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  • Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    La Calabria ha 800 km di costa, da queste acque sono passate navi dei Greci e dei Romani, di Garibaldi e degli Americani. Ma il mare per i calabresi ha anche un significato più ampio. È una minaccia sin dai tempi delle incursioni saracene e, al contempo, è anche una importantissima risorsa, un fattore di sviluppo. A proposito di mare, nel 2022 ricorrono 50 anni dalla scoperta dei Bronzi al largo della costa di Riace nell’ormai lontano 1972. «Si è discusso molto senza trovare un accordo su una questione che resta fondamentale: la possibilità che la coppia di statue costituisse in origine un gruppo più ampio. In realtà nulla sappiamo sulla composizione del carico», scrive Maurizio Paoletti nel libro, edito da Donzelli, Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace.

    Vestiti come dei Bronzi per Sandro Pertini

    Considerati il simbolo per antonomasia della Calabria, utilizzati a volte con esiti poco felici, hanno fatto scatenare più volte polemiche a livello nazionale. Le due statue bronzee – con particolari in argento, calcite e rame – sono tra le testimonianze più significative dell’arte greca classica. Secondo l’Istituto centrale per il restauro di Roma, furono prodotte direttamente ad Argo in Grecia nel V secolo avanti Cristo. Sandro Pertini, rimase folgorato dalla loro straordinaria bellezza e nel 1980 decise di farle esporre al Quirinale. Oggi i Bronzi sono la principale attrazione del Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria e si poggiano su basi antisismiche progettate dall’agenzia Enea.

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    La Testa del filosofo

    Il museo più visitato in Calabria

    I numeri del museo dal 2016 al 2020 parlano chiaro: qui sono arrivati quasi 900 mila visitatori. Corrispondono alla metà delle persone che negli stessi anni hanno visitato tutti i luoghi culturali gestiti dallo Stato in Calabria. Dal rimanente fasciame del relitto di Porticello (datato tra il 470/440 ed il 420 a. C), nello stretto di Messina, arrivano gli altri tesori esposti ora nella sala con i Bronzi: la Testa del Filosofo e la Testa di Basilea. Cosa c’entra la Svizzera con una scultura greca trovata in fondo al mare? Semplice: la Testa era conservata in un magazzino del museo di Basilea, dopo essere stata trafugata. Solo in seguito ritornò allo Stato italiano.

    Archeologia amatoriale

    La cosiddetta archeologia subacquea qui in Calabria nasce negli anni ’70, proprio con questi due rinvenimenti fortuiti: il relitto di Porticello e i Bronzi di Riace. «Se il rinvenimento del relitto di Porticello fu effettuato nel corso di scavi clandestini, la piaga dell’archeologia subacquea dalla quale nemmeno la ricerca terrestre è esente, quello dei Bronzi di Riace si verificò durante lo svolgimento di un’attività amatoriale, anch’esso un caso classico in questo campo di indagine», ci spiega l’archeologa Maria Teresa Iannelli.

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    Il relitto di Capo Bianco a Crotone

    Tesori sommersi: Calabria seconda solo alla Sicilia

    In realtà già nei primi anni del Novecento a Punta Scifo nel crotonese, l’archeologo trentino Paolo Orsi, con l’utilizzo di palombari, aveva rinvenuto un relitto antico. C’è comunque ancora tanto da scoprire nei fondali del nostro Mediterraneo? Gli esperti dicono di sì. Secondo la piemontese Alice Freschi, che ha condotto anni fa una serie di indagini con la cooperativa Aquarius per conto della Soprintendenza calabrese allora diretta da Elena Lattanzi, «in Italia il mare della Calabria è secondo solo alla Sicilia in termini di reperti sommersi e antichi relitti». Dalle ricerche effettuate, basate anche sulle tracce lasciate da Orsi oltre un secolo fa, si è potuto ricavare molto. Lo testimoniano le varie pubblicazioni scientifiche e alcuni musei archeologici calabresi.

    I resti del passato sepolti nei mari calabresi

    Turismo sostenibile in fondo al mare

    Il turismo archeologico subacqueo è un fenomeno in forte espansione ovunque nel mondo. E rappresenta anche un tipo di turismo sostenibile in grado di generare nei territori in cui è possibile svolgerlo un elevato ritorno economico.
    Salvatore Medaglia, ricercatore di Topografia antica presso l’Unical, spiega che «in Italia sono aperti alle visite alcuni siti archeologici subacquei. Ci si può immergere con guide appositamente autorizzate e secondo modalità specifiche. Si tratta di parchi archeologici come quello di Egnazia in cui è possibile visitare i resti sommersi del porto romano. O come nel caso di Baia, in cui alcuni diving convenzionati, con il consenso del Parco Archeologico dei Campi Flegrei, organizzano tour subacquei di grande suggestione tra le rovine di sontuose dimore d’età romana».

    Esposizione dei reperti subacquei nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria

    Il sentiero marino di Capo Rizzuto

    Anche in Calabria è possibile visitare siti archeologici sommersi? «Nell’Area Marina Protetta “Capo Rizzuto”, con il supporto della Soprintendenza – aggiunge Medaglia, che è anche docente di Archeologia subacquea presso l’Università della Tuscia – è attivo da alcuni anni un sentiero archeologico subacqueo, fruibile sia con l’autorespiratore sia mediante snorkeling sul relitto romano Punta Scifo D. Nella stessa area marina è pure possibile, sempre accompagnati dai diving autorizzati, visitare il relitto delle colonne romane di Capo Cimiti».

    D’altra parte «le acque crotonesi serbano una straordinaria concentrazione di testimonianze, forse quella maggiore del Mediterraneo». Medaglia, che insieme ad altri esperti ne studia da quindici anni i relitti sommersi, ricorda le centinaia di tonnellate di ceramiche e marmi che ha ammirato. Compreso «il più grande relitto lapidario di età imperiale che si conosca» a Punta Scifo D. Senza dimenticare le ultime ricerche in ordine di tempo nelle acque di Capo Rizzuto. C’è quella sul piroscafo Bengala – della flotta della “Navigazione Generale Italiana”, una delle maggiori compagnie europee dell’epoca – che naufragò lì nel 1889. O le indagini su due relitti del XVII-XVIII che «ha evidenziato la presenza di nove cannoni in ghisa, di due enormi ancore e di una bellissima campana in bronzo».

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    Tecnologie all’avanguardia targate 3D Research, spin-off targata Unical

    L’impresa spin-off nata all’Unical

    Praticamente un paradiso sott’acqua ancora in attesa di essere portato a galla. E che è possibile vedere, dunque, solo grazie a strumentazioni digitali e immersioni autorizzate. In questo campo la tecnologia ricopre un ruolo rilevante. Siamo andati allora a trovare all’Università della Calabria l’azienda spin-off 3D Research Srl che ha progettato, tra l’altro, dei tablet subacquei utili ai divers e videogiochi per gli smartphone.

    Si tratta di una realtà con 15 dipendenti nata nel dipartimento di Ingegneria Meccanica, Elettronica e Gestionale che lavora nel campo della valorizzazione e della tutela dei beni culturali. Fabio Bruno, professore associato di Virtual and Augmented Reality, guida un team di tecnici e ingegneri provenienti dall’Unical che ha praticamente rivoluzionato il modo di intendere queste antiche bellezze. Un’eccellenza tutta calabrese che si sta facendo valere in giro per l’Europa, partecipando a progetti di rilievo internazionale. Ecco cosa ha raccontato al nostro giornale.

     

  • STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    Stavolta proviamo a entrare in Calabria dall’angolo in alto a destra. Una strada oggi ancora pericolosa, ma antica e in perenne via di ammodernamento, scende lungo tutta la costa altoionica pugliese, lucana e ca­labrese. Il tratto lucano, dritto, monotono e trafficato non meno degli altri, è battuto spesso da un sole impietoso, allontanato ogni tanto da qualche filare di eucalipti. Ad est il mare, in lontananza la costa salentina o quasi. Ad ovest le campagne: vite e grano in prevalenza. Anche questa strada, sebbene priva di dislivelli e di particolari asperità, era piuttosto sconsigliata fino a tutto l’Ottocento. Figurarsi – ho le prove – che quando nel 1865 una giovane di Roseto Capo Spulico dovette sposare un nobile di Pisticci, la famiglia di lei vi si recò in barca, facendo scalo a Metaponto. E non certo per diletto.

    La Calabria che non c’è

    Benvenuti in Calabria? Nemmeno stavolta. Non del tutto, almeno. Mettiamo piede in quest’isola nell’isola, nell’Alto Ionio Cosentino, appunto. Un recinto di cui non si capisce ancora bene dove stia l’inizio e dove la fine. Vada per i confini geografici (una fiumara o l’altra, a sud o a nord, poco cambia; qualche crinale che fa da spartiacque ad ovest; il mare, indiscutibilmente, ad est); vada per i confini linguistici (la famosa – davvero? – Area Lausberg), vada per quelli ufficiali (la Comunità montana?); ma io mi attengo ai confini “umani”. Non siamo forse più in Basilicata (e dico forse), ma col cavolo che siamo davvero in Calabria. Targhe a parte, prefissi telefonici e codici di avviamento postale a parte, non c’è proprio niente che possa suggerire d’essere entrati in provincia di Cosenza.

    La zona altoionica nell’Italia di Giovanni Antonio Magini (1620)

    Chi vive qui ha come punto di riferimento nemmeno Matera, no, ma addirittura Taranto (due Regioni più in là, come se niente fosse). Il suo ospedale, ad esempio, o i centri commerciali lucani. A Cosenza, proprio, nemmeno ci pensano. In comune neppure l’accento e, soprattutto, nemmeno gli atteggiamenti o l’umorismo, lo spirito. E del resto si tratta di un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. E non solo: periodicamente, numerosi gruppi di cittadini di queste zone si uniscono proprio per chiedere l’annessione alla Basilicata.

    Perché se l’attuale territorio della provincia di Cosenza corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che per lunghissimo tempo ha segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. Come a dire che nel Cosentino c’è un Alto Jonio, sì, ma pure un Altissimo Jonio dall’anima ancora più estranea: Rocca Imperiale, Canna, Nocara.

    Nocara, Armi S. Angelo, rupe ovest

    Lasciando la SS 106

    Anche qui, come sull’altra costa, tanti paesi hanno voltato le spalle ai monti e alle campagne per mascherarsi in chiave balneare finché si può. E allora anche qui, per non farmi ingannare, provo per una volta a bypassare la 106 e a inerpicarmi per una strada che non conosco. La prima strada che valichi il confine più all’interno rispetto a quest’ultima. La prima non sterrata, intendo; la prima che porti da qualche parte, manco si trattasse del confine USA-Messico, Serbia-Montenegro (e chi più ne ha più ne metta), da controllare a vista attraverso pochi varchi e troppi doganieri nevrotici. E allora parto da Valsinni (MT) e prendo una stradina fortunosamente asfaltata.

    I miei appunti sul cruscotto parlano chiaro, non c’è che dire (mi rifiuto di usare i navigatori e suggerisco di fare altrettanto): “a sinistra al bivio per Rotondella / al cippo a sinistra / al bivio dopo il cippo: a destra per Nocara / al bivio tra i faggi: a destra”. Più chiaro di così… Dopo vari tornanti su pendenze discutibili su per il Monte Coppolo e qualche bivio enigmatico, da testa o croce, la stradina mi porta esattamente dove volevo. Diciamo in Calabria. Ma sarebbe meglio dire nel pieno dell’Alto Medioevo, a Serra Maiori, giusto ai piedi dei resti della cittadella di Presinace. Un po’ come a Frittole.

    Un angolo della zona archeologica di Presinace

    Riti e palazzi

    Da qui posso continuare a occhi chiusi, quindi mi fermo e invece li apro, perché in pochi posti vale la pena farlo come in questo. Ci sono già stato e ci sono tornato almeno altre tre volte: 10 minuti (a piedi) dal bivio per l’area archeologica e si arriva nel punto in cui la stradina passa in mezzo alla fenditura tra due magnifiche rocce: è l’Arma dei Gatti, o le Armi S. Angelo (‘armi’ alla greca, nel senso di ‘grotte’). Un giovanissimo Lorenzo Quilici (Siris-Heraclea, Roma, 1967) vi trovò sulla sommità vasellame magnogreco e indizi della remota presenza di un luogo di culto.

    Da qui veniva poi la pietra utilizzata un paio di secoli fa per i portali dei palazzi nobiliari di mezza Calabro-Lucania, qui leggenda vuole che si facessero – ancora in tempi non lontanissimi – riti pagani per supplicare fertilità. Di certo non è un sito che possa lasciare indifferenti: vento costante, anche ad agosto può esserci nebbia (vi assicuro), si cammina su un crinale stretto, ad ovest lo sguardo scivola verso le campagne lucane, giù per la valle del Sinni, e sconfina fino a chissà dove, cime dopo cime, abbracciando mezza Basilicata.

    Armi S. Angelo, le rupi viste da nord (foto L.I. Fragale, 5.8.20)

    Fuori dal contemporaneo

    Ad est lo sguardo rotola in Calabria verso le campagne di Rocca Imperiale e il mare. Anzi, da qui si gode una prospettiva del tutto inusuale: il castello di Rocca Imperiale lontano, minuscolo, giù in basso, mostra i suoi bastioni posteriori sulle rupi spoglie, senza il paese a fargli da solita cartolina presepiale ai suoi piedi. Sembra di intravedere Adso e Guglielmo da Baskerville, avvolti nei loro mantelli, Brunello che si gettava felice nelle feci umane sotto la torre. Ma che bestia! Che cavallo! E invece c’è solo rumore di vento, campanacci di vacche, un toro che se le controlla, una minuscola sorgiva in mezzo all’asfalto (è una sorgiva, è una sorgiva, niente tubature a quest’altezza).

    Il castello di Rocca Imperiale, visto da ovest

    “Da qui, messere, si domina la valle…”, diceva Astolfo. E invece no, è soltanto un’oasi che resta tagliata fuori dal contemporaneo: il capoluogo della provincia a due passi da qui è stato Capitale Europea della Cultura nel 2019 (che sembra già un decennio fa). Ma di quale Cultura, l’abbiamo notato? Queste erano le categorie di classificazione dei vari eventi: Digital / Sport / Design and architecture education / Circus / Food / Dance / Street art / Contemporary art / Classical art / Theater / Photography / Cinema / Music / Literature (quest’ultima categoria è stata confinata in altri paesi fuori dal capoluogo).

    Nessun evento a Matera ma ben 4 letture di brani a Melfi e Rapolla, una delle quali alle 10:00 di mattina del 30 marzo: come non esserci?; uno a Villa d’Agri; uno addirittura nella lucanissima Brescia; un contest di poesia a Muro Lucano – ma perché poi la poesia si presta tanto alle competizioni? boh – e ben 9 a Policoro, di cui 5 sul ‘giallo’ lucano, nuovo genere di cui non s’aveva notizia. E nessuna menzione di Albino Pierro, di Rocco Scotellaro, di Isabella Morra (e chi se li ricorda più? anzi, chi li ha mai letti?). Ma, soprattutto, mancano alcune paroline: History, Anthropology, Nature, Landscape/Environment e magari qualcosa d’affine, che in un programma del genere ci si aspetterebbe pure (perché mica in queste terre c’è mezzo Parco del Pollino, mica è un pezzo di Magna Grecia, mica Alan Lomax o Ernesto De Martino ci hanno messo mai piede, no).

    Armi S. Angelo, rupe est (foto L.I. Fragale, 5.9.17)

    Tutto il paese è mondo

    Tutto insomma è declinato alla subcultura d’evasione. O a quella della fuffa del primo che si sveglia la mattina e si autoincorona fotografo o street artist quando non entrambe le cose o, peggio, curatore degli stivali dei suddetti. Tutto in sintonia con i gusti personali del discutibile direttore artistico di turno (artistico, appunto, eppure ben poco culturale). L’indirizzo, anzi, l’obiettivo mi pare chiaro e perfettamente in via di conseguimento. Continuiamo così, barattiamo ciò che abbiamo con ciò che non ci serve affatto.

    Tutta l’Italia è paese. Anzi, tutto il paese s’atteggia a mondo. Cade a pennello il modo di dire delle nostre parti, “ni tìani munnu!”, che si rivolge di solito a chi ostenta ricercatezze, fisime o vittimismi smisurati. Nel frattempo, e prima che sia tardi, fatevi un regalo: andateci, a Nocara. Godetevi con estrema lentezza i tornanti che scendono giù per i suoi dirupi, in direzione Oriolo-Montegiordano, mentre qualche rapace vi volteggia in testa. State tranquilli, non ce l’ha con voi.

    Nocara, vista da sud

     

  • “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    “Opera” di Tresoldi come la torre di Pisa: l’ironia del web travolge le colonne

    Dovevano essere un’attrazione culturale e caratteristica. Qualcosa di “Instagrammabile” anche per chi viene da fuori. Stanno diventando l’emblema della vocazione turistica che fallisce miseramente per Reggio Calabria e il suo hinterland. Sono le colonne che rappresentano “Opera”, dell’artista Edoardo Tresoldi. Oggetto di arrampicata da parte dei topi in estate. E quasi divelte dal vento, nella stagione invernale.

    L’Opera di Tresoldi (ma da 950mila euro)

    Eppure l’installazione artistica, inaugurata due anni fa sul lungomare Italo Falcomatà di Reggio Calabria, era stata presentata in pompa magna. Non senza polemiche, dato che le 46 colonne commissionate dal Comune e incastonate all’interno di un’area verde panoramica a pochi metri dal mare dello Stretto, erano costate ben 950mila euro.

    “Opera è un monumento alla contemplazione attraverso cui il luogo definisce ulteriormente se stesso” si legge sul sito ufficiale dell’artista Tresoldi. Che attraverso la rete metallica e lo studio della trasparenza ha voluto esaltare la bellezza dello Stretto, con il colonnato permanente.

    L’arrampicata dei topi

    Un’idea di marketing territoriale, che per un po’ ha anche funzionato. Proprio tra quelle colonne in fil di ferro, infatti, è girata una parte del videoclip “Kiss me again”, realizzato dal celebre musicista Giovanni Allevi a Reggio Calabria.

    Ma la magia sembra essere svanita ben presto. Quest’estate, infatti, sono diventate virali le immagini che immortalavano un topo arrampicarsi lungo l’installazione artistica. Polemiche social e politiche, per attaccare l’allora Amministrazione comunale del sindaco oggi sospeso Giuseppe Falcomatà sullo stato di degrado del centro cittadino. E sull’incuria con cui viene conservato il patrimonio artistico.

    Le colonne piegate

    Qualcuno ha parlato di “colonna infame” di manzoniana memoria. Le forti raffiche di vento che negli ultimi giorni hanno interessato la città hanno infatti danneggiato l’installazione. Non repentinamente, ma per giorni e, inizialmente, nel disinteresse generale.

    Almeno due delle 46 colonne ideate da Tresoldi, infatti, hanno iniziato ad ondeggiare. Infine, il cedimento strutturale che ha spinto l’Amministrazione Comunale a chiudere tutta l’area interessata per motivi di sicurezza. Quell’area, che doveva essere un fiore all’occhiello panoramico, ora è transennata.

    La posizione ufficiale del Comune

    Attraverso una dichiarazione ufficiale diramata dal sindaco facente funzioni Paolo Brunetti, il Comune di Reggio Calabria precisa di aver comunicato all’artista le criticità emerse sul complesso monumentale. Lo stesso staff tecnico di Tresoldi – sempre a detta dell’amministrazione comunale – avrebbe già visionato le parti danneggiate.

    «È stato inoltre programmato l’avvio dell’intervento di revisione dell’intera struttura e contestuale verifica delle cause che hanno determinato la problematica», dicono ancora da Palazzo San Giorgio.

    L’ironia sul web

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    Lo striscione affisso dal Nuovo Fronte Politico

    Ovviamente, tutto ciò ha causato anche polemiche politiche. Il movimento di destra Nuovo Fronte Politico ha anche affisso uno striscione – “Via col vento” – nei pressi dell’installazione. Eterna disputa tra chi definisce uno spreco i soldi spesi dal Comune per “Opera”. E chi giustifica il danneggiamento, portando ad esempio i danni causati dal vento anche in altre città d’Italia.

    Ma, più interessante, appare l’ironia social, che ha scatenato le pagine satiriche maggiormente seguite. I paragoni con la Torre di Pisa (e non solo) si sono sprecati. A sbizzarrirsi un po’ tutti: da “Lo Statale Jonico” al “Reggino Imbruttito”.
    Insomma, da installazione “instagrammabile” a meme ironico il passo è stato tragicomicamente breve.

     

  • Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    La Storia incrocia la Statale 106 a Kaulon, oggi Monasterace. «Il Mosaico del Drago compie 10 anni – sostiene Francesco Cuteri, archeologo e professore all’Accademia dei Beni culturali di Catanzaro – e mi auguro che, per ricordare questo simbolo del sito di Kaulon, quest’estate ci sia una serie di eventi specifica e articolata per far conoscere la sua storia. È un luogo che ha bisogno di cura e attenzioni e con una protezione sarà sicuramente al riparo dal maltempo».
    Era il settembre 2012 quando a Monasterace Marina un team di archeologi, tra cui proprio Cuteri, realizzò una scoperta unica. Si trattava di un grande mosaico policromo figurato con animali marini che si affrontano. Oggi il solito immobilismo tutto calabrese rischia di pregiudicare una meraviglia tornata da un passato lungo due millenni.

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    Museo archeologico “Casa del Drago”, soglia della camera da pranzo con il mosaico del drago marino

    Le terme nella vecchia polis

    «L’edificio termale – ci spiega la ex direttrice del museo, Maria Teresa Iannelli – di cui il mosaico costituisce il pavimento dell’ambiente con piscina per bagni riservati agli uomini, è particolarmente monumentale ed articolato. Mostra analogie con quelli identificati a Velia, Locri, Gela e Megara Hyblea e, soprattutto, Morgantina». La struttura è denominata «le “terme di Nannon” – continua la Iannelli – per la presenza di un’iscrizione rinvenuta sul bordo di un bacile in terracotta. Potrebbe identificare in Nannon l’architetto delle terme. Nella sua prima fase è stata datata alla seconda metà del IV sec a.C. e rientra nella nuova organizzazione urbanistica di cui si era dotata la polis achea in seguito alla distruzione operata dai Siracusani nel 389 a.C. La trasformazione in edificio termale è successiva al primo impianto ed è stata datata nel corso della prima metà del III secolo a.C».

    Il calcare ha protetto il mosaico

    Il mosaico dei Draghi e dei Delfini, spiega ancora Iannelli, «era coperto dal monumentale crollo della volta a botte dell’ambiente H, le cui componenti, in corso di rilievo e di studio da parte degli archeologi che hanno condotto lo scavo, hanno permesso di delineare interessanti analogie con il sistema di copertura proposto per il calidarium delle terme di Fregellae (II secolo a.C.). Così come di far ipotizzare che la struttura di Kaulon, vista la più alta cronologia, ne rappresenti in un certo senso l’archetipo. Proprio la presenza dei tanti elementi in calcare ed in laterizio all’interno del vano ha permesso di sigillare il mosaico garantendone, anche per lo strato di calcare che vi si è depositato, una perfetta conservazione».

    Il drago sotto la sabbia

    Coperto ancora con sabbia fin dalla scoperta per tutelarlo, il mosaico è visitabile dal 2018 con aperture straordinarie e tour guidati nei mesi estivi. Nel 2020 l’incertezza dovuta alla pandemia costrinse a mettere in dubbio le visite. Cuteri, che è anche una delle guide al mosaico, per protestare si era sfogato su Fb: «Perché interrompere un ciclo? Non è mia abitudine andare allo scontro, qualcuno dice che voglio mettermi in mostra. Tra l’altro scoprendo dalla sabbia il mosaico si verificano anche le sue condizioni».

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    Cuteri circondato da turisti in occasione della riapertura straordinaria del 2018

    Un laboratorio di ricerca per gli studiosi

    Secondo le più recenti ricostruzioni scientifiche a fondare l’antica Kaulon addirittura nel VII secolo a.C. sarebbero stati coloni provenienti dalla regione greca dell’Acaia. I resti della polis, identificata dall’archeologo Paolo Orsi con la località Punta Stilo a Monasterace Marina, in provincia di Reggio Calabria, sono più in generale un laboratorio di ricerca straordinario in cui più atenei si sono confrontati sotto l’egida della Soprintendenza. Dalla Normale di Pisa alla tedesca “Johannes Gutenberg” di Mainz, fino alle università calabresi. Sono arrivati risultati importanti che hanno parzialmente riscritto la storia della colonia. Qui gli archeologi hanno portato tanto altro alla luce e ora lo si può conoscere visitando il Museo dei Bronzi di Reggio Calabria e l’Antiquarium a Monasterace Marina.

    Il parco archeologico dell’antica Kaulon

    Le terme con il mosaico dei draghi e dei delfini e tutta l’area archeologica con i resti di Kaulon erano parte di una piccola città magnogreca che si affacciava sul mare. Si estendeva sulle pendici delle colline retrostanti, dove correva la cinta muraria della città. Il tempio dorico fu ben presto acquisito al demanio dello Stato, mentre la fascia di abitato antico lungo il litorale è stata acquisita dopo il 2000 dal Comune di Monasterace. L’area statale e l’area comunale costituiscono il parco archeologico dell’antica Kaulon, insieme al museo archeologico nazionale, ospitato in una sede di proprietà comunale, ubicati sul lato sud del moderno paese, nelle immediate vicinanze del faro di Punta Stilo.

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    Un particolare del tempio nel museo di Kaulon

    Un parcheggio nella Storia

    Avvolta da mare, 106 e ferrovia jonica, l’area tutelata non è stata ancora recintata completamente e il sistema di videosorveglianza è in attesa solo di essere montato. La collocazione del sito ne rende difficile la gestione. Serve un piano più ampio per consentire una visita integrata al museo e renderlo accessibile a tutti. Occorre anche mettere in sicurezza un passaggio diretto sui binari ferroviari. I pannelli didattici che dovrebbero informare i turisti sui resti della polis sono vecchi e rovinati. In estate parte del sito è utilizzato come parcheggio da qualche bagnante in cerca di un posto più vicino alla battigia.

    Auto in sosta nel parco ad agosto 2021

    Non c’è chi stacca i biglietti del museo

    Dopo un sopralluogo a novembre il museo è anche stato serrato al pubblico. In senso più ampio la Direzione regionale Musei, affidata pro tempore a Filippo Demma, ha segnalato criticità ai piani alti per il venire meno di alcuni servizi esternalizzati – tra cui la gestione della biglietteria – che riguardano anche Kaulon. Comunque, per avviare i lavori di “risanamento” del museo, finanziati dall’Ue con 300mila euro, il Comune ha già approvato la progettazione finale.

    Alcuni inverni fa, purtroppo, a causa della erosione costiera il mare ha fatto gravissimi danni al sito. Un’interrogazione parlamentare ha aperto un faro sulla reale condizione di Kaulon. Sono visibili oggi alcuni passaggi realizzati negli ultimi tempi per dare maggiore decoro alla Storia. Il museo è stato dotato di un bookshop e di una biglietteria (in attesa della riapertura e dell’affidamento della gestione), in estate – come spiegato – è visibile il celebre mosaico. L’area marina antistante il sito è stata preclusa alle barche dagli enti competenti e il sito è stato in parte protetto dal mare con opere di difesa costiera.

    Quasi 5 milioni di euro per Kaulon

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    Monasterace, complesso archeologico subacqueo

    Se i soldi non mancano per il museo, ce ne sono altri comunitari per il Parco in attesa di essere spesi. In una più ampia strategia specifica per la Calabria, che prevede importanti stanziamenti, il Pon Cultura e sviluppo 2014/20 ha stanziato, infatti, 1 milione e mezzo di euro per “valorizzare gli attrattori culturali di Kaulon”. È in cantiere poi un intervento da oltre 3 milioni di euro. Con questi soldi dovranno essere messe in rete aree archeologiche sommerse e musei che conservano reperti di provenienza subacquea. Si tratta di un programma, chiamato Musei di Archeologia Subacquea. La misura prevede l’adozione di soluzioni tecnologiche innovative tra Monasterace, Crotone, Bacoli in Campania, Manfredonia e Fasano in Puglia.

  • STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    “Qui non si gode immunità”. Così recita una lapidetta ottocentesca sulla facciata di una chiesa a Morano Calabro. A pensarci bene, messa lì, sulla metaforica porta d’ingresso della regione, oggi suona quasi come un monito: “benvenuti in Calabria, a vostro rischio e pericolo”. Si scherza, ovviamente, ma, d’altro canto, a poche centinaia di metri da lì non venivano esposte le teste dei briganti infilate sulle colonnette ai margini della strada? Senza farla lunga, il fatto è che a cavallo tra Sette e Ottocento la Chiesa e il Regno di Napoli concordarono che taluni luoghi di culto fossero esenti dal dover garantire il rifugio ai colpevoli della maggior parte dei reati.

    Morano Calabro. Iscrizione ottocentesca sulla facciata di una chiesa (Foto L.I. Fragale)

    La Calabria come un’isola

    E però oggi, in tempi di ambite immunità di gregge, questa iscrizione suscita pure qualche riflessione in più. Lo annotavo due anni fa, all’alba del lockdown: «La Sicilia chiude. La Sardegna chiude. La Val d’Aosta idem. Se si escludono due spiagge, due fiumare, due linee ferroviarie, porti e aeroporti, un numero indefinibile di sentieri escursionistici, fiumiciattoli e strade sterrate, gli unici accessi alla Calabria sono 1 autostrada, 3 strade provinciali, 4 statali e circa 14 comunali. Una ventina di strade. Quest’è tutto. Intelligenti pauca».

    E, di riflessione in riflessione, viene pure da pensare a quanto in realtà la Calabria sia, sì, geograficamente peninsulare, ma forse assai più intimamente insulare: una metaforica isola vera e propria, tagliata fuori dal resto d’Italia da quell’enorme sipario roccioso del Pollino, che per secoli deve essere stato un discreto deterrente rispetto alla possibilità di fare due passi più a Nord. Lo guardavi da Sud e probabilmente ti passava la voglia di valicarlo. Volendo esagerare si potrebbe dire che è molto più insulare lei che una stessa Sicilia, appiccicata com’è questa a Villa San Giovanni e quindi al ‘continente’ (ponte o non ponte, visto che qualcuno attraversò lo Stretto a nuoto, e ahilui non in omaggio all’Horcynus Orca).

    Il massiccio del Pollino visto da Sud

    Ancora una riflessione, alla quarta potenza: mi pare che la perifericità del Sud (tutto) faccia sì che involontariamente, inconsapevolmente, i suoi abitanti abbiano maggiore conoscenza della geografia rispetto ai settentrionali. Un paradosso, ma come a dire: necessità fa virtù. Se non fosse che resta molto spesso una conoscenza, appunto, confinata al bisogno: meramente istintiva e perciò acritica.

    La prima grande strada della Calabria

    Ma, dicevo, il sipario roccioso: se ne riconoscono a memoria, da sinistra a destra, le cime principali. La rotondità di Serra del Prete, la piramide del Pollino, il triangolo isoscele della Serra Dolcedorme, la linea lunga della Manfriana e poi le rupi sopra Frascineto, e ancora più a destra le obliquità taglienti del Monte Sèllaro

    Eppure a valicare questo massiccio ci riuscirono – ovviamente prima di Cristo (a quei tempi non servivano i miracoli. Nemmeno per i Lavori Pubblici) – con la Via ab Regio ad Capuam, o Popilia, la prima (e ultima?) grande strada calabrese, di cui oggi l’autostrada ricalca paro paro (o giù di lì) tutto il percorso, quantomeno dallo “svincolo” di Nerulum (…), addirittura più di quanto l’avesse ricalcato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) che, a differenza della Popilia, oggi sopravvive leggermente meglio e in più punti.

    Trattorie e McDonald’s

    L’ho voluta percorrere praticamente tutta, questa qui, da Salerno a Palermo, in due sole ed estenuanti tappe, perché lo dico spesso: l’autostrada sta alle vecchie strade come un McDonald’s sta a una trattoria. E mi pare sufficiente. Eppure anche nei luoghi più impensati non c’è verso di salvarsi da certe ovvietà, da certi appiattimenti subculturali inutili, se non altro: perché bisogna chiamare “via Posillipo” un pezzetto della vecchia Strada Regia, peraltro in piena montagna?

    Appena un pezzo di strada si infila in un tessuto urbano o, meglio, viceversa: appena un tessuto urbano cresce e ingloba un pezzo di strada antica e usurpa dignità di Comune sopra o sotto gli X abitanti, ecco tutto un fiorire di toponomastica e odonomastica da brivido. In Calabria come altrove. Ricordo, in un paesino nel mezzo del ridente Polesine (sì, certo che è ironico) una stradina intitolata a Eduardo De Filippo. Anzi: ovviamente ad Edoardo. Con la o. C’era da aspettarselo: ‘l male, ‘l malanno e ‘l danno all’uscio, direbbero nel senese.

    Non divaghiamo: questa vecchia strada, questa spina dorsale viaria (e scoliotica assai) c’è più o meno tutta, non è scomparsa. Basta cercarla e trovarla senza cascare nei tranelli (sfogliatelo almeno, vi prego, lo straordinario volume di Luca Esposito, La Strada Regia delle Calabrie. Ricostruzione storico-cartografica dell’itinerario postale tra fine Settecento e inizio Ottocento da Napoli a Castrovillari, st. Marostica, 2021).

    La Dirupata

    Certo, ricordo il tratto campano chiuso per frana (Petina-Polla), un brevissimo tratto lucano (ingresso da Nord nel centro abitato di Lagonegro) ufficialmente riservato ai residenti, e quindi tutto il tratto in Calabria da Laino a Mormanno, ufficialmente chiuso per frana ma regolarmente utilizzato dai locali (almeno al 2014). Poco più oltre si giunge a Campotenese, ignorando un incrocio per una sorta di sentiero dorato da Mago di Oz, che conduce verso luoghi di cui parlerò un’altra volta. E si arriva così alla famigerata Dirupata, a nord-ovest di Morano.

    La Dirupata nuova (in basso a sx) e ciò che resta della vecchia (a dx). In fondo, l’autostrada

    La Dirupata antica è però fuori uso da almeno 60 anni: se ne intravede qualche tratto dalla Dirupata nuova, che vale comunque la pena di percorrere come surrogato di un ‘battesimo stradale calabro’. Quella vecchia, che sopravvive zigzagando sterrata rispetto al tracciato della nuova, è stata invece l’incubo di generazioni di palafrenieri, postiglioni, viaggiatori di ogni specie.

    Il miglior modo di viaggiare in Calabria

    Ripidissima, quasi sempre innevata, quasi a strapiombo sulla vallata sottostante. La gente ci moriva, le ruote schizzavano fuori, le diligenze scivolavano a valle tirandosi dietro cavalli e passeggeri. C’è un quadro ispirato proprio a questo luogo. Lo dipinse il calabrese Andrea Cefaly, nel 1866, e lo intitolò Il miglior modo di viaggiare in Calabria. Con dedica (si fa per dire) al Ministro dei Lavori Pubblici (all’epoca il lombardo Jacini, conte di Casalbuttano…).

    Andrea Cefaly, “Il miglior modo di viaggiare in Calabria”, 1866

    Eppure su questa strada sono passati tutti. Tutti, fino alla costruzione dell’autostrada. Che, se ci pensate bene, tanto remota non è. Tutti ci sono passati ma nessuno più se la ricorda. È stata percorsa da briganti, truppe militari, addirittura da quei carcerati tradotti a piedi, da regnanti, dagli stranieri del Grand Tour, da tutti i giovani che per secoli sono andati a studiare a Napoli (compresi tutti i nomi nostrani più celebri) e da chiunque avesse voluto o dovuto per ogni ragione dirigersi da una capitale all’altra, da Palermo a Napoli e viceversa.

    Vita da nobili

    E tra questi quel danaroso viaggiatore calabrese che nel 1836, di ritorno da un lungo giro dell’Europa, si fece comodamente trasportare addirittura in lettiga, mica in carrozza, da Morano fino ad Amendolara perché, scriveva, “questo modo di viaggiare è molto comodo nei paesi in cui non vi sono strade carrozzabili”. Più che giusto, noblesse oblige, caro il mio Alessandro Mazzario. E si chiude il cerchio, tornando a parlare di pandemie ed epidemie, perché lo stesso giovane calabrese scampò il colera di quegli anni (il colera che non risparmiò Leopardi, per intenderci).

    Viaggiare in lettiga
    Viaggiare in lettiga

    Durante la quarantena dentro a un lazzaretto si invaghì prima della figlia del luogotenente di guarnigione. Quindi conobbe due gradevoli imprenditrici toscane che avevano appena inaugurato una loro cappelleria a Madrid. Poi conobbe Edward Leeves col quale scambiava libri. Infine, si invaghì di una cameriera russa: “[…] Vi son poi due cameriere piuttosto graziose, e bastantemente svegliate per essere Moscovite. L’una di esse mi sorride tutte le volte che la guardo, e par che abbia gran voglia di farmi ricominciare la quarantina […]”. Insomma: quando si dice “prenderla con filosofia”.

    Il guardiano dell’autostrada

    Poco più oltre vale la pena di lasciare un attimo la Strada Regia, e perdersi nelle campagne di Castrovillari – prima di raggiungere la zona delle Vigne, una sorta di miglio d’oro senza mare –, tra le masserie di contrada Cutura, per arrivare fino al convento di Colloreto che tra Sei e Settecento pare fungesse da copertura per ospitare non tanto dei monaci ma qualcosa di equivalente ai Servizi segreti d’oggi, intenti a controllare ogni tipo di traffico obbligato sulla Strada Regia.

    Masserie in contrada Cutura di Castrovillari (foto L.I. Fragale)

    Il convento-fortino, con torre di vedetta anziché consueto campanile, si è salvato – per modo di dire – dalla costruzione dell’autostrada e dal recente ampliamento della stessa. Rudere silenzioso, resta a guardia pure del traffico e del suo rumore costante. In una specie di mise en abyme cronologica, le gallerie dell’autostrada si possono scorgere, tristemente, attraverso brecce e finestre, tra le sue mura di pietra a secco. Una ferita sacrificata per quale progresso?

     

  • Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    Orsomarso e i suoi segreti nel cuore della montagna

    A Orsomarso, meno di 1.200 anime nel nord della Calabria, il mare non c’è. Chi vuole goderselo va nelle vicinissime Santa Domenica Talao, Santa Maria del Cedro o Scalea. Ma, al riparo del turismo di massa, c’è un attrattore potenziale per un pubblico più specializzato ed esigente: la parte meridionale dell’Appennino Lucano, nota come Monti di Orsomarso, meno alti del Pollino, ma altrettanto massicci.

    E poi ci sono i loro tesori nascosti, accessibili solo agli appassionati più spericolati e qualificati: gli speleologi. Parliamo di grotte che si aprono sulle pareti dell’Appennino e si inabissano a grande profondità. Una in particolare, che si affaccia sul Pianoro di Scarpuri, è una cosiddetta “risorgenza”, cioè una sorgiva montana da cui emerge un fiumicattolo sotterraneo. È profondissima, circa 70 metri. L’altezza di un edificio. E non è un caso che si chiami Risorgenza Palazzo.

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    Esploratori in azione tra le viscere dei monti dell’Orsomarso

    Un mistero a metà

    L’esistenza di questa grotta, spettacolare non solo per le dimensioni, non era un segreto: non a caso è regolarmente censita da anni nei registri del catasto.
    Quel che non si conosceva e che è emerso solo di recente è la dimensione enorme e, soprattutto, la disposizione particolare e articolata di questa cavità, che è un’opera sofisticata di architettura naturale, lavorata per millenni dai corsi d’acqua e tuttora di difficile accessibilità e in parte inesplorata.
    La prima esplorazione seria risale al 2017 ed è opera di due gruppi di speleologi: Le forre del Tirreno, già protagonista di altre scoperte importanti, e Mercurion,
    Ma com’è fatta questa grotta? E, soprattutto, quali sono i suoi misteri?

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    L’ingresso del sifone sotterraneo

    I segreti della montagna

    L’ingresso è un triangolo piuttosto ampio nella parete della montagna, da cui sgorga un fiumiciattolo che finisce nella valle.
    La cavità iniziale è piuttosto ampia, circa 100 metri, e si sviluppa in orizzontale. Alla fine di questo antro c’è una biforcazione particolare che obbliga gli esploratori a improvvisarsi, rispettivamente, alpinisti o sub.
    Il primo percorso, sconsigliato a chi è sovrappeso o non ha capacità atletiche decorose, porta a una stanza superiore, raggiungibile con un’arrampicata su corda di 12 metri. La fatica vale la pena, perché il paesaggio è davvero spettacolare ed evoca immagini a metà tra il film horror e il Paradiso Perduto.

    Speleologi si calano nel corridoio sotterraneo della grotta

    I padroni di casa sono i pipistrelli, disturbati a malapena dai ragni delle grotte e da piccoli invertebrati, che si dividono un ecosistema costituito da un laghetto che genera piccole cascate. Il tutto in un tripudio di “concrezioni”, cioè di stalattiti, stalagmiti e vele, scolpite dal lavorio incessante dell’acqua sul calcare delle rocce. Proprio la presenza di pipistrelli, spiega Paolo Cunsolo, il presidente de Le forre del Tirreno, fa pensare all’esistenza di un secondo passaggio sulla parete della montagna, che gli speleologi stanno tuttora cercando. La vera sorpresa, tuttavia, è al piano più basso.

    Un mondo a parte

    «Qui c’è un mondo intero», ha esclamato Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia e autore della scoperta, avvenuta a settembre 2017 nell’Appennino lucano che parla calabrese. Torniamo alla biforcazione del piano terra per capire meglio. Oltre che scalare con le corde, si può proseguire dritti, ma in questo caso la situazione si complica, perché la grotta termina in un sifone pieno d’acqua. Per esplorarlo, Greco ha dovuto indossare muta e bombole. Per fortuna, il condotto non è lunghissimo (circa 5 metri), tant’è che il resto del gruppo lo ha percorso in apnea.

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    Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia, si muove all’interno del sifone

    La grotta nel cuore dell’Appennino lucano a cui si accede è l’elemento più spettacolare della struttura: 400 metri di superficie e di ampiezza ancora non calcolata, perché, spiega Cunsolo, «le torce riescono a malapena a illuminare parte della cavità».
    In parte, ricorda la cavità superiore, solo che è tutto più ampio e non ci sono pipistrelli. E tutto lascia pensare che gli esploratori del 2017 siano i primi esseri umani che ci hanno messo piede. Ma c’è un’altra sorpresa, ancora tutta da scoprire.

    Fango, acqua e freddo nelle grotte dell’Orsomarso

    La terza grotta 

    Anche questa seconda grotta termina con un sifone. Il che indica che le acque sotterranee hanno un percorso piuttosto lungo, caratterizzato da altre importanti cavità. Alla fine di questo sifone, racconta ancora Cunsolo, potrebbe esserci una terza grotta, forse grande come quella scoperta di recente nel Pollino. Ma raggiungerla può essere davvero difficile e più rischioso. E non è improbabile che l’impresa richieda l’impegno di speleologi subacquei. Una sfida importante per specialisti che non temono i pericoli ma li conoscono benissimo. Chi la raccoglierà?

  • “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.

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    Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea

    Il progetto della funivia

    Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.

    Zona protetta

    Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.

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    Un grifone in volo sull’Amendolea

    Rette parallele

    «Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».

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    Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)

    E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».

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    Leo Autelitano, presidente del Parco

    E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».

    Le associazioni contro la funivia

    Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.

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    Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto

    «Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».

     

  • La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    Più di dieci anni di cantiere, un capitolato di spesa lievitato fino all’inverosimile e uno status di servizio breve e un po’ deprimente, prima dello svuotamento e del sostanziale abbandono in cui versa da quasi dieci anni: la storia della diga sul Lordo, invaso artificiale alle spalle di Siderno, è lunga e piena di inciampi. Pensata per soddisfare il fabbisogno irriguo della Locride e costruita – assieme alla “gemella” sul Metramo, sul versante tirrenico d’Aspromonte – dal consorzio di imprese Felovi (acronimo per Ferrocemento, Lodigiani e Vianini), la diga, di proprietà regionale ma gestita dal consorzio di bonifica dell’alto Jonio reggino, avrebbe dovuto garantire il fabbisogno d’acqua dei numerosi paesi a vocazione agricola del territorio e implementare, di molto, la capacità di acqua potabile disponibile. Ma è diventata, in attesa dell’ennesimo finanziamento, un enorme catino vuoto e desolante.

    Cancelli chiusi dopo la chiusura del 2013

    Vent’anni dopo…

    Partito nel 1983, il cantiere per la costruzione dell’invaso artificiale – i fondi li mette la Cassa del Mezzogiorno – procede a mozzichi e bocconi. Per dieci anni ingloba una serie di terreni agricoli e vecchi poderi che si trovano nella piccola valle di contrada Pantaleo. Nel 1993, pochi metri alla volta, l’acqua inizia a confluire nel catino appena costruito. Arriva dal Lordo, piccola fiumara che vive praticamente solo dell’afflusso delle acque piovane. E a farle compagnia c’è quella del Torbido, grazie ad una condotta sotterranea lunga più di 9 chilometri che si collega nel comune di Grotteria, poco più a nord.

    Le operazioni di parziale riempimento e di collaudo vanno avanti per quasi 10 anni fino al raggiungimento dei 9 milioni di metri cubi di acqua che rappresentano il limite massimo a pieno regime. Dalla posa della prima pietra sono ormai trascorsi quasi 20 anni. I costi sono lievitati fino a 70 miliardi e del progetto iniziale è sparita una buona parte. Nessuno ha realizzato le condotte previste che avrebbero dovuto rifornire di acqua ad usi irrigui i paesi a nord e a sud dell’impianto. La diga si limita, per i pochi anni in cui è rimasta in esercizio, a rifornire solo le campagne di Siderno, che del territorio è il comune con meno vocazione agricola.

    L’oasi e la cattedrale

    Poco dopo la messa in esercizio dell’invaso, partono anche i lavori per la potabilizzazione delle acque che dovrebbe “ripulire” parte del carico della diga prima di ridistribuirlo nelle reti dei comuni vicini. L’impianto viene costruito proprio di fronte alla muraglia artificiale che chiude la valle, sotto uno dei viadotti della nuova 106. Finiti i lavori però, la struttura, di proprietà della Sorical, non è mai entrata in funzione. Da anni rimane inutilizzata, ennesima cattedrale nel deserto della Locride.

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    Nonostante i mille problemi funzionali però, il nuovo lago artificiale piace. Incastrata sotto Siderno superiore, affacciata allo Jonio e circondata da una natura prepotente, la diga diventa presto uno dei posti più frequentati del comprensorio. Appassionati di trekking, pescatori, cultori del jogging e della mountain bike: le colline di questo pezzo di Calabria si popolano di turisti e cittadini e anche molte specie di uccelli migratori iniziano a fare tappa fissa sulle acque del Lordo durante le loro migrazioni da e verso l’Africa. Le associazioni cittadine più volte avevano lanciato la proposta dell’istituzione di una oasi naturalistica – anche nel tentativo di fermare i cacciatori di frodo che degli stormi di uccelli migratori che facevano tappa a Siderno ne avevano fatto la propria personale riserva di caccia – senza però ottenere alcun risultato.

    Danni alla diga, svuotare tutto

    I problemi veri però, iniziano nel 2013. I tecnici del consorzio che curano la funzionalità della diga si accorgono infatti di una serie di crepe nella struttura in cemento armato del pozzo dentro cui è ospitata la camera di manovra per le paratie che regolano il deflusso delle acque dalla diga. Inizialmente si pensa ad un danno superficiale ma le cose peggiorano in fretta e, poco meno di un anno dopo, in seguito ad un ispezione dei tecnici del Ministero, si decide per il progressivo svuotamento dell’invaso che viene portato al 70% della capacità massima.

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    L’invaso svuotato dopo la scoperta dei problemi per il cemento armato

    Gli ingegneri si accorgono infatti che le crepe nel cemento sono il frutto di un movimento franoso (traslazione, in termini tecnici) che interessa il costone destro dell’impianto, quello posto sotto il versante dell’antico borgo collinare di Siderno. Movimento di cui nessuno, né durante la fase di costruzione, né durante quella di collaudo e di messa in esercizio si era accorto prima. Il rischio è serio, la decisione inevitabile: se il pozzo crolla, i comandi per muovere le paratie (e quindi regolare il livello dell’acqua contenuta nella diga) diventano irraggiungibili, l’unica strada è quella di svuotare tutto. In pochissimo tempo, quella che era diventata un’oasi nel cuore della Locride, diventa terreno di conquista per discariche abusive e pascoli altrettanto illeciti.

    Un nuovo progetto per la diga

    Questa situazione si trascina da anni e si è incastrata anche con le guerre intestine all’interno del Consorzio di bonifica, retto oggi da un commissario – l’ex sindaco di Sant’Ilario, Pasquale Brizzi – nominato dall’allora presidente Oliverio e in gara per il rinnovo delle cariche previste a giorni. Ma potrebbe sbloccarsi grazie a un nuovo progetto di intervento attualmente al vaglio del Ministero per la fase esecutiva dello stesso. Vale 9,27 milioni di euro, già finanziati dal fondo Coesione e Sviluppo e approvati con delibera del Cipe, e prevede il consolidamento del costone e la ricostruzione del pozzo con la camera di manovra.

    L’invaso oggi

    La progettazione dell’intervento è andata a bando per oltre 600 mila euro ed è stata vinta dallo studio Di Giuseppe con un ribasso – unico discriminante previsto dal bando – di circa il 60%. Burocrazia permettendo – l’intero progetto potrebbe passare sotto l’ala del Pnnr, pappandosi così quasi un terzo dei finanziamenti previsti nel comparto idrico per la Calabria e strappando altri sei mesi alla scadenza massima, per non perdere i fondi già stanziati, a metà 2023 – la diga potrebbe essere rimessa in funzione entro il 2026. Sempre se, nel frattempo, l’invaso che per un breve tempo era stato un’oasi, non continui a riempirsi con spazzatura e scarti di cantiere.

  • STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    […] Successivamente a Sangineto s’è parato davanti il teatro umano più interessante, le due anime principali di quelle invasioni estive: la borghesia professionale cosentina da una parte e un pot-pourri di ceto medio, medio-basso e basso tra il partenopeo e l’avellinese. Nel mezzo, qualche fioritura di ceto medio e piccola borghesia cosentina, pure. A fare da cuscinetto o, appunto, da spettatore divertito. Le due anime di cui sopra, infatti erano a compartimenti del tutto stagni. Se comunicazione c’è stata, fidatevi, era quasi sempre fasulla. Pregiudizi da una parte, pregiudizi dall’altra (e so bene quali gli uni e quali gli altri. Ma anche quali verità).

    Tra i due litiganti

    A un certo punto, non appartenere a nessuno dei due gruppi è stato anche un salvacondotto per barcamenarsi o, più semplicemente, farsi i fattacci propri. Certo è che qualcuno dei secondi cercava di imitare i primi, mentre non ho mai visto il fenomeno contrario. Ma senza dubbio spenderei di nuovo le mie controre dei 12/13 anni come feci allora, con i peggiori scugnizzi che mi insegnavano la combinazione di tasti (e me la ricordo ancora) per scaricare tutti gli spiccioli dai telefoni pubblici, come delle slot-machine a disposizione per innocentissimi gelati o per qualche giro ai videogiochi. O assieme ai quali si improvvisavano rally in fangosissimi campi abbandonati, con Grazielle arrugginite e di fortuna: gradi di libertà.

    E altrettanto senza dubbio mi facevano piuttosto ridere (e oggi, a distanza di tempo, più pena che altro) certe mode cosentinissime: il colletto della polo alzato, la fetta di limone in quella birra lì, e soprattutto quella moda, durata per fortuna poche estati, di scendere dall’auto a piedi scalzi calcando con disinvoltura asfalto rovente e fetente – poca la differenza – davanti alle spoglie della microgattopardesca Villa Giunti, laddove pernottavano (ma ben dopo l’alba) monumentali cubiste dell’Est. Lì dove una volta c’era un ponte in pietra, quasi inspiegabile, che tirava dritto dal fianco delle chiesetta di San Michele fino al casello ferroviario ormai abbandonato.

    Azzilio, Ferrari e Doc Martens

    Ricorderei eccome nomi, volti e anche frasi specifiche. Ma a che pro? Ricordo il figlio del giudice, che non avrebbe mai messo piede in una Fiat (roba per poveracci, diceva). La nipotina di, lasciamo perdere, che quando le rubarono lo Scarabeo nuovo di zecca gliene comprarono immediatamente un altro, se no chi la sentiva… Quello che in spiaggia andava con le Dr. Martens perché così faceva più punk (molto, molto molto prima che diventassero obbligatorie già tra le ragazzine di V elementare), quello che… basta. E chissà quante cose davvero non ricordo. Pettegolezzi di 25 anni fa di cui, per fortuna, non m’importava nulla allora, figuriamoci ora.

    Ricordo articoli dell’epoca su rampolli, protettissimi dall’anonimato, invischiati in brutti giri di prostituzione d’alto bordo; le Ferrari fuori luogo, guidate da 18enni ubriachi o parcheggiate rigorosamente in bella vista (se no perché comprarne una?) nei giardini delle ville con o senza piscina, i rampolli di seconda o terza generazione, inspiegabilmente biondi (o forse molto spiegabilmente); tutti i cognomi e qualche nome (con l’incredibile incidenza di Attilio – pronunciato Azzilio – forse dovuta a endorsement trisavoleschi delle gesta dei fratelli Bandiera, boh, se no non si spiega). Ma non pensiate a coloriture ideologiche. Di ideologie nemmeno una lontana ombra, né da una parte né dall’altra. Superficialità, invece, quanta ne cercavate.

    Il finto carnevale bruziopartenopeo

    Uno squarcio in questa tela periodicamente imbrattata a tinte bruziopartenopee fu, ricordo, nel pieno dell’estate del… ’90?, un funerale tutto sanginetese. Dal primo piano di una casa del Lido, la salma mosse giù per la scala esterna, e portata in processione per il lungomare, con tanto di banda al seguito, come piace a me. E i turisti zitti, finalmente. A cuccia. Davanti a certe faccende è doveroso che riemerga una tacita gerarchia naturale: territoriale, prima ancora che sociale. Ecco perché dico che se volete capire Sangineto dovete andarci quando sveste gli abiti estivi, di quel finto carnevale di eccessi e di divertimenti certamente più sbandierati che reali. Dopo che gli acquazzoni di fine agosto ripuliscono il marcio del turismo e scacciano finalmente i villeggianti in città, a meritati calci nel sedere assieme alle loro chiacchiere da spiaggia, alle loro incoerenze involontariamente militanti e al loro vuoto a perdere.

    La vecchia natura di Sangineto

    È allora che riemerge lentamente la vecchia natura del posto, anche dell’unica contrada che il Comune ha sul mare: quella Contrada Le Crete dove alla fine dell’Ottocento furono addirittura scoperti resti di mammut (e chi volete che lo sappia?). Qui, da metà settembre, nell’unico bar che resta aperto anche fuori stagione riaffiorano i volti locali, gli uomini che tornano ai tavoli che occupavano – direi di diritto – negli altri dieci mesi, con le loro birre e i loro mazzi di carte. E, nel periodo consentito, si può vedere uscire in barca don Pietro con le frasche per preparare i cannizzi per le lampughe.

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    Sangineto Lido, prima metà del ‘900

    Il bar, dicevo: niente pubblicità, per carità, tanto uno ce n’è. Quel bar che è praticamente un faro, unica lucina accesa sul lungomare d’inverno. Una sicurezza, un’istituzione. Da Patrimonio Unesco: lo troverete aperto fino a mezz’ora prima di cena, il 31 dicembre. E di nuovo aperto il 1° gennaio, con tanto di alberello di Natale sul marciapiede, provare per credere. Molto più di un bar: una garanzia, quasi un servizio sociale, un approdo per naufraghi (in senso molto lato), con la signora dall’occhio vigile che ha visto crescere generazioni di bambini e bambine, poi adolescenti, risate e pianti.

    La festa è finita

    Poi a un certo punto (ora non ricordo bene l’anno ma fu una cosa nettissima, da un’estate all’altra) i riflettori si spensero in modo drastico. Dove ad agosto faticavi letteralmente per fare due passi nella folla, ora a mezzanotte contavi le persone sulle dita delle mani. Ricordo che si erano spostati tutti a Diamante, mi pare. Sarò maligno io, ma mi pare che la festa finì – così come finì per il tentativo di rinascita di Cosenza vecchia – quando morì Mancini. E in fondo tutto tornerebbe. Nascita, apogeo e morte di un fenomeno sociale. E nonostante l’ex voto dell’intitolazione a Mancini di un bel pezzo di strada sanginetese, vi fu sì una ripresa, lenta, difficile, ma mai in grado di eguagliare i numeri di prima. Soltanto mera emulazione dell’emulazione dell’emulazione: i ventenni di oggi, per il poco che veda, sono enormemente diversi dai ventenni di vent’anni fa. Come lo eravamo noi rispetto a paninari, yuppie rampanti & coevi, come lo erano questi dai pionieri fortunati di quindici anni addietro.

    I disonori della cronaca

    Più di recente, Sangineto cadde pure temporaneamente nei disonori della cronaca: Angelo era un cane e fu ucciso a sassate da un gruppetto di giovani sciaguratelli del paese. Non so come sia finita la storia, mi auguro abbiano dovuto prestare servizio gratuito (e controllato) in qualche canile, come minimo. O costruire con le proprie mani un monumento al malcapitato. Ma ovviamente da questa faccenda sortì tutta una stupida stigmatizzazione generica: indirizzata ai paesani tutti, prima, poi ai calabresi tutti, poi ai meridionali, poi agli italiani, a seconda della voce narrante. Solita sindrome del giudizio facile.

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    La statua di Angelo nel rione Monteverde a Roma, vittima della stupidità umana come il cane a cui è dedicata

    Sangineto plurale

    È come se ci fossero due Sangineto: non il paese e la marina, no. Ma da una parte quella di luglio e agosto, e dall’altra quella degli altri dieci mesi. Nella prima non metto piede da una decina d’anni. Nella seconda torno appena posso. Perciò, sia chiaro, non c’è assolutamente nostalgia in ciò che leggete, anzi. Semmai un’autoaccusa, in un certo senso, sia della mia passata natura – seppur scettica – di villeggiante, sia del mio attuale (ab)uso di dimestichezza da finto residente.

    Torno nei momenti più impensabili, a perlustrare per controllare che sia ancora intatto l’abbandono totale di certi minuscoli paradisi rurali scampati alla cementificazione a suon di smottamenti e disoccupazione. Di frane ed emigrazione. E di una spolverata di colpevole ignoranza. Toponimi che non dicono più niente nemmeno ai figli di chi è rimasto. Nemmeno a chi è rimasto, a rimbambirsi per decenni davanti alla tv. Relitti di un equilibrio perduto, magari non magnifico ma funzionante.

    Varese, Venezia, Courmayeur

    I sanginetesi emigrati, che tornano per l’estate (se va bene), hanno accento di Varese, perché dagli anni ’60 in poi se ne sono andati lì a frotte. Ogni paese, al Sud, ha la sua testa di ponte al Nord. Per Sangineto è Varese. Per Belvedere fu Courmayeur (ebbene sì: fatevi un giro nelle campagne di Belvedere, contate quante vecchie auto vedete targate AO e non sorprendetevi. Le belle baite alpine e gli chalet in legno della Val d’Aosta sono opera dei boscaioli arrivati dai monti di Belvedere. Anche qui: farsene una ragione. Come gli ontani usati per le fondazioni di Venezia erano – anche – quelli di Buonvicino, sopra Diamante, ottimamente refrattari a infracidirsi).

    Il sentiero dei ricordi

    Ma torniamo a noi… Il signor Pasquale, per esempio, è emigrato a 15 anni. Ogni tanto torna giù. A marzo del 2020 c’è rimasto bloccato per la pandemia. Non sapendo cosa fare s’è messo a ripulire un sentiero che da bambino percorreva per andare alla cascata dentro la grotta, in mezzo al bosco, a due passi dal paese (la cascata del Vuglio delle Forge, ed ecco ancora i toponimi a indicare le attività artigiane di un tempo, come Le Crete, qualora non bastassero – sparsi per le campagne sanginetesi – sopravvivenze di qualche carcara o di carbonaie): il sentiero l’ha trovato abbandonato, infestato dai rovi.

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    La cascata del Vuglio delle Forge

    Oggi, falce in mano, alla cascata ci accompagna gli escursionisti (sii come il Signor Pasquale, verrebbe da dire). Mi racconta che tutto quel sentiero e quelle fattorie abbandonate erano, fino a 60 anni fa, un pullulare di famiglie, bambini, lavandaie al lavoro giù al torrente, contadini inerpicati su per i pendii. «La vedi quella casa lì?» – mi fa, indicandomi una meravigliosa masseria a mezza costa, che oggi mi pare un rudere raggiungibile solo da qualche capra acrobatica – «lì ci vivevano tre famiglie». Non di quattro componenti ciascuna, immagino. Ma di quelle otto/dieci unità dove per sfamarsi dovettero inventarsi pietanze come la “cieca”, d’una povertà agghiacciante: acqua calda e farina rappresa; o la ricotta fatta con latte tagliato col latticello dei fichi.

    Sangineto, terra di nessuno

    Sangineto fuori stagione ha l’aria di un set cinematografico abbandonato, terra di nessuno pur sapendo che di qualcuno è. Ridiventa simile a tanti certi posti magnificamente desolati che ho visto in Croazia come alle Canarie (con le dovute differenze, ovvio). O come Tristan da Cunha, dove non andrò mai: l’isola più isolata al mondo, ormai famosa proprio per questo. Si trova in mezzo al nulla, nell’Atlantico (non nel Pacifico, come si potrebbe pensare: lì ce ne sono troppe perché ognuna sia sufficientemente distante dall’altra).

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    Tristan da Cunha, indicazioni per raggiungere il resto del mondo dall’isola più sperduta del pianeta

    È un’isola fredda, non una di quelle isole tropicali da pubblicità. È un’isola ostile, con poche risorse e ben poco da fare. Un bar e, fino a poco tempo fa, un solo computer connesso a internet. La posta arriva poche volte all’anno e la città più vicina, Città del Capo, sta a tre giorni e tre notti di peschereccio, se non ricordo male. Vi abitano poche centinaia di persone, tutte discendenti di naufraghi. Anche di naufraghi italiani. Nei periodi storici in cui gli uomini da matrimonio scarseggiavano, le donne invocavano qualche nuovo naufragio. Ma quando arriva qualche mero curioso allora si barricano tutti dentro casa per paura delle malattie (hanno difese immunitarie debolissime).

    Silenzio

    Ecco, io preferisco interpretare Sangineto come una personale Tristan da Cunha, senza bisogno di dover viaggiare tanto. Atlantide, in un certo senso, esiste. Ed è in tutti i luoghi che dimentichiamo, o che non abbiamo mai neppure considerato. Magari dietro casa, quelli rimasti nel silenzio. Il silenzio, appunto. Una volta la signora del bar mi chiese «ma cos’è che ti piace tanto, di qua?”. «Il silenzio», risposi. E lei: «certe volte questo silenzio è così forte che non ti abitui mai». Muto, anch’io.

  • STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    Sangineto è ciò che non si vede. E, di conseguenza, non è ciò che vedete. Tanto per cominciare non è un “posto di mare”, piaccia o non piaccia, ma semmai è un territorio pedemontano “prestato” al mare. Prestato e mai restituito, o restituito malamente e in parte, con gravi segni dell’uso. Il mare, insomma, non è nelle sue corde e per convincersene basterebbe osservare la brevità della costa sanginetese (meno di 2 km) rispetto a quelle dei Comuni immediatamente confinanti (i 5,5 km di Bonifati – per intenderci: Cittadella – o i ben 10 km di Belvedere Marittimo): una costa che sembra più il residuato di una servitù di passaggio dal paese antico verso il mare, alla foce del torrente omonimo. Ancor più se si tiene presente quella strozzatura della mappa comunale a metà tra il mare e il paese, dove la larghezza massima è di appena 500m in linea d’aria.

    Prova del nove del carattere poco balneare di Sangineto? Dal paese, in genere, il mare nemmeno si vede, se non da un paio di angoli panoramici o da qualche balcone fortunato. Non basta? Parte del territorio comunale ricade nel Parco Nazionale del Pollino. Anzi, ha il primato di esserne la punta più meridionale. Come a dire: a Sangineto crescono i pini loricati, bisogna farsene una ragione. Anzi, i loricati più meridionali d’Italia, e quindi – superando addirittura i colleghi greci – i più meridionali d’Europa (e quindi del mondo, visto che fuori d’Europa non ve ne sono). Ancora non basta? Il confine comunale orientale, quello con il Comune di Sant’Agata d’Esaro, è una linea in mezzo ai boschi lunga ben 8 km. Altro che spiagge.

    Dal re agli amici degli amici

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    Schema del sistema viario del Comune di Sangineto (1901).

    Una mappa del 1901 segnala su Sangineto un sistema viario degno di una metropoli, e pertanto difficile – ma non del tutto impossibile – da riconoscere nell’attuale teoria di strade rurali secondarie. Una cartolina degli anni ’40 mostra ben 6 vedutine del luogo: ce ne fosse una del mare, o delle spiagge… niente di niente, non se ne raffigura neppure il castello, benché in quegli anni venisse visitato finanche dal prossimo Re di maggio, con tanto di foto d’ordinanza (ben prima di diventare discoteca in libero crollo per il pubblico pagante).
    La Sangineto conosciuta è invece un’altra: è quella chiassosa – anche metaforicamente – che nacque all’indomani delle speculazioni edilizie della prima metà degli anni ’60, quando per particolari congiunture vi confluirono interessi di investitori, appaltatori e amici degli amici.

    Sangineto, fase n. 1:

    Ne nacquero prima un grande albergo con i suoi improbabili bungalow (ora smantellati, dopo anni d’abbandono) e tutto un complesso residenziale più pretenzioso che realmente elegante, chiuso tra la ferrovia, l’albergo, il torrente e il mare. E poi altre ville più su, verso la statale, su quel pianoro che la toponomastica inopportuna ha pomposamente intitolato a un antico popolo (come ad altro popolo una sua traversa) e che io continuo a chiamare così come era sempre stato indicato sulle mappe: Renga. Lì dove spuntava un piccolo casino gentilizio e ancora spunta, sebbene oggi soffocata, l’antica Torre della Finanza (in cima alla rupe sopra al vecchio mulino) diventata poi per qualche tempo una discoteca dal nome fatato. Altro che Finanza.

    Sangineto, fase n. 2:

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    Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant di un albergo del posto

    Dove già esisteva qualche sparuta casa di contadini nasce, a nord del suddetto albergo, tutta una teoria scriteriata di edifici privati, villini bi e quadrifamiliari, villette a schiera e residence di gusto non proprio eccellente che, lasciando incredibilmente sopravvivere qualche ulivo secolare, si arrampicano dalle spiagge (allora sconfinate e punteggiate di bunker bellici, ora ridotte all’osso le prime, ingoiati dal mare i secondi) fin sulla strada statale. Terreno buono per ex bambine, mie coetanee, che diventeranno mogli di comici napoletani e, oggi, per padri di calciatori in vista o finanche per il fu Coriolano, mosca bianca stufa di posarsi sulla solita cosentinità a vocali sguaiate per lui poco renzelliane.

    Di case vecchie, qui, ne resta una in particolare, nel bel mezzo della piazzetta: da almeno 30 anni imbavagliata e incatenata a un sequestro giudiziario. Fa la sua Resistenza.
    Un’altra stava sotto al curvone alla fine del lungomare: se la mangiò in pochi bocconi una mareggiata, dopo il ’66. Come tante cose qui, era dei nobili Spinelli di Belvedere, che ancora in quegli anni venivano a cavallo, spiaggia spiaggia, a riscuoterne pigione.

     

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    Sangineto Lido, danni di una mareggiata. 30 agosto 1991 (foto L.I. Fragale).

    Le mareggiate, ho detto: ammesso che Sangineto e i suoi ‘utilizzatori’ abbiano abusato del mare, è altrettanto vero che il mare, qui violentissimo, s’è vendicato a piene mani, negli ultimi decenni, distruggendo più volte case e lungomare (fotografai una mareggiata, a fine agosto di trent’anni fa che, per quanto esistessero già le massicciate a T, creò una voragine in pieno lungomare, a due passi da quella casa ora in totale abbandono ma che già allora meritava il soprannome di “casa di Beirut”, per quanto oggi sembri sul serio bombardata).

    Sangineto, fase n. 3 (abbastanza coeva alla seconda):

    Nasce Pietrabianca, straordinario esempio di quartiere-dormitorio balneare, che usurpa il nome della collina alle sue spalle. Solo villini, a due passi dalla Torre omonima, oggi abitazione privata, immersa nel bosco lungo il fiume. Per anni, ricordo, l’unico modo per raggiungere questo gruppo di case evitando la statale era una passerella di legno sul torrente, in mezzo al canneto. Al buio più totale (quel torrente che, leggenda vuole, un politico villeggiante negli immediatissimi paraggi avrebbe fatto addirittura deviare, novello proconsole imperiale).

    Mancini, pippibaudi e cotillons

    Fu così, insomma, che a Sangineto mise radici, anzi, fondamenta, prima di tutto la Cosenza manciniana: amici, collaboratori, parenti, e chi più ne ha più ne metta, si trovarono muro a muro, siepe a siepe tra di loro. Medici, farmacisti, imprenditori, avvocati, professionisti d’ogni risma acquistarono nella seconda metà degli anni ’60 quei primi cubi bianchi vagamente merlati alla moresca. Convenienza economica e sociale: spirito di gruppo, per non dire forse tribale. Perché comprare una villa molto più bella in un luogo molto più bello (per dire, in tratti di costa certamente più scenografici; in località con centri storici gradevoli), quando c’è la possibilità di essere vicini d’ombrellone di chi, alla fine dei conti, appunto “conta”? Perché andare in ferie quando in spiaggia si può parlare di affari mentre le mogli spettegolano in perfetto stile “Donna Pupetta”?

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    Lina Wertmüller con Giancarlo GIannini sul set di “Pasqualino Settebellezze”

    Si aggiunsero, sulla collina, quelli che preferivano maggiore privacy o il nido più alto (la saga dei Gullo o Mario Misasi che qui morì), mentre Mancini restava nella sua villa defilata ma crocevia di personaggi dello spettacolo (tra cui la recentemente scomparsa Wertmüller, ma giusto per dirne una). Perché – panem et circenses – tra Mancini e l’altro villeggiante storico, Covello, la Sangineto dei tempi d’oro era anche passerella non irrilevante per il cinema, con tanto di festival, pippibaudi e cotillons.

    E forse funzionava ancora la stazione ferroviaria, che di sicuro nel ’55 c’era già (sebbene in ritardo rispetto ai caselli di cinquant’anni prima) ma personalmente ho sempre visto abbandonata e semmai utile a due cose: posizionare gli spiccioli sulle rotaie e sottoscrivere l’isolamento di Sangineto (benché qualcuno di mia conoscenza abbia talvolta preferito addirittura scendere a Capo Bonifati e raggiungere Sangineto via spiaggia o scendere a Belvedere e farsela in bici).

    Napoletani e cosentini

    A Sangineto si arriva in tre modi (escludendo dal mare e dal cielo e, volendo, dal sottosuolo). E già questo indica i tre diversi approcci caratteriali, per non dire “sentimentali”. I napoletani vi arrivano da Nord, a 200 all’ora, con vano spirito di conquista (parentesi: esistono molti, dico molti napoletani che vengono qui da quarant’anni e ritengono ancora Cosenza un paesino di montagna. Senza esservi ovviamente mai stati). I cosentini vi arrivano da Sud, pigramente comodi, con spirito domenicale o, peggio, dominicale. Chi, come me, non è né l’uno né più si sente l’altro, arriva dall’interno, già in polemica col resto, per spirito di contraddizione. Ovvero da una strada che è già un punto d’osservazione elevato e panoramico sul tutto. Quella strada-balconata che taglia con una riga netta l’ultimo fianco del Parco del Pollino.

    La si prende da Sant’Agata, per esser chiari, e porta fino ai piedi di Belvedere. Su questa strada interna si scollina al Passo dello Scalone e poi è tutta discesa con vista sul mare. Strada antica, senza ponti o gallerie. Una di quelle strade che definisco “a misura d’uomo”. Una volta vi si poteva deviare direttamente per Sangineto paese, qualche tornante più giù del Passo, a patto di non soffrire di vertigini. E vi sareste trovati nel bel mezzo di un paesaggio marziano, sulle rupi della zona archeologica di Timpa di Civita. Oggi quella strada è chiusa per motivi di sicurezza, addirittura da una cancellata, non essendo stato forse sufficiente il divieto di accesso che già da qualche anno campeggiava all’incrocio incustodito. Al sito suddetto si può arrivare da un’altra parte, ma il bello delle cose è soprattutto scoprirle da sé. Detto diplomaticamente.

    Verso Sangineto tra panorami e cartomanti

    C’è poi, più su, un altro bivio tutto sanginetese e conosciuto a pochi forestieri: quello che volta a Sud per l’impenetrabilissimo bosco lungo la stradina per il Lago La Penna. A continuarlo, dopo il lago, vi porterebbe sull’antica dorsale che corre da Torrevecchia di Bonifati fino a Fagnano Castello. Non roba per chi ama l’ombrellone, va detto. O c’è quello che gira a Nord per i panorami mozzafiato della Contrada Pantana, luoghi dove l’antropizzazione arriva piuttosto ad ogni tornante sotto le sembianze degli immancabili manifestini colorati di quei noti cartomanti monopolisti di un buon quarto di Tirreno (bravo Brunori ad averlo osservato, pur se omettendo – forse per metrica – la fu Madame Fifì, mica inferiore in fatto di marketing capillare).

    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).
    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).

    E sempre sulla strada-balconata incrociai, tempo fa, una coppia di sconosciuti motociclisti. S’erano fermati nel punto più panoramico. Felicemente d’accordo, lui fotografava lei – graziosa bionda vestita di un romper in denim – gioiosamente a braccia aperte e seno al vento. Sarà stata la strada? Sarà stato il primitivo e totale senso di libertà che quel panorama riesce a restituire?

    La Banalità del mare

    E anche questa è una metafora, appunto, dell’approccio: Sangineto è stato un ottimo punto d’osservazione, suo malgrado. Già da bambino, in spiaggia, sedevo con le spalle al mare, a guardare quant’era strano il profilo di quelle montagne, oppure a indovinare dal solo modo di gesticolare dei lontani passanti sul lungomare se erano cosentini o napoletani (facilissimo). Gli altri mi parevano tutti rimbambiti a guardare l’orizzonte, la piattezza dell’acqua. La Banalità del Mare. (CONTINUA…)