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  • La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    «Affittasi spritz o gin tonic per selfie.
    1 €»

    Siamo a Chianalea, villaggio marinaro della cittadina di Scilla, perla di uno dei tratti più affascinanti della Calabria. Perlomeno finora. Accanto all’ingresso di un bar campeggia questa scritta. Forse passa inosservata alle migliaia di turisti che ogni giorno d’estate sfilano per la stradina di Chianalea, stretta fra il mare e la roccia, sempre più sgombra di residenti – stranieri nella loro terra – e più ingombra di baretti e negozi di souvenir. Forse però no. Perché se quel cartello – perfetta sintesi del consumismo ego-edonistico che distingue il nostro secolo – si trova lì, in bilico su una colonnina di mattoni, una ragione ci sarà.

    Parola d’ordine: Turismo

    È l’estate l’ultima speranza della Calabria, terra abusata e abbandonata, vilipesa e “perduta”, per riprendere la tanto criticata espressione di Corrado Augias di qualche tempo fa, periferia d’Europa che nelle ultime stagioni ha scelto il turismo come asso vincente per ribaltare l’esito di una partita forse davvero già scritta.
    Lo slogan lanciato dagli apostoli dello sviluppo economico – da prassi disinteressati al progresso sociale – è chiaro e unanime: è sul turismo che bisogna puntare. Senza remora alcuna, senza più tergiversare.

    E così che internet, radio, giornali e telegiornali ci inondano di articoli e servizi dai toni sensazionalistici che celebrano il boom turistico della Calabria e le sue meraviglie da scoprire. Un bombardamento mai visto prima, esercitato con una coralità inedita, tirannica. E pazienza se poi i visitatori in realtà sono dei transitatori diretti soltanto ai tre o quattro paesini della costa convertiti sempre di più in luna park per gli stupri di gruppo, socialmente accettati, dei turisti verso il patrimonio ambientale e sociale della nostra fragile regione; pazienza se accanto alle bellezze permangano orrori che ancora facciamo fatica a nominare.

    Corrado Augias racconta pagine della nostra Storia - Teatro di Roma
    Corrado Augias

    “Nemici del popolo”

    La narrazione è quella e non ammette rettifiche o dubbi. Pena, essere bollati come disfattisti e nemici del popolo che “non vogliono il bene della Calabria”.
    È un profluvio di discorsi fascisticamente omologati, conformi al canone imposto dal totalitarismo del pensiero dominante capitalistico, copiati da altre civiltà credute superiori per quel non sanabile senso di inferiorità che noi calabresi ci portiamo dentro. Proclami retorici, parziali, acritici e tornacontistici, e che perciò restano in superficie, giustificati attraverso la solita filastrocca del “bisogna fare vedere le cose belle”. Ché noi quaggiù siamo sempre pronti a parlare solo degli aspetti negativi della nostra terra, giusto?

    In fuga

    Il turismo riuscirà a risollevare la regione dal suo sottosviluppo economico, dal suo isolamento culturale e dalla sua regressione morale? La carta del turismo si rivelerà davvero la panacea di tutti i mali della Calabria come molti credono? A partire magari dallo spopolamento, principale causa e conseguenza della crisi della “penisola della Penisola”?
    Di recente l’Istat ha fotografato una volta ancora che la fuga dei calabresi dalla regione e il suo conseguente invecchiamento non cessano, stimando un progressivo declino demografico almeno fino al 2050. Nello specifico, il fenomeno migratorio riguarda il 5,5% della popolazione stanziale in Calabria, più del doppio rispetto alla media dell’intera Italia che si attesta al 2,3%.

    Le ragioni della emigrazione e dello spopolamento della Calabria problema che interessa il 75% dei comuni calabresi, 306 su 404 totali – sono note a tutti, anche a chi suole ficcare la testa sotto la sabbia per negare la realtà. Si abbandona la regione per mancanza di opportunità di lavoro, si fugge a causa della mobilità interna disastrosa, perché i , si va via perché il diritto essenziale della salute è tutt’altro che garantito.

    La carta sbagliata del turismo

    Al fine di invertire la rotta, la Calabria non è certo la prima terra in difficoltà dell’Europa di frontiera a puntare tutte le fiches sul turismo. E non sarà sicuramente l’ultima: messaggio chiaro lo lanciano le compagnie aeree a basso costo che ogni giorno annunciano nuovi itinerari per collegare, turisticamente, i punti più estremi del Vecchio Continente. Giungendo a questa decisione coi suoi tempi, la Calabria si ritroverebbe quindi addosso una indubbia colpa: rifiutarsi di vedere che i territori che nel recente passato hanno puntato troppo sull’industria del turismo si trovano già in difficoltà, perché non riescono a contenere lo straripamento o la flessione del settore, a gestire il sovraccarico turistico – il cosiddetto overtourism – o, per converso, una eventuale sorte negativa del numero magico su cui hanno concentrato tutte le risorse.

    Autentica come i social

    Fra luglio e agosto, momento della massima, relativa pressione turistica, i paesi della Calabria cambiano pelle. Di colpo vengono vestiti a festa per mostrarsi al turista desideroso di trovare quello che si aspetta, ovvero quello che gli hanno raccontato. I paesi si trasformano in oggetti culturali da servire in pasto ai voraci e insaziabili clic di malcapitati turisti a caccia di “esperienze autentiche”, osservatori esterni sorpresi dall’esotismo – pur artificiale, allestito per l’occasione – che si dispiega, contorce e libra dinanzi loro.

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    Un venditore ambulante sulla costa calabrese

    Ecco un contadino che zappa la terra, dei ragazzini che calciano il pallone in una piazzetta assolata, un capannello di signore in abiti poveri che sfornano il pane, una vecchina che rammenda un calzino.
    Scaglie di vita indigena, frammenti di quotidianità che senza rispetto vengono profanati e messi alla berlina – per scopi commerciali e di immagine – sulle reti sociali dalla pletora di nocivi influencer e content creator, per poi essere cinicamente ghettizzati sotto il marchio di “vita lenta”.

    Gli adoratori

    Di estate in estate si moltiplicano le greggi degli adoratori della “vita lenta” – che poi sarebbe la quotidianità della civiltà contadina in progressiva estinzione dal secondo dopoguerra.
    “Vita lenta”, certo. Quel che importa è che sia quella degli altri, ché i suddetti adoratori non ci vivrebbero neppure un giorno coi problemi cronici e autentici – loro sì – del Mezzogiorno: le strade dissestate, l’acqua pubblica che oggi c’è e domani chissà, le connessioni internet a singhiozzo, i disservizi che sono la regola quasi dovunque, in specie nelle aree interne. Difficoltà sistemiche e strutturali con cui i residenti convivono da sempre, trasformate dai clic di massa in folclore da mostrare ed enfatizzare. “Restare è un’arte” scrive l’antropologo e pensatore Vito Teti, restare è “un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali”. Insomma, vivere al Sud non è affatto per tutti.

    W la vita lenta (degli altri, però)!

    Eppure, la “vita lenta” piace assai proprio a chi non potrebbe mai rinunciare all’efficienza generale dei luoghi di residenza – l’Altitalia e l’Europa centrosettentrionale –, ai ritmi della città, agli stimoli della metropoli, all’affidabilità dei trasporti pubblici “di su”, al benessere diffuso, al lavoro performante, alla serenità derivante dallo stipendio sicuro e da una posizione sociale riconosciuta – fattori che, sovente, al Sud rappresentano vere e proprie chimere.

    “Vita lenta” guardata, fotografata, mostrata, consumata ed espulsa, a debita distanza, dal di là della gabbia, non sia mai che qualche indigeno esca dal ruolo imposto di “soggetto da fotografare”, si avvicini e ci chieda di barattare la sua “vita lenta”, lentissima, improduttiva, all’apparenza immobile, con la nostra reale quotidianità fatta di giornate frenetiche e produttive, di call una tira l’altra, di reperibilità assoluta, di onnipresenza sociale e virtuale, di aperitivi in centro, di weekend fuori porta, di tavoli prenotati al secondo turno nella pizzeria gourmet più à la page del momento.

    L’economia del folclore

    I problemi reali trasfigurati in esotismo – o neo-esotismo – dalle lenti distorte dei turisti si affiancano alle messe in scena simulate, confezionate per imbambolare il “forestiero” e rafforzare il carico di triti stereotipi che si porta dietro, dargli quel che si aspetta di vedere.
    “Abbelliti” per il turista, i paesi ne escono invece snaturati, sempre più imbruttiti e piegati al cattivo gusto dei vacanzieri o degli ex residenti che, chissà per quale perverso ordine di idee, desiderano sempre trovare tutto come lo si è lasciato al momento della fuga. I paesi si strappano così dalle mani di chi ci vive – da chi li vive –, si addomesticano come bestie selvagge e si rendono buoni per il mercato estero, esportabili un po’ come le ricette dei tanto celebrati amari calabresi, aggiustate per piacere al palato degli stranieri.

    Rodolphe Christin

    Paesi mercificati, tenuti in vita soltanto per il divertimento del turista, il suo passaggio e, chiaramente, la sua spesa, ché è pure superfluo aggiungere che codesti teatrini sono spesso allestiti per ragioni di marketing e per fini economici.
    “Interi aspetti della realtà sono ormai costruiti o tenuti in vita per il beneficio principale di un turista che non farà altro che passare e spendere” scrive il sociologo francese Rodolphe Christin nel suo Manuale dell’antiturismo.

    Più da perdere o da guadagnare?

    La turistificazione incentiva il meccanismo di semplificazione delle complessità di terre contraddittorie e plurali come la Calabria. E c’è più da perdere che da guadagnare, con le alterità tipiche che vengono sradicate, così come le tradizioni, le consuetudini di vicinato, i legami financo; col pericolo che ogni peculiarità e diversità autoctona venga pian piano soppressa, scartata “a beneficio di messe in scena protette, in cui il turista circola incanalato in itinerari, […] entro spazi resi propizi all’esecuzione di attività programmate, spesso commerciali”, nota sempre Christin.

    Il rischio concreto è quello di vedere cancellato il conio antropologico dei luoghi, assediati prima e intossicati poi da un turismo sempre più di passaggio, mordi e fuggi, consumistico, che occupa gli spazi senza animarli.
    Siamo seriamente convinti che stravolgendo l’aspetto e il ritmo dei paesi, uniformandoli a un standard unico, si possano salvare comunità abbandonate a se stesse, martoriate da decenni di soprusi e saccheggi, dissanguate e umiliate nella completa indifferenza dei governi centrali e locali?

    Piatti da consumare

    La domanda è rivolta a tutti coloro che contribuiscono a questo genocidio culturale in itinere, ai diversi attori che traggono profitto dall’industria del turismo: albergatori, gestori di bar, lidi e bed & breakfast, operatori turistici, influencer, organizzatori di eventi. Tutti assieme, accumunati dal cinismo e dalla pressoché assoluta carenza di etica e senso di responsabilità, bramosi soltanto di denaro, apparecchiano il piatto da consumare – verbo centrale del nostro tempo, secondo lo spartito del capitalismo cui la nostra società occidentale afferisce – anche attraverso l’organizzazione di centinaia di pacchiani e inutili manifestazioni, eventi e festival, pure loro del tutto appiattiti a modelli dominanti, ridotti a un conteggio onanistico di presenze, realizzati spesso senza alcuna attinenza territoriale e culturale: feste della birra – in quella che per i greci era l’Enotria… –, revival anni ’80 e ’90, sagre della ’nduja e del tartufo, scopiazzati qua e là e trapiantati con brutalità squadrista in ogni angolo della regione durante la “bella stagione”.

    Arriverà l’emergenza overtourism in Calabria?

    Fortunatamente – e ce lo confermano i dati Istat – in Calabria restiamo comunque lontanissimi dal parlare di fenomeno overtourism – o iperturismo –, ché come una rondine non fa primavera, anche una giornata di sovraffollamento eccezionale non certifica un fatto.
    È però evidente che alcuni segnali ci siano e che sia ferrea la volontà, soprattutto politica, di turistificare la Calabria, di “smeraldizzarla” tutta, dalla Costa dei Cedri a quella dei Gelsomini. Pertanto, è fondamentale parlare fin d’ora dei rischi della turistificazione forzata dei territori.

    Una lettrice solitaria sulla spiaggia di Zambrone

    Il turismo condiziona la qualità della vita dei residenti – destinati a essere sempre di meno, lo abbiamo visto – e lo fa in maniera positiva soltanto in minima parte, con il guadagno immediato di oggi, ma particolarmente in maniera negativa, nel medio-lungo periodo, con l’inquinamento ambientale prodotto dalla eccessiva e insostenibile pressione turistica a cui segue l’aumento del traffico, dei rifiuti, delle criticità legate alla insufficienza idrica, l’inasprimento dei rincari sulle tasche dei locali e, infine, delle inevitabili tensioni sociali fra residenti resistenti (in diminuzione) e visitatori (in crescita) – a queste condizioni è impossibile creare un sano rapporto fra le due parti, condicio sine qua non per concepire un buon turismo.

    Ecco, forse sarebbe ora di considerare i residenti non come mere comparse di un set cinematografico messo a punto per altri, ma di coinvolgerli nell’elaborazione dei piani turistici, affinché le attività turistiche comincino a essere integrate a quelle locali.

    La scelta del turismo in Calabria

    Se non accompagnato da una consapevole e attenta politica di prevenzione, il tanto angelicato turismo, il menzionatissimo “volano di sviluppo” buono per condonare decenni di empietà e negligenze, crollerà spiaccicato a terra. Le rovine giaceranno, sparse un po’ ovunque, come le assi di legno dei lidi già belli e smontati con la prima pioggia di settembre, mentre il balneare di turno reciterà la parte dell’impresario in deficit e qualche politicuccio di paese racconterà al microfono dell’amico blogger la favoletta della destagionalizzazione.

    Il turismo non salverà la Calabria. Più verosimilmente, se non compreso e regolato secondo la vocazione naturale della regione e dei suoi abitanti – applicando il sacro principio della medietas, il senso della misura –, ne accelererà il processo di disintegrazione dell’identità.
    Una terra che questa volta non sarà più violata dai capoccioni di Roma, ma finirà tradita e straziata dai suoi stessi figli. Svenduta, regalata per quattro soldi, anzi, per un euro. Il prezzo di uno spritz per selfie a Chianalea.

  • Bandiere Blu Calabria, turismo non olet

    Bandiere Blu Calabria, turismo non olet

    Finalmente, dal fondo di ogni altra classifica possibile, qualcosa che ha il potere di renderci orgoglioni: le famigerate Bandiere Blu, sigillo esclusivo dell’instagrammabilità vacanziera i cui ingressi e uscite dall’olimpo delle mete estive sono attesi ogni anno più della guida Michelin. Ce ne hanno concesse altre 3, da piazzare sul tabellone del risiko turistico per un totale aggiornato di 23, con il sentiment immediatamente appropriativo del ‘ce’ che va ad aggiungere l’ultima conquista agli 11 Siti Unesco, ai 15 dei Borghi più Belli d’Italia, ai 3 Parchi Nazionali, e a qualche altra risorsa varia ed eventuale che in questo momento non mi viene. Un pedigree che nonostante certe campagne promozionali del passato (!), giustifica l’abbondante presenza della Regione Calabria alla BIT, la Borsa del Turismo di Milano, nell’attesa della moltiplicazione dei dépliant patinati in bus & charter.

    Bandiere blu Calabria: meglio delle altre regioni

    In realtà a leggere i dati in una prospettiva che non sia solo quella della classifica nazionale, si scopre non solo che la performance calabrese è migliore del suo piazzamento, terza in sorpasso sulla Campania, quanto soprattutto se ne apprezza comparativamente la dimensione. La Puglia, seconda in Italia per quantità di bandiere Blu con 27, ha uno sviluppo costiero di 1.040 km, il che secondo la statistica dei due polli significa una bandiera ogni 38,5 km; la Calabria, terza in classifica, con i suoi 788,92 km di coste può vantare invece una bandiera ogni 34,3 km.

    Ma è il confronto con due regioni che hanno nelle coste una risorsa turistica potenzialmente ancora maggiore ad essere impietoso: la Sardegna, regione italiana dalla maggiore estensione costiera, con 1.897 km e 16 Bandiere Blu, ne conta una ogni 118,5 km, mentre la Sicilia, con 1.637 km di coste, isole minori comprese, e 14 Bandiere Blu, ne ha una su 116,9 km.

    Bandiere blu Calabria: local e global

    Considerato quindi che i parametri per l’attribuzione della Bandiera Blu non sono proprio all’insegna del baubau miciomicio, dalla qualità delle acque di balneazione a una gestione ambientale che garantisca la conservazione e la biodiversità degli ecosistemi marini, con la novità di quest’anno del Piano di azione per la sostenibilità (Action Plan) da realizzare e monitorare per i successivi tre anni, si può dire – con quell’abbondante meraviglia rasente all’incredulità – che è stato fatto un buon lavoro sulla risorsa primaria di una possibile economia. Si tratta ora di costruire una diversa attrattività, un po’ più local che global, all’insegna di un’altra Bandiera, Gialla come la canzone sessantina di Pettenati.

    I viaggiatori del ’56

    E come metafora di un sistema di servizi, dall’hôtellerie alla ristorazione, l’escursionistica, la cultura, che arricchiscano l’esperienza del nostro territorio, a volte non all’altezza delle sue potenzialità. È passato del tempo, ma nella memoria incombe sempre l’esperienza raccontata da Stanley e Mary Lee, i due americani che nel ’56 girarono “L’Italia in Topolino”, diario di viaggio antesignano di Tripadvisor che dedicava alla regione una stroncatura di un intero capitolo, “La Topolino in fuga dalla Calabria verso Messina”.

    Intanto, un’altra pubblicità, stavolta aggratis, ce la regala Temptation Island, il reality che per la prossima edizione si sposta a Guardavalle Marina, sempre su quella costa ionica premiata con le 3 nuove Bandiere Blu: in prospettiva, qualcuno di più pragmatico direbbe che turismo non olet…

  • Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
    si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.

    Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.

     

    La Calabria che si svuota

    L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
    Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?

     

    È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria

    Le aree interne e la risposta della bomboniera

    Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.

    L’Europa e lo Stato

    Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.

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    La sede del Parlamento europeo

    Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.

    Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo.
    Il modello “bomboniera” non serve a nulla.

    Strategie per le aree interne

    Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.poste-uffici-calabria-riaprono-e-dai-paesini-non-si-fugge-piu

    Bisognerebbe in ordine sparso:

    1. aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
    2. riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
    3. diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
    4. Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
    5. Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.

    Due “sorprese”

    I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
    C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.

    Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.

  • GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    GENTE IN ASPROMONTE| “Il selvaggio” Demi, l’uomo che unisce comunità

    Quella di oggi è una storia di passione, morte e rinascita. Contemporaneamente anche un racconto di community building, incubazione di “proto-imprese”, collaborazione e azioni dal basso per la rinascita delle aree interne. Perché dietro – o, meglio, attorno – al protagonista si snodano le strade e le scelte di altri protagonisti che contribuiscono a formare una nuova narrazione corale dell’Aspromonte. Sono le vite degli altri nella storia di Demetrio D’Arrigo, per tutti Demi e meglio conosciuto sui social come AspromonteWild. Per me il cicerone con cui ho alle spalle molte giornate condivise, tanti chilometri percorsi, tracce di speleologia e geologia e un confronto serrato sui temi che riguardano le aree interne, i restati e i ritornati. Il nostro rapporto, nato durante la visita a Pietra Cappa in occasione dell’intervista ad Annamaria Sergi , si è strutturato nel tempo e Demetrio è diventato compagno di esplorazioni e amico.

    La nostra tappa stavolta è stata a Roghudi Vecchio, antico insediamento aggrappato a uno sperone di roccia nel ventre dell’Amendolea, versante Sud dell’Aspromonte. Diverse volte alluvionato, dichiarato inagibile, è in stato di abbandono fin dagli anni Settanta. Terra di vento, crepacci e leggende nel cuore della Calabria greca dove ci sono cascate che, per la loro conformazione, fungono da prima palestra per i neofiti del torrentismo.
    «Pronto a fare l’esperienza delle corde?», chiede mentre ci appropinquiamo alla meta. L’idea è di realizzare un’intervista in natura, cercando di documentare le attività e le passioni di Demetrio D’Arrigo, voce autorevole tra gli operatori del settore e leader indiscusso del comparto sport di montagna.

    La seconda vita di Demetrio D’Arrigo

    «Sono alla mia seconda vita. La prima, un passato nel mondo della post-produzione musicale, si è chiusa diversi anni fa. Di quella conservo il mio orecchio assoluto. Abbracciare la montagna, perdendomici in solitudine anche per giorni, mi ha risollevato da un momento cupo e mi ha indicato una nuova strada. Il mio percorso inizia nel 2007, anno del mio ingresso nel Soccorso alpino. Nel 2009 lancio la mia associazione impegnata nella valorizzazione del territorio e nella promozione dei percorsi escursionistici in Aspromonte. Nel 2013, grazie alla legge sulle professioni non regolamentate, avvio la mia attività di guida canyoning. Poi nel 2015, finalmente, dopo un corso di formazione promosso dall’Ente Parco, divento una sua guida ufficiale. Oggi sono socio fondatore dell’ENGC e unico calabrese a farne parte. Sto cercando di diventare una guida completa, sia sul versante sportivo che escursionistico, accompagnando su più terreni, su diversi territori e in varie attività sportive».

    Oblio e alleanze

    Formatore, istruttore di canyoning molto conosciuto e riconosciuto, Demetrio D’Arrigo è un incredibile facilitatore: oltre al proprio lavoro coi gruppi turistici, si dedica a promuovere e divulgare le risorse del territorio ai calabresi, collaborando con le comunità e svolgendo una vera e propria attività di coaching e capacity building.
    È quello che gli ho visto fare durante le uscite di gruppo e i sopralluoghi a due durante tutti questi mesi: disseppellire da un oblio collettivo patrimoni naturalistici ed escursionistici e, contemporaneamente, rafforzare il fronte delle alleanze per lo sviluppo tra i territori. È stato lui a introdurmi e presentarmi a Giuseppe Murdica, Stefano Costantino con la moglie Arianna Branca e i tanti altri restati e ritornati con cui collabora e che ha spronato a credere nella possibilità di uno sviluppo endogeno.

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    Demetrio D’Arrigo e Peppe Murdica

    «Tento di ricucire i territori con le loro comunità, spesso inconsapevoli delle loro risorse naturalistiche e di quello che può essere attivato. Una cosa che è diventata quasi naturale, perché è parte integrante della natura stessa delle attività escursionistiche e sportive che propongo. I residenti dei territori inseriti nei miei itinerari sono un elemento essenziale: sono i loro custodi. Tra loro ci sarà sempre qualcuno con una storia da raccontare e un patrimonio da divulgare». Praticamente la nuova frontiera del marketing territoriale di prossimità.
    È quello che è successo nella piccola comunità di Armo, media collina a un passo da Reggio; a Piminoro, versante occidentale del lato più tropicale dell’Aspromonte che domina la Piana di Gioia Tauro; a Pietrapennata, tre case, qualche decina di abitanti e nemmeno un forno, più in quota di Palizzi Vecchio, dove allena i suoi allievi su una delle palestre di roccia utilizzate dagli scalatori.

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo

    Lo schema di Demetrio D’Arrigo è sempre lo stesso: effettuare sopralluoghi alla ricerca di mete per nuovi percorsi escursionistici; agganciare i loro abitanti per carpire la natura e l’essenza di quei luoghi; costruire itinerari stimolando quelle comunità a creare servizi di accoglienza, promozione delle tipicità, narrazioni autentiche; lanciare quei nuovi punti escursionistici attraverso i suoi canali digitali, aggiungendo ogni volta un nuovo nodo a questa infrastruttura immateriale di relazioni. L’indicizzazione dei motori di ricerca gli dà ragione, il suo sito è da anni in prima posizione su Google. «E nel periodo estivo gli accessi alle pagine hanno notevoli picchi di ingresso».

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    Mimmo Plutino e Stefano Costantino

    A confermarmelo è Stefano Costantino, componente della Cooperativa Sant’Arsenio. Realtà di forte ispirazione cattolica, opera ad Armo dal 2005 aggregando piccole produzioni locali, orti urbani, ospitalità, formazione per le scuole, approccio eco-sostenibile. «Demetrio D’Arrigo è spuntato qualche anno fa per contrassegnare Armo, terra del monaco eremita Sant’Arsenio, come una delle ultime tappe del Cammino Basiliano. “Abitate un luogo straordinario da cui è passata la storia del monachesimo di Calabria. Siatene fieri”».

    Da Armo a Piminoro

    Mimmo Plutino, diacono della parrocchia, è più esplicito: «Quando, qualche anno fa, tornai a visitare il canyon dei Rumbulisi, condividendone le foto, Demetrio D’Arrigo mi contattò per organizzare un itinerario che unisse il canyon e la grotta del santo, mostrando contemporaneamente le formazioni rocciose di arenaria del luogo e la visita in paese. La sua idea ha funzionato, alimentando un nuovo flusso di visitatori». Che, oltre all’accoglienza e alle piccole produzioni, trovano ad Armo, conosciuta in zona per il modello di raccolta differenziata a impatto zero fatta con gli asinelli, un dedalo di murales a cielo aperto realizzato dal gruppo Creativi Armo.

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    Murales ecosostenibile realizzato ad Armo con il recupero dei tappi di plastica

    Lo stesso copione è andato in scena a Piminoro: dall’incontro di Demi con Giuseppe Murdica, già impegnato nella rivalutazione di vecchi sentieri verso le tante vie dell’acqua di questa frazione, sono germogliate iniziative nuove. Da un primo tentativo di ristorazione familiare ed ospitalità alla riattivazione, nel 2019, della Cooperativa Monte dei Pastori. «Ho conosciuto Demetrio 13 anni fa, in occasione di uno dei suoi sopralluoghi. Dopo avergli mostrato una delle tante cascate che abbiamo in zona, l’ho invitato a pranzo. Da lì sono nati un confronto e una sinergia che non si sono mai fermati».

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    L’area dell’ex caserma Naps a Piminoro

    Oggi Giuseppe con la sua famiglia ha creato un punto di riferimento per escursionisti e camminatori. Non solo: la cooperativa ha chiesto al Comune di Piminoro la concessione dell’area della vecchia caserma NAPS (Nuclei Anti Sequestri della Polizia di Stato), passata dal Comune all’Ente Parco che l’aveva lasciata in abbandono dopo un periodo transitorio in cui vi erano stati ospitati i richiedenti asilo. L’idea è di creare un villaggio polifunzionale con 300 posti letto e servizi per roulottes e camper. I lavori sono già partiti.

    La montagna che collassa

    Se questa emergente strategia complessiva sia consapevole o meno non posso dirlo, ma che inneschi un processo di auto-sostentamento è fuori di dubbio. Ed è funzionale alla battaglia contro l’abbandono e la deriva di territori in cui, emigrati gli uomini che li abitavano, la Natura si è ripresa spazi di vita e comunicazione un tempo antropizzati. «L’abbandono porta al collasso delle aree interne. Questi movimenti di persone e idee che cerco di accompagnare rappresentano un antidoto e una risorsa in un mondo dove il comparto del turismo e dei servizi collegati prende sempre più piede.

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    Torrentismo a Piminoro

    Se prima il modello di sviluppo legato a una certa industrializzazione appariva l’unica via possibile, oggi le attrazioni naturalistiche sono parte di soluzioni alternative per la rinascita dei territori. Ogni paese aspromontano ha diverse possibilità di creare un indotto a partire dalle proprie risorse: acqua, legna, pietre, antichi mestieri. Bisogna condurre quegli abitanti a crederci. Una montagna abbandonata non torna più autentica o incontaminata, ma rischia il collasso».

    È proprio così: quelli che fino agli anni Settanta e Ottanta erano territori abitati, stanno andando alla deriva. I tornanti che conducono a Roghudi Vecchio, una volta battuti e curati, sono ora invasi da una natura che se ne è riappropriata. Ma dove si attivano certi processi, la storia prende una piega diversa. Il passaggio dall’attività volontaristica o associazionistica a forme imprenditoriali rappresenta un punto di svolta: «L’associazionismo è quello da cui tutti siamo partiti. All’inizio può fare la differenza per la grande capacità di coinvolgere, mostrare e narrare. Ma per chi decide poi di fare questo lavoro, la dimensione volontaristica deve diventare impresa: partite IVA, ditte individuali, cooperative. Un passaggio obbligato che oggi è sempre più evidente: tante guide, tanta scelta per il turista di prossimità e per chi arriva da lontano».

    Tutto quello che serve

    È un punto su cui Demetrio D’Arrigo batte molto e sul quale io stesso mi sono soffermato durante una delle prime uscite a Natile, quando ho assistito al confronto serrato tra lui e Annamaria Sergi, ex presidente di quella Pro Loco. Riassunto: se vuoi crescere, devi fare il salto. Sergi si è poi messa in proprio: ha fondato una sua associazione programmando un percorso più strutturato per lo sviluppo della vallata delle Grandi Pietre.
    «Questa d’altronde è anche la mia storia. Da realtà associativa ho lentamente compiuto un passaggio verso un’imprenditorialità che mi permette di vivere seguendo la mia passione: lavorare con la natura e in natura, accogliere, divulgare, fare formazione e sport. A ben guardare abbiamo già tutto quello che serve: natura, cultura, storia, diverse tipologie di attività e ulteriori servizi da sviluppare. Credo che, se si decide di restare, le opportunità di lavoro non manchino. Però bisogna rafforzare l’acquisizione di competenze specifiche anche in relazione allo sviluppo di filiere produttive».

    La filiera delle pietre

    L’esempio che ha in mente è specifico e riguarda l’economia circolare: «Anche se i turbo-ambientalisti mi criticheranno vedo un’opportunità nella cosiddetta filiera delle pietre. La provincia di Reggio è localizzata a cavallo di un sistema complesso di fiumare in cui si deposita di tutto e che andrebbe irregimentato. Dalle pietre può derivare una grande ricchezza in ottica di edilizia eco-sostenibile. Ciò consentirebbe di monitorare i torrenti mantenendo stabili, puliti e dragati i loro greti e fornire materiale naturale, resistente e ad impatto minimo per costruire». Ma come al solito serve una visione abbracciata da una politica che dia seguito a soluzioni idonee per le procedure amministrative: ad esempio un sistema di concessioni. «Mi piacerebbe che ci fossero più persone giuste al posto giusto. Se politica e amministratori ascoltassero le richieste e i suggerimenti dai territori, si vivrebbe in modo differente». Ossia migliore.

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    La fiumara di Roghudi, ideale per la cosiddetta “filiera delle pietre”

    Demetrio D’Arrigo tra monaci e politica

    Un esempio di questa crasi incomprensibile è la vicenda legata al collegamento dell’ultima tappa del Cammino Basiliano che termina al Duomo di Reggio Calabria: 81 tappe divise tra Calabria e Lucania, con la presenza di 10 dei borghi più belli d’Italia e 3 siti UNESCO. Un progetto finanziato da Regione Calabria per valorizzare, salvaguardare e promuovere la fruizione eco-sostenibile dei patrimoni presenti lungo la dorsale di questo sentiero. Demetrio D’Arrigo, che è membro dell’omonima associazione che lo ha incaricato di elaborare le ultime tre tappe del sentiero, la racconta con diplomazia: «Non sono riuscito a collegare l’ultima tappa che va da Armo a Reggio e a piazzare i cartelli che indicassero le rotte percorse dai monaci perché non ho bussato alla porta giusta».

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    Una delle 81 tappe – la numero 35, da Villaggio Mancuso a Pentone – del Cammino basiliano, con relativo cartello

    La verità è più tragicomica, più à la Totò. Come referente dell’associazione da cui aveva avuto mandato, si era rivolto al Comune di Reggio per individuare settore e responsabile cui inoltrare la richiesta di autorizzazione per l’apposizione della segnaletica. Dopo diversi tentativi era emerso che avrebbe dovuto rivolgersi all’Ufficio Pubblicità. Cosa c’entrasse la pubblicità con la sentieristica e la valorizzazione dei beni naturalistici e culturali è ancora da capire. Fatto sta che tra passaggi, lungaggini, burocrazia e Covid non se ne è fatto nulla. La sua ultima mail al Comune risale al 15 novembre 2021. Poi il silenzio.

    Il silenzio di Reggio

    «Credo non avessero capito che si trattasse di un sentiero e che, per completare il percorso, da contratto con la Regione che ha finanziato il progetto, si sarebbe dovuta apporre tutta la segnaletica. Il Comune di Reggio è l’unico tra quelli contattati che non mi ha considerato. A Motta San Giovanni mi hanno aperto le porte, a Montebello il sindaco si era addirittura offerto di accompagnarmi per indicarmi il punto esatto in cui le indicazioni andavano apposte, seguendo la posizione di alcune chiese o punti di passaggio. I cartelli li ho ancora a casa e sono pronto a piazzarli appena ce ne sarà possibilità».

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    Il Comune di Reggio Calabria

    Arrivati alle cascate di Roghudi, siamo poi scesi con corde, picchetti, moschettoni e mute. Un’esperienza di straordinaria intensità utilizzata anche nelle sessioni di team building dal management di medie e grandi aziende.

  • Sentiero solidale: il Pollino alla portata di tutti

    Sentiero solidale: il Pollino alla portata di tutti

    Quando si va in montagna, il passo è quello del più lento. Significa che il ritmo della camminata è dettato dal membro che va più piano dentro il gruppo. Questa pratica è una questione di sicurezza, ma anche di solidarietà, perché indietro non si lascia nessuno.
    È con questo spirito che il Cai (Club alpino italiano) nazionale ha istituito al suo interno una commissione che si occupa specificatamente di accompagnamento solidale. Lo scopo è far conoscere l’incanto della montagna a chi sui sentieri da solo non può andare. E in Calabria c’è chi su questo fronte si è impegnato già da tempo, infatti la sezione Cai di Castrovillari anche quest’anno ha organizzato una escursione speciale sul Pollino.

    Una esperienza giunta già al quarto anno

    «È il quarto anno che organizziamo una escursione con persone disabili», racconta Carla Primavera, presidente del Cai Castrovillari. Un appuntamento tra l’altro sostenuto anche dalla Commissione Sodas (Struttura operativa accompagnamento solidale) e che qui ha trovato un riscontro favorevole, accompagnando in escursione guidata chi è meno fortunato di noi e tuttavia deve poter essere messo nelle condizioni di apprezzare la bellezza della montagna.
    «Abbiamo cercato di contattare le varie associazioni che si prendono cura di persone disabili per tempo, in modo da poter organizzare nel modo più accurato l’uscita e abbiamo avuto il sostegno del sindaco di Castrovillari che ha fornito l’autobus per giungere fino all’inizio del sentiero», prosegue la presidente del Cai.
    Si trattava di una organizzazione capillare, che comportava la gestione dei trasporti, la cura delle persone nel corso dell’escursione, la sicurezza dei partecipanti sui sentieri che, pure se scelti per la loro semplicità, potevano rivelarsi faticosi.

    Sentiero solidale: le associazioni sul Pollino

    Infatti la realizzazione dell’escursione, che si è svolta nella prima metà di giugno, ha coinvolto numerosi soci della Sezione di Castrovillari del Cai e ha visto la partecipazione di diverse associazioni impegnate nell’assistenza ai disabili.
    Alla fine sul sentiero che da Piani di Ruggio conduce dolcemente fino al Belvedere dei Loricati c’erano il Filo di Arianna, l’Associazione Famiglie Disabili, il Centro salute mentale di Castrovillari e l’associazione Azzurra di Corigliano-Rossano.

    Sul sentiero che conduce al Belvedere

    Una lunga paziente fila di escursionisti, composta da guide, persone disabili con i loro accompagnatori del Servizio sociale, un ragazzo su carrozzina e sua madre, ha attraversato il sentiero che conduce fino a un punto da cui si domina la vallata sottostante e sul cui crinale si ergono magnifici alcuni esemplari di Pino Loricato.

    I volontari accompagnatori

    «È stata una esperienza emotivamente potente – racconta Carla Primavera – soprattutto guardando il divertimento e la gioia che pervadevano i nostri ospiti. Al ritorno dal sentiero, prima della ripartenza, hanno voluto dare voce all’emozione per l’esperienza vissuta esprimendo il loro entusiasmo».  Una avventura fuori dall’ordinario che il prossimo anno sarà replicata contando sul coinvolgimento di un numero maggiore di associazioni, per fare conoscere la montagna a chi da solo non può andarci e per non lasciare nessuno indietro.

  • Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Aspromonte, dall’Unesco semaforo giallo per il geoparco?

    Le note vicende che hanno portato al commissariamento dell’Ente Parco Aspromonte continuano a produrre effetti negativi. Sì, perché nel trentennale dell’istituzione dell’Ente e nell’anno in cui l’Aspromonte attende la verifica dei commissari UNESCO per la conferma dello status di Geoparco Globale, la macchina è completamente inceppata.
    Quella verifica, originariamente prevista per lo scorso aprile, è slittata al prossimo luglio.

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    Una volpe in Aspromonte

    Aspromonte Geoparco UNESCO: dalle origini ad oggi

    L’ingresso del Parco Aspromonte come Geoparco nella rete mondiale dell’Unesco risale al 21 aprile 2021. La procedura, avviata anni addietro, era risultata vincente in tempi record rispetto a candidature che attendono ancora un semaforo verde. Nel 2018, dopo un lungo lavoro preparatorio coordinato da una struttura amministrativa che ancora funzionava, durante l’Ottava Conferenza Internazionale dei Geoparchi Mondiali tenutasi a Madonna di Campiglio, l’UNESCO aveva presentato una relazione in cui venivano evidenziate delle criticità da sanare. Nel 2021, infine, l’acquisizione dello status di Geoparco.

    Rosolino Cirrincione, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania ha collaborato al dossier di candidatura. Cirrincione racconta che dal 2021 non ha avuto più alcuna notizia. L’Ente Parco lo ha però sollecitato, di recente, a supervisionare la bozza di relazione in preparazione per la visita dell’UNESCO del prossimo luglio. Una richiesta all’ultimo minuto che l’accademico non pare aver affatto gradito.

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    Il professor Rosolino Cirrincione, ordinario di Petrografia e Petrologia a Catania

    Certo, diverse attività sono state svolte per adempiere alle procedure che riguardano la vita dei Geoparchi: formazione nelle scuole, produzione di materiale di comunicazione, inaugurazione e apertura di una sede specifica del Geoparco a Bova. Molto altro, però, sembra mancare.
    L’Ente Parco non ha all’interno del suo staff un geologo, nonostante l’UNESCO ne suggerisca l’assunzione da anni. Chi si è occupato della candidatura del 2018, la geologa Serena Palermiti, ha collaborato come esterna con incarichi diretti. Terminati quelli, anche lei non ha più avuto dall’Aspromonte alcuna notizia sul Geoparco UNESCO.

    Arrivano i commissari e non c’è nessuno

    Le attività di cooperazione e trasferimento delle conoscenze con gli altri Geoparchi – precedentemente in capo a Silvia Lottero, la funzionaria che firmò la stabilizzazione illegittima degli LSU/LPU poi accusata di danno erariale – sembrano essere state molto lacunose. Così come lo è il lavoro sulla metodologia di monitoraggio delle presenze per l’implementazione delle visite turistiche.
    Quello che i commissari UNESCO troveranno in Aspromonte al momento di valutare il Geoparco sarà dunque non solo un lavoro fatto a metà, ma una ridotta capacità amministrativa dell’Ente. E la capacità amministrativa è  tra i principali capisaldi della verifica, assieme al coinvolgimento delle comunità del territorio. Le stesse, cioè, che da anni lamentano di non essere ascoltate dall’Ente.

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    Due esemplari di coturnice nel territorio del Parco

    Dallo stesso Parco arrivano ammissioni che non lasciano dubbi. L’attuale responsabile del dossier Geoparco è Giorgio Cotroneo. In carica dallo scorso febbraio dopo l’insediamento del commissario straordinario Renato Carullo, imputa inefficienze e ritardi alla drammatica situazione della pianta organica e al malgoverno degli ultimi anni.
    Lo stesso Carullo, poi, è ancora più netto: «Siamo in ritardo su tutto. La situazione è quella che è: contenziosi interni ed esterni, procedimenti disciplinari, indagini della magistratura. Dieci giorni dopo il mio insediamento (14 febbraio 2024 ndr) ho inviato una relazione al Ministero descrivendo lo stato in cui versa l’ente e la mia difficoltà a mandarlo avanti con una pianta organica praticamente inesistente. Nonostante sia per me un campo nuovissimo, ho accelerato tutti i processi in essere. Ho bisogno che l’Ente abbia un governo che funzioni. A luglio avremo in Aspromonte la delegazione UNESCO per la verifica delle condizioni che garantiscono lo status di Geoparco, ma ci hanno già anticipato in via informale che conferiranno il bollino giallo: meglio il semaforo giallo che quello rosso».

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    Pietra Cappa

    Stop al Geoparco UNESCO: cosa perderebbe l’Aspromonte

    Il segretariato dell’UNESCO, nonostante i solleciti via mail di questa redazione, non ci ha dato conferme a riguardo. Se ci troveremo di fronte a un semaforo giallo si tratterà di un alert. E non è detto che l’ammonizione si trasformi in un’espulsione. Ma il rischio è di azzerare un riconoscimento che, se a regime, rappresenterebbe un’opportunità per tutti i territori del Parco: creerebbe flussi turistici focalizzati sul geoturismo, stimolerebbe la creazione di imprese locali innovative, anche legate alla formazione di settore, e attiverebbe nuovi investimenti, generando processi di sviluppo.

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    Un ciclista in Aspromonte

    In tutto questo anche se il nuovo PIAO (Piano integrato delle Attività e Organizzazione) è stato approvato d’urgenza sulla scorta della programmazione lasciata dal direttore Putortì andato in pensione, gli investimenti sono fermi.
    Il Parco Aspromonte è l’unico tra quelli calabresi a non avere ancora firmato la convenzione con la Regione sulla ciclovia dei parchi, anche se il commissario garantisce che la questione è in via di definizione.

    Il problema è politico

    «Vedo tutte le potenzialità inespresse che ci sono, ma la struttura deve essere messa nelle condizioni di operare. Senza dipendenti è come se avessi le mani legate» continua, che sottolinea come si trovi a governare «per la prima volta un ente senza Direttore».
    Carullo aveva anche proposto una delibera per avviare le procedure con cui individuare la terna per la nomina del nuovo direttore da parte del ministro. Il Ministero dell’Ambiente l’ha annullata, però, perché la nomina del Direttore dovrebbe arrivare su impulso del Consiglio direttivo e del presidente. Che, dopo il commissariamento, non esistono più. Occorrerebbe, quindi, fare pressione sul Ministro affinché ricostituisca quel Consiglio direttivo.
    Come sempre, il problema è politico.

    Leo Autelitano

    Secondo Carullo, l’ex presidente Autelitano, convocato con due pec, non si sarebbe presentato per le consegne dei dossier aperti. Autelitano a sua volta, in una conferenza stampa con accanto il senatore Giuseppe Auddino (M5S), ha denunciato il carattere «trasgressivo, punitivo ed elusivo del decreto di commissariamento», imputandolo a oscure manovre di una certa parte politica. Come a dire: politica per politica, ognuno schiera le armi che ha. Ha poi negato di aver ricevuto la convocazione. Sarebbe potuta essere l’occasione per chiarire la situazione del Geoparco.

    Le decisioni dei tribunali

    In tutta questa matassa, le uniche certezze al momento sono due decisioni dei giudici. La prima è quella del Tar che rigetta la richiesta di sospensiva in via cautelare del provvedimento di commissariamento dell’ente.
    La seconda è la bocciatura del ricorso presentato da Maria Concetta Clelia Iannolo contro l’Ente per il reintegro completo in ruolo.
    E con la polemica che non accenna a smorzarsi, a perdere sono sempre cittadini, comunità e territori.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Quel che resta di Polsi

    GENTE IN ASPROMONTE| Quel che resta di Polsi

    Raccontare Polsi non è stato facile: un luogo, uno spazio, talmente complesso da richiedere una lunga gestazione. Da settembre ad oggi. Ho utilizzato un format diverso dal solito. Nessuna videotestimonianza o elemento giornalistico, se non una cronaca di viaggio fatta di sensazioni e incontri. Questo mi ha permesso di parlare di Polsi fuori da luoghi comuni, semplificazioni, narrazioni iper o ipotrofiche. Avevo con me due compagni di viaggio: il generale Battaglia, protagonista della scorsa puntata e il collega Eugenio Grosso, fotogiornalista e autore di diverse foto del pezzo. Il loro sguardo e l’esperienza condivisa sono parte sostanziale di questo racconto.

    «Polsi è il centro del mondo»

    Il centro del mondo. Scivolando lentamente in fondo al crinale irto della vallata del Santuario della Madonna della Montagna, la tripletta verbale era arrivata precisa come una revolverata. «Polsi è il centro del mondo», aveva dichiarato il generale Battaglia mentre si annunciava al presidio dei carabinieri di guardia al cancello di ingresso. Ci accompagnavano, insieme alle prime carovane di pellegrini, due elicotteri della polizia che ci avrebbero sorvolato incessantemente per i successivi due giorni.
    Era il mezzogiorno di venerdì 1 settembre e si aprivano le celebrazioni della Madonna della Montagna, sacra per mezza Calabria e anche per quel pezzo di Sicilia che si affaccia sullo Stretto. Una festa che accoglie ogni anno tra i 6 e i 7 mila visitatori.

    Avevo maturato in fretta la decisione di partecipare: posto nel cuore dell’Aspromonte, Polsi era una tappa irrinunciabile del mio viaggio. Un grumo di sacro e profano, sangue, simboli, fede, terra e radici che, una volta l’anno, faceva convergere tutta la popolazione verso il centro di quel mondo con un misto di devozione, sacrificio e attesa.
    Avevo cercato di aggregarmi senza esito a un paio di carovane, fin quando Demi d’Arrigo, guida parco e leader dell’offerta sportiva di montagna, mi aveva suggerito di sentire Battaglia. L’idea di accompagnarmi a un generale dei carabinieri già alla guida del Comando Provinciale di Reggio Calabria per una tappa così controversa mi convinceva. Un paio di chiamate e la nostra ospitalità al Rettorato del Santuario era stata accordata.

    L’arrivo

    Il tragitto si era rivelato un meta-viaggo: salendo da Scilla in quota, ci eravamo confrontati sullo stato dei territori, le attività svolte dall’Arma, i reati ambientali, i processi di legalità e le dinamiche di spopolamento. Da Gambarie avevamo deviato verso Montalto e l’auto si era tuffata nel ventre della Montagna, superando affacci mozzafiato sulla costa jonica.
    Dopo il gomito dell’ultima curva era apparsa la vallata scoscesa. Dritto di fronte a noi si scorgeva l’unica altra via di accesso al Santuario per chi arrivava da San Luca. Il peso della montagna, con i suoi secoli di marce e contaminazioni che si abbattevano su di me a ondate potenti, mi aveva sovrastato. Da quell’utero montano era come rivenuta alla luce una memoria sociale e antropologica. Mi si era piantata sul petto: vedevo schiere di devoti e generazioni di monaci, eremiti, pellegrini, viaggiatori, contadini, signori, pastori in marcia. «Pazzesco!», mi era sfuggito.

    Ai bordi della strada e nei rari spiazzi sotto di noi, iniziavano a comparire i primi accampamenti: auto accatastaste, ripari ricavati tra accorpamenti di macchine, furgoni intasati da gente dormiente o intenta in qualche preparativo. Avevamo da poco superato bancarelle che traboccavano di effigi sacre, souvenir a sfondo religioso e svariate cianfrusaglie di vaga cifra etnica. Risuonavano già a ritmo incalzante tarantelle e tamburelli, preludio di quanto sarebbe accaduto durante la veglia.

    La festa di inizio settembre rappresentava una delle quattro tappe delle celebrazioni sacre dedicate alla Madonna della Montagna. Ogni 22 agosto dell’anno cominciava la novena. Partiva allora la carovana che da San Luca attraversava le vallate verso il Santuario, per arrivarvi all’inizio di settembre in occasione della processione, cui seguiva, dopo due settimane, la festa della Santa Croce. Ogni 25 anni, poi, in occasione dell’incoronazione, ai portatori di Bagnara, si sostituivano quelli di San Luca. Una geografia che racconta bene la netta divisione di ruoli e aree, riflessi nei dettagli del racconto della fondazione del Santuario: il bue, la croce e la pesca. Sotto il simbolo mariano, l’Aspromonte è sempre stata una Regione unica, estesa dalla costa a Montalto.

    Una nuova reputazione per Polsi

    Nel 2023 la festa si svolgeva in un anno carico di polemiche: l’area mercatale del Santuario era stata inibita. Non tanto – e non solo – per ragioni di ordine pubblico, ma come nuovo segno di legalità. Gli ambulanti che vi sostavano spesso non avevano licenze. Era uno dei molti segnali che il Rettorato e le istituzioni lanciavano per costruire una nuova reputazione per Polsi.

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    La caserma dei Carabinieri a Polsi (foto Silvio Nocera)

    Appena entrati al Santuario, un nutrito gruppo di militari, Rettore compreso, era arrivato a salutarci. La loro presenza era ben visibile. C’erano almeno una settantina di agenti a presidiare un complesso non più grande di un isolato. La sede del Rettorato del Santuario che dominava il complesso sacro – la Chiesa, gli alloggi, il Museo degli ex voto – affiancava la caserma dei Carabinieri, un vecchio edificio fatto ristrutturare da Battaglia che, durante la sua reggenza, aveva inteso dare un segno tangibile della presenza dello Stato in un luogo emblema di criminalità. E siccome le guerre si combattono anche con i simboli, la fiamma dell’Arma campeggiava senza timore.

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    La Madonna tra fedeli e carabinieri a Posi

    In realtà, dopo le polemiche sul summit di ndrangheta promosso da Oppedisano nel 2009 e la condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa di Don Pino Strangio, storico Rettore del Santuario fino al 2016, molte cose erano cambiate. L’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti si era recato a Polsi quello stesso anno e il Vaticano a modo suo si era mosso. Nel maggio 2023 poi lo stesso Papa aveva benedetto la corona della Madonna. Azione che faceva seguito alla scomunica per i mafiosi.

    Un millennio dopo

    Appena oltre il Santuario e sulla piazza del sagrato della Chiesa, sui ballatoi degli alloggi che tradizionalmente ospitavano i pellegrini di Bagnara, erano stipati capannelli di persone intente a pregare, a prepararsi alle celebrazioni o imbastire colazioni.
    Avevamo pranzato al refettorio col Rettore, i parroci, il sindaco di San Luca, vigili urbani, carabinieri, poliziotti e volontari. Era seduto accanto a me un uomo dall’aria apparentemente stralunata. Eugenio Grosso l’avevo conosciuto così, scoprendo che era un fotogiornalista catanese, trapiantato a Milano. Aveva scelto Polsi come tappa del suo fotoreportage sui culti mariani in Italia. Da Milano, era approdato a San Luca e da lì si era unito a una carovana in direzione Polsi.

    Avevamo percorso il Santuario in lungo e largo: ci confrontavamo in mezzo a una storia iniziata nell’XI secolo con i monaci basiliani di rito greco, passata tra luci e ombre al nuovo splendore promosso da Idelfonso del Tufo, vescovo di Gerace, e giunta fino a noi, fermi a parlare sotto il suo campanile bizantino.
    A ridosso della soglia della Chiesa, dove da ore si pregava in dialetto, si cominciava a suonare e si formavano le prime ruote di danzatori. Da alcune variazioni nel movimento dei piedi si poteva intuire la loro provenienza: i rosarnesi saltellavano, i sanluchesi strisciavano i piedi.

    Dentro e fuori, sacro e profano

    Quella soglia separava il dentro e il fuori, sacro e profano. Varcandola, ci si immergeva in acque mistiche e primordiali. Ero entrato in chiesa e mi ero tuffato in quel dentro al suono di giaculatorie dialettali quasi incomprensibili, fino ad un passo dalla trance. In quel contesto vincoli e differenze si frantumavano, per dare vita a un corpo unitario. Un respiro collettivo che si gonfiava in nome di quel culto mariano millenario ispirato al mito della Sibilla Cumana. Una devozione che aveva sorpassato indenne l’avvicendarsi dei diversi riti cristiani: monachesimo mistico, ortodossia bizantina e rito latino.

    Quel pomeriggio, sotto l’occhio degli elicotteri della polizia, la liturgia era proseguita con la prima uscita della Vergine, che era scivolata lungo la navata centrale, navigando su un mare umano. Sotto un baldacchino di damasco, era stata condotta fino all’anfiteatro dietro la chiesa per i primi riti davanti a tutte le autorità. Aveva circumnavigato tutto il santuario ed era rientrata per essere vestita. La sua corona era stata condotta su un cuscino di velluto rosso. Il picchetto che la trasportava si era fatto largo nella navata centrale tra la folla che si apriva in due ali. L’avevano raccolta sull’altare il Rettore e un sacerdote. Armeggiando sopra e sotto la scala che arrivava all’edicola, tra preghiere e applausi, l’avevano posta in capo all’effige al grido di “Viva Maria!”.
    Si era allora innalzato un bosco di smartphone che riprendevano, scattavano, illuminavano un rito di passaggio ciclico, rinnovato da secoli. Una selva di ceri votivi che occhieggiavano verso l’altare, in una testimonianza di fede da smaterializzare, condividere e moltiplicare in Rete.

    Non sono credente, ma…

    All’imbrunire il Santuario era colmo. I due ristoranti andavamo a pieno ritmo, tra alcool e carne alla brace. Il generale aspettava un gruppetto di alpinisti che vi avrebbero trascorso la notte. A breve mi attendeva la dimensione del fuori. Durante la cena al refettorio, alla presenza del vescovo Morrone, mi ero intrattenuto coi ragazzi del reparto Cacciatori delle Alpi in servizio. Carabinieri e poliziotti si alternavano: c’era chi smontava e chi si preparava per il turno di notte.
    Qualcuno aveva ricordato che, intanto, in quella notte di veglia, per i sentieri di Aspromonte c’erano pellegrini in viaggio, devozione nelle gambe e sacrificio sulle spalle. Di quei momenti Eugenio mi aveva mostrato le foto fatte durante il viaggio da San Luca: donne e uomini che si laceravano i piedi scalzi su pietre acuminate, portandosi le loro croci e le promesse alla Madonna per una grazia. Si dirigevano al Santuario con viveri e bambini, sequestrati dalla stanchezza e dalla fede.

    Con Battaglia ci eravamo intrufolati nel cortile di uno dei due ristoranti per raggiungere Peppe Trovato, catanese naturalizzato reggino e affermatosi come primo esploratore di forre e cascate aspromontane. Con lui un gruppetto di alpinisti alla testa di Pino Antonini, speleologo, già direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino e tra i sopravvissuti al terremoto in Nepal del 2015.
    Dopo qualche chiacchiera, ci eravamo spostati fuori ad osservare l’andamento dei festeggiamenti. Il gestore faceva avanti e indietro con le mani piene di birre e bicchieri. In un dialetto ostico, aveva spiegato Polsi a modo suo. Una vita dura, la morte sfiorata. Non era un gran credente, ma era certo che la Madonna della Montagna lo avesse protetto col suo manto.

    Maschi e femmine, buoni e cattivi

    Come quello era rientrato, avevo chiesto a Battaglia in che percentuale avremmo potuto dividere i “buoni” e i “cattivi” della serata. «Non lo so, ma ti dico che lo Stato si è battuto per sottrarre ai “cattivi” dei territori ritenuti perduti da molti».
    «Hai notato che siamo tutti maschi?», avevo ribattuto. Gruppetti di uomini di ogni età bevevano e cianciavano lungo tutta la via, sciamando da un lato all’altro fino in piazza dove impazzavano le ruote di ballo. Le pochissime ragazze presenti erano circondate da uomini intenti nel loro rituale di corteggiamento. Le altre donne erano tutte in chiesa.
    Al mondo di dentro e di fuori si aggiungeva il codice di genere, con la suddivisione di ruoli tra maschi e femmine. Ognuno al posto proprio, assegnato per sesso e per nascita.

    Donne sui ballatoi
    Donne sui ballatoi (foto Silvio Nocera)

    Polsi, dove tutti si ritrovano

    Eugenio si muoveva veloce con la sua macchina fotografica. Io continuavo a incrociare conoscenti. Gente che, in alcuni casi, non vedevo da anni: Polsi era davvero il luogo dove tutti si ritrovavano.
    «Non è un caso che Polsi sia diventato emblema di ‘ndrangheta. Qui ci si incontrava tutti insieme quando muoversi era complicato. La festa diventava allora collante e occasione per riunirsi e discutere di affari di comunità, più o meno leciti; attribuire ruoli e influenze; lottizzare territori. L’intervento dello Stato ha invertito il trend, ma l’eco di certi fatti e la potenza della ritualità religiosa hanno lasciato incrostazioni dure a morire. Oggi però siamo nelle condizioni affinché questa percezione cambi», aveva argomentato il generale.

    Medaglie-votive
    Medaglie votive (foto Eugenio Grosso)

    Ero andato a letto con tutto questo nelle orecchie, mentre fuori infuriava un baccanale pompato da un tasso alcolico sempre più elevato. Ero rimasto sospeso in un onirico liquido: le immagini dei boschi e delle valli si era mescolata a echi di preghiere, impressioni di volti, sguardi carpiti, tra divise, sacralità e paganesimo.
    Al mattino, dopo svariati caffè, mi ero gettato in strada con la macchina fotografica assieme a Eugenio per la processione, cui sarebbe seguita la messa solenne tenuta dal vescovo di Reggio. La folla era per lo meno triplicata e al Santuario erano arrivate altre carovane da tutta la provincia e dal Messinese. Molti portavano al collo un fazzoletto votivo straripante di medagliette, con l’immagine della Vergine. Dal giorno precedente i tamburelli non avevano mai smesso di macinare terzine. Sui popolatissimi ballatoi degli alloggi, erano stati stesi drappi in omaggio al passaggio della Madonna.

    Madonna vs Sibilla

    Avevo guadagnato un posto strategico in cima alla piazza accanto a uno dei passaggi obbligati della processione. L’effige allora era uscita e aveva iniziato a compiere il giro della piazza fino a piantarsi col volto fisso verso il versante opposto della Montagna.
    La leggenda raccontava che in quegli anfratti fosse imprigionata la Sibilla, punita da Dio per aver tentato di sostituirsi alla Vergine come madre di Cristo. Suo fratello, che aveva osato schiaffeggiare Gesù per difenderla, era stato gettato anch’egli in quell’antro e relegato alla pena eterna del buio dietro sbarre di ferro che avrebbe colpito con la mano per l’eternità. L’eco di quella pena riempiva la valle nelle giornate dal clima più duro. Se la geografia veniva prima della storia, la morfologia del territorio addirittura la precedeva.

    L’Effige Sacra, autentico femminino sacro della Montagna, veniva ostesa a tutela dell’Aspromonte e del suo popolo dalle insidie dei luoghi e degli elementi naturali che ne avevano regolato vita e morte per secoli. La vara aveva poi circumnavigato il santuario e mi era sbucata davanti. Dall’alto, tra urli di giubilo, venivano lanciati coriandoli di omaggio. Una volta tornata in piazza, la Madonna era stata girata entrando in chiesa di spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’antro della Sibilla.

    L’omelia femminista

    Cominciava la messa solenne. Dagli alloggi il nostro sguardo dominava lo spazio dell’anfiteatro che ospitava l’altare. Le gradinate erano affollate di fedeli e sacchi a pelo. All’ascolto dell’omelia mi ero ringalluzzito: il vescovo Morrone aveva puntato dritto sulla centralità della figura mariana, nel suo agire di donna e madre al servizio del Bene. Aveva parlato di «donna che ha saputo rompere gli schemi, in un’epoca in cui dominava il maschio». Da lì, il salto per antonomasia al ruolo rivoluzionario delle donne nella Bibbia era stato veloce. Parlava alla platea, ma si rivolgeva alla coscienza delle donne di Polsi e quella dei loro figli, lanciando un messaggio di giustizia e pacificazione. Li aveva spronati a «prendere in mano il proprio futuro, e non delegare ad altri quello che compete ad ognuno di noi, perché soltanto così possiamo sperare di risollevare la nostra terra, e sconfiggere la cattiva politica».

    La Madonna di spalle all’anfiteatro (foto Silvio Nocera)

    Un’omelia, rivoluzionaria anch’essa, capace di incrociare i grandi temi che la Chiesa stava affrontando: le pari opportunità, una nuova dignità per il ruolo delle donne, il contrasto al crimine organizzato. Parole che avevano fatto eco al messaggio inviato dal cardinale Zuppi, presidente della CEI: «Il Santuario della Madonna di Polsi è stato profanato nel recente passato (…) per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. (…) Da Polsi nasca, invece, una consapevolezza nuova di cui ha bisogno tutto il nostro paese perché le mafie hanno tanta penetrazione al Nord e tante ramificazioni internazionali». Un movimento, quello della Chiesa, partito anni addietro, dopo l’apertura delle indagini su Don Pino Strangio: il vertice del Rettorato del Santuario era stato rinnovato ed erano state avviate una serie di azioni con cui il Vaticano intersecava quelle dell’Arma dei Carabinieri.

    Una strada per Polsi

    Al termine della cerimonia mi ero fermato a parlarne con don Tonino Saraco, Rettore dal 2017. «Oggi di Polsi si parla in modo diverso e noi stiamo facendo di tutto per riabilitare la sua reputazione. Che un passato fosco ci sia stato non è in dubbio. Ma abbiamo il compito di lavorare per cambiare, forti dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Il mio compito è non permettere che determinate cose riavvengano. Non solo qui c’è sempre una persona di mia fiducia, ma abbiamo cominciato con l’installare un sistema di videosorveglianza e trasmettere gli elenchi dei nostri ospiti alla Questura. Questo riguardo alla deterrenza. Stiamo poi lavorando su due progetti, uno in essere e un altro venturo: occupiamo nell’azienda agricola del Santuario ex detenuti cui presto affiancheremo un birrificio artigianale».

    Don Tonino Saraco Polsi
    Don Tonino Saraco (foto Eugenio Grosso)

    «I grandi temi da affrontare –  aveva aggiunto don Saraco – non sono mai cambiati: il lavoro e le infrastrutture. Creare lavoro vuol dire togliere terreno alla malavita. Costruire strade permette a questo luogo di essere accessibile, vissuto, meglio controllato e governato. Ho dovuto rifiutare parecchie visite dalla Sicilia perché arrivare qui in pullman è impossibile. Un anno e mezzo fa Occhiuto ha annunciato 65 milioni di euro per la realizzazione di una nuova strada che colleghi quello che è il santuario mariano più frequentato del Meridione, con visite che toccano picchi di 50 mila presenze l’anno tra giugno e ottobre. Non mi ritrovo nelle argomentazioni che di chi vede in questa strada una minaccia all’autenticità e allo spirito del luogo. Questo progresso può trasformare Polsi in un importantissimo attrattore per il turismo religioso».

    Il ritorno

    La folla cominciava a defluire: i trekker ripartivano per la colazione lungo qualche sentiero, molti tornavano a tende e roulotte per il pranzo. Il generale ed io, dopo un giro al Museo degli ex voto, ci eravamo attovagliati coi carabinieri per un menu a base di capra. I rotori degli elicotteri di sorveglianza si erano smorzati e l’aria si era scaricata di quella tensione in cui eravamo rimasti immersi.
    Dopo i saluti e un ultimo caffè col Rettore, avevamo recuperato Eugenio ed eravamo ripartiti tra cronache dei due giorni, ricordi di vecchie indagini e considerazioni sulla riconquista degli spazi sottratti alla ‘ndrangheta. Riemersi verso la costa, lo scenario del tramonto sullo Stretto placido di settembre ci aveva ammutoliti. Davanti al cielo rosso che degradava verso l’indaco, Stromboli sbuffava all’orizzonte.

    Quando ormai tutto sembrava compiuto, sopra Melia, avevamo incrociato un principio di incendio. Battaglia aveva inchiodato: scesi dall’auto, avevamo iniziato a gettare terra sulle fiamme, E siccome non sarebbe bastata, eravamo partiti verso la prima fontana. Avevamo fatto bene perché, passata circa un’ora dalla prima chiamata dei soccorsi, i pompieri non si erano ancora presentati.

  • Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria?

    Che fine ha fatto Reggio Calabria? Potrebbe essere il titolo di una pellicola, a metà tra il poliziesco ed il noir. Perché nonostante l’avvento RyanAir, Reggio è sparita: appalti al palo, progetti arrivati all’ultimo miglio e mai completati, cantieri finiti nell’abbandono. E l’assenza di un dibattito pubblico serrato e pragmatico su dove sia e dove voglia andare.
    Dopo l’annuncio dello sbarco della compagnia aerea irlandese, in riva allo Stretto poco si è saputo. Nessuno ha visto il piano industriale successivo ai tre anni in cui la Regione coprirà il costo delle nuove tratte attivate. E il silenzio di imprenditori, associazioni di categoria, amministratori, e operatori vari, non lascia tranquilli. Una rondine sola non fa primavera.

    Reggio Calabria e i dati ISTAT

    Più che la ricettività, il vero tema da porre è l’attrattività. Su questo i dati sono impietosi: nella rilevazione ISTAT del 2023 sui profili delle Città Metropolitane in Italia, Reggio Calabria occupa gli ultimi posti di tutte le voci indicizzate. La sua popolazione è diminuita di 7,3 punti percentuali. Assieme a Palermo e Napoli, risulta l’area con la minore partecipazione attiva al mercato del lavoro. A livello nazionale, presenta la più bassa densità di unità locali relative ad offerta turistica, attività finanziarie e professionali. Senza contare che entro il 2033 è prevista un’ulteriore emorragia demografica.
    Un’Area metropolitana in piena crisi di lavoro e di risorse umane. Incapace di fare sistema. Un non senso rispetto a quello che a Reggio già c’è e che, se coordinato, potrebbe fare la sua fortuna: un aeroporto, diversi punti approdo marino, due università, un museo di rilevanza internazionale e uno del mare in fase di realizzazione, un parco nazionale, decine di km di costa, un patrimonio storico e archeologico non comune, produzioni floristiche ed agricole uniche per caratteristiche e qualità.

    Il rapporto con il mare

    Negli ultimi decenni, Reggio Calabria ha cominciato un cammino verso il modello di Città del Mediterraneo, rivalutando il suo rapporto col mare. Prima con la progettazione del lungomare dall’allora presidente di FS, Vico Ligato. Successivamente con la sua realizzazione sotto la guida di Italo Falcomatà. In ultimo, con la pianificazione del Waterfront da Giuseppe Scopelliti. Proprio il Waterfront – prima cassato da Giuseppe Falcomatà, poi ripreso, rimodulato e spezzettato rispetto all’idea originaria – deve ancora vedere la sua fine, tra cantieri sospesi o semi-abbandonati e misurazioni errate.
    Ne fa parte anche il Museo del Mediterraneo, già inserito nel PNRR,  pensato per «ampliare e potenziare l’offerta turistico-culturale» e dare «impulso al rilancio economico e sociale della città».

    Giuseppe Falcomatà

    Il progetto scomparso

    Resta invece al palo il progetto del porto turistico, Mediterranean Life. da realizzare a Porto Bolaro, zona sud della città, che il Comune ha approvato pressoché all’unanimità con delibera di Consiglio lo scorso 13 novembre 2021. Una grande infrastruttura da diporto con servizi integrati capace di generare attrattività per il territorio e creare 2.500 posti di lavoro. Un’opera a ridosso di una delle fermate della nuova metropolitana di superficie (finanziata con 25 milioni di euro dall’allora ministro dei Trasporti Bianchi) che RFI, una volta terminato l’aggiornamento del listino dei prezzi, è pronta a cantierare. E a due passi da un aeroporto che, per mantenere questa rinnovata vitalità, dovrà dimostrarsi attrattivo, caratterizzando l’offerta Reggio Calabria.

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    Come dovrebbe diventare Porto Bolaro con la realizzazione del progetto Mediterranean Life

    La delibera che approvava il progetto, a seguito del preliminare parere favorevole del dirigente di settore, gli assegnava un interesse strategico fino a ipotizzare di inserirlo nel PNRR. Dava quindi mandato al sindaco (poi sospeso) di convocare una conferenza inter-istituzionale per preparare il relativo accordo di programma ed eventuali deroghe al Piano regolatore, come da verbale della conferenza dei servizi tenutasi il 2 aprile 2019. Dell’inserimento nel PNRR non si è più parlato e dell’accordo di programma non si ha notizia. Dell’idea non si parla nemmeno nella bozza di Masterplan della città: al Punto B.4 del documento che illustra il Parco del Mare, Porto Bolaro, inserito ne “Le spiagge del vento”, è menzionato solo come zona con pontile di attracco. Un po’ poco per un documento programmatico che dovrebbe dettare le linee di indirizzo della futura città.

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    L’area costiera interessata dal progetto, così come appare oggi

    Botta e risposta

    Il progetto non è nemmeno previsto nel nuovo Piano Strutturale Comunale, che non prevederebbe ulteriori cubature in città e su cui pure la Regione pare abbia sollevato diverse osservazioni.
    Inoltre il recente Piano spiaggia prevede per Porto Bolaro solo l’autorizzazione per punti di approdo e bagni chimici, eludendo la possibilità di erogare servizi per le imbarcazioni in sosta. Non di certo un incoraggiamento.
    Nel botta e risposta tra il raggruppamento di imprese e l’amministrazione Comunale, Paolo Brunetti, facente funzione durante l’interregno di Falcomatà, ha dichiarato che il progetto esecutivo richiesto dal Comune non sia mai arrivato. Peccato che non si trattasse di una gara pubblica, ma della presentazione di un progetto “di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi” presentato con “motivata richiesta dell’interessato” con relativo studio di fattibilità, come previsto dal comma 3 dell’articolo 14 delle legge 241/1990.

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    Pino Falduto, l’imprenditore reggino promotore del progetto

    Lo scorso 8 febbraio, a oltre due anni dalla delibera, tramite Pec, il raggruppamento di imprese coinvolte, con a capo una reggina, ha scritto al Comune. Ribadendo di poter fornire gratuitamente «assistenza tecnica per il completamento dell’iter amministrativo», ha chiesto «un incontro di chiarificazione tecnico amministrativa» per «dare finalmente impulso» al progetto. Che, dice il sindaco, oltre ad incassare il parere favorevole di Sovrintendenza, Enac, Città Metropolitana, deve essere coerente con PSC, piano spiaggia, Ferrovie. Gli stessi attori presenti nella conferenza dei servizi preliminare e gli stessi documenti programmatici in cui un’ipotesi del genere non si menziona.

    Reggio Calabria in silenzio

    Per aumentare il proprio appeal turistico Reggio Calabria non può fermarsi all’offerta di città green che guarda alla cultura come idea di sviluppo. Deve promuovere una grande infrastruttura che punti sull’intermodalità (Forza Italia ha appena presentato un emendamento all’ultimo decreto del PNRR proprio sul rafforzamento dell’intermodalità e sull’annullamento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco sugli aerei). Un’opera che incoraggi il partenariato pubblico-privato inserito nel Masterplan e che sfrutti la geografia dell’area: al centro del Mediterraneo e della grande autostrada del mare che collega Oceano Atlantico e Oceano Indiano.

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    Uno yacht di fronte a Porto Bolaro

    Serve un’infrastruttura che attragga investimenti e capitali, generi economie di scala e spalanchi una nuova porta di accesso al suo territorio e ai suoi patrimoni: Museo del Mediterraneo, Museo della Magna Grecia, Parco Nazionale dell’Aspromonte, bergamotto, archeologia e storia millenaria. Potrebbe essere Mediterranean Life?
    Per questo, però, servono volontà, visione, continuità, strategia, vitalità, partnership e convergenza. Invece divisa, isolata, inaccessibile, lasciata all’oblio di un dibattito che non c’è, Reggio Calabria sembra non aver imparato la lezione. Mentre continua a perdere residenti, forza lavoro, capitale umano e opportunità.

  • GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    In questo mio vagare per la Montagna, mi sono chiesto più volte se ci fosse un modo corretto di raccontarla e, se sì, quale fosse. Dopo un anno di peregrinare, portato a volte dalla casualità, altre dal passaparola, altre ancora da contatti che avevo o che sono arrivati, mi sono accorto che il modo più giusto era quello dettato assieme da intuito, curiosità e flusso. E con flusso intendo la capacità di farsi trasportare verso un apparentemente noto in grado di farsi ignoto. Ripulendosi, in un certo senso, gli occhi e la bocca, per tutto quanto, pur guardandolo, non era stato visto. Pur udendolo, non era stato ascoltato. Pur contemplandolo, non era stato colto. Perché, crogiolandosi nella familiarità di schemi cognitivi confortevoli, che consentono di inferire sommariamente risparmiando energie, spesso ci si accomoda. Ma tale comodità ha un prezzo alto: lo stereotipo.
    Chi invece si è battuto contro questa tendenza che spesso porta ad oscillare tra sciovinismo e manicheismo non è né un ritornato, né un restato. Ma un arrivato. Che poi, a modo suo, è diventato un ritornante e con il quale ho condiviso diversi momenti, più o meno lunghi, di confronto e riflessione: il generale Giuseppe Battaglia.

    Storia e geografia

    Oggi consulente presso la Commissione Europea, emiliano di origine, è un uomo di legge e di passioni. «Sono stato assegnato al Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria per un caso fortuito. La mia destinazione doveva essere Milano. Ho obbedito ai comandi e mi sono ritrovato in una terra inaspettata e sorprendente, dove ho avuto la fortuna di incontrare l’Aspromonte e i suoi sentieri. L’ho battuto palmo a palmo, vivendolo e respirandolo, ora per lavoro ora per diporto. Il primo alimentava il secondo e viceversa. Appena posso, vi torno sempre. Per quanto abbia girato, non ho mai scovato altrove ciò che ho trovato in Aspromonte: una terra primordiale, selvaggia, ancorata a un’antropologia, a tradizioni e a culture complesse che troppo facilmente sono state etichettate».
    Grande appassionato di alpinismo, esploratore e viaggiatore, per il generale tutto ruota attorno un concetto semplice: «La geografia viene prima della storia, la plasma e l’ha sempre indirizzata. È così che l’Aspromonte deve essere osservato e analizzato». Col generale ho camminato, ho viaggiato e ho anche affrontato l’esperienza di Polsi che tratterò nella prossima puntata.

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    Antonio Barca con la moglie Marie Therese Italiano

    Siamo al rifugio Il Biancospino, gestito da altri due pezzi da novanta, Antonio Barca e la moglie Marie Therese Italiano: uno dei luoghi incantati della Montagna, nascosto tra i Piani di Carmelia nel territorio di Delianuova. Lo ha costruito a mano lo stesso Antonio, pezzo dopo pezzo. In occasione della presentazione del libro Guida all’Aspromonte misterioso – Sentieri e storie della montagna arcaica si è radunata una piccola folla di appassionati. Battaglia ne è l’autore insieme ad Alfonso Picone Chiodo, scrittore, fotografo, ricercatore, trekker, alpinista, agronomo. Restato di questa puntata, primo tra i primi camminatori degli anni Ottanta e tra i primi a intravedere le opportunità di questo territorio.

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    La copertina del libro scritto da Battaglia e Picone Chiodo

    La Calabria brutta e cattiva

    «Tornare qui a fare questa presentazione è una fortissima emozione. Si tratta del luogo in cui sono stato accolto come un pellegrino. Perché – inizia Battaglia – pellegrino lo sono stato davvero. La mia storia è cambiata nel 2017, l’anno della riunificazione del Corpo Forestale dello Stato coi Carabinieri. Durante la ricerca di alcune piantagioni alcuni operai forestali si persero in località Ferraina, piena zona A del Parco. Un caso molto imbarazzante per il Comando Generale a un mese dall’accorpamento. Anche perché si trattava del comune di Africo, stereotipo della Calabria brutta e cattiva. Durante un viaggio col Comandante Generale che stava assegnando le destinazioni dei provinciali (comandanti, ndr.), quegli si ricordò che sono un alpinista: da Milano mi dirottò a Reggio Calabria, dove c’era tutto un territorio da esplorare e serviva gente esperta. A distanza di anni mi colpisce ancora che, dalle prime ricerche che effettuai per documentarmi su un territorio a me ignoto, emerse una narrazione nera. Negativa. Nemmeno il sito dell’Ente Parco conteneva informazioni aggiornate».

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    Il generale Giuseppe Battaglia

    Drammatica bellezza

    «Il mio primo giorno di incarico, il 5 ottobre, lo trascorsi a Polsi – prosegue Battaglia – dove c’era la chiusura dell’anno liturgico. Chi conosce i luoghi sa quanto lunghe e impervie siano le uniche due strade che arrivano al santuario. Fu un’epifania. Non facevo altro che fermarmi per potere scattare delle foto. Il mio primo contatto diretto con l’Aspromonte si consumò all’insegna di una drammatica bellezza. Iniziai poi un’attività di esplorazione sistematica di tutte le stazioni, dalle alture al mare, constatando che ogni vallata aveva una storia peculiare, diversa dall’altra. Avevo bisogno di battere quelle vaste aree palmo a palmo per potere operare. Mi resi conto di due cose: constatai quanto complesso e articolato fosse il territorio di Reggio ed ebbi la conferma che ogni cosa – nel bene e nel male – aveva una sua radice geografica. Se una certa famiglia aveva tenuto cinque sequestrati nel suo territorio, non era un caso: quel nucleo gestiva una determinata porzione di territorio ben noto che gli consentiva di latitare e di tenere sotto diretto controllo i rapiti».

    La Guida ai sentieri dell’Aspromonte

    È una giornata di metà autunno. Il tempo non si decide a volgere al meglio o al peggio e resta sospeso. Frescheggia nonostante sia l’ora di pranzo. Nell’ampio giardino del rifugio Teresa e Antonio hanno allestito un salottino con sedute rustiche e comode. Alla chetichella, alla presentazione arrivano invitati e avventori. Si presenta, in omaggio al generale, anche un manipolo di carabinieri.

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    Carabinieri al rifugio Il Biancospino per la presentazione del libro

    «L’idea e la nascita di Guida all’Aspromonte Misterioso – Sentieri e Storie di una montagna arcaica – derivano dall’incontro mio e di Alfonso. Come Arma dei Carabinieri avevamo già avviato delle pubblicazioni storiche che racchiudevano quanto acquisito nei nostri archivi a livello provinciale e centrale sulle vicende che avevano coinvolto questi luoghi negli ultimi 60 anni. Con Alfonso abbiamo poi ragionato sulla possibilità di prendere questo materiale, isolare determinati episodi contenuti in quegli archivi e nei verbali e associarli a itinerari escursionistici. L’obiettivo era quello di liberare questa montagna da uno stereotipo negativo collegato a fatti storici criminali, senza tuttavia negarli. Ossia associare la parte escursionistica positiva, rappresentata da un pioniere come Alfonso, a una memoria, in modo che l’Aspromonte di oggi possa essere percorso, sia con la consapevolezza di ciò che è avvenuto, sia con la sicurezza e la libertà di un nuovo corso. Senza negare quanto accaduto né il sacrificio dei tanti carabinieri e civili vittime della criminalità, ma celebrando questa nuova vita nella bellezza», mi spiega Battaglia.

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    Il tavolo dei relatori alla presentazione del volume. Da sinistra: Alfonso Picone Chiodo, Francesco Bevilacqua, Michele Albanese, Giuseppe Battaglia e don Pino De Masi

    Un modo di chiudere i conti con la storia e di operare una rifondazione che – continuano in coro gli autori – «fa soprattutto parte di una più ampia operazione di liberazione: agevolare e promuovere la frequentazione di questi luoghi, restituendoli alle persone per bene e sottraendoli ai simboli e al malaffare delle organizzazioni criminali».

    Comprendere l’Aspromonte attraverso i sentieri

    In effetti il volume è una guida per i camminatori e al tempo stesso deposito di memorie che segnano la storia della montagna dall’Ottocento fino ai nostri giorni: 17 itinerari e 124 fotografie suddivisi in cinque parti in cui gli autori compongono affascinanti percorsi escursionistici lungo i sentieri dell’Aspromonte, più o meno lunghi e complessi, sulla falsariga delle storie e degli uomini che li hanno attraversati o contraddistinti. Dal brigantaggio, sulle orme di Giuseppe Musolino, ai primi fenomeni di ‘ndrangheta ambientati tra Pentedattilo, Montalto e Casalnuovo, fino alla lotta dello Stato contro la criminalità e ai luoghi della stagione dei sequestri. Tra boschi, asperità, pendici di origine alpina e vie di fuga. Un percorso per fare un viaggio tra storia, legalità e nuove opportunità relative al circuito di trekking, sport di quota, torrentismo, canoying e ospitalità.

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    Il brigante Musolino

    «Era per noi essenziale legare l’ambiente ai fatti che vi sono avvenuti. Storie di successi e sconfitte per lo Stato, come nel caso di Musolino. Difficoltà. Quelle che oggi l’escursionista incontra sono le stesse che hanno affrontato i carabinieri nel cercare il fuggitivo e ancora le medesime che utilizzava il fuggitivo per nascondersi. E solo in questo gioco di specchi e immedesimazioni, solo recandosi, camminandoci sopra, si può comprendere cosa sia avvenuto in questo teatro remoto e brulicante, in termini di sentimenti, modo di operare, errori, fortune, successi di chi ci ha vissuto. Dove il Luogo ha determinato la dinamica di certi episodi. Questa è la chiave per comprendere l’Aspromonte nella sua integrità», spiegano Battaglia e Picone.   

    La Montagna liberata

    «Abbiamo voluto coinvolgere anche Libera, cui andranno devoluti gli introiti dei diritti di autore e a cui abbiamo affidato la prefazione del volume, nella persona di Don Luigi Ciotti. Da antesignano escursionista sono testimone di come quell’atto del camminare in luoghi ritenuti pericolosi e malfamati a ridosso della stagione dei sequestri abbia contribuito a liberare questa montagna e a trasformarla in vera risorsa, anche a partire dall’istituzione del Parco Nazionale. Un progetto allora impensabile in cui in pochi credevamo ma che ci ha dato ragione, se oggi i sentieri dell’Aspromonte sono battuti da migliaia di escursionisti», continua Alfonso che è anche autore del noto blog L’Altro Aspromonte, una miniera di informazioni e ricerche sulla Montagna e fondatore della Coop Nuove frontiere, prima realtà eco-turistica nel meridione.

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    Alfonso Picone Chiodo, tra i principali esperti dei sentieri in Aspromonte

    Anche lui ha trascorso un pezzo della sua vita a battersi contro gli stereotipi. È stato tra coloro che hanno creduto di poter riscattare un territorio coniugando legalità ed escursionismo. Insieme a Sisinio Zito – socialista con importanti ruoli di governo che creò le premesse legislative per la nascita dell’area protetta – e Guido Laganà, ex assessore regionale al Turismo, ha promosso la creazione del Parco Nazionale a partire dalla realizzazione di un pezzo del Sentiero Italia in Aspromonte, avviando, tra le altre cose, contatti con tour operator stranieri.

    La trappola della legalità

    La liberazione dei luoghi, la loro restituzione a quella parte di comunità sana, l’impegno a rigenerarli attraverso l’avvio di processi di rinascita, riscoperta o sviluppo è lo strumento per evitare quella che il generale Battaglia definisce «trappola della legalità»: un certo oltranzismo nell’applicazione pedissequa di regole e norme in assenza delle necessarie e commisurate risorse a garanzia della sostenibilità di una tale operazione. Solo per scaricarsi da certe responsabilità. Cadere preda di questa trappola castra il principio stesso di legalità, ponendo divieti senza potersi occupare di – o avere le condizioni per – effettuare i dovuti controlli. Inducendo così nelle popolazioni coinvolte la chiara consapevolezza che si tratti solo di divieti formali che possono essere violati allegramente, quando così non è. Comunità e luoghi da tutelare allora rischiano di diventare vittime vulnerabili, perché privati di opportunità di sviluppo e tutela realmente ed oggettivamente sostenibili.

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    L’antropologo Vito Teti

    Sono quegli stessi luoghi – per dirla con le parole di Vito Teti – che non sono solo «articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio, luogo antropologico in senso lato in quanto abitato, umanizzato e riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che se ne sentono parte e che, nell’essere parte di una storia che ha a che fare con noi stessi, ci interroga ancora tutti: restanti ritornanti e partiti».
    Luoghi che, in quanto tali, sono il nucleo di vita, memoria, riconoscimento, speranza, visione, sperimentazione. Nonostante la propaganda che li ha umiliati, la dignità che è stata sottratta e lo stereotipo che li ha fagocitati.

  • E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    «Ho passato tutto questo tempo a dare la caccia a un fantasma. Però adesso stiamo per morire. Potresti dirmela la verità! Diabolik, chi sei?».
    E così insieme a Ginko-Valerio Mastandrea scopriamo che l’antieroe creato negli anni Sessanta dalle mitiche sorelle Angela e Luciana Giussani è cresciuto sull’Isola di Dino, di fronte a Praia a Mare. È la location scelta, insieme alla Tonnara di Palmi, per raccontare la sua infanzia e la sua adolescenza, nell’ultimo film della trilogia dei fratelli Marco e Antonio Manetti.

    I fratelli Antonio e Marco Manetti (foto Pietro Luca Cassarino, fonte Wikipedia)

    Diabolik-Chi sei?, prodotto da Mompracem e da Rai Cinema, è stato presentato al Citrigno di Cosenza nelle stesse ore in cui usciva in tutta Italia. In sala con Antonio Manetti, Giampaolo Calabrese, project management della Calabria film commission, che ha contribuito alla realizzazione, il presidente regionale dell’Anec Pino Citrigno e la giornalista Rosa Cardillo.
    «Le maestranze calabresi hanno una marcia in più, è incredibile», dice Antonio Manetti. «Lavoriamo sempre con la stessa troupe, siamo una famiglia, ma ogni tanto abbiamo incluso qualcuno proveniente da questa regione, ragazzi e ragazze non alfabetizzati cinematograficamente e che sono cresciuti in fretta; con il resto della squadra spesso siamo rimasti meravigliati dalle capacità dimostrate».

    Le riprese del film dei Manetti Bros sull’Isola di Dino

    Da neonato a criminale… sull’isola di Dino

    Nell’ultimo capitolo della saga si scava nel passato di Diabolik. Girato in un pezzetto di Calabria, a Bologna, Milano e Roma (tra la primavera e l’estate del 2022), è ispirato al numero 107 del fumetto, una storia che i cultori conosco bene.
    Giacomo Giannotti e Mirian Leone interpretano la coppia del crimine. Il loro è un grande amore come quello tra l’Altea di Monica Bellucci e il commissario di Clerville. Deliziosa Barbara Bouchet che appare nei panni di una contessa, mentre Carolina Crescentini, anche lei in una breve parte, ricorda un personaggio di Omicidio a luci rosse di Brian de Palma.
    Il futuro criminale viene salvato in mare, neonato, da un manipolo di criminali che lo porta sull’isola (di Dino) dove crescendo imparerà, grazie a chimici, medici e ingegneri pazzoidi, a costruire le maschere umane, a fabbricare trucchi meccanici rocamboleschi, a far scorrere fiumi di pentothal. E sono scene in bianco e nero con un sentore di espressionismo tedesco alla “dottor Caligari”. Sull’isola si aggira una pantera nera che semina il terrore e che tutti chiamano Diabolik. Una creatura che lo affascina, tanto da prenderne il nome.

    La giornalista Rosa Cardillo e il regista Antonio Manetti

    Palmi e il «film del cuore»

    I fratelli Manetti sono romani ma originari di Palmi da parte di madre. Amano e frequentano la regione dello Stretto da sempre. In questo momento seguono il montaggio di U.S. palmese, finito di girare la scorsa estate, con Rocco Papaleo, Claudia Gerini, Massimiliano Bruni (stessi produttori del terzo Diabolik, con in più il patrocinio della Lega Nazionale Dilettanti).
    Un’opera ottimista, «un film del cuore», confessa il regista, che segna il ritorno dei Bros all’abitudine di spaziare tra i generi.
    «E’ dall’incontro con Giampaolo Calabrese che è nata l’idea. Durante le location per Diabolik ci chiese “perché non fare un film interamente dedicato alla regione?”. Io e Marco avevamo una storia, un progetto già scritto e messo da parte. Gliel’abbiamo raccontata e lui ha risposto: “Facciamolo!”».

    Erano due ragazzini i Manetti, quando in un’osteria vicino allo stadio di Palmi, mentre mangiavano gelati, ascoltavano i racconti sulle imprese di un calciatore. «La squadra di calcio è una scusa per raccontare tante cose, è un film pieno di emozioni, sia sportive sia umane». Un film sulla Calabria migliore. «Vorremmo fare per questa terrà ciò che abbiamo fatto in Campania con il nostro Song’e Napule».
    Molta musica (nel caso della premiata opera napoletana quella dei neomelodici, con il Lollo Love di Giampaolo Morelli), tenerezza, ironia, affetto. Nel cast anche Max Mazzotta e Paolo Mauro, attori calabresi che hanno lavorato in diversi film, molto impegnati sul territorio.

    La copertina “stracult” del numero 107 di Diabolik

    Maschere, vintage e tanta musica

    Nel cast di Diabolik-chi sei? c’è Max Gazzè, un altro artista che da queste parti torna volentieri, grazie alla sua collaborazione con il musicista Checco Pallone e la sua orchestra. Interpreta il re del terrore che si traveste per una “missione” e indossa una maschera che ha la faccia… proprio di Gazzè.
    L’attore Paolo Calabresi fa il cattivo, è King, il capo supremo della comunità di geniali delinquenti che popolano l’isola. È il primo avversario di Diabolik. Chi la spunterà?
    Non spoileriamo, ma ci piace l’alleanza femminile tra Eva e la duchessa Altea di Vollenberg, per salvare i loro compagni dalle grinfie di una banda di rapinatori, talmente sopra le righe da provocare un effetto comico. Una parte della critica non è stata generosa con questo film. I Manetti pagano scelte coraggiose da apprezzare nel tempo. La loro trilogia è un’eredità importante per il cinema italiano.

    I personaggi sembrano realmente fumetti. La cinepresa gli sta addosso esaltandone centimetri fisiognomici e sguardi. Ironici e fedeli agli effetti meccanici più che a quelli speciali, gli autori sembrano divertirsi a creare un film dall’allure vintage. Una pellicola forse un po’ lunga, come tante altre delle ultime stagioni cinematografiche, ma che offre più punti di osservazione: uno spasso è scovare gli oggetti e gli arredi di scena: dallo show di macchine d’epoca, alle lampade, alla varietà di telefoni della Sip.
    Tutta la saga passerà l’esame dei botteghini degli States. I registi, che puntano sulla vena noir e su quel dna di cinema italiano apprezzato dagli americani.
    E poi c’è l’amata musica. La colonna sonora originale, uscita anche in vinile, è di Aldo e Pivio De Scalzi, con una soundtrack a base il funky. E vengono in mente L’ispettore Coliandro e altri lavori dei Manetti. Canta anche il re del falsetto degli anni Settanta Alan Sorrenti. Ti chiami Diabolik è il brano d’apertura firmato insieme con i Calibro 35.

    Da sinistra: Pino Citrigno, Antonio Manetti, Rosa Cardillo e Giampaolo Calabrese

    Un via vai di registi e attori

    «Abbiamo accolto la troupe e i Manetti con grande piacere e siamo orgogliosi – dice Giampaolo Calabrese della Calabria film commission, – di far conoscere il territorio attraverso una narrazione innovativa e di alta qualità». Inizia ad essere molto lungo l’elenco dei film realizzati nella regione in questi ultimi anni. La Fondazione avvierà corsi di formazione per personale specializzato, per poter rispondere alle richieste di produttori e registi che scelgono la Calabria. Partito da Cosenza Alessandro Gassman, dove ha soggiornato durante le riprese di alcune scene di A mani nude di Mauro Mancini, è arrivato l’attore americano James Franco, protagonista di Hey Joe di Claudio Giovannesi. Un magnifico via vai che si spera diventi una costante per una Calabria sempre più cinematografica.