Tag: Strade perdute

Atlantide esiste. Ed è dietro ogni angolo che abbiamo dimenticato, o che non abbiamo mai neppure considerato, magari dietro casa. È un’Atlantide geografica ma anche sociale e persino trasversale fra i tempi. Un modo per visitarla? Il più semplice è ignorare l’autostrada. Poi schivare gli ammiccamenti futili della contemporaneità. Percorrere strade perdute. Qui, qualche consiglio.

  • STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.

    Piano a: Castroregio via Albidona

    La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
    Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato.
    Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.

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    Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)

    Piano b: Castroregio via Oriolo

    La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
    In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
    Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
    Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
    Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.

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    I ruderi della masseria Maristella ad Albidona

    I portali di Castroregio

    In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
    Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
    Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.

    Preti e magia a Castroregio e non solo

    Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
    Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
    E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.

    I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)

    Due parole sull’Arbëria

    Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
    Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
    Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.

    Quanti sono gli arbëreshe?

    È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
    Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.

    L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca

    Ritorno alla base

    Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
    L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
    Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
    Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.

  • STRADE PERDUTE | Araldica, liquirizie e cimiteri: viaggio nello Jonio profondo

    STRADE PERDUTE | Araldica, liquirizie e cimiteri: viaggio nello Jonio profondo

    L’araldica di Calabria nasce anche dalle campagne. Volimento, Pirro-Malena, Inziti, Cicala, Fabrizio Grande, Fabrizio Piccolo, Coscia, Ricota Grande, Ministalla, Lattughelle.
    Sono i nomi di alcune contrade tra Rossano, Corigliano – giù e su di lì – dove cominciano a sparpagliarsi vecchie ville rurali, casini ottocenteschi, a difesa e controllo delle rispettive piantagioni d’ogni ben di Dio.
    “Terra quantu vidi, casa quantu stai”. Ovvero: “Accumula terre finché puoi ma case soltanto per lo stretto indispensabile”. Così recita un vecchio adagio calabrese evidentemente da aggiornare.

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    L’antico casino Toscano, poi Giannuzzi, in agro di Rossano

    Araldica di Calabria: i rombi di Amarelli

    Certamente questa fu zona di sfruttamento intensivo della terra, in ogni accezione se finanche la poverissima liquirizia ne uscì protagonista assoluta (nel bene e nel male).
    Un nome, una leggenda dell’imprenditoria internazionale, Amarelli fa parte addirittura della ristrettissima cerchia delle imprese familiari almeno bicentenarie (le radici – è il caso di dire – di questa azienda rimonterebbero addirittura al Cinquecento…) e offre al pubblico un museo che vale assolutamente la pena visitare.
    Forse pochi sanno che i “rombetti Amarelli” sono un omaggio allo stemma di famiglia, contenente appunto quelle che in araldica, non solo in Calabria, sono più correttamente dette losanghe.

    Araldica di Calabria: triangoli british a Cassano

    Ho detto araldica e mi viene in mente un’altra curiosità che scovai a una trentina di chilometri da qui: sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi.
    Due sono nella parte superiore: una è la fascia dei Sanseverino e l’altra la stella dei Del Balzo.
    Il terzo stemma, sul piede del fonte, è nientemeno quello del vescovo Owen Lewis (1532-1594), all’epoca latinizzato in Audoenus Ludovisi o – indecisione di quei tempi –Ludovicus Audoenus: un canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, appunto, vescovo di Cassano.

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    Un concio coriglianese ritratto da Jean Louis Desprez (Parigi, 1781)

    Lo stesso che creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. E proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un altro esemplare di questo suo stemma ‘triangolato’, inconsueto nella tradizione araldica italiana, e che solo da Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino. Ma, stavolta, niente liquirizie triangolari…

    Pausa pranzo: strippata a Cerchiara

    Semmai, pochi chilometri più su, nelle campagne di Cerchiara ci si può imbattere provvidenzialmente in un agriturismo gestito da una coppia di attempati contadini che mandano avanti la (gloriosa) baracca soli soletti, con una grazia e una simpatia impareggiabili.
    La signora insiste per preparare, oltre che la camera, anche un pranzetto veloce ma imbandisce un pranzo che altrove potrebbe bastare per due-tre giorni.
    Lungi da me la cosiddetta “retorica del fico d’India”, ma quando va detto va detto: queste sono ricchezze e, semmai, occorre rigettare quel sentimento che s’affaccia spesso anche a queste latitudini.
    Siamo infatti terra fertile anche noi per quelli che l’insuperabile e pertanto sottovalutato Enrico Panunzio (L’idiota celeste, 1989) definiva «i miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli» (e ogni brillante riferimento è puramente intenzionale).

    Veduta di Cerchiara di Calabria

    Araldica della Calabria lugubre: il cimitero operaio

    Mi avvicino, lungo questo vagabondaggio, anche a un cimitero (non dirò quale).
    I cimiteri raccontano di un paese più di quanto non facciano i monumenti, le strade, le chiese o l’elenco del telefono. C’è una grande cappella sbarrata, murata, puntellata. Appartiene a una vecchia Società Operaia di inizio Novecento.
    In cima alla porta si apre un finestrino. Si può sbirciare e lo spettacolo è sconsigliabile ai delicati di stomaco: qualche frana o terremoto ha combinato, chissà quanti anni fa, un disastro.
    Solo che tutto è stato lasciato così come si rovesciò per terra, così come si aprì, così come si scoperchiò. I particolari, alla fantasia del lettore. Necrofanie altoioniche…

    I caduti della ferrovia e il mercato delle pulci

    Più in là, nomi di ingegneri francesi deceduti a fine Ottocento, nel periodo in cui lavoravano alla nuova ferrovia sulla costa ionica, impiegati da quella Torino capitale non meno nepotistica delle altre capitali d’ogni tempo.
    Ancora più in là, croci senza nomi, foto senza fiori, fiori senza lapidi, nomi senza date, foto di coppia anche senza commorienza (magari era l’unica foto), foto di N.N… Al riguardo, mi vengono in mente certi mercatini delle pulci dove si trovano interi album o ceste pieni di foto in bianco e nero, appartenute a chissà chi.
    Roba da ispirare una nuova maledizione, più amara della vecchia «che ti cresca l’erba davanti alla porta!». Ovvero: «Che le tue foto finiscano al mercatino delle pulci!».
    Un’altra lapide, degli anni Sessanta, le supera tutte: «La moglie e i figli, in memoria di XY. Nel bene e nel male». Accidenti, se non è damnatio memoriae questa…

    La foto più vecchia

    E, a proposito di foto, mi ha sempre incuriosito chi sia stata la persona più antica mai fotografata. Non intendo, ovviamente, la persona fotografata per prima, che in qualche modo si riuscirebbe pure a pescarla.
    No, dico proprio quella più anziana tra le prime fotografate. Il primato è conteso, ma pare che spetti, per ora, a tale John Adams, nato nientemeno nel 1745 (qui la lista più accurata).

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    Pronuncia della parola pipistrello in Calabria: una mappa di un saggio d’epoca nazista (foto L.I. Fragale)

    In compagnia dei pipistrelli nazi

    Siamo privilegiati. Indirettamente superstiti: discendenti di sopravvissuti a guerre, epidemie, calamità naturali. Una marea di fortunati che dovrebbe baciarsi i gomiti. Basta, s’è fatto tardi, meglio uscire dal camposanto ora che è vespro. Già: arrivano i vespertiliones dei latini, gli spurtaglioni partenopei, i vespistrelli, i vipistrelli, ora più comunemente pipistrelli.
    Oppure, come li chiamano da queste parti, lattarini (direttamente dalla nikterida magnogreca). Poi surici-lattarini che per mutazione fonetica diventano animali immaginari capaci persino di riunire in sé due bestie antitetiche: i surici-gattarill’, sorta di improbabili topo-gattini.
    E pensare che nella maggior parte delle lingue straniere è sempre tradotto come topo-volante… Ne faceva una perfetta mappatura fonetica tale Emil Eggenschwiler, in un libro (Die Namen der Fledermaus ecc. ecc) edito nel 1934 a Lipsia, nel pieno della Germania nazista. E Rohlfs zitto (che è meglio, date le non poche cantonate che prese nella sua pur brillante carriera).

  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

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    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

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    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

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    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.

  • STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    Esiste un libro, costosetto, sui “linguaggi fischiati”. Un saggio scientifico, roba serissima, con tutti i crismi accademici, scritto da due linguisti: Meyer & Busnel. Busnel ne aveva già scritto uno più ridotto, assieme al collega Classe, quarant’anni prima. Esistono infatti ancora parecchie popolazioni, al mondo, che sanno fare uso di una vera e propria lingua alternativa e, appunto, fatta di soli fischi.

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    Illustrazione sulle diverse modalità di fischiare utilizzando le dita

    C’è un grido per le vacche, uno per i tacchini

    Ho recuperato entrambi i libri, per un motivo che c’entra solo a metà con queste Strade Perdute: anni fa restai affascinato dalla varietà di grida utilizzate da una certa famiglia di contadini nel dare varie indicazioni ad animali di diversa tipologia. Potenza della vita civilizzata (sono ironico): riescono a sorprenderci cose che fino a 150 anni fa avremmo ascoltato forse quotidianamente, senza troppe difficoltà… Per fortuna c’è chi ancora queste cose le sa, ne fa uso, le tramanda per necessità: c’è il grido per le vacche, quello per le pecore, per i tacchini, le oche, i cavalli, i muli. Il grido per avvicinarli, per allontanarli, eccetera. Leggevo da qualche altra parte che addirittura i bufalari in Terra di Lavoro affibbiano specifici nomi ad ogni capo. E i capi comprendono, registrano, rispondono solo se chiamati con quel nome. Guai a sbagliarsi, i bufali sono orgogliosissimi.

    Il tempo si è fermato a Montegiordano

    A due passi – si fa per dire – dal centro storico di Montegiordano vive una famiglia di contadini e allevatori esemplare. La cultura rurale alla massima potenza: figli e figlie hanno imparato a due anni ad andare a cavallo senza sella, tutto si produce in casa, dal pane alla carne passando ovviamente per i prodotti dell’orto. Sei raffreddato? Devi fare un giro all’alba nelle stalle, a respirare l’odore del letame fresco.

    Sei febbricitante? Raccogli la liquirizia, la metti a bollire in tre litri d’acqua, con tre foglie d’alloro, tre fichi secchi e tre fascette di camomilla. Quando i tre litri sono evaporati fino a diventare un litro solo, allora bevi. Tutto ciò accade in una masseria ubicata in mezzo a un paradiso terrestre: un’ex grangia cistercense di impianto addirittura duecentesco, che gli appassionati di studi federiciani dovrebbero considerare un po’ di più, senza limitarsi alla solita solfa dei castelli e dello scenografico sistema difensivo. E se lo dico c’è un motivo…

    Ruderi della grancia cistercense in agro di Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Perfino l’archeologo Lorenzo Quilici visitò la masseria nel 1961. Perfino lo scrittore Tiziano Fratus l’ha recentemente perlustrata e ne ha annotato gli alberi più monumentali tutt’intorno. Mentre qualche anziano contadino di quello stesso circondario ancora utilizza – e perciò ancora ‘possiede’ – un vocabolo dialettale apparentemente avulso dalla semplicità del contesto rurale, e invece profondamente connesso: lo spartagguale, ovvero l’equinozio, segno di un’antica conoscenza contadina dei rudimenti astronomici (mettiamocelo in testa: il vocabolario di un analfabeta di duecento anni fa era molto probabilmente più vasto di quello di un comune ignorante odierno).

    Io mi diverto invece a porre al capofamiglia domande imbarazzanti, del tipo se lui abbia mai visto in zona un roi de rats  (risposta: no) oppure «come mai non si produce il formaggio di donna?». Solo che la risposta è ancora più imbarazzante: «Perché il sapore non è buono». Colpito e affondato nei nuovi dubbi. Mi racconta che in una cucciolata di maialini ogni piccolo sceglie un determinato capezzolo materno da cui attingere. Da lì in avanti non avviene nessuno scambio: a ciascuno il suo. E se un cucciolo muore anzitempo, il “suo” capezzolo rinsecchisce. C’è poco da scherzare: quanto alle mie provocazioni in merito al latte di altri mammiferi (scrofe, cagne, cavalle, coniglie, gatte), pare che il problema sia molteplice.

    Latte di porco 

    Vi è innanzitutto una questione quantitativa: questi animali fanno troppo poco latte e per periodi troppo brevi (ergo l’investimento potrebbe non risultare vantaggioso); e una questione qualitativa: il latte di questi animali non è effettivamente gradevole al palato umano (chiediamoci: se fosse stato minimamente commestibile… davvero milioni di poveri contadini nella storia dell’umanità non ne avrebbero mai approfittato?). E però entrambi questi fattori oggi possono essere superati in un mercato di nicchia, dato che non è affatto difficile trovare accaniti consumatori di cibi tanto ‘esotici’ quanto apparentemente rivoltanti alla vista e al gusto (tempo fa andava di moda il costosissimo caffè fatto con chicchi precedentemente mangiati, digeriti e defecati da un simpatico zibetto).

    Chicchi di caffè di zibetto

    Il problema del gusto quindi non si pone per quanto riguarda il latte umano, visto che tutti l’abbiamo bevuto. E ci piaceva pure. Quanto alla quantità: quanti bambini sono stati allattati da balie che lo facevano di mestiere? Il problema sta semmai nella pastorizzazione. Sulla legalità della cosa, in linea di massima non sussisterebbe alcun problema, rientrando comunque negli atti di disposizione che non ledono in modo permanente l’integrità fisica della persona (si posso vendere i propri capelli, le proprie unghie (ammesso che vi sia domanda). Perché poi il latte d’asina sì, e il latte di cavalla no?

    Contadini con la C maiuscola a Montegiordano

    Ma torniamo alle cose commestibili: invitato a pranzo da questi Contadini (la maiuscola, qui, è d’obbligo), davanti al ben di Dio c’è poco di che applicare la regola della “creanza del cardalana” che consisterebbe nel lasciare educatamente sempre qualcosa nel piatto: la usavano gli esperti cardatori, lavorando a domicilio e perciò necessariamente invitati a pranzo, per evitare di apparire troppo famelici.

    E dopo il primo, l’agnello al forno, le cotenne e le orecchie di maiale, le polpette, la soppressata, le cicorie selvatiche, cipolle&uova, i piselli, le olive e litri di vino, tra i fumi dell’alcool e della digestione, un indovinello dialettale e un altro, mi rendo conto che più passano i minuti meno ho la lucidità di afferrare il loro discutere di mandrie e greggi da recuperare qua e là, fuggitive per la pioggia; e così arrivo all’ebbra conclusione che questi, c’è poco da scherzare, parlano greco. Un greco travestito da italiano. Altro che Area Lausberg, nel cui mezzo ci troviamo optime, ovvero quella zona linguisticamente nota con il nome di Mittelzone, quella ‘zona arcaica calabro-lucana’ che si contraddistingue per il particolare sistema vocalico equivalente a quello sardo.

    Il vecchio cementificio lungo la Statale 106

    Montegiordano e il Nordest di Calabria

    Siamo nei boschi un tempo appartenenti a Oriolo Calabro (Ursulus, Orgilus, Ordiolus), prima ancora che il paese di Montegiordano venisse fondato dove – carte del 1015 alla mano – sorgeva il castello di Petra Coeci e il monastero di Sant’Anania, che non stavano affatto in territorio di Nocara, come da qualche archeologo locale erroneamente affermato. Se andiamo avanti così, archeologi di questo tipo faranno fatica tra cent’anni persino a individuare il vecchio cementificio montegiordanese lungo la vecchia statale 106, interessante esempio di rudere industriale in mezzo al profumo dei pini d’Aleppo.

    E proprio lungo questa statale si può ancora accedere ad una delle spiagge più appartate e scenografiche: una contorta pineta naturale, scogli affioranti – gli scogli della Grilla e della Galera – e acqua trasparente, il tutto preferibile a giugno o a settembre, quando vi si incontrano solo sparuti gruppi di pescatori all’alba, cioè prima o dopo della ressa luglio-agostana – tendenzialmente apulo-materana, va detto – che purtroppo fa di questa spiaggia una mezza discarica.

    Ma siamo già al confine con il Comune di Roseto Capo Spulico come già annotava comicamente un atto del 1742, per niente avaro di sostantivi reiterati con funzione di moto per luogo: «Comincia detto confine dalla volta della Grilla, canale canale esce alla terra della Caprara, confinante col territorio di Roseto, e serra serra per lo lago del Vintrioso, che confina col territorio di detta Terra d’Oriolo, serra serra và al Monte grande confine colla Rocca Imperiale, scende nuovamente serra serra per la Timpa di Vitale, scende al Canale, che confina con detta Terra di Rocca Imperiale e canale canale esce al batto del mare e marina marina và al piano della volta della Grilla medesimo fine». Musica.

    La pineta naturale presso lo Scoglio La Grilla (foto L.I. Fragale)
  • Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Anche certe strade ferrate sono “Strade Perdute”. Una di queste è la linea ferroviaria a cremagliera tra Cosenza e Paola.
    La Biblioteca Nazionale di Cosenza ha ricevuto in dono, pochi anni fa, le carte del compianto ingegner Francesco Sabato Ceraldi (Fuscaldo, 1888 – Roma, 1960) relative alla realizzazione di questi 35 km di linea, che lo tennero impegnato dal 1911 al 1915 . Dipendente delle FF.SS., Francesco Sabato (il quale aggiungerà il secondo cognome solo nel 1939) aveva preso servizio a 23 anni come ingegnere allievo ispettore. Diresse in prima persona il cantiere di Paola, ostico per quella pendenza del 75 per mille che obbligò all’uso della rotaia supplementare centrale: la cremagliera, appunto.

    I monti di Paola

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    Francesco Sabato Ceraldi

    Questo suo fondo archivistico è un piccolo tesoro. Gioia non tanto e non solo per i topi d’archivio, ma anche per i cartografi e per chi si occupi di storia della tecnica. Circa un centinaio tra mappe e progetti, dal più generico al più particolare, dalla sezione longitudinale di ogni singola galleria all’edilizia ferroviaria di servizio, dalle varianti al tracciato più ardite, alle traversine, ai rubinetti dei servizi delle stazioni. E, infine, all’orografia dei monti di Paola, cupi e impenetrabili ora come allora.
    Fatevi un regalo, consultate quelle carte, un affaccio sulla stratificazione storica di sentieri, fabbricati rurali, stradine, stradone, gallerie e, appunto, strade ferrate che lambivano – nolenti e piuttosto impotenti – burroni, fiumi. Persino quello scenografico eremo di Santa Maria di Monte Persano, in agro di San Lucido.

    L’eremo e il laghetto

    Il tracciato di quella ferrovia è oggi abbandonato. In parte lo hanno convertito in strada carrabile, altrove è un sentiero, in altre parti restano ancora i binari. L’eremo, oggi, è invece quasi sfiorato dall’orrenda SS 107 (sta pochi metri più su rispetto alla doppia galleria, per intenderci) mentre restava lontano dal vecchio tracciato della cosiddetta strada della Crocetta. Terra di curve e/o di gallerie, terra di mal di pancia o segni della croce se l’attuale treno da Paola a Castiglione Cosentino si dovesse fermare al buio in quei dieci minuti di galleria.

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    L’eremo di Monte Persano, risalendo da Paola verso Cosenza

    Strada gemella della vecchia Crocetta è invece la meno conosciuta SP 31. Sale da Fuscaldo verso Montalto, passando attraverso San Benedetto Ullano, il paese che diventò albanese senza esser nato tale. Mirabile allungatoia di fortuna, alla bisogna, che pochi hanno la curiosità di percorrere, per certe ritrosie abitudinarie che restano incomprensibili.
    C’è pure un grazioso laghetto lì dove si scollina. E nel laghetto abbiamo finanche un primato, il nostro piccolo e più innocuo “mostro” di Lochness: il Tritone alpino (Triturus Alpestris Inexpectatus, si chiama proprio così), un animaletto preistorico sopravvissuto quassù, come tante altre cose…

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    Il “laghicello” di San Benedetto Ullano

    Lo Stromboli da sopra Paola

    Ad esempio, quei riti – a metà tra realtà e leggenda – che altro non sono se non deformazioni degli antichi culti dionisiaci e orfici. Tra essi, la dibattuta farchinoria calabrese, nemmeno troppo differente da certi culti agrari relativi alla stregoneria popolare del nord-est italiano. Eppure è rimasta in un alone di mistero da quando lo studioso Giovanni De Giacomo provò a scriverne agli inizi del Novecento su una rivista tedesca di antropologia che rifiutò lo scritto in quanto troppo osceno e cessò poi le pubblicazioni.

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    Un tritone alpino

    Pazienza: abbiamo Tritone, Dioniso e Orfeo… possiamo accontentarci di questi tre. Se non fosse che dai monti di Paola si vede facilmente, e spesso, lo Stromboli. E allora mi vengono in mente i riti magici popolari di quelle isole e le formule del taglio delle trombe d’aria di cui ho già scritto. Quelle formule che risuonano e rimbombano sullo specchio d’acqua fra la Calabria e le Eolie, come minimo. Da millenni, sempre uguali.

    Farchinoria ed ergotismo

    E allora mi viene da chiedermi sempre la stessa cosa: quanto uso si faceva, qui dalle parti della farchinoria, della farina di segale? Vi chiederete cosa c’entri questa domanda. C’entra tantissimo: può muoversi un appunto nei confronti di Ernesto De Martino, ovvero il non aver esaminato a fondo la natura originaria di alcuni aspetti del mondo magico popolare, di quegli episodi legati all’onirismo, alle visioni e, aggiungo, alla credenza nei miracoli.
    È noto, oramai, quanto alla base delle più diffuse credenze di carattere soprannaturale si debbano collocare iniziali episodi di isteria collettiva, psicosi collettiva o, ancor più acutamente, di ergotismo, ovvero la patologia conseguente alle epidemie di segale cornuta. Ed è altrettanto noto quanto, nel mondo antico, la segale fosse utilizzata nell’alimentazione. Già Ippocrate parla del “morbo negro” e solo più tardi si parlerà di secale luxurians.

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    Pane di segale

    Tuzzunara e LSD

    Il fungo parassita detto Ergot è lo stesso da cui, verso la metà del Novecento, Albert Hoffman ricavò l’LSD. E ad Alicudi, per esempio, è ancora viva la memoria di allucinazioni collettive che produssero le più diverse forme oniriche tramandate, poi, in forma orale, alla stregua di leggende. La probabile epidemia di ergotismo che ne starebbe alla base è confermata dall’inveterato uso della segale nei processi di panificazione locale. Basti pensare che la farina prodotta con la segale alterata, quella appunto “cornuta”, aveva persino un proprio nome dialettale: la tuzzunara.

    Memorie e oblio

    Non è rimasto quasi nulla neppure di queste memorie. Siccome non si può pretendere da tutti la curiosità di uno storico né lo stesso suo attaccamento alle cose passate, succede pure che ognuno ricordi solo le cose vissute in prima persona e al limite quelle più interessanti raccontate dai propri genitori o dai propri nonni. Tutto il resto cade nell’oblio, di generazione in generazione, per incuria e per disinteresse, nel senso più stretto del termine: l’assenza di un profitto recepibile nell’immediatezza.

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    Cantonieri calabresi a fine ‘800

    Per le piccole cose materiali, la dinamica è più sottile: se si guarda quanti anni ha l’oggetto più antico che si possiede ci si può facilmente rendere conto della caducità della memoria materiale. E non mi riferisco certo all’antiquariato acquistato ex post ma agli oggetti di famiglia; nemmeno ai pochi fortunati casi di famiglie più o meno blasonate e più o meno fornite di patrimoni mobiliari aviti di qualche pregio. La giacca di quel nostro antenato del Settecento (e un rapido calcolo potrebbe mostrarvi con sorpresa come ciascuno di noi abbia necessariamente avuto all’incirca millecinquecento antenati diretti vissuti nel solo diciottesimo secolo) o lo scialle seicentesco di un’altra o il calamaio cinquecentesco o la forchetta quattrocentesca sono spariti.

    Vecchio e antico

    In parte ciò è giustificabile anche a seguito di fattori oggettivi che ne imponevano l’abbandono: si pensi alla peste del Seicento che costrinse a incendiare interi paesi con tutto quello che vi si trovava. E si pensi a quei cicli di impoverimenti che pure hanno colpito tutte le famiglie e che costrinsero alla vendita (e, d’altro canto, al furto) di quasi tutto ciò che si possedesse e almeno degli oggetti preziosi. Questa giustificazione non è applicabile però a tutto: il resto, se non degradato e non diversamente riutilizzabile, è stato deliberatamente gettato via quando era troppo vecchio e non ancora antico per essere apprezzato con altri occhi.
    Cosa è vecchio, adesso, in questo momento storico? Cosa potrebbe diventare antico? E cosa stiamo perdendo senza magari nemmeno accorgercene?

  • STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    C’eravamo fermati a Torano Scalo e al cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti”, ora riprendiamo la vecchia strada regia per andare un po’ più a nord. L’inevitabile sosta al passaggio a livello di Mongrassano Scalo mi fa guardare le colline a destra e pensare a due cose: proprio lì, a Santa Sofia d’Epiro e dintorni – giusto sulla sponda opposta di quel Crati che d’inverno inondava le baracche dei deportati di Ferramonti – le SS appartenenti alla divisione Ahnenerbe (la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” fondata da Heinrich Himmler) si sarebbero cimentate in imperscrutabili scavi archeologici presso le sepolture dei nobili italo-albanesi Masci e Baffa-Trasci, proprietari dei vicini fondi Cavallo d’Oro, Grifone, Cozzo Rotondo e Suverano, legati alla leggenda della sepoltura del re Alarico, e dunque appetibili, agli occhi di certi retaggi, in termini di speculazione storico-antropologica.

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    Una lapide ebraica nel cimitero di Tarsia

    Meno dedizione, al contrario, è stata applicata negli ultimi decenni al cimitero di Tarsia. Restano pochissime lapidi – e in pessima condizione – di qualche deportato deceduto durante la prigionia a Ferramonti. Pare che qualcuna sia stata addirittura rimossa per far spazio a nuove cappelle private.
    Fa molta più scena, paradossalmente, quel cimelio automobilistico piazzato a pochi metri dall’ingresso del cimitero, allo svincolo che da una parte porta al paese e dall’altra alla diga: un’auto storica un po’ particolare, in quanto si tratta di un carro funebre. Esattamente: un vecchio carro funebre Fiat 2300 dei primissimi anni ’60 che fa mostra di sé in mezzo a un campo, stesso modello di quello ritrovato tempo fa nelle campagne laziali, altrettanto abbandonato e con tanto di bara (vuota) al suo interno.

    Roggiano, Malvito, notai e ricette

    La seconda cosa che mi sovviene sempre al passaggio a livello, lì a metà strada in linea d’aria fra Bisignano e Malvito, sono quelle due scivolate dello storico manuale di paleografia dei gesuiti De Lasala e Rabikauskas, dove bisunianensis diventava bisumanensis e Malveti diventava Malveci. Bazzecole? Mica tanto.
    Ho già parlato della strada che attraverso Contrada Cimino si spinge da Tarsia verso Roggiano e quindi non mi ripeterò. Qui però mi viene in mente un’altra stranezza: una curiosa ricetta contro la sterilità, ritrovata tra le carte di un certo notaio roggianese del Cinquecento, che recitava così: «Rimedio per fare che una donna sterile faccia figli. Piglia polipi picciolini, o siano polpi, sorte di pesce di mare, e falli arrostire senz’olio, e mangiali, che gioveranno; usando poi coll’uomo…».

    Malvito
    Malvito. La vecchia chiesa di S. Michele Arcangelo agli inizi del Novecento (archivio L.I. Fragale)

    Chissà se a questo notaio si ricorreva pure per fatture. Chissà se la donna sterile era sua moglie. Oppure – vista la posizione della minuta a imperitura memoria – chissà che l’impotentia generandi non fosse proprio sua, e che il notaio tenesse a non farla passare per tale. Del resto, a proposito di impotenza, cento anni dopo un suo collega campano annotava tra i propri atti chella pecché lo meglio havea perduto / corze a scapezzacuollo a far lo vuto.
    Non sembri strano: i notai antichi si divertivano un sacco a imbrattare i registri (si possono trovare caricature cetraresi, disegni silani di uomini eleganti che brandiscono spade, scarabocchi, poesiole, proverbi).

    Un mondo scomparso

    E per strada la sensazione è sempre la stessa: che di tutto ciò non sia rimasto nulla. Perso, appunto, per strada. E forse era giusto così. Non è rimasto nulla di quella cultura contadina, che non era minimamente una cultura inferiore o un mero sapere “basso”. Né è rimasto alcunché – o è rimasto pochissimo – di certa aristocrazia, di certi cognomi, di certa economia, di tutta una società. Forse qualcosa è rimasto (il peggio) in certa mentalità.

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    La Riserva Naturale del Lago di Tarsia

    Nulla è rimasto persino dell’aspetto delle campagne, dei paesi e delle marine, mentre ci si bea che tutto sia stato sempre più o meno così e magari soltanto un po’ più poeticamente ricoperto da una patina di passato. No, anche il mero panorama era assai diverso: anche una campagna di due secoli fa era irriconoscibile rispetto a come la si vede oggi. Un mondo, fatto sta, è stato spazzato via. O s’è spazzato via da solo, a poco a poco, in virtù del fatale maggiorasco e di camaleontismi non sempre vantaggiosi.

    Boschi a perdita d’occhio

    Ma torniamo con le ruote per terra. Roggiano guarda le montagne: di qua la strada per Fagnano e Guardia, di là per Sant’Agata d’Esaro, dall’altra parte per San Sosti. Boschi, boschi, boschi. Una quantità di rami, di foglie, di tronchi a perdita d’occhio. Almeno fin quando non ci si mettono gli incendi: e penso alla leggenda urbana immortalata nel romanzo (e nel film) La versione di Barney, in cui un giovane scompare dopo aver fatto il bagno in un lago e il suo corpo viene riscoperto anni dopo, in costume, in mezzo a un bosco. Mentre faceva il bagno, infatti, un incendio cominciò a lambire la zona e i Canadair andarono a rifornirsi d’acqua proprio nel lago. D’acqua, e non solo…

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    Fagnano, primi del Novecento: lavorazione delle castagne (archivio U. Zanotti Bianco)

    E allora mi chiedo se i Canadair siano forniti di un sistema per non rovesciare sulle montagne incendiate i pesci – almeno quelli – imbarcati a mare e destinati alla grigliata dolosa. Tra migliaia di anni li scambieranno per fossili autentici? E i rifiuti galleggianti? Un po’ come scriveva André Leroi-Gourhan parlando delle religioni della preistoria, se tra diecimila anni resterà qualcosa (dubito) di una Barbie… penseranno al culto della bionda. E i dvd… piccoli mandala forati, recanti iscrizioni, spesso decorati… con un foro per essere appesi come ex-voto…

    San Sosti al British Museum

    Per fortuna, da queste parti, di ex voto ne abbiamo di ben più notevoli: l’ascia di San Sosti, ad esempio. Risale al 550 a.C., l’hanno ritrovata nel 1846 dalle parti di ciò che resta dell’antico abitato di Artemisia. Ora fa bella mostra di sé nientemeno al British Museum di Londra. Così, a memoria, mi pare che l’iscrizione sull’ascia recitasse «il vittimario Cinisco mi dedicò, come decima dei prodotti, al santuario di Hera che sta nel piano»: Hera, quindi: molto prima di rifarsi il maquillage come santuario della Madonna del Pettoruto. Votate alla fertilità, guardacaso, tutte e due le figure sacre.

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    L’ascia votiva di San Sosti

    Ma dicevamo dei boschi e degli incendi. Spettacolarizzati ormai anche quelli, specie se estivi, con bagnanti intenti a fotografarli, come i turisti che fotografavano l’attacco alle torri gemelle o gli abitanti di Chernobyl nelle prime scene della serie omonima.
    Poche ma meravigliose le strade attraverso queste selve: quella che lambisce il mini sistema lacustre dei Due Uomini (comune di Fagnano) e che è praticamente una strada gemella della più vecchia strada Fagnano-Cetraro. Solo che, camminando su un crinale ripidissimo, non finisce a Cetraro ma addirittura a Cavinia, passando per Torrevecchia di Bonifati, oppure a Cittadella del Capo attraversando le frazioni di San Candido, Pero, o la mulattiera di Cirimarco.

    Guardia
    Guardia Piemontese: pomodori in siesta sotto l’antica torre di guardia (foto L.I. Fragale)

    Sant’Agata d’Esaro, premio alla serenità

    La stessa strada da Fagnano a Guardia, in cima ai monti, offre un bivio non meno splendido e inquietante al tempo stesso: quello che passando attraverso il Lago La Penna conduce a Sant’Agata d’Esaro, paese al quale offrirei un ipotetico premio alla serenità. In qualsiasi periodo dell’anno, a qualsiasi ora, la piazzetta in mezzo alla statale che lo taglia è piena di persone, di tutte le età, dalle carrozzine alle carrozzelle, tutte intente a chiacchierare placidamente o a passeggiare, d’estate, in fuga dai lidi torridi. Bravi.

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    Sant’Agata d’Esaro, il casino delle miniere

    Sant’Agata d’Esaro, con l’accento sulla e, anche se sulla cartografia storica sette-ottocentesca una delle montagne alle sue spalle, ricche di antiche grotte e miniere, è proprio indicata come Monte Isàuro. Toponimo che non ho mai più ritrovato. Monte Isauro… Qui siamo già però in terra di Pollino, siamo già in terra di pini loricati, i tormentati padroni di queste vette, con i loro tronchi contorti e straziati che farebbero la gioia di un Masahiko Kimura o di qualche altro maestro bonsaista dei più virtuosi. E non a caso, infatti, su una loro rivista specializzata trovai anni fa proprio un articolo sui loricati del Pollino: e il cerchio si chiudeva perfettamente. Estetiche di nicchia, fuori rotta.

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

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    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

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    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

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    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

    Cortici
    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

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    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.

     

  • STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
    La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
    Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

    Un maniscalco illustre di Amendolara

    C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
    E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

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    Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

    Il trattato di Patarino

    Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
    Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
    Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

    Veterinaria e magia ad Amendolara

    Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
    La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
    Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

    L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

    Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
    «Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
    Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
    Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

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    Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

    Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

    • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
    • «Incanto da verme de Cavallo
      Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
    • Incanto de nervo attinto
      Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Gion Grison + Tigris Eufrates».
    La botttega di un maniscalco

    Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

    Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
    Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

    Ci si mettono anche i preti

    Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
    «Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
    (Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

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    “Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

    Una scuola di equitazione

    Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
    Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

    I cavalli secondo il ministero

    Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

    Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

    Il ricordo di Vincenzo Padula

    Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
    Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
    Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

  • STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:

    • la Marlane,
    • l’isola di Dino,
    • il Cristo di Maratea,
    • il disastro edilizio intensivo di Scalea,
    • il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.

    Il conte, il monte e il Cristo

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    La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro

    Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
    L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…

    Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.

    Un fallimento dopo l’altro, il pioniere piemontese lasciò in terra calabra ricordini non esemplari e scelse di farsi seppellire in una grotta praticamente inavvicinabile, in un anfratto dello sperone sotto al Cristo, mentre l’ENI acquistava il poco che era rimasto, con buona pace delle velleità del conte discendente in verità da agricoltori-fabbri-addetti ai telai. I ricordini di cui sopra sono i lanifici Rivetti poi passati sotto il nome di Marlane, a Tortora e Praia a Mare, ovvero quella fabbrica di veleni che ha regalato nel golfo di Policastro patologie incurabili, mortali, a decine di operai.

    Vestivamo alla marinara

    E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.

    Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.

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    Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino

    Nel frattempo? Parecchia immondizia. Reale e… reality. Fatevi un giro su Google Maps, ad ammirare legittimamente gli edifici sventrati, i rottami e gli orrori dell’incuria (persino automobili abbandonate…). Era un paradiso, poteva continuare ad esserlo. E invece no.

    La sfida degli ecomostri

    E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.

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    Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella

    Oceano mare (Tirreno)

    Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
    E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
    E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.

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    Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford

    Esoterismo e presepi viventi

    Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.

    torre-talao-900
    Torre Talao, primi del Novecento

    Erre come Livorno

    Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.

    Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…

    caloprese

     

  • STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

    STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

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    Nel 2020 scoppiava – oltre alla pandemia – la non meno diffusa indignazione dei calabresi per l’agghiacciante domanda posta da Raoul Bova nel corto-marchetta di Muccino per la Regione Calabria: «Dove vuoi che ti porto?». Giusto! Quell’errore grammaticale era assolutamente poco realistico. E io aggiungevo: sarebbe stato tristemente più veritiero un «dove vuoi portata?».
    Sia come sia, ne venne fuori un’insopportabile polemichetta sulla rappresentazione da cartolina, sui filtri ferocissimi, le coppole e i gilet, gli agrumi estivi e i fichi in spiaggia: segno che in tanti avrebbero preferito non tanto uno spot turistico ma un servizio in stile Report (tanto i turisti stanno comunque alla larga). Contenti loro, ma bisognava capire che una cosa è la promozione turistica, altra la denuncia.

    Tropea o tromba d’aria?

    tropea
    La Tropea da cartolina

    Tutta questa premessa per dire che l’Oscar per la cartolina trita e ritrita spetta e spetterà sempre a Tropea (al secondo posto: l’Arcomagno, ma ne parliamo un’altra volta). Tropea, trupìa, tempesta, temporale. Anche le tropee, così come le trombe marine, vengono “tagliate” dagli anziani del posto.

    Nella Calabria tirrenica «quando si approssima una tropea, venti improvvisi che in estate-autunno si scagliano a vortice dal mare sulla costa, il più anziano dei contadini la “taglia”, recidendo in tre parti un tralcio di vite. Si rivolge verso la tropea che avanza e in atto solenne, mentre taglia, pronuncia alcune parole rituali» (lo scriveva pure Orazio Campagna, in un eccezionale libro pubblicato nel 1982 e oggi abbastanza introvabile: La regione mercuriense nella storia delle comunità costiere da Bonifati a Palinuro). Ma in questo caso non si tratta di una vera e propria tromba marina. E allora torniamo a Tropea con la T maiuscola e ai suoi dintorni.

    La magia delle donne

    Poco più a Sud, nel circondario di Palmi, la tromba marina è detta cuda d’arrattu: in questo caso «le donne del luogo, guidate da una che ha poteri magici, corrono sulla spiaggia impugnando nella destra un coltello a punta, col manico d’osso bianco, e con esso sciabulìano ’u celu con larghi, decisi fendenti. Colei che le guida punta il coltello contro la tromba e le urla “Luni esti santu / marti esti santu / mercuri esti santu / juovi esti santu / vènnari esti santu / sabatu esti santu / dumìnica è di Pasca / cuda ’e rattu casca“; e ogni volta che dice “esti santutraccia nel cielo, sempre in direzione della tromba, una croce, subito imitata dalle altre donne; poi, quando arriva a “dumìnica è di Pasca / cuda d’arrattu casca“, vibra un fendente da destra a sinistra e un altro dall’alto in basso, squarciando così il mostro».

    Non solo cristianesimo

    E che c’è di strano? Nulla: se nelle invocazioni contro le trombe d’aria i marinai timorati di Dio (e ancor più di Satana) fanno uso, allo stesso tempo, di formule cristiane e di formule salomoniche, dobbiamo ricordare – sto scherzando ma non troppo – che a due passi da qui nacque e morì Antonio Jerocades, l’abate eretico e massonissimo. Anzi, uno dei primissimi “grembiuli” della Penisola.

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    L’abate Antonio Jerocades

    Insomma, lo scriveva – ahinoi – anche il verboso De Martino: ««Il momento magico si articola in raccordi e forme intermedie che concernono il cattolicesimo popolare e le sue accentuazioni magiche meridionali, sino al centro dello stesso culto cattolico». Frasetta adatta all’uditorio marxista del tempo, manca solo “nella misura in cui”. Ma la sostanza c’è. De Martino voleva dire, per farla un pochino pochino più semplice, che il teismo o è contemplato in forme integrali, che comprendano ogni sottospecie di pratica cultuale che vi si possa connettere, o perde coerenza e crolla. Ma, per carità, torniamo a Tropea.

    Tropea oltre Muccino

    No, scordatevi che io scriva delle bellezze naturali e storiche del luogo oppure della cipolla rossa venduta a peso d’oro (il pomo della concordia… La pietra filosofale? Oppure l’occultus lapis che si rinviene, appunto nelle interiora terrae?). Butterò soltanto un’informazione poco nota: al diavolo i pernottamenti di Garibaldi in almeno 366 luoghi diversi all’anno (almeno 367 negli anni bisestili ma, si sa, lui era più trino che uno), a me pare molto più interessante scoprire che nell’agosto del 1965 a Tropea ha dormito Georges Perec.

    Lo annotò nei suoi diari, come in un Tripadvisor privatissimo: «La spiaggia è assai lontana, molto bella, in basso; la camera è grande, persiane chiuse a causa del caldo». Ne tracciò persino una mini-planimetria (il foglietto, per la precisione, sta a Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Fonds privé Georges Perec, Lieux où j’ai dormi, 48.6.2, 14r). Questo per dire che si può rispondere a Muccino, eccome. Ma con argomenti di qualche auspicabile spessore. E certo, mi direte voi (?): Perec nel ’65 non era ancora nessuno, stava appena esordendo con Les Choses. Dici niente!, vi rispondo io.

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    Appunto dai diari di Georges Perec

    Massoni e sedie impagliate

    Ma abbandoniamo sia le cartoline sia i dagherrotipi: lasciamo stare Tropea, gli agosti calabri, e dirigiamoci verso l’interno, per tornare a Nord. A occhio e croce, la strada più difficile è quella che da quaggiù passa per Soveria Mannelli, e allora facciamola. Aggiriamo Girifalco, anche perché di massoneria ho già parlato troppo e non sarei il primo a ricordare che proprio in questo paese sorse la primissima loggia d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra: ah, la precocità!).

    Passiamo invece per Migliuso, amenissima frazione rurale della più lontana Serrastretta. A dividerle, una strada non proprio intuitiva. Ulivi, ulivi, ulivi, panorami meravigliosi e una trattoria dove – e poi se la prendono con Muccino! – dei bambini tornati da scuola suonano la fisarmonica; dove ordino un secondo senza contorno e la signora mi porta anche le patatine: «tanto… le dovevo fare per i bambini, le faccio pure per Voi». E dire che Serrastretta passerà alla storia più che altro per essere il paese degli impagliatori di sedie e, ancor di più, per aver dato i natali ai genitori di Iolanda Gigliotti in arte… vabbé, che ve lo dico a fare?

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    Sedie serratrettesi doc

    Incappucciati

    Ma non c’è tempo per riposare le terga sui manufatti locali… pieghiamo per Gimigliano e non c’è niente da fare, impossibile restare lontani da un po’ di sano anticlericalismo calabro e di esoterismo locale: qui nacque Tiberio Sesto Russilliano (o, meglio, Rosselli) il quale, senza farla lunga, nel 1519 pubblicò l’Apologia contro i chierici, ovvero l’Apologeticus adversus cucullatos (si, lo so, “cucullatos” sta per “incappucciati” ma non bisogna fraintendere, qui si riferisce proprio alla pretonzoleria). E qui nacque pure il cucullatissimo francescano (abbastanza eretichello) Annibale Rosselli, morto a Cracovia nel 1592, autore di un monumentale commento in sei tomi al Pimandro  attribuito a Ermete Trismegisto.

    Insomma, la Calabria centromeridionale non ha partorito solo Mino Reitano. Rimettiamoci in cammino: passiamo per Carlopoli, Castagna e per la bella frazione di Colla. I boschi si fanno mano mano più fitti e siamo già a Conflenti, Martirano Lombardo, Martirano non lombardo, San Mango d’Aquino, paesi arrampicati sopra gli orridi dell’ultimo tratto del Savuto o, per i più superficiali, sopra gli omonimi svincoli autostradali delle tratte più infelici dell’Italia d’oggi. Altra storia.