il sottotesto, è dissimulazione pura. Perché anche quando un assessore e un assessorato in grado di programmare e decidere ci sono, quando si passa al confronto tra i designati di parte politica, amministratori ed enti pubblici – Regione in testa-, e i cosiddetti operatori accreditati (i famigerati stakeholders), nella prassi quello che accade in questo mondo, e tra le pieghe non sempre trasparenti del suo fitto sottomondo, riguarda cose che spesso hanno davvero poco a che fare con la cultura. Quello che normalmente capita da anni nella conduzione di questo settore e nella definizione di leggi, provvedimenti, regolamenti, obiettivi e strategie, volumi di spesa e destinatari, dimostra che l’intero settore viaggia da tempo in ordine sparso. Manca del tutto una politica per la cultura.
Troppe rendite di posizione
Quello che accade segue troppo spesso le traiettorie di convenienze, rendite di posizione e discrezionalità procedurali che non rispondono sempre, come si dovrebbe, a valori culturali solidi, a competenze e professionalità certificate, e men che meno da processi originati da conoscenze e da confronti di partecipazione civile e democratica alla vita culturale di questa regione.
La Calabria, come nella Sanità, nella scuola e nelle politiche del lavoro, con i suoi numerosi ritardi e tare, è una regione opaca, che ancora non favorisce processi fondamentali di elaborazione e sviluppo di politiche pubbliche per la cultura in grado di promuovere le libertà, il civismo, l’innovazione di qualità e quindi il cambiamento culturale necessario nella società. Pochi settori della vita regionale come quello della cultura hanno invece necessità e bisogno urgente, oltre che un decisivo impulso in termini di immaginazione, di competenze e professionalità, di essere anche urgentemente illuminati da criteri autentici di pubblica utilità e da azioni di legalità e trasparenza.
Capitali della cultura (per tre giorni)
Bisogna, per esempio superare, definitivamente la logica dell’evento, dei cosiddetti “Fiori all’Occhiello”, delle “Capitali della Cultura (per tre giorni)”, dei “Festival di Qualcosa” e dei “Premi Importanti”, che finora ha contraddistinto con inutile monotonia e indifferibile conformismo le politiche culturali di questa regione.
Una sequela di eventi, premi e festival, sovente dai contenuti culturali incerti, rigonfiati da risorse spropositate e rigorosamente sponsorizzati da politici regionali in cerca d’autore, poi i tanti festivalini che prosperano, con largo utilizzo di denaro pubblico, le effimere fiammate estive della premiopoli in cui fanno passerella i personaggi che vediamo ogni sera accendendo il televisore, a che (e a chi) servono? Gli strombazzati e alquanto incerti “attrattori turistico culturali”, i fantasiosi e misconosciuti “marcatori identitari”, gli eventi identitari al morzello e al sugo di capra, sono altrettanti cattivi esempi di intervalli pubblicitari che il giorno dopo, risolto il clamore mediatico, lasciano le cose come stanno e dove stanno. Il vuoto, il nulla.
Lo scrittore Corrado Alvaro
Parlano di Alvaro senza averlo mai letto
In Calabria la dimensione pubblica della cultura resta confinata in una dimensione di intrattenimento per escursionisti da riserva indiana, o peggio immersa nella fuffa di un baraccone itinerante con offerte da avanspettacolo televisivo per turisti da pro loco estiva. Nessuno pensa che la dimensione pubblica della cultura debba riguardare invece, più concretamente, i diritti che garantiscono l’accesso a beni e servizi fondamentali per i diritti di cittadinanza, a sostegno di studenti, anziani, giovani e famiglie, da destinare ad aree di crisi, a piccoli centri e a comunità fragili.
Per la salute di questa regione sarebbe urgente, piuttosto che indire l’ennesimo bando per alimentare la macchina festaiola dei “Grandi Eventi” (sic), potenziare il languente sistema delle biblioteche, dei sistemi bibliotecari e dei centri di lettura. Nella regione che a ogni piè sospinto si vanta di Alvaro senza averlo mai letto, (per non parlare poi di Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone ed altri, solo per restare al passato) siamo ben lontani da queste urgenze civili.
In fondo alle classifiche di lettura
E questo vuoto di politiche per la cultura a cui corrisponde il mancato adeguamento dei servizi primari per la cultura, è tanto più grave per le sorti civili e per il futuro prossimo di questa regione se solo consideriamo un punto di crisi che è di per se sufficiente a gettare una luce sinistra sul futuro prossimo della nostra collettività regionale: la Calabria è da anni invariabilmente in fondo a tutte le classifiche di lettura e di accesso al libro e ai consumi culturali (come teatro, musei, mostre e cinema).
Solo il 28,8% dei calabresi ha comprato un libro (1 libro!) nell’ultimo anno, non solo per effetto della pandemia. Una conferma. Dato che la Calabria con il 69,3% è terza (a contenderle il podio del non invidiabile primato solo Campania e Puglia) nella più alta percentuale assoluta dei “non lettori” in Italia. Gente che in 12 mesi non ha mai aperto un libro e che non avverte il bisogno di farlo, neanche nel tempo libero, e quel che è peggio si tratta di una fascia di popolazione che va dall’età scolare, i 6 anni (sic!), sino agli 85 (dati Istat 2018).
Il contesto sociale gioca un ruolo decisivo
Altra aggravante per la nostra regione è che l’insieme dei non lettori è composto in misura prevalente da persone con un basso livello di istruzione e che l’incidenza è maggiore nei piccoli comuni, e tra gli uomini e tra coloro che hanno ridotte disponibilità di reddito. La scarsa confidenza dei nostri corregionali con i libri è spiccatamente associata dunque al contesto urbano e sociale di appartenenza: l’incidenza di persone che non hanno mai letto negli ultimi 12 mesi raggiunge infatti il 63,2% nei piccoli centri e nei comuni fino a 2.000 abitanti.
La scuola e persino l’università non se la passano meglio: il 52,3% dei bambini di 6-10 anni e il 47% di quelli tra 11 e 14 anni non hanno letto altri libri al di fuori dei testi scolastici e non hanno praticato alcuna forma lettura se non per motivi di studio. E considerando anche il divario di genere, lo scarto maggiore tra i due sessi (ben 24,4 punti percentuali) si registra tra i 20-24enni, dove le “non lettrici” sono più di una su tre (il 37,2%) mentre i “non lettori” sono il 61,5%.
Verso il peggio
Quel che più allarma è l’inarrestabile tendenza al peggio: negli ultimi anni in Calabria si è registrato un calo progressivo di fruitori di libri e di centri di lettura. Nel 2016 la percentuale fu del 28,8, nel 2014 del 29,9 e nel 2013 del 34,5%. La quota di famiglie che possiedono libri nel 2017 erano l’89,4%, ma dal 2009 in poi il 10% di famiglie calabresi ha stabilmente dichiarato di non avere libri in casa. Commentando questo dato Guido Leone, dirigente tecnico dell’Urs (Ufficio scolastico regionale) ha stimato che «la Calabria è la prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non possiede libri in casa. Mentre il 16,4% ne possiede da uno a dieci, il 14,9% da undici a venticinque, e solo il 4,1% più di quattrocento».
La cultura non è un optional
Di fronte a questo dramma piuttosto che far finta di niente e tirare avanti con i soliti spottoni mediatici e gli eventi ad effetto “vacanze intelligenti”, è necessario che la politica prenda atto dell’insostenibilità del divario ormai profondissimo e del danno civile che ne deriva, provvedendo con urgenza ad allargare e riqualificare le politiche per la cultura e il circuito territoriale dei servizi culturali. Se vogliamo che il libro e una dimensione democratica e civile di cultura sopravviva e cresca nelle biblioteche pubbliche, nelle librerie, nelle case e nelle piazze dei calabresi. Tutto questo accadeva peraltro quando un figurante di assessore alla cultura ancora c’era.
Oggi si pensa addirittura di farne tranquillamente a meno. La cultura non è un optional, non è nemmeno divertimento circense o sagra estiva: è quello che siamo, ed è quello che, nel bene e nel male, possiamo diventare e diventeremo tutti, come individui, come società, come democrazia. Vale anche i politici e gli amministratori calabresi. Che sarebbe il caso che qualche libro in più, dando il buon esempio, lo leggessero. Un assessore ci vuole. Un Assessore alla Cultura. Bravo e competente. E occorre immaginare urgentemente buoni progetti e un futuro decente.
Marcatori identitari per le solite sagre
E occorre anche spendere e spendere bene per la cultura. Indipendentemente dalla crescita del Pil. Non per fumisteriosissimi “attrattori culturali” (doppioni, nel migliore dei casi, del marketing turistico), e non per definire in una sorta di menù à la carte fantomatici “marcatori culturali identitari”. Non per abboffare l’estate di inutili e costose vetrine, non per le solite sagre culturali copiate dalla televisione, ma per aiutare i calabresi, magari con un libro in mano, dentro a un museo, in una mostra, in un concerto di musica decente, davanti a un gruppo di attori che animano un teatro, a capire meglio a che punto sono della loro vita, e dello loro scelte.
È con i libri che si fa la cultura, non senza. E’ urgente e necessario, perché rende i calabresi cittadini più attivi, più democratici, più liberi, più consapevoli e persino felici. O invece non è proprio questo che si ritiene superfluo? Ed è forse per questo che meglio di un nuovo assessore alla cultura, c’è un nuovo, e tanto facebukiano, assessore agli “attrattori culturali”?
Intanto ricominciamo a chiamarli paesi. Questa, non altra, è la geografia umana della Calabria. Anche oggi che in ogni sua angusta città provinciale si litiga per il primato tra periferie e va di moda darsi arie da area vasta, da città metropolitana. Reggio Calabria non arriva a 250mila abitanti; Cosenza, che nel 1971 superò i 100mila, oggi non raggiunge neanche i 70mila. Una regione di paesi e città secondarie, in costante emorragia, non meno che i piccoli centri. Una regione di paesi, paesoni e paesini, dunque.
Paesani anche se mandano i figli al Trinity
Sono in tutto 405, sparpagliati sulle due rive, e spruzzati, soprattutto i più esigui, lontano dal mare, sulle montagne. I comuni in Calabria sono più di quelli della grande Sicilia (390 comuni), che una volta valeva da sola un regno a parte. La vicina Puglia, più lunga, ricca e vasta, ne ha pure solo poco più di 250. Questo sono i paesi della Calabria. E pure i calabresi, piaccia o non piaccia: paesani, anche se comprano griffato, fanno la spesa al centro commerciale, mandano i figli al Trinity e hanno internet in casa e la parabola sul balcone.
La geografia estrema del margine
Paesani e paesi. Tanti. Paesi di quattro case, una chiesa e un forno (una volta): posti dispersi e gracili come Oriolo, Canna, Longobucco, San Lorenzo Bellizzi, Campana Calabra, o più giù come Nardodipace, Bova Superiore, Carfizzi, Cerva, Brognaturo, Stilo, Varapodio. Nomi dissolti su un foglio, nonostante la storia, qualche volta millenaria. Posti così sono i paesi della geografia estrema del margine, dell’osso rinsecchito dell’Appennino, sopraffatti dallo stigma della scarsità, dalle mancanze.
La cattolica di Stilo (Foto Alfonso Bombini)
Troppo piccoli per sopravvivere
Sotto la soglia limite dei 1500 abitanti, lo sanno bene i demografi, in simili condizioni nel mondo contemporaneo cala drasticamente la possibilità di sopravvivenza delle piccole comunità. Qui sono le case appese al chiodo di coloro che covano vite esigue, che raccolgono la briciola che cade dalla polpa dell’economia. I tinelli dei rassegnati che brancolano nella nebbia delle illusioni di seconda mano. Il mondo dei vedovi, dei senza scuola, dei pensionati con la minima, degli spostati di ogni età che collezionano sospiri e vuotano i fondi di bicchiere in cui inacidisce l’ultima goccia del vino di lusso che cola dal mondo della città, della televisione.
E quei paesoni messi sottosopra dal cemento
Molti altri dei paesi di Calabria oggi non sono neanche questo. Non sono più né carne né pesce. Paesoni, tutt’al più. Un po’ più gonfi e dilatati, messi sottosopra dal cemento e dagli abusi, incistati dal malaffare e oppressi dalla noia e dal peso delle mafie. E sono luoghi, questi, diversamente poveri e arresi al peggio, illusi da un’idea di progresso sovraesposta e fasulla. Piccole città provinciali e poi cittadine; paesoni, con il caos ininterrotto e senza nome delle borgate nuove, dei centri sdoppiati e delle piazze in mezzo al nulla, delle marine-dormitorio, dei centri commerciali smisurati, delle teorie dei capannoni delle imprese finte, della monotonia delle villette a schiera, delle seconde e terze case per il mare degli altri, degli avamposti traballanti di amministrazioni improduttive. Delle cittadelle spaziali-albergo di lusso per burocrati e politici incapaci, degli ospedali senza cure, delle scuole rotte e senza bambini.
Un groviglio di strade
E paesoni delle strade. Un groviglio di strade che si perdono nel nulla. Che passano oltre e non legano più neanche un paese all’altro. Soprattutto strade. Riportare qui l’elenco di questi posti dove la strada sembra un ottovolante e dove il paese ha preso gli ormoni e ha assorbito i veleni del nostro tempo immemore e caotico sarebbe troppo lungo, inutile. Persino penoso.
Superano i 15mila per darsi arie
Li conosciamo tutti questi posti: stanno sui giornali, spiccano dalle cronache. Sono i circa 20 comuni che in questa regione (capoluoghi compresi) ancora superano il punto critico dei 15.00 abitanti, soglia demografica minima per darsi arie e coltivare l’illusione di sembrare qualcosa di più di uno di quei vecchi paesi di fantasmi a cui spesso quelli più grossi voltano sdegnosamente le spalle. Questi posti sono casa nostra.
Consolarsi con quel che rimane
La Calabria ridotta a poco più del suo milione e mezzo di abitanti reali, vive lì più che altrove le sue giornate provinciali. In questi posti in cui ogni cosa è ibrida e opaca, dove anche la gente non più quella del paese e nemmeno quella di città, si consumano le sue lotte e le sue sconfitte. Lì si accampano le pretese di chi comanda, lì si coltiva ancora qualche sogno, lì si scontano frustrazioni e si medicano dolori. Lì chi può lavora, e qualche volta, e ancora lì che ci si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane.
Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli e le curve di questi paesoni rigonfiati, in questi posti della nuova terra di mezzo della Calabria di adesso; che sono pure le sue cinque, piccole, rissose città capoluogo di provincia. Le stesse che poi ritroviamo puntualmente nel sottoscala delle graduatorie nazionali della qualità della vita e dei servizi resi ai cittadini.
La retorica tossica dei borghi
Ma in Calabria questa antica e capillare geografia insediativa e umana, microfisica e maggioritaria, col suo irrisolto e crescente corteo di emergenze e problemi critici che gravano su cittadini e istituzioni, finisce oggi per intasare un meccanismo narrativo falsificante e autocelebrativo. La realtà della crisi viene puntualmente oscurata a più livelli da un discorso che coincide sempre più con la retorica altamente tossica dei cosiddetti “Borghi”.
Contro un’idea economicista dell’autenticità
Nessuno chiama più un posto col suo nome proprio, e “borgo” è così diventato un artificioso sinonimo buono per tutto. Una sorta di “apriti sesamo” che enfatizza e identifica indistintamente sia le borgate più fatiscenti e decrepite che le antichità; i centri storici come le realtà cittadine e i paesini più microscopici e isolati. Il trionfo dell’ignorante e ipocrita glorificazione di una certa idea confusamente economicista dell’“autenticità”, la mitologia urbana della grande bellezza sparsa a piene mani su -tutti?- i cosiddetti “borghi”, la favola delle loro enormi “potenzialità” per investimenti e sviluppo turistico, gli eccessi verbosi e le truffe mediatiche che si accumulano come strati in una narrazione effimera e a senso unico, anche in Calabria hanno ormai valicato ogni limite di buon senso, misura e realismo.
Chi condanna i paesi poi li vuole come risorsa
Chi conosce questa regione e ci vive sa bene che i vecchi paesi sono corrosi dal tarlo di vecchie e nuove povertà e da una crescente anomia sociale. Sono spolpati dall’emigrazione, che li priva progressivamente di energie giovani e di abitanti veri. Sono mortificati dall’abbandono e dall’incuria, che ne distrugge la bellezza di ambienti costruiti e paesaggi, cancellando un giorno dopo l’altro la dignità di secoli di storia per farne mucchietti di case vuote e pericolanti e posti per fantasmi. Lo stesso meccanismo che condanna i paesi all’agonia e li mette ai margini della vita sociale e produttiva della regione e del paese, d’un tratto ipocritamente li riscopre come risorsa. Ed ecco che spuntano “i borghi”.
Borghi buoni per ogni cosa, tranne per viverci
I borghi in Calabria sono oggi quei posti piccoli e sparuti di cui l’Italia ricca e affluente si è dimenticata, e che oggi diventano buoni per ogni cosa. Tranne che per viverci davvero. Sempre più evocati che vissuti, ritornano come motivo di interesse nel discorso pubblico su ripartenza e valorizzazione post-covid. Cablati per il telelavoro che impone il precariato a vita nella società post-pandemica, qualche grosso gruppo finanziario e qualche azienda multinazionale ha già scoperto che un paese in vendita in Calabria si può comprare per intero con meno di quello che costa delocalizzare un call center in Romania. O magari si indice la gara dei paesi belli e dei “borghi autentici”, dato che quelli brutti, che sono i più, sono già fuori gioco.
Il campionato farlocco dei borghi
Così, per inscenare ogni anno una specie di concorso di bellezza tipo “miss Italia dei borghi”, riparte una sorta di farlocco campionato tv con eliminatorie e finali, per arrivare addirittura a eleggere il “borgo dei borghi”(sic). Teatrino di invenzioni manageriali sempre spacciate come eventi epocali, scenario per improvvisati festivalini di tutti i generi, dal più pretenziosamente culturale alla sagra più cafona, i paesi nella realtà vivono solo i fuochi fatui delle vacanze degli altri. Fiammate che durano qualche settimana o due, giorno più giorno meno. Ridotti a quartieri d’estate o quartieri d’inverno per i cittadini oppressi dall’inquinamento urbano, dalle follie consumistiche e dai ritmi di vita delle metropoli. I paesi rischiano così definitivamente di essere annichiliti e asserviti, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù.
Gli annoiati dalla città
Nei casi migliori qualcuno, annoiato dalla città, li scopre e li acclama, e ne fa un suo buen retiro personale. Ma si tratta di pochi misogini, ricchi eletti stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle difficoltà: solitudini, isolamento, mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro. Eccessi, eccentricità per pochi, che però alimentano incessantemente la retorica mediatica che ormai suborna soprattutto i cosiddetti borghi della Calabria e dell’Italia del Sud.
Un argomento elettorale
Di paesi-borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi. Ma ad oggi la gran parte dei più di 400 paesi della Calabria restano luoghi spossati e pieni di malinconie, sospesi in una sorta di limbo, abitati (quando lo sono ancora) solo da poche centinaia di persone. Come accade a Fiumefreddo Bruzio, di recente segnalato come uno dei borghi più belli d’Italia, e certo non il più povero e isolato, e che però, nonostante gli sforzi di pochi volenterosi, mantiene nel suo magnifico e monumentale centro storico a picco sul Tirreno meno di 300 residenti.
Turistizzazione forzata
Quando spariscono dai media anche i borghi belli come i brutti, ripiombano nel grigiore e nella stanchezza del quotidiano. E a salvare i paesi non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami mozzafiato. Al più prevale un’idea di una turistizzazione forzata dei paesi e dello sviluppo delle aree interne della Calabria e del centro-sud da trasformare in un unico grande distretto turistico da vendere a un «turismo internazionale con grande capacità di spesa», come da proposta del ministro Dario Franceschini. Una specie di Disneyland per le vacanze en plein air, appaltata senza conoscere e rispettare il patrimonio dei paesi e le necessità di chi quei luoghi vive quotidianamente, legandone invece le sorti a speculazioni di grande scala e ad altissimo costo ambientale e sociale. Una sciagura.
Non tutto è perduto
Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei vecchi paesi calabresi autocentrati e partecipati da giovani e associazioni che si segnalano già per equilibrio, buone prassi e intelligenza. Come dimostrano da vicino le esperienze di successo dei giovani della start up Fili Meridiani a Pallagorio (Kr) e l’associazione Campus del cambiamento-Borgo Slow a Civita (Cs). I progetti di ripopolamento dei paesi possono funzionare infatti solo se sono condivisi in prima persona da giovani innovatori e da gruppi di abitanti veri, vecchi e nuovi. Rianimati dalla cura di cittadini e persone attive e consapevoli. Non dal narcisismo effimero di event manager e dagli interessi di speculatori e mestieranti in cerca d’autore. Non puntando tutto sulla monocultura turistica (men che meno su quella che insegue il lusso). Ma lavorando con competenza e ostinazione su interventi di valorizzazione e riequilibrio di risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando lo squilibrio attuale tra aree interne e coste.
Il centro storico di Fiumefreddo Bruzio (Cs)
C’è sempre un paese in ognuno di noi
I paesi della Calabria hanno bisogno di sostegno, di immaginazione, di aiuto, di pianificazione, del riconoscimento della loro unicità. In fondo c’è sempre un paese in ognuno di noi. Nietzsche ci ricorda che ogni paese «è come un diario figurato della nostra gioventù, che comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare; e dice di se stesso, dello spirito della casa, della stirpe, della città. Dice che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere perché siamo ostinati». La salvezza può arrivare solo così. Arrivederci in Calabria, paisà.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.