Tag: Strade perdute

Atlantide esiste. Ed è dietro ogni angolo che abbiamo dimenticato, o che non abbiamo mai neppure considerato, magari dietro casa. È un’Atlantide geografica ma anche sociale e persino trasversale fra i tempi. Un modo per visitarla? Il più semplice è ignorare l’autostrada. Poi schivare gli ammiccamenti futili della contemporaneità. Percorrere strade perdute. Qui, qualche consiglio.

  • STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    Popi popi vita mia: all’insegna di questa non eccellente lode amorosa si intraprende il 50% approssimativo dei viaggi autostradali degli abitanti di Rende (per chi non ci avesse fatto caso, sta scritta con lo spray sul lato sud di un cavalcavia a breve distanza dallo svincolo di Rende-Cosenza Nord). Tutto un programma, insomma, e soprattutto un’altra buona ragione per ignorare il tracciato autostradale e deliziarsi sul vecchio, su quell’antica Strada per Napoli, la borbonica, la Regia, delle Due Sicilie o come volete chiamarla.

    Quella che a Rende da svariati decenni, dopo secoli di doppi sensi di circolazione per i carri, le carrozze, i cavalli, i pedoni e pure gli alfieri, e infine poi per i primi mezzi a motore, è stata declassata a strada urbana a senso unico – sacrilegio! – sotto il nome di JFK, della Resistenza, di Giuseppe Verdi e di Alessandro Volta, nell’ordine da sud a nord: né santi né poeti né navigatori, quindi, per la strada che separa in due “Rende di Sotto”, e che un tempo separava soltanto una campagna da un’altra campagna.

    Lungo questa strada, fino a un secolo fa, sorgeva al massimo qualche casupola e forse riusciva a intravedersi, poco più a valle, la cappelletta nel mezzo degli ulivi, dei peri e degli eucalipti, della Commenda di San Giovanni Battista.

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    “Popi popi vita mia”, genio anonimo rendese

    Nord Sud Ovest Est

    Il panorama più lontano è rimasto un po’ più invariato: a ovest l’opprimente cortina scura della Catena Costiera: alta e monotona, sempre in ombra (anche quando non lo è, sembra esserlo), quasi una tenda pesante e opaca appesa al cielo.

    Là dietro ci sarebbe pure il mare, vicino e irraggiungibile, impercettibile. Ma è come se non ci fosse: un muro di acacie e di faggete impenetrabili. Dell’oscuro profilo della Catena si distingue solo il pizzo di Monte Cocuzzo. A sud, un pizzico del centro storico di Cosenza e un accenno di basse Serre. A nord, lontane ma più illuminate, le cime aguzze del massiccio del Pollino, spessissimo innevate nei canaloni a dirupo.

    Anzi, non tutte aguzze, quelle cime: fa eccezione il semicerchio glassato e goloso di Serra del Prete, di fianco al triangolino equilatero del Monte Pollino e all’altro scaleno della Serra Dolcedorme. A est? Gli ampi archi a sesti ribassati della Sila, feriti dai viadotti obliqui, messi lì come spillette su una risma di fogli neri: diagonali, a due due, luccicanti, taglienti nel buio delle abetaie e pinete silane. Insomma, una valle di lacr…, volevo dire un’infelice valle piovosa, quella rendese, anche a giudicare dalle precipitazioni medie.

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    L’elegante Casino Telesio nella contrada Feudo Telesio di Castrolibero (foto L.I. Fragale)

    Toponimi familiari

    Eccettuato il centro storico di Rende di cui anche troppo si scrive, e la chiesina di cui sopra, qua intorno resta d’antico poca roba oltre alla masseria S. Agostino – già dei nobili Spada – munita di propria cappella, posta ai piedi della collina omonima ma che omonima non era mai stata e semmai sempre indicata – assieme a contrada Difesa – come Monte Ventino, toponimo dimenticato. Là dietro, nella zona più impervia e selvaggia di tutto il territorio comunale (l’unica che avrebbe qualche spessore paesaggistico e persino naturalistico… chi se la ricorda la quasi pasoliniana “valle dei fossi”?), sorge l’enorme discarica a deturpare il tutto, nei pressi della Fontana Frassine e delle Destre Spizzirri, sopra la stradina che conduce a Ortomatera.

    E qui comincia l’avventura – per citare Sergio Tofano – della toponomastica prediale della zona, che ripete i cognomi delle più o meno antiche famiglie di proprietari terrieri. Spizzirri, De Matera, quindi, ma anche i fondi Monaco e persino il rione Cavalcanti, presso quella contrada Crocevia – con piccola ex-masseria di impianto cinquecentesco – da cui si arriva dritti dritti a Feudo Telesio, in territorio di Castrolibero, poco alle spalle della buffa contrada “Fontana Che Piove”. Tutto vero.

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    Contrada Fontana che piove

    E si potrebbe sconfinare fino a Cosenza, con questo criterio onomastico, fino alla contrada Mollo (città 2000 – Rende) o alla contrada Muoio (già possedimento della famiglia Mojo, che – chiariamo – non è Mollo pronunciato alla spagnola…) ma non mi va: restiamo in territorio rendese e cambiamo una vocale, passando da Mojo a Piano di Majo, la collina che soffre di complesso di inferiorità rispetto alla fintamente blasonata collina di Piano Monello alias, più modestamente, Serra Lupara, paradiso del parvenu da una cinquantina d’anni in qua.

    Una pseudo Beverly Hills in miniatura a Rende

    Non è l’“Italia in miniatura” ma più ambiziosamente una velleitarissima “Beverley Hills in miniatura”: telecamere, villa con piscina, villa con campo da tennis, villa con tutte e due, villino con ascensore per fare mezzo piano che non si sa mai, torretta d’avvistamento, casetta degli gnomi, castelletto delle fiabe, villone da Miami, cottage inglese, villino azzurro, villino rosa, tutta un’accozzaglia cromatica e stilistica da bazar del dubbio gusto (altrove, in altra zona rendese, addirittura un assai maldestro omaggio a Gaudì…). Torniamo a noi e dalla lupara scorgiamo contrada Femmena Morta, altrettanto ameno toponimo rimpiazzato dal più asettico “Failla” (chissà chi decise il maquillage…).

    La cappella Spada-Alimena, lungo il torrente Mavigliano (da Facebook)

    Ma torniamo alle strade: vogliamo andare a nord? E riprendiamola, questa benedetta strada borbonica! Anzi, zigzaghiamo tra lei e la vecchia strada consolare romana, perché in questo tratto la borbonica è troppo trafficata (siamo in territorio di Montalto, lì dove è una tragedia di semafori, rotonde, brutte insegne di altrettanto brutti negozi e svincoli per centri commerciali, e manifesti pubblicitari orripilanti, fino alla chiesa della SS. Trinità ovvero, più prosaicamente, fino al bivio d’Acri). A contrada Gazzelle – altro feudo telesiano – sorge l’ottocentesca e molto poco autoctona cappella Alimena-Spada, già dei marchesi Episcopia, in stile neogotico-neoceltico-neoirlandese. Una neobomboniera, insomma, a conferma che il problema del buon gusto non è recente.

    La casa nella prateria

    Con buona pace di questa, e poi di quella curva inaspettatamente boscosa – quasi un errore spaziotemporale – sul torrente Mesca, a metà strada tra il bivio per Montalto e Taverna, conviene invece scendere verso Coretto o Coretta, cioè su una parte di ciò che resta dell’antica Popilia. Precisamente sotto l’evocativa contrada Tesauri/Tesori (il tratto precedente della Popilia, dal confine nord del Comune di Cosenza, è impercorribile oltre Santa Chiara e Santa Rosa di Rende, all’altezza della confluenza tra il Surdo e l’Emoli).

    Qui si continua dritti e si infila la vecchia stradina che corre parallela all’autostrada. Qualche buca di troppo ma ne vale ampiamente la pena, specie quando ci si può beare del fatto che, di fianco, gli automobilisti in autostrada vanno spesso più lenti di noi. Una curva obbligata a sinistra, si passa sotto alla suddetta autostrada e ci si immette di nuovo sulla borbonica, all’altezza di una grande casa antica, in mattoni, di cui nemmeno le vecchie mappe registrano la titolarità. Poco più avanti, una casetta minuscola in mezzo alle erbe selvatiche era già crollata ad agosto. A settembre ne restava solo qualche mattone. Era bella, m’è dispiaciuto.

    Casetta scomparsa, lungo la vecchia strada tra Montalto e Torano (foto L.I. Fragale)

    Arrivano i Cavalcanti

    Ed eccoci a Torano Scalo, palma d’oro alla bruttezza – pari merito con almeno altri due Scali in questa provincia, come già accennavo altrove. Eppure questo deprimente abitato è sorto proprio in mezzo a un bel pezzo di storia, in quanto divide in due un antico nucleo feudale: a est, la contrada Sellitte (già Sellitteri/Sellitano) fu il primo possedimento calabrese dei nobili Cavalcanti fiorentini che qui si insediarono proprio per questo motivo (fu Filippo Cavalcanti a riceverlo in dono nel lontano 1363 direttamente dalla regina Giovanna d’Angiò, di cui era ciambellano); a ovest tutta la teoria dei principali insediamenti cavalcantiani: Sartano, Cerzeto e Torano Castello (e, poco più lontano, anche Rota Greca), ognuno con il proprio Palazzo dei duchi Cavalcanti in più o meno bella mostra.

    Portale del Palazzo Cavalcanti di Torano Castello

    Coincidenze

    Perché mi dilungo tanto? Per un dubbio: Wes Anderson è stato qui? Vi starete domandando cosa c’entri. Succede che nel 2013 questo regista ha dato alla luce, su commissione di Prada, un cortometraggio di 8 minuti – delizioso come tutte le sue opere – ambientato in un immaginario paesino italiano degli anni’50, alle prese con il passaggio non della Mille Miglia ma dell’altrettanto immaginaria Molte Miglia. Un pilota – Jed Cavalcanti – si schianta contro una statua nel mezzo del paese, ma sopravvive e scopre che il paese si chiama Castello Cavalcanti ed è proprio quello dei suoi antenati (ecc. ecc. e non vi dico altro). Solo alcune cose non mi quadrano: la livrea di Prada è bianca e rossa; quella della Mille Miglia idem; bianco e rosso sono pure gli smalti dello stemma Cavalcanti, allora perché mai Wes Anderson ha preferito optare per una livrea rossa e gialla? Chissà… Seconda domanda: perché in Calabria non ci si accorge mai di queste coincidenze?

    Il cortometraggio Castello Cavalcanti (Wes Anderson, 2013)
  • STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    Il fiore all’occhiello è fiore di Roseto. Calembour a parte, Roseto Capo Spulico si distingue, rispetto a tanti altri luoghi, per qualcosa di nemmeno troppo descrivibile. Esiste una “chimica” dei luoghi? Credo di sì. E credo possa dirlo anche chi, a differenza mia, non vi sia legato per questioni familiari. Anche Roseto ha almeno quattro anime: quella costiera, quella del centro storico, quella delle campagne e quella del suo passato. Virtuosamente, mi pare anche singolare nel suo essere un paese, sì, molto legato alle sue radici, ma pure proiettato con tenacia in avanti.

    A picco sul mare

    Ne è diventato ormai simbolo il castello federiciano a picco sul mare, quel Castrum Petrae Roseti che, in realtà, per quanto scenografico, è più correttamente una torre, una semplice torre, che non ebbe più che funzioni doganali, d’avvistamento, d’accampamento e deposito d’armi (nonché, nel Settecento, di ambigua osteria), e il cui valore immobiliare fino alla fine del Novecento è sempre stato irrisorio. Chi vuol sognare, però, ha il diritto di farlo ed è giusto lasciarglielo fare (anche perché se non sogni ad occhi aperti qui, dove vuoi sognare?).

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    Tetti nel centro storico di Roseto (foto L. I. Fragale)

    Il tariffario di Roseto

    La più remota riproduzione del castello è appunto quella settecentesca, firmata da Jean Louis Desprez per i resoconti di viaggio dell’abate Saint-Non (Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, Paris, 1781-1786), in cui l’autore raffigura uno sbarco piratesco ai piedi del maniero. Poi tre fotografie scattate precisamente tra il 1864 e il 1937. Infine… La pletora post-boom economico, la sovraesposizione a buon mercato, unita ad una congerie di favole discutibili, in merito a ipotetici misteri esoterici legati all’edificio.

    Restiamo con i piedi per terra: sulle questioni più strettamente storiche del castello ho già scritto e scriverò altrove, mentre qui voglio almeno ricordare una curiosità. Su un muro esterno del castello era fissata una grande lapide con il tariffario per chi transitasse da lì, esattamente uguale a quelli, superstiti, di Acerra e di Battipaglia. Non può non venire in mente la gag del «chi siete?, quanti siete?, cosa portate?, sì, ma quanti siete?, un fiorino!»… più o meno così anche a Roseto si snocciolavano i prezzi a seconda della quantità di bestie trasportate, o a seconda che si fosse studenti, ebrei o prostitute con una, due o tre bisacce (e così pare nascessero talvolta i cognomi…).

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    Il centro storico di Roseto Capo Spulico visto da lontano

    Quel giorno a Roseto morì Donato Bergamini 

    Una strada di transito, dunque, da tempo immemorabile. Chissà come sarebbe andata a Donato Bergamini se la dogana fosse stata ancora attiva, chissà che piega avrebbe preso quel processo… Benché mai nemmeno lontanamente interessato al calcio, a quella storiaccia penso spesso, perché altrettanto spesso mi trovo a passare su quel chilometro.

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita

    Quale chilometro, poi? La strada non è più quella del 1989, tutto è cambiato. Vi sono due lapidi lungo la nuova 106: una più vecchia, in un punto pericoloso della strada; una più nuova, in un luogo che permette la sosta a chi volesse lasciare un fiore. In realtà l’incidente accadde in un terzo posto, lungo il tracciato vecchio della 106, un punto che – ripeto – non esiste più. Per una specie di damnatio memoriae stradale.

    Tutta quella strada resta sospeso in una sorta di limbo spazio-temporale. Non vi è stato costruito più nulla, né sul lato della spiaggia né sulle colline. Per fortuna. La spiaggia è una lingua pietrosissima e provvidenzialmente poco affollata, anche in alta stagione, che prosegue silenziosa dalla Pietra della Tina e dell’Incudine, fino agli scogli della Galera, della Pavolina e infine della Grilla. Mare, ça va sans dire, pulitissimo e notoriamente tale.

    Colline e villaggi residenziali

    Le colline sono quelle impervie e disabitate di Valmaco, Derròita, e Fontana della Vigna. Uniche tracce di antropizzazione sono due villaggi residenziali tagliati meravigliosamente fuori dal mondo e immersi nei boschi di pino e nella macchia mediterranea: il Villaggio Santa Maria e il Villaggio Baiabella (il secondo è prevalentemente un villaggio-fantasma anziché altro, al centro di una pluridecennale vicenda giudiziaria). E, non a caso, quelle colline erano state abitate già nell’antichità, e tracce dei vecchi stanziamenti sono emerse negli anni ’60 del Novecento. Chissà quanta roba è saltata fuori, adesso, per i lavori alla nuovissima tratta della 106… Non ci pensiamo.

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    Scorcio rurale di Roseto Capo Spulico

    Là sui monti di Roseto Capo Spulico

    Gli scogli della Grilla, al di qua del canale Cardone, segnano il confine tra Roseto e Montegiordano. Da lì si può piegare verso l’interno, verso le sterminate e ostiche campagne che formano il trapezio del territorio comunale di Roseto Capo Spulico. Si sale ripidi, ripidissimi, tra i tornanti e i pini di contrada Palvasia, offesa l’estate scorsa da un incendio devastante, che ha cancellato – tra le altre cose – esemplari di ulivi pluricentenari, di cui la zona è fortunatamente ancora ricca.

    A sinistra si passa in mezzo a un paio di case isolate (dove lo stesso cane abbaia puntualmente, da anni, legato ad una catena) e si procede a mezza costa lungo la stradina panoramica. Un bivio: a sinistra si tornerebbe in paese, a destra si sale verso le antenne di Monte Titolo e per le campagne più elevate… il Piano di Commaroso, contrada Giudicepaolo (poi storpiato in Dodici Paoli).

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    L’antica “via ad serram” che conduce da Roseto a Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Ancora un bivio: a sinistra si scenderebbe di nuovo per il paese. A destra si procede sempre più in alto, lungo la meravigliosa “via ad serram” che dalla Contrada Melazzo e dal Vallone di Marino (dall’antica famiglia Marini) porta verso il centro storico di Montegiordano e verso la Basilicata. Una via antichissima, come venivano pensate una volta: direttamente sullo spartiacque, per evitare la costruzione di ponti. Così resta tuttora: una lingua sottile, un su e giù incessante: il vuoto a destra, il vuoto a sinistra.

    La scala mobile nel nulla

    Torniamo indietro all’ultimo bivio e andiamo verso il paese, costeggiando la Mirata e Contrada Collazzone. Si potrebbe piegare a destra per raggiungere i Piani della Marina (in realtà Piani Marini, ancora per l’antica famiglia omonima, così come i vicini Piani Toscani) ma voglio cercare di evitarmi la vista di quel famosissimo scempio che è diventato ormai simbolo dei non-luoghi, dell’incompiutezza e di una certa… fragilità degli equilibri contemporanei, diciamo così: si tratta di quel relitto di scala mobile che resta sospeso nel mezzo di un pendio brullo, unendo il nulla al nulla. Come una drammatica Stairway to Heaven, doveva servire a trasportare i bagnanti dalla spiaggia ad un villaggio turistico in collina. È finita invece sui social del New York Times, nell’estate del 2018.

    Like a rolling stone

    Mentre si scende di quota in auto, i pini e la pietra da taglio lasciano progressivamente il posto ai peri e ai fichi d’India. Il dislivello è tanto e si tappano le orecchie: il primo agglomerato di case è quello del rione della Petr’i Roll’ like a rolling stone. Dopodiché ecco il paese, finalmente. Lo prendiamo alle spalle, dal suo ingresso più antico e autentico, la Porta della Terra (“Terra” intesa come Comune, non come terreni). Per salire verso la Porta si procede a zig zag salendo per i vicoli, ma anticamente doveva esservi una gradinata di quelle adatte anche ai cavalli (e qualche traccia l’ho ritrovata): non esistono mappe del paese precedenti al 1901 e tutto va capito, più che immaginato… il nucleo più antico è ancora chiaramente racchiuso nelle mura di cinta che, viste dall’alto, hanno l’andamento di uno stivale, una calza di Befana.

    Un vicolo di Roseto (foto L.I. Fragale)

    Muri, pietre e frane

    Eppure qualcosa è mutato: troppe frane, nei secoli, hanno ridotto l’estensione dell’abitato. E le stesse mura, in alcuni punti, hanno retrocesso di qualche passo anziché avanzare. Il varco detto “pertuso di Pizzo” (dall’antica famiglia dei Pizzo di Oriolo e di Canna) ne è un segnale, aperto com’è su un tratto di mura troppo sottile per essere coevo alle altre (per esempio a quei brani inglobati in un angolo del Palazzo Mazzario). Muri, pietre: l’antico, a Roseto, lo tocchi con mano (di più antico, forse, vi sono soltanto le note ma ormai impenetrabili grotte sotterranee). Sparito il Convento di Sant’Antonio, resta ancora, d’antico, la Cappelletta dell’Immacolata Concezione e – forse non molti lo sanno – due campane cinquecentesche presso le chiese di San Nicola e quella di Sant’Antonio.

    Scorcio del centro storico di Roseto Capo Spulico (foto L.I. Fragale)

    Santi e nobili

    Nel Quattrocento Roseto Capo Spulico doveva presentarsi come un piccolo centro agricolo che ancora voltava le spalle al vicino mare: il processo di “balnearizzazione”, comune a tanti altri paesi costieri sì, ma privi di una storia marittima o di un contesto portuale, avverrà a fine Ottocento, dopo la costruzione della linea ferrata lungo la costa, e la conseguente urbanizzazione attorno agli scali ferroviari. Il tessuto sociale era intriso di una notevole presenza greco-albanese che non deve avere avuto difficoltà nell’integrarsi in un retroterra culturale ancora fortemente bizantino.

    Del secondo sono un esempio alcuni toponimi locali come S. Elia, S. Migalio, S. Cataldo, S. Iorio (S. Giorgio), S. Tòtaro (S. Teodoro) e S. Nicola (cui è intitolata la chiesa madre, mentre S. Rocco deve aver avuto la meglio, come patrono, soltanto dopo la peste del Seicento). Della prima sono invece esempio le tracce relative alle famiglie levantine dei nobili Ungaro, Persiani, Reca-Mazzario, dei montenegrini Marini, dei costantinopolitani Chyurlia e soprattutto dei dalmati Renesi (quelli che combatterono per mezza Europa nonché fianco a fianco con Scanderbeg). Tutte estinte, tutte scomparse prima o dopo.

    Roseto Capo Spulico: dove sono gli intellettuali?

    Francescantonio Mazzario

    Solo quella dei Mazzario riuscì a restare egemone su Roseto per alcuni secoli (e vale la pena ricordare quantomeno le figure del barone Francescantonio e di suo zio Alessandro, intellettuali e avvocati; attivo nella politica locale, il primo; autore di un diario di viaggio nell’Europa del 1836, il secondo. Nel loro palazzo di famiglia – oggi in abbandono dopo una pessima ristrutturazione di una ventina d’anni fa – soggiornarono finanche gli scrittori Henry Swinburne e Craufurd Tait Ramage, a cavallo tra Sette e Ottocento. Ma chi lo sa? Chi se ne accorge? Manca un’intellettualità locale e basta poco ai rapaci di professione per fingersi autorevoli: sulla storia del paese e dei suoi personaggi è stato edito un solo libro, più di trent’anni fa. E un altro è di imminente pubblicazione. In mezzo, un vuoto, in cui talvolta spadroneggia chi stravolge comodamente la storia a proprio consumo, danneggiandola e danneggiando le comunità con operazioncelle di bassa lega che non conferiscono alcun lustro (anzi…).

    Tutto sta a capire i segni, a interpretare, a prevedere e stare in guardia dai questuanti di ieri e di sempre, le cui gioie ingenue ricordano tanto quelle (più oneste e sudate) dei coltivatori diretti immortalati a Roseto nel 1957, quando per la prima volta percepirono le prime pensioni statali. Per fortuna (e con buona volontà), Roseto Capo Spulico ha infilato ormai da qualche anno la via dell’eccellenza: sapendo coniugare – e non è frase fatta – tradizione ed esigenze contemporanee, le più recenti amministrazioni hanno saputo dare ottima prova di sé, tirando fuori il paese da una perifericità che poteva essere rischiosa ed è divenuta, invece, virtuosa.

    Roseto Capo Spulico, 1957. Le prime pensioni ai coltivatori diretti (Museo Etnografico di Roseto C.S.)

     

  • Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

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    Avevamo lasciato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) all’altezza delle Vigne di Castrovillari. Pochissimi chilometri più a Sud, l’antico percorso trovava l’altrettanto antico quadrivio, posto pressappoco a metà strada tra due edifici di non poco significato: il Casino Gallo e il castello di Serragiumenta. Antica stazione di posta, il primo, sede di ricche scoperte archeologiche e costruito dunque su edificio preesistente (così come accadde a Nova Siri per la Taverna cinquecentesca lungo il Tratturo Regio, la quale pure oggi resiste ma nulla più ha di antico); maniero rinascimentale dei Sanseverino, il secondo.

    Dal quadrivio allo svincolo

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    Santa Margherita in Ciparsia

    Oggi l’incrocio originario è seppellito sotto al nuovo, ieri era un crocevia fondamentale, tra la Contrada Cammarata e quella degli Stombi. Pochi metri più ad ovest, la storia si ripete e si incarna nello svincolo autostradale per Sibari-Firmo-Saracena. Da qui si intravede magnificamente il monastero di Santa Margherita in Ciparsia, diruto sulla collina, in mezzo a file di ulivi. Ciparsia/Capràsia, altro nome di una statio, stavolta più antica, sulla Annia-Popilia.
    Qui si univano i punti cardinali della Magna Grecia e, ancora, i corsi d’acqua del Garga, del Gordo, dell’Esaro. Siamo alla testa, se non nel cuore, della Piana di Sibari, in mezzo alla triade fluviale Crati-Esaro-Coscile. Lungo la strada per Sibari, sull’estremità orientale si raggiunge l’altra piazzaforte cinquecentesca dei Sanseverino: il Castello San Mauro; nel mezzo, una tendenziale desolazione, umana e infrastrutturale.

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    Il Castello San Mauro

    Strade, stradoni, autovelox, blocchi spartitraffico si rincorrono in mezzo agli agrumeti, costeggiando più avanti le floride masserie dei Chidichimo, fino al ponte Mariacristina, nei pressi della Contrada Lattughelle. Un ponte buffo, questo. Breve, e ripido da una parte e dall’altra. Piccolo ma ardito nella sua comica necessità di scavalcare un binarietto ferroviario di scarso utilizzo. Proprio nulla a che vedere con l’omonimo ponte ottocentesco nel beneventano…

    Attribuisco a questa strada un primato indecoroso: dopo aver guidato in 2 giorni attraverso 10 regioni d’Italia, su tratte di ogni tipo, è qui che ho incrociato i peggiori guidatori, fieri di mosse da tentata strage. Roba da ritiro della patria potestà, oltre che della patente.

    Via del campo

    Ma, dicevo, più nel cuore della Piana, cosa c’è? La piccola motta naturale della zona archeologica di Torre Mordillo. Quell’avamposto che conserva – a me pare – un che di lugubre, mentre ora resta solo a guardia del lenocinio lungo la Strada delle Terme: prostitute, infatti, ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno. Ai soliti incroci, all’ombra delle solite siepi, al sole delle stesse piazzole di sosta. Credo d’aver visto una situazione più degradata, in Italia, solo sulla SS16 tra Sansevero e Marina di Chieuti. Oppure sul confine fra Marche e Abruzzo, tra Offida e Ancarano, dove addirittura l’ufficialissima segnaletica verticale ammonisce “divieto di contrattare prestazioni sessuali”.

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    Due ragazze in attesa di clienti nella piana di Sibari

    Lo spettacolo del Pollino

    Verso la Strada delle Terme scendono dalle colline più a Sud alcune vie tra loro gemelle, come affluenti che si riversano verso il fiume principale. Sono le varie strade per San Lorenzo del Vallo, Tarsia, Spezzano Albanese eccetera. È bello percorrerle in discesa, quando dalla loro sommità – ad esempio dalla cappelletta di San Francesco di Paola, subito fuori Tarsia – ci si para davanti lo spettacolo di tutte le cime del Parco Nazionale del Pollino, anzi di più: dal Cocuzzo al Sèllaro, un anfiteatro orografico apparecchiato da un mare all’altro, con le principali spaccature in evidenza – quelle della Gola del torrente Rosa e quella di Campotenese – che per millenni hanno suggerito il miraggio di un varco semplice per il mare e per il Nord.

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    Filari di lavanda a Campotenese

    Come don Chisciotte

    Un’altra di queste vie, nella stessa zona, passa donchisciottescamente proprio in mezzo a un gruppo di pale eoliche. Ma siamo senza Sancho Panza e qui c’è più odore di erbe selvatiche, quasi d’incenso, e di balle di fieno. Tutte queste strade sono state, da tempo immemorabile, le uniche opportunità per scollinare da Sud verso la Piana di Sibari prima dell’arrivo della galleria autostradale di Tarsia.

    Pale eoliche tra Tarsia e Spezzano Albanese (foto L.I. Fragale)

    Oggi vi si incrociano talvolta sciami di motociclisti, più spesso un trattore o un’Ape qua e là e, per uno strano incantesimo, una quantità inspiegabile di auto storiche (non necessariamente ‘blasonate’ e perciò, invece, relitti magnifici nella loro semplicità). Come se le vecchie automobili fossero rimaste ammanettate alle strade della loro infanzia, non essendo del resto troppo adatte alle nuove strade. Meglio così, perché mai sorpassare una vecchia 500 luccicante quando un turista straniero pagherebbe oro per guidarle lentamente dietro, nel mezzo di una campagna italiana?.

    La piana degli errori urbani

    Più interna è la strada che aggira le colline da Ovest, quella che dai pressi di Ferramonti risale verso Contrada Cimino per raggiungere una minore località “Amendolara” attraverso le alture amene del Ghiandaro, Stamile e Maiolungo (erroneamente segnalato – da qualche parte – come Mailungo, mentre è chiaramente il majo, il ramo. Come quei Maiolo e Maioletto nelle colline riminesi a ridosso del Montefeltro).

    Resti della villa romana di Larderia (Roggiano Gravina)

    Qui resiste ancora qualche florida fattoria in piena attività, non resiste però quell’enorme quercia monumentale in mezzo al nulla, mozzata un paio d’anni fa per chissà quale ragione. E fa invece orrendo sfoggio di sé un’immancabile cattedrale nel deserto (un’ipotesi di centro commerciale con megaparcheggio?) che dà il benvenuto nella piana degli errori urbani, come lo Scalo di Roggiano-San Marco – palma di bruttezza a pari merito con un altro paio –, inemendabile come tutti quegli scali che costellano la Calabria come paillettes di pessimo gusto su un capo da bancarella rionale.

    La civiltà del buongusto

    Eppure a pochissimi chilometri da qui fioriva una civiltà, e una civiltà del buon gusto. Ne sono testimoni le aree archeologiche – tra loro vicinissime – di Roggiano Gravina e di Malvito (ovvero le ville romane di Larderia e di Pauciuri). Gli stessi luoghi dove, secoli dopo, cominceranno a sorgere altre tipologie di “ville”, ovvero certe magnifiche masserie padronali come il bellissimo fortino turrito del Casino Amodei, in contrada Occhio di Bove, che oggi affaccia sull’invaso dell’Esaro; o l’imponente Casino La Costa, palazzotto signorile munito anch’esso di torri, dodecagonali, ai quattro angoli (e oggi sede di una rispettabile azienda vinicola); e poi il Casotto Mirabelli, verso contrada Peiorata, una sorta di masseria da villaggio Potëmkin, così com’è, tutta facciata e niente arrosto (nel senso di profondità).

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    Il Casino La Costa agli inizi del Novecento

    Una curiosa parentesi su questi Mirabelli… il secondo Catasto Onciario di Malvito (una sorta di censimento del Regno, redatto soprattutto a fini fiscali), trovai, elencato nel nucleo familiare del “nobile vivente” don Luigi Mirabelli – assieme a moglie, figlio, cameriere, due servi, una serva, un servitore, un famiglio, due ‘volanti’ e due mulattieri – finanche “Asà, schiavo costantinopolitano”: l’unico, peraltro, privo finanche di età dichiarata e/o conosciuta. E siamo al 1783. Mica a chissà quanti secoli fa…

    Fattoria abbandonata presso Contrada Ministalla di Mottafollone (foto L.I. Fragale)

    Il paese delle magare

    Se procedessimo verso Mottafollone troveremmo invece gli edifici rurali più modesti di contrada Ministalla (dal germanico marhastall, scuderia, il che vale anche per l’omonima contrada sibarita o per la Menestalla di Scalea). E invece torniamo a Malvito. Che, nei secoli, si è ritirata sulla collina: mi pare sempre in ombra, sempre torturata dal vento. Anni fa ne ho visto le vecchiette coprirsi un lato del volto – quello appunto preso di mira dalle raffiche – mentre si recavano puntuali alla messa pomeridiana, benché sapessero benissimo che il prete fosse un ritardatario cronico.

    Fuorviate dall’innocentissima borsa di pelle dell’ignoto sottoscritto – e con l’aggravante della compagnia di un amico medico del luogo – chiesero, preoccupate, chi stesse male in paese. Chi talmente tanto da dover necessitare l’intervento di un medico forestiero. L’abito può non fare il monaco ma una borsa sì. Ma se fosse davvero paese di magare, come qualcuno dice, non avrebbero dovuto saperlo prima di noi?

     

  • STRADE PERDUTE|  Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

    STRADE PERDUTE| Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

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    Ci sono dei luoghi precisi che hanno il potere di evocare molto più di altri l’incalzare del tempo, l’abbandono speranzoso ma in fondo colpevole, e il rimpianto per un passato non necessariamente idilliaco ma certamente fatto di equilibri più naturali. Uno di questi è Campo del Monaco, a 200mt sul livello del mare, tra il burrone Marianna e il fosso Bambagia: non cercatelo su Google, non è quello che troverete. È un pendio, piuttosto ripido, affacciato sul mare e punteggiato non tanto da ruderi di edifici rurali modesti ma da resti di masserie padronali di ordine superiore, la cui magnificenza doveva splendere su queste colline fino a molto meno di cento anni fa.

    Il bivio per Bonifati

    Su queste colline si arriva facilmente, procedendo sulla SS 18 verso Nord e prendendo il penultimo bivio per Bonifati. Lo ripeto, appena si lascia una strada principale si fa cronologicamente un passo indietro: fuori da un’officina, subito infilato il bivio, un paio di anni fa faceva splendida mostra di sé una vecchia e gloriosa BMW 3.0 csi. Direte «che c’entra?». C’entra, perché se si parla di strade bisogna ogni tanto omaggiare anche chi le strade le batte, le copre e le setaccia materialmente. Omaggio per omaggio, due o tre tornanti più su, un muretto inneggia “Viva il giro”. Era il 2016, e il Giro d’Italia davvero passò faticosamente da qui.

    Finocchietto, mare e monti

    Di fianco, una masseria è stata ristrutturata recentemente, e per fortuna. Forse il nuovo colore non è troppo sobrio ma, considerato tutto il sole che la schiaffeggia, stingerà presto. Ancora un paio di tornanti e si passa tutt’intorno ad una casa-torre, quasi spaccata in due. Dietro di lei, un incomprensibile ponte sul nulla. Anzi, sul crinale: da un lato il suddetto burrone Marianna, dall’altro il suddetto fosso Bambagia (che è molto più “burrone” dell’altro, a dire il vero, e molto più inquietante). Per il resto, nulla: una distesa di finocchio selvatico (ottimo, se distillato…), un panorama a perdita d’occhio (da un lato il mare, fin dove visibilità permette; dall’altro i monti) e nient’altro. Però non è finita qui.

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    Rudere presso Campo del Monaco, in agro di Bonifati (foto L.I. Fragale)

    Un edificio straordinario

    Da un’altra curva si può infilare un sentiero. Procede in piano e continua zigzagando, obbligato dalle rientranze della collina. È un sentiero lungo, e oggi senza apparente funzione. A destra e a sinistra è costeggiato da piccoli poderi, campicelli recintati, ma niente di che, e non una voce. Il fatto è che questo sentiero è l’unica via di accesso (“accesso” per modo di dire…) ad un edificio straordinario. Sto parlando di ciò che resta dell’ex convento di San Nicola: un palazzotto sventrato, con tanto di cappella d’ordinanza, loggiato angolare e finestroni baroccheggianti decorati a stucchi.

    Il valore aggiunto di questo edificio, oltre a quello architettonico (e alla sua impenetrabilità dovuta all’essere circondato da rovi e vegetazione da foresta pluviale) è il fatto di essere anche scarsamente visibile. Il modo migliore per osservarlo è dalla spiaggia di Pietrabianca, con un buon binocolo o un teleobiettivo. O, al limite, procedendo ancora sui tornanti in salita, dall’unico incrocio che si trova appena più in alto (a destra per il centro storico, a sinistra per Aria delle Donne o Sangineto paese) ma da qui non si vedono gli scenografici finestroni sul mare.

    Bonifati, terra di conventi (e satanisti)

    Dalla spiaggia non va confuso con quell’altro edificio maestoso, un’altra masseria abbandonata, poco più a valle del convento, più o meno alle spalle dell’Hotel Sol Palace. L’ex convento di San Nicola è più imponente, più austero, più sofisticato nella struttura.
    Terra di conventi rurali, questa di Bonifati, se a pochissimi km da qui spicca l’altro, quello di San Francesco, ristrutturato una ventina d’anni fa e convertito ad albergo di lusso (quantomeno lo si è sottratto all’uso che abitualmente si faceva dei suoi ruderi, ovvero quello di improvvisati ‘templi’ per attività sataniste).

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    Bonifati, inizi Novecento

    Lunga vita a Bonifati

    E va bene il miraggio dell’industrializzazione, e va bene l’emigrazione amaramente necessaria per tanti… però vale la pena immaginarli, questi luoghi, quando brulicavano di esseri viventi, uomini e bestie, di attività, di rumori, di voci, di versi d’animali. Sembra impossibile ma tutta un’economia e tutta una vera e propria ‘vita’ animava queste campagne che ora restano desolate e mute. Ha resistito una contrada, non lontana da qui, Cirimarco, sulla collina appena sopra Cittadella del Capo.

    Parcheggio la macchina davanti all’unica chiesetta: mentre spengo il motore guardo davanti e l’occhio mi cade sui manifesti dei morti, le ‘mortaline’, come li chiamano da certe parti: 5 o 6 decessi recenti, ok. Ma tutti ultranovantenni. E ti credo: basta guardarsi intorno, e basta pensare al loro stile di vita (classe 1925 o giù di lì…) o alla loro alimentazione. Nota a margine: da qui si dipana una lunga mulattiera selciata, che scende dritta (no, dritta no) verso la marina di Cittadella, attraversando l’altra Contrada vicina, Greco: i Gradini San Vincenzo. Quindi mettiamoci anche l’esercizio fisico, quando i muli non fossero stati d’aiuto.

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    Chiesetta a San Candido di Bonifati

    La costa delle torri

    Da Cirimarco si arriva alle altre due frazioni provvidenzialmente sperdute nell’interno: San Candido e Pero. O, avendo coraggio, su una bretella che riporta all’ardimentosa e lunga dorsale che dalla frazione di Torrevecchia porta a Fagnano attraverso laghi e boschi abbastanza inaccessibili. Torrevecchia, appunto, detta così per la vecchia torre saracena d’avvistamento, costruita proprio lì sull’angolo del costone più ripido del promontorio sul mare: perché, non lo si può dimenticare, Bonifati è anche o forse soprattutto un luogo di mare e anzi, appunto, un Capo: quello spigolo che interrompe la continuità della costa da Capo Suvero a Capo Scalea. Non è un caso che qui si trovino altri relitti di torri o punti strategici (la torre del telegrafo, che ora dà il nome a una contrada; la torre di Capo Fella, la Torre Parise…).

    Dei confini sul litorale bonifatese ho già detto parlando di Cavinia e di Sangineto.
    Tutta la costa meridionale di Bonifati ha ancora i caratteri di quella cetrarese: strapiombi e grotte, insenature abbastanza incontaminate e non prese d’assalto dai turismi peggiori. Vi spuntano scogli, qua e là, che possono fungere da miniature di grandi isole, ottimi per progettarvi sopra altre strade che con minuscoli e arditi tornanti portino dalla base fino alle cime (un santuario? un mirador?).

    Cittadella del Capo (foto L.I. Fragale)

    Bonifati da cinema

    Bando alla fantasia, qui non serve. Dopo aver percorso il breve tracciato della ex SS 18 in contrada Santa Maria, si possono ammirare tre edifici che svettano su questa parte di spiaggia: un ex casello ferroviario equilibrista sulla cima di uno scoglio; un casino padronale semiabbandonato sulla scogliera della Zaccarella (era una residenza minore dei nobili De Aloe) dove Mimmo Calopresti ha girato alcune scene di uno dei suoi film (non il migliore, va detto: L’abbuffata); e poi il principale dei palazzi De Aloe, ovvero l’attuale albergo del Palazzo Ducale.

    Resto dell’idea che però il meglio stia nella parte più nascosta e meno battuta, ovvero lungo quelle due stradine parallele che costeggiano la ferrovia da qui in poi, verso Nord: via Magellano e via Amerigo Vespucci raccolgono la parte forse più amena e riservata di buona parte della costa, benché poste immediatamente sotto la Stazione ferroviaria di Capo Bonifati. E segnano anche uno spartiacque: da qui in poi, solo ed esclusivamente spiaggia, spiaggia, spiaggia, sotto lo sguardo magnanimo della cinquecentesca Torre Parise.

    La scogliera della Zaccarella (foto L.I. Fragale)
  • Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

    Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

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    Perché complicarsi la vita? Riformulo: perché considerare che certe scelte significhino necessariamente complicarsela? Ovviamente anche stavolta il riferimento non è ai massimi sistemi ma alle strade. È una questione di forma mentale, quella che induce a recepire pigramente la geografia delle rotte in compartimenti stagni: “i paesi della costa” vs. “i paesi dell’interno”, come se i due gruppi fossero a sé stanti, quasi senza possibili vie di comunicazioni in mezzo, neppure metaforiche.
    Allora vediamo che succede se si prova ad andare da Laino Castello fin sulla costa tirrenica senza toccare autostrade e, per quanto possibile, strade statali.

    Laino Castello, il paese degli zampognari

    Laino Castello – il paese che fu – è ricordato più che altro per essere la patria di quegli zampognari (forse meno noti di quelli abruzzesi) che scendevano a Natale in città e paesi di tutta la provincia. Nel frattempo, recentemente vi è stato un tentativo di farlo diventare una sorta di “albergo diffuso”, sullo stile di Santo Stefano di Sessanio, anche questo in Abruzzo. Coincidenze. La mia visita risale a qualche anno prima, quando il centro storico – abbandonato decenni fa per i motivi più vari, ma ufficialmente per via di un sisma – non lasciava più molto da ammirare, se non una desolazione piuttosto evocativa (e, nella desolazione, vi incrocio – fantasma? – il poeta e amico Dante Maffìa, fuggiasco per un giorno dalla sua amata costa ionica).

    Molto di transennato, tutto lasciato all’incuria. Lavori iniziati e lasciati a metà. Erba altissima nei vicoli. La chiesa, integra ma svuotata, faceva ancora una certa impressione (nulla di nuovo, per chi conosce la Chiesa dei Cappuccini, in cima al centro storico di Cosenza, che versa nelle medesime condizioni). E da lì il panorama violento del Viadotto Italia con cui l’autostrada taglia in due il Massiccio del Pollino. Beffarda, poi, colpisce l’occhio una vecchia stella cometa di ferro arrugginito, piazzata in cima all’edificio più in cima del paese fantasma. Chissà da quanti anni sta lì. Dalla Natività alla mortalità.

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    La Grotta del Romito

    Papasidero e la Grotta del Romito

    Lasciamo Laino Castello al suo destino, incrociando le dita per lui, e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito: non è solo testimonianza degli insediamenti preistorici in Calabria, quanto pure la dimostrazione della sopravvivenza di piccoli paradisi naturali. Mica scemo, st’Homo Sapiens… Il più solerte guardiano della zona archeologica è un docile cagnolino che scorta attentamente ogni gruppo di visitatori, dal parcheggio alla grotta e viceversa, senza distogliere lo sguardo nemmeno un attimo. Dalla grotta bisogna risalire di quota, un bel po’, per tornare sulla strada principale (principale, si fa per dire) e non invidio quella coppietta di giovanissimi ciclisti nordeuropei, stremati a mezzogiorno da una salita disumana.

    Avena, la frazione evacuata (?)

    Non lontano dal Romito vale assolutamente la pena (ma quale pena, poi?) allungarsi fino ad Avena, frazione di Papasidero. Non è lontana ma, intendiamoci, mi riferisco sempre a distanze in linea d’aria. Perché visitare Avena? Per fare il paio con Laino Castello: anche Avena è abbandonata, ma in compenso alcuni scorci riescono a ricordare – parola di un affidabilissimo e appassionatissimo gallerista e antiquario bolognese, mica mia – certi quadri di Telemaco Signorini. Un cartello ufficiale all’inizio dell’abitato (o, meglio anche in questo caso, del “disabitato”) parla di zona evacuata ex lege, più o meno nei primi anni Ottanta.

    Nelle case sventrate trovi soltanto bottiglie, bottiglie, bottiglie. Televisori di quarant’anni fa, reti da letto e scarpe spaiate. Eppure nel primo edificio all’ingresso dell’agglomerato – poco prima di quella piazzetta che, non so perché, mi fa pensare a Leopardi, al Sabato del villaggioqualcuno sembra abitare eccome, quantomeno saltuariamente. Con tanto di panni stesi al sole e grasticelle di peperoncino ben curate. E fa bene, chiunque egli sia.

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    Scorcio della frazione Avena di Papasidero (foto L.I. Fragale)

    Abruzzo e Golf

    Papasidero decido invece di attraversarla senza sostare. Diretti verso la costa, subito dopo il paese si passa su un ponte dal nome curioso: il Ponte Golf. Proprio così, un vecchio ponticello su una forra, che ben poco può avere a che fare con attività golfistiche: e infatti è stato denominato in questo modo, in maniera ufficiale, soltanto a causa di una modesta deformazione – ipercorrettismo nell’italianizzazione maccheronica – del più antico idronimo Orfo (‘u g’Orf), ovvero il torrente che vi passa sotto.

    Mi starò suggestionando ma è la terza volta che mi viene da citare l’Abruzzo: la strada tra Papasidero e Santa Domenica Talao mi ricorda enormemente, a tratti, quella che si inerpica da Anversa degli Abruzzi fino a Scanno, scavata nei costoni del meraviglioso canyon nella Gola del Sagittario. Ma è un miraggio frequente, che meriterebbe un pezzo a parte, “Strade che assomigliano ad altre strade”… e, a pensarci bene, altri tratti di questa via dalle montagne al mare mi ricordano invece alcune specifiche curve nella zona del Cippo Pisacane, a Sanza. Ma lasciamo perdere certe stratificazioni della memoria fotografica…

    Restiamo con gli occhi qui: è il luogo ideale per quello che ho sempre ritenuto il più ambiguo, imbarazzante, incoerente dei segnali stradali: Pericolo caduta massi. Ché non si capisce uno cosa dovrebbe fare… rallentare? Peggio, si allunga l’esposizione al pericolo. Accelerare? Meglio di no, vuoi mai che le vibrazioni sveglino il mazzacane che dorme? Fare inversione ad U, se possibile? Ma allora perché non chiudere la circolazione? Il significato di quel segnale è semplicemente: «continuate a vostro rischio e pericolo, noi ce ne laviamo le mani». Ciance bandite, proseguiamo.

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    Il fiume Lao (fonte web)

    Rafting e il brutto che avanza

    Sulla destra, scendendo verso la costa, mi incuriosisce quella lunghissima, vistosissima tubatura che scende orrenda, a precipizio, dritta dalla cima di un monte giù lungo i dirupi del Ciminnito, costeggiando ciò che resta dell’antica Torre dello Scirro. Non è altro che la condotta che mette in collegamento la poco poetica “Camera Valvola” dell’Enel, sul monte Rininella (in agro di Orsomarso), con la centrale idroelettrica giù sulla riva del fiume Lao (e sì, siamo nella Riserva Statale del Lao, delizia per chi fa rafting, e non solo per loro). Ma la centrale e la tubatura annessa preannunciano il brutto che si fa vivo, inevitabilmente, quando ci si avvicina agli insediamenti più intensivi.

    E pensare che dietro quel monte, proprio a un passo e mezzo dalla “Camera Valvola”, cade a pezzi l’antico convento di Santa Maria di Scòrpano, avvolto da erbe infestanti e rovi. Si è deformato, col tempo, finanche il toponimo (ora Scorpari). E anche lassù, ve ne parlerò, mi pare di stare in Abruzzo, ad esempio sui pianori di Campo Imperatore o sulla strada per Roccamorice. E siamo a quattro ricorrenze aprutine.

    Papasidero

    Da qui al mare, sotto un tramonto settembrino, è una bella discesa dolce, lunga e panoramica: ritrovo i due ciclisti che all’ora di pranzo erano boccheggianti sulla salita della Grotta del Romito. Adesso posso invidiarli.
    Ancora più giù, a luccicare sono le foglie di vere e proprie piantagioni di giovani eucalipti che preannunciano la calura della costa. Li avevo presi per piccoli pioppi, per via di questo luccichio alternato e invece no, qui nemmeno il populus tremula, sebbene – che confusione! – la frazioncina appena superata sia, proprio come un piccolo pueblo, Tremoli. Perché semplificarsi la vita?

  • STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

    STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

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    Calabria Ulteriore, oppure Calabria Ultra: per secoli è stata definita così la metà meridionale della Calabria, in contrapposizione a quella Calabria Citeriore – o Citra – che corrisponde grosso modo all’attuale provincia di Cosenza. La Calabria Ultra è tanta, e ci vuole coraggio a percorrerla tutta, e ci vuole senza dubbio un’automobile. Anche qui, lasciamo perdere l’autostrada. Lasciamo perdere i viadotti verso San Mango d’Aquino, Martirano e Martirano Lombardo. Sopportando partenze all’alba, ci si può studiare la strada più tranquilla per raggiungere da Cosenza la costiera attraverso strade secondarie.

    Viadotti e antiche (ma non troppo) macine

    Ed ecco che a Potame si vede già il mare: ai gefirofobi si dovrebbe consigliare di evitare due viadotti sul Catocastro passando dentro Lago e in quel posto meravigliosamente denominato “Aria di Lupi” (attenzione però a non impelagarsi poi in un’insidiosa sterrata a fondo cieco, verso Terrati). Si esce così nei pressi dell’antica tonnara di Amantea: un chioschetto a gestione più che familiare, su una spiaggia, dà il via al viaggio tirrenico sulla vecchia borbonica. Da qui, dopo una lunga galleria sopra Còreca, si corre abbastanza spediti, dritti verso le desolate e assolate aperture di Falerna e oltre: Lamezia, Pizzo e poi, ancora più giù, Gioia Tauro, con le sue barbarie semi-industriali.

    Bivio per Aria di Lupi

    Mi fa ridere – amaramente – notare anche qui quanti ristoranti, come in tutta Italia, si chiamino L’antica macina. Che fantasia, li trovi ovunque dalle Alpi all’agrigentino, magari ubicati in edifici che non avranno più di trent’anni, quelli che per darsi un tono – quando non sono classici esempi di ‘incompiuto calabrese’ o ‘non finito calabrese’ – finiscono col dimostrarsi più pacchiani di quanto già sono, utilizzando inevitabilmente piatti quadrati e decorazioni da haute cuisine. Passa la fame già solo a vedere quelle linee, molto parvenu, di aceto balsamico o di cioccolato gettate con fintissima casualità sulle parti intonse del piatto. Invece, quanta frutta a Bagnara, quanti fruttivendoli improvvisati lungo i tornanti che portano giù al paese… E in men che non si pensi si può già essere all’imbarco per la Sicilia, provare per credere, anche senza autostrada.

    Un classico episodio di “non finito calabrese”

    Calabria Ultra, un passato da capire

    Ma l’idea è quella di raggiungere la Calabria grecanica, benché il braccio sinistro, tenuto fuori dal finestrino, possa essere già quasi ustionato: e allora Pentedattilo, Roghudi, Africo, luoghi rimasti ancorati, appiccicati ad un passato fin troppo remoto, un passato a perdere che non interessa più a nessuno. E così è: certe tracce del nostro esser stati altro finiscono per scomparire nell’indifferenza, una parte del ‘nostro’ dna culturale e sociale viene costantemente silenziato senza appello. Non devo cadere nella retorica sociologica, non devo cadere nell’elogio pittorico, antropologico. In quei posti bisogna andarci e capire.

    Paolo Rumiz scrive, in un bel libro dei suoi, di un rifugio in Aspromonte, e voglio andarci anch’io: la strada è molto più lunga del previsto, qualche giovane escursionista suggerisce di dormire in tenda vicino a una pineta. Ma siamo a due passi dalla strada per Polsi, e non so perché, o forse sì, ciò incute timore: in più si avvicinano grossi cani inselvatichiti. Procedo per Gambarie, Delianuova, Piani di Carmelìa. Le indicazioni, da parte di diverse persone, prendono tutte come punto di riferimento certi cassonetti di spazzatura bruciati… est modus in rebus, ma almeno si arriva.

    Aspromonte puro

    L’amico di Rumiz mi spiega che è scomodo, con questo buio, montare la tenda, e mi indica una casetta vicina: manca la luce ma almeno c’è meno freddo e comunque c’è l’acqua e pure i servizi. Fa un freddo cane, bisogna accendere le candele, e chi mi accompagna accende pure il camino, vi cuoce sopra la carne e apre una bottiglia di vino. Con i sacchi a pelo adagiati sopra due divani, il tempo passa davanti al fuoco, scandito da racconti di nonni e caldarroste, condito da un rumore ormai quasi rassicurante: i tarli nel solaio. Anche Rumiz sentì gli stessi tarli.
    Al risveglio, piovoso, si prende la strada, ufficialmente chiusa, che porta verso l’ex sanatorio antitubercolare di Zervò: un filmato dell’Istituto Luce ne testimonia l’inaugurazione, nel 1929, alla presenza del duca d’Aosta.

    Poco oltre si giunge al pittoresco bivio per Piminoro, una biforcazione piena di zeppa di muli abbarbicati tra le rocce, davanti ad un panorama splendido: Aspromonte puro, ecco com’è.
    Si può procedere verso Trepitò – i suoni di questi toponimi ci ricordano che abbiamo lasciato la zona grecanica ma non quella magnogreca – e bisogna lasciare il passo a mandrie di vacche che procedono verso il laghetto di Zòmaro: è la prima volta che in coda a una mandria vedo un maiale. Un mansueto maiale al pascolo, un bel ‘nero’ di Calabria. Siamo appena più su del paese di Ardore, la patria del dimenticato Francesco Misiano, il poco ricordato martire civile di quella rara Calabria antifascista.

    Francesco Misiano, dalla Calabria Ultra a Stalin

    Due parole su di lui vanno dette: nato nel 1884, nell’umile famiglia di un ferroviere, diventa ragioniere e a Napoli sposa prestissimo la causa del Partito Socialista Italiano. Sindacalista, disertore in Svizzera di fronte a quella Grande Guerra che non condivideva, viene condannato alla fucilazione, commutata poi in ergastolo. In Svizzera stringe rapporti con gli anarchici e con Lenin, con Angelica Balabanoff e Rosa Luxemburg: da Ardore all’ardore. Da lì si trasferisce in Russia, poi a Fiume, e infine aderisce al neonato Partito Comunista d’Italia.

    Eletto alla Camera nel 1919 e nel 1921, proprio nell’aula di Montecitorio viene malmenato da una trentina di deputati fascisti proprio in quanto ex-disertore e perciò non degno della carica parlamentare. Viene trascinato in strada, la testa parzialmente rasata, imbrattato di vernice, tra sputi e cartelli di dileggio. E vi risparmio le foto.

    Francesco Misiano

    Ripara nuovamente a Berlino e a Mosca, dove presiede una casa di produzione cinematografica (distribuisce lui, in Germania, La corazzata Potëmkin…). Accusato da Stalin di trotskismo, muore in un sanatorio di Mosca per cause ‘incerte’ ma in tempi ben sospetti (ovvero nel periodo delle purghe staliniane, altro che il Sanatorio di Zervò…), e nell’indifferenza dello stato maggiore del comunismo italiano (in particolare, di quell’ala togliattiana che già lo aveva messo alla gogna). Vista in quest’ottica, la vicenda apparirebbe come il primo degli episodi di malasorte politica e personale del comunista meridionale. Malasorte dolorosamente fantozziana, per tornare alla Potëmkin …

    La pace tra i monti

    Meglio lasciare le corazzate e le guerre, restare tra i monti, procedendo sul crinale che, attraverso le foreste di Mongiana – quella delle Reali Ferriere borboniche –, portano alla più quieta Certosa di Serra San Bruno. Laddove altro tipo di silenzio regna necessariamente, anzi obbligatoriamente, con buona pace dei lati oscuri della Calabria Ultra, e pure di Misiano: bisogna pur avere santi in paradiso, più che in terra.

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    La Certosa di Serra San Bruno
  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

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    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
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    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

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    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni
  • STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

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    Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».

    Darwin a Belvedere

    Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
    Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.

    Un Belvedere anche senza mare

    Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).

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    Belvedere Marittimo e la sua spiaggia

    D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.

    “La Carrera del Diavolo”

    Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.

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    L’ingresso della Grotta della monaca

    Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.

    Fantasmi a Belvedere

    Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
    A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.

    Le masserie abbandonate

    Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.

    Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.

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    Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia

    Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.

    Le villette col pianoforte in giardino

    C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.

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    Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone

    La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.

    Stracalabria tra porcili, vacche e vino 

    Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.

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    L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)

    Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.

    Neve a Belvedere

    Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.

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    Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)

    Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.

    La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.

    Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari

    Monte Cannitello brucia

    E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?

     

  • STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

    STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

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    Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…

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    Confini…

    L’exclave stritolata da tre paesi 

    C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedere un’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…

    La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.

    Terra di exclavi

    Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.

    Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.

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    La chiesa madre di Oriolo

    Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschiin parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.

    Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.

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    Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi

    Il dito di San Francesco di Paola

    Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).

    Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.

    Tombe e reperti

    E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).

    Peste e rivoluzione ad Oriolo

    E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.

    I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.

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    Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo

    Caduta libera

    Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.

    Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)

    E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.

    Oriolo e i cimiteri

    Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano (nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.

    Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.

    Una piccola Sila jonica

    Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.

    E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri
    Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?

     

  • STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

    STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

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    Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamantela chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).

    Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.

    Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).

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    I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi

    I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi

    E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.

    Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.

    La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
    Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.

    Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).

    Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali

    Chiarello, il vino dei Papi

    Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
    Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».

    Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.

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    La scogliera di Cirella

    Il preferito di Sua Santità

    Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».

    Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso

    Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
    Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
    E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

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    Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma

    Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.

    Il declino del Chiarello

    Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
    Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».

    Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
    Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
    Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…