«Affittasi spritz o gin tonic per selfie.
1 €»
Siamo a Chianalea, villaggio marinaro della cittadina di Scilla, perla di uno dei tratti più affascinanti della Calabria. Perlomeno finora. Accanto all’ingresso di un bar campeggia questa scritta. Forse passa inosservata alle migliaia di turisti che ogni giorno d’estate sfilano per la stradina di Chianalea, stretta fra il mare e la roccia, sempre più sgombra di residenti – stranieri nella loro terra – e più ingombra di baretti e negozi di souvenir. Forse però no. Perché se quel cartello – perfetta sintesi del consumismo ego-edonistico che distingue il nostro secolo – si trova lì, in bilico su una colonnina di mattoni, una ragione ci sarà.
Parola d’ordine: Turismo
È l’estate l’ultima speranza della Calabria, terra abusata e abbandonata, vilipesa e “perduta”, per riprendere la tanto criticata espressione di Corrado Augias di qualche tempo fa, periferia d’Europa che nelle ultime stagioni ha scelto il turismo come asso vincente per ribaltare l’esito di una partita forse davvero già scritta.
Lo slogan lanciato dagli apostoli dello sviluppo economico – da prassi disinteressati al progresso sociale – è chiaro e unanime: è sul turismo che bisogna puntare. Senza remora alcuna, senza più tergiversare.
E così che internet, radio, giornali e telegiornali ci inondano di articoli e servizi dai toni sensazionalistici che celebrano il boom turistico della Calabria e le sue meraviglie da scoprire. Un bombardamento mai visto prima, esercitato con una coralità inedita, tirannica. E pazienza se poi i visitatori in realtà sono dei transitatori diretti soltanto ai tre o quattro paesini della costa convertiti sempre di più in luna park per gli stupri di gruppo, socialmente accettati, dei turisti verso il patrimonio ambientale e sociale della nostra fragile regione; pazienza se accanto alle bellezze permangano orrori che ancora facciamo fatica a nominare.

“Nemici del popolo”
La narrazione è quella e non ammette rettifiche o dubbi. Pena, essere bollati come disfattisti e nemici del popolo che “non vogliono il bene della Calabria”.
È un profluvio di discorsi fascisticamente omologati, conformi al canone imposto dal totalitarismo del pensiero dominante capitalistico, copiati da altre civiltà credute superiori per quel non sanabile senso di inferiorità che noi calabresi ci portiamo dentro. Proclami retorici, parziali, acritici e tornacontistici, e che perciò restano in superficie, giustificati attraverso la solita filastrocca del “bisogna fare vedere le cose belle”. Ché noi quaggiù siamo sempre pronti a parlare solo degli aspetti negativi della nostra terra, giusto?
In fuga
Il turismo riuscirà a risollevare la regione dal suo sottosviluppo economico, dal suo isolamento culturale e dalla sua regressione morale? La carta del turismo si rivelerà davvero la panacea di tutti i mali della Calabria come molti credono? A partire magari dallo spopolamento, principale causa e conseguenza della crisi della “penisola della Penisola”?
Di recente l’Istat ha fotografato una volta ancora che la fuga dei calabresi dalla regione e il suo conseguente invecchiamento non cessano, stimando un progressivo declino demografico almeno fino al 2050. Nello specifico, il fenomeno migratorio riguarda il 5,5% della popolazione stanziale in Calabria, più del doppio rispetto alla media dell’intera Italia che si attesta al 2,3%.
Le ragioni della emigrazione e dello spopolamento della Calabria – problema che interessa il 75% dei comuni calabresi, 306 su 404 totali – sono note a tutti, anche a chi suole ficcare la testa sotto la sabbia per negare la realtà. Si abbandona la regione per mancanza di opportunità di lavoro, si fugge a causa della mobilità interna disastrosa, perché i , si va via perché il diritto essenziale della salute è tutt’altro che garantito.
La carta sbagliata del turismo
Al fine di invertire la rotta, la Calabria non è certo la prima terra in difficoltà dell’Europa di frontiera a puntare tutte le fiches sul turismo. E non sarà sicuramente l’ultima: messaggio chiaro lo lanciano le compagnie aeree a basso costo che ogni giorno annunciano nuovi itinerari per collegare, turisticamente, i punti più estremi del Vecchio Continente. Giungendo a questa decisione coi suoi tempi, la Calabria si ritroverebbe quindi addosso una indubbia colpa: rifiutarsi di vedere che i territori che nel recente passato hanno puntato troppo sull’industria del turismo si trovano già in difficoltà, perché non riescono a contenere lo straripamento o la flessione del settore, a gestire il sovraccarico turistico – il cosiddetto overtourism – o, per converso, una eventuale sorte negativa del numero magico su cui hanno concentrato tutte le risorse.
Autentica come i social
Fra luglio e agosto, momento della massima, relativa pressione turistica, i paesi della Calabria cambiano pelle. Di colpo vengono vestiti a festa per mostrarsi al turista desideroso di trovare quello che si aspetta, ovvero quello che gli hanno raccontato. I paesi si trasformano in oggetti culturali da servire in pasto ai voraci e insaziabili clic di malcapitati turisti a caccia di “esperienze autentiche”, osservatori esterni sorpresi dall’esotismo – pur artificiale, allestito per l’occasione – che si dispiega, contorce e libra dinanzi loro.

Ecco un contadino che zappa la terra, dei ragazzini che calciano il pallone in una piazzetta assolata, un capannello di signore in abiti poveri che sfornano il pane, una vecchina che rammenda un calzino.
Scaglie di vita indigena, frammenti di quotidianità che senza rispetto vengono profanati e messi alla berlina – per scopi commerciali e di immagine – sulle reti sociali dalla pletora di nocivi influencer e content creator, per poi essere cinicamente ghettizzati sotto il marchio di “vita lenta”.
Gli adoratori
Di estate in estate si moltiplicano le greggi degli adoratori della “vita lenta” – che poi sarebbe la quotidianità della civiltà contadina in progressiva estinzione dal secondo dopoguerra.
“Vita lenta”, certo. Quel che importa è che sia quella degli altri, ché i suddetti adoratori non ci vivrebbero neppure un giorno coi problemi cronici e autentici – loro sì – del Mezzogiorno: le strade dissestate, l’acqua pubblica che oggi c’è e domani chissà, le connessioni internet a singhiozzo, i disservizi che sono la regola quasi dovunque, in specie nelle aree interne. Difficoltà sistemiche e strutturali con cui i residenti convivono da sempre, trasformate dai clic di massa in folclore da mostrare ed enfatizzare. “Restare è un’arte” scrive l’antropologo e pensatore Vito Teti, restare è “un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali”. Insomma, vivere al Sud non è affatto per tutti.
W la vita lenta (degli altri, però)!
Eppure, la “vita lenta” piace assai proprio a chi non potrebbe mai rinunciare all’efficienza generale dei luoghi di residenza – l’Altitalia e l’Europa centrosettentrionale –, ai ritmi della città, agli stimoli della metropoli, all’affidabilità dei trasporti pubblici “di su”, al benessere diffuso, al lavoro performante, alla serenità derivante dallo stipendio sicuro e da una posizione sociale riconosciuta – fattori che, sovente, al Sud rappresentano vere e proprie chimere.
“Vita lenta” guardata, fotografata, mostrata, consumata ed espulsa, a debita distanza, dal di là della gabbia, non sia mai che qualche indigeno esca dal ruolo imposto di “soggetto da fotografare”, si avvicini e ci chieda di barattare la sua “vita lenta”, lentissima, improduttiva, all’apparenza immobile, con la nostra reale quotidianità fatta di giornate frenetiche e produttive, di call una tira l’altra, di reperibilità assoluta, di onnipresenza sociale e virtuale, di aperitivi in centro, di weekend fuori porta, di tavoli prenotati al secondo turno nella pizzeria gourmet più à la page del momento.
L’economia del folclore
I problemi reali trasfigurati in esotismo – o neo-esotismo – dalle lenti distorte dei turisti si affiancano alle messe in scena simulate, confezionate per imbambolare il “forestiero” e rafforzare il carico di triti stereotipi che si porta dietro, dargli quel che si aspetta di vedere.
“Abbelliti” per il turista, i paesi ne escono invece snaturati, sempre più imbruttiti e piegati al cattivo gusto dei vacanzieri o degli ex residenti che, chissà per quale perverso ordine di idee, desiderano sempre trovare tutto come lo si è lasciato al momento della fuga. I paesi si strappano così dalle mani di chi ci vive – da chi li vive –, si addomesticano come bestie selvagge e si rendono buoni per il mercato estero, esportabili un po’ come le ricette dei tanto celebrati amari calabresi, aggiustate per piacere al palato degli stranieri.

Paesi mercificati, tenuti in vita soltanto per il divertimento del turista, il suo passaggio e, chiaramente, la sua spesa, ché è pure superfluo aggiungere che codesti teatrini sono spesso allestiti per ragioni di marketing e per fini economici.
“Interi aspetti della realtà sono ormai costruiti o tenuti in vita per il beneficio principale di un turista che non farà altro che passare e spendere” scrive il sociologo francese Rodolphe Christin nel suo Manuale dell’antiturismo.
Più da perdere o da guadagnare?
La turistificazione incentiva il meccanismo di semplificazione delle complessità di terre contraddittorie e plurali come la Calabria. E c’è più da perdere che da guadagnare, con le alterità tipiche che vengono sradicate, così come le tradizioni, le consuetudini di vicinato, i legami financo; col pericolo che ogni peculiarità e diversità autoctona venga pian piano soppressa, scartata “a beneficio di messe in scena protette, in cui il turista circola incanalato in itinerari, […] entro spazi resi propizi all’esecuzione di attività programmate, spesso commerciali”, nota sempre Christin.
Il rischio concreto è quello di vedere cancellato il conio antropologico dei luoghi, assediati prima e intossicati poi da un turismo sempre più di passaggio, mordi e fuggi, consumistico, che occupa gli spazi senza animarli.
Siamo seriamente convinti che stravolgendo l’aspetto e il ritmo dei paesi, uniformandoli a un standard unico, si possano salvare comunità abbandonate a se stesse, martoriate da decenni di soprusi e saccheggi, dissanguate e umiliate nella completa indifferenza dei governi centrali e locali?
Piatti da consumare
La domanda è rivolta a tutti coloro che contribuiscono a questo genocidio culturale in itinere, ai diversi attori che traggono profitto dall’industria del turismo: albergatori, gestori di bar, lidi e bed & breakfast, operatori turistici, influencer, organizzatori di eventi. Tutti assieme, accumunati dal cinismo e dalla pressoché assoluta carenza di etica e senso di responsabilità, bramosi soltanto di denaro, apparecchiano il piatto da consumare – verbo centrale del nostro tempo, secondo lo spartito del capitalismo cui la nostra società occidentale afferisce – anche attraverso l’organizzazione di centinaia di pacchiani e inutili manifestazioni, eventi e festival, pure loro del tutto appiattiti a modelli dominanti, ridotti a un conteggio onanistico di presenze, realizzati spesso senza alcuna attinenza territoriale e culturale: feste della birra – in quella che per i greci era l’Enotria… –, revival anni ’80 e ’90, sagre della ’nduja e del tartufo, scopiazzati qua e là e trapiantati con brutalità squadrista in ogni angolo della regione durante la “bella stagione”.
Arriverà l’emergenza overtourism in Calabria?
Fortunatamente – e ce lo confermano i dati Istat – in Calabria restiamo comunque lontanissimi dal parlare di fenomeno overtourism – o iperturismo –, ché come una rondine non fa primavera, anche una giornata di sovraffollamento eccezionale non certifica un fatto.
È però evidente che alcuni segnali ci siano e che sia ferrea la volontà, soprattutto politica, di turistificare la Calabria, di “smeraldizzarla” tutta, dalla Costa dei Cedri a quella dei Gelsomini. Pertanto, è fondamentale parlare fin d’ora dei rischi della turistificazione forzata dei territori.

Il turismo condiziona la qualità della vita dei residenti – destinati a essere sempre di meno, lo abbiamo visto – e lo fa in maniera positiva soltanto in minima parte, con il guadagno immediato di oggi, ma particolarmente in maniera negativa, nel medio-lungo periodo, con l’inquinamento ambientale prodotto dalla eccessiva e insostenibile pressione turistica a cui segue l’aumento del traffico, dei rifiuti, delle criticità legate alla insufficienza idrica, l’inasprimento dei rincari sulle tasche dei locali e, infine, delle inevitabili tensioni sociali fra residenti resistenti (in diminuzione) e visitatori (in crescita) – a queste condizioni è impossibile creare un sano rapporto fra le due parti, condicio sine qua non per concepire un buon turismo.
Ecco, forse sarebbe ora di considerare i residenti non come mere comparse di un set cinematografico messo a punto per altri, ma di coinvolgerli nell’elaborazione dei piani turistici, affinché le attività turistiche comincino a essere integrate a quelle locali.
La scelta del turismo in Calabria
Se non accompagnato da una consapevole e attenta politica di prevenzione, il tanto angelicato turismo, il menzionatissimo “volano di sviluppo” buono per condonare decenni di empietà e negligenze, crollerà spiaccicato a terra. Le rovine giaceranno, sparse un po’ ovunque, come le assi di legno dei lidi già belli e smontati con la prima pioggia di settembre, mentre il balneare di turno reciterà la parte dell’impresario in deficit e qualche politicuccio di paese racconterà al microfono dell’amico blogger la favoletta della destagionalizzazione.
Il turismo non salverà la Calabria. Più verosimilmente, se non compreso e regolato secondo la vocazione naturale della regione e dei suoi abitanti – applicando il sacro principio della medietas, il senso della misura –, ne accelererà il processo di disintegrazione dell’identità.
Una terra che questa volta non sarà più violata dai capoccioni di Roma, ma finirà tradita e straziata dai suoi stessi figli. Svenduta, regalata per quattro soldi, anzi, per un euro. Il prezzo di uno spritz per selfie a Chianalea.














































































