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  • STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    C’eravamo fermati a Torano Scalo e al cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti”, ora riprendiamo la vecchia strada regia per andare un po’ più a nord. L’inevitabile sosta al passaggio a livello di Mongrassano Scalo mi fa guardare le colline a destra e pensare a due cose: proprio lì, a Santa Sofia d’Epiro e dintorni – giusto sulla sponda opposta di quel Crati che d’inverno inondava le baracche dei deportati di Ferramonti – le SS appartenenti alla divisione Ahnenerbe (la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” fondata da Heinrich Himmler) si sarebbero cimentate in imperscrutabili scavi archeologici presso le sepolture dei nobili italo-albanesi Masci e Baffa-Trasci, proprietari dei vicini fondi Cavallo d’Oro, Grifone, Cozzo Rotondo e Suverano, legati alla leggenda della sepoltura del re Alarico, e dunque appetibili, agli occhi di certi retaggi, in termini di speculazione storico-antropologica.

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    Una lapide ebraica nel cimitero di Tarsia

    Meno dedizione, al contrario, è stata applicata negli ultimi decenni al cimitero di Tarsia. Restano pochissime lapidi – e in pessima condizione – di qualche deportato deceduto durante la prigionia a Ferramonti. Pare che qualcuna sia stata addirittura rimossa per far spazio a nuove cappelle private.
    Fa molta più scena, paradossalmente, quel cimelio automobilistico piazzato a pochi metri dall’ingresso del cimitero, allo svincolo che da una parte porta al paese e dall’altra alla diga: un’auto storica un po’ particolare, in quanto si tratta di un carro funebre. Esattamente: un vecchio carro funebre Fiat 2300 dei primissimi anni ’60 che fa mostra di sé in mezzo a un campo, stesso modello di quello ritrovato tempo fa nelle campagne laziali, altrettanto abbandonato e con tanto di bara (vuota) al suo interno.

    Roggiano, Malvito, notai e ricette

    La seconda cosa che mi sovviene sempre al passaggio a livello, lì a metà strada in linea d’aria fra Bisignano e Malvito, sono quelle due scivolate dello storico manuale di paleografia dei gesuiti De Lasala e Rabikauskas, dove bisunianensis diventava bisumanensis e Malveti diventava Malveci. Bazzecole? Mica tanto.
    Ho già parlato della strada che attraverso Contrada Cimino si spinge da Tarsia verso Roggiano e quindi non mi ripeterò. Qui però mi viene in mente un’altra stranezza: una curiosa ricetta contro la sterilità, ritrovata tra le carte di un certo notaio roggianese del Cinquecento, che recitava così: «Rimedio per fare che una donna sterile faccia figli. Piglia polipi picciolini, o siano polpi, sorte di pesce di mare, e falli arrostire senz’olio, e mangiali, che gioveranno; usando poi coll’uomo…».

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    Malvito. La vecchia chiesa di S. Michele Arcangelo agli inizi del Novecento (archivio L.I. Fragale)

    Chissà se a questo notaio si ricorreva pure per fatture. Chissà se la donna sterile era sua moglie. Oppure – vista la posizione della minuta a imperitura memoria – chissà che l’impotentia generandi non fosse proprio sua, e che il notaio tenesse a non farla passare per tale. Del resto, a proposito di impotenza, cento anni dopo un suo collega campano annotava tra i propri atti chella pecché lo meglio havea perduto / corze a scapezzacuollo a far lo vuto.
    Non sembri strano: i notai antichi si divertivano un sacco a imbrattare i registri (si possono trovare caricature cetraresi, disegni silani di uomini eleganti che brandiscono spade, scarabocchi, poesiole, proverbi).

    Un mondo scomparso

    E per strada la sensazione è sempre la stessa: che di tutto ciò non sia rimasto nulla. Perso, appunto, per strada. E forse era giusto così. Non è rimasto nulla di quella cultura contadina, che non era minimamente una cultura inferiore o un mero sapere “basso”. Né è rimasto alcunché – o è rimasto pochissimo – di certa aristocrazia, di certi cognomi, di certa economia, di tutta una società. Forse qualcosa è rimasto (il peggio) in certa mentalità.

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    La Riserva Naturale del Lago di Tarsia

    Nulla è rimasto persino dell’aspetto delle campagne, dei paesi e delle marine, mentre ci si bea che tutto sia stato sempre più o meno così e magari soltanto un po’ più poeticamente ricoperto da una patina di passato. No, anche il mero panorama era assai diverso: anche una campagna di due secoli fa era irriconoscibile rispetto a come la si vede oggi. Un mondo, fatto sta, è stato spazzato via. O s’è spazzato via da solo, a poco a poco, in virtù del fatale maggiorasco e di camaleontismi non sempre vantaggiosi.

    Boschi a perdita d’occhio

    Ma torniamo con le ruote per terra. Roggiano guarda le montagne: di qua la strada per Fagnano e Guardia, di là per Sant’Agata d’Esaro, dall’altra parte per San Sosti. Boschi, boschi, boschi. Una quantità di rami, di foglie, di tronchi a perdita d’occhio. Almeno fin quando non ci si mettono gli incendi: e penso alla leggenda urbana immortalata nel romanzo (e nel film) La versione di Barney, in cui un giovane scompare dopo aver fatto il bagno in un lago e il suo corpo viene riscoperto anni dopo, in costume, in mezzo a un bosco. Mentre faceva il bagno, infatti, un incendio cominciò a lambire la zona e i Canadair andarono a rifornirsi d’acqua proprio nel lago. D’acqua, e non solo…

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    Fagnano, primi del Novecento: lavorazione delle castagne (archivio U. Zanotti Bianco)

    E allora mi chiedo se i Canadair siano forniti di un sistema per non rovesciare sulle montagne incendiate i pesci – almeno quelli – imbarcati a mare e destinati alla grigliata dolosa. Tra migliaia di anni li scambieranno per fossili autentici? E i rifiuti galleggianti? Un po’ come scriveva André Leroi-Gourhan parlando delle religioni della preistoria, se tra diecimila anni resterà qualcosa (dubito) di una Barbie… penseranno al culto della bionda. E i dvd… piccoli mandala forati, recanti iscrizioni, spesso decorati… con un foro per essere appesi come ex-voto…

    San Sosti al British Museum

    Per fortuna, da queste parti, di ex voto ne abbiamo di ben più notevoli: l’ascia di San Sosti, ad esempio. Risale al 550 a.C., l’hanno ritrovata nel 1846 dalle parti di ciò che resta dell’antico abitato di Artemisia. Ora fa bella mostra di sé nientemeno al British Museum di Londra. Così, a memoria, mi pare che l’iscrizione sull’ascia recitasse «il vittimario Cinisco mi dedicò, come decima dei prodotti, al santuario di Hera che sta nel piano»: Hera, quindi: molto prima di rifarsi il maquillage come santuario della Madonna del Pettoruto. Votate alla fertilità, guardacaso, tutte e due le figure sacre.

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    L’ascia votiva di San Sosti

    Ma dicevamo dei boschi e degli incendi. Spettacolarizzati ormai anche quelli, specie se estivi, con bagnanti intenti a fotografarli, come i turisti che fotografavano l’attacco alle torri gemelle o gli abitanti di Chernobyl nelle prime scene della serie omonima.
    Poche ma meravigliose le strade attraverso queste selve: quella che lambisce il mini sistema lacustre dei Due Uomini (comune di Fagnano) e che è praticamente una strada gemella della più vecchia strada Fagnano-Cetraro. Solo che, camminando su un crinale ripidissimo, non finisce a Cetraro ma addirittura a Cavinia, passando per Torrevecchia di Bonifati, oppure a Cittadella del Capo attraversando le frazioni di San Candido, Pero, o la mulattiera di Cirimarco.

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    Guardia Piemontese: pomodori in siesta sotto l’antica torre di guardia (foto L.I. Fragale)

    Sant’Agata d’Esaro, premio alla serenità

    La stessa strada da Fagnano a Guardia, in cima ai monti, offre un bivio non meno splendido e inquietante al tempo stesso: quello che passando attraverso il Lago La Penna conduce a Sant’Agata d’Esaro, paese al quale offrirei un ipotetico premio alla serenità. In qualsiasi periodo dell’anno, a qualsiasi ora, la piazzetta in mezzo alla statale che lo taglia è piena di persone, di tutte le età, dalle carrozzine alle carrozzelle, tutte intente a chiacchierare placidamente o a passeggiare, d’estate, in fuga dai lidi torridi. Bravi.

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    Sant’Agata d’Esaro, il casino delle miniere

    Sant’Agata d’Esaro, con l’accento sulla e, anche se sulla cartografia storica sette-ottocentesca una delle montagne alle sue spalle, ricche di antiche grotte e miniere, è proprio indicata come Monte Isàuro. Toponimo che non ho mai più ritrovato. Monte Isauro… Qui siamo già però in terra di Pollino, siamo già in terra di pini loricati, i tormentati padroni di queste vette, con i loro tronchi contorti e straziati che farebbero la gioia di un Masahiko Kimura o di qualche altro maestro bonsaista dei più virtuosi. E non a caso, infatti, su una loro rivista specializzata trovai anni fa proprio un articolo sui loricati del Pollino: e il cerchio si chiudeva perfettamente. Estetiche di nicchia, fuori rotta.

  • La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    La doppia vita del Mussolini americano venuto da Cirò

    Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.

    Salvatore Caridi, un soldato da medaglia

    E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.

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    1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma

    Da Cirò agli States

    Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
    Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.

    Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”

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    Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America

    Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.

    I nazisti del New Jersey

    Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bund sotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.

    Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.

    Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens

    Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.

    Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.

    Cose buone

    Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
    La camicia era nerissima, l’anima forse no.

  • Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Democrazia sociale: quando Cosenza voleva cambiare il mondo

    Nel 1865, alcuni cosentini fondarono un’associazione clandestina per promuovere una rivoluzione sociale. La maggior parte degli aderenti cinque anni prima aveva partecipato alla spedizione garibaldina e altri avevano militato nelle associazioni segrete mazziniane come la Falange Sacra. In un dettagliato documento redatto in una riunione tenutasi a Cosenza i rivoluzionari elencarono i punti fondamentali dell’organizzazione:

    • abolizione del «diritto divino, diplomatico e storico»;
    • rinunzia a ogni idea di «preponderanza nazionale»;
    • federazione dei comuni e delle nazioni;
    • abolizione della proprietà e dei privilegi;
    • eguaglianza politica dei cittadini;
    • emancipazione del lavoro dal capitale;
    • la terra ai contadini e i mezzi di produzione agli operai.

    Per il suo programma insurrezionale la “Democrazia Sociale” operò nella più rigorosa clandestinità. Gli aderenti comunicavano con nomi di battaglia e si organizzavano in luogotenenze e sub-luogotenenze. L’obiettivo della società era la rivoluzione socialista. Ma per realizzarla bisognava distruggere il prestigio di Mazzini e Garibaldi che, pur avendo fatto tremare i tiranni, avevano portato il popolo su vie sbagliate. Certo, erano due uomini «immortali» che si erano battuti con grande coraggio. Ma il primo vagheggiava un programma che non affrontava i problemi sociali. E il secondo aveva sconfitto il re borbonico per consegnare il paese a un re sabaudo.

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    Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano

    La rivoluzione a Cosenza, Mazzini e Garibaldi

    In un documento spedito agli adepti dell’associazione si legge a questo proposito:
    «Fratello! La nostra missione è ridurre l’uomo né suoi diritti naturali presso la umanità di Libertà ed uguaglianza, prima libertà, e di conseguenza l’uguaglianza. Per ottenere questo fine sacrosanto i mezzi sono i capi del programma, perché il primo assalto alla uguaglianza fu portato dalla proprietà, il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dai Governi. I soli appoggi della proprietà e de’ Governi sono le leggi religiose e civili. Dunque, per ristabilire l’uomo né suoi diritti primitivi di Uguaglianza e di libertà, è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile, e terminare coll’abolizione della proprietà. Il latore se le conviene, sarà il legionario nostro anello.

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    Marsiglia, 1833: il primo incontro tra Mazzini e Garibaldi

    Dovrà francamente ed energicamente Ella studiarsi come distruggere il prestigio de’ due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi, perché l’uno prese fin dal primo momento falso indirizzo, e con tutto ciò fece impallidire e tremare il foglio e il cuore de’ tiranni, ma non ristabilì l’uomo né suoi bisogni primi naturali e né secondi sociali, secondo bell’anima, ma moncamente servì il Paese ma collocò il tiranno in sulla sedia, ed il prestigio suo allucinò anche la mente nostra dal braccio che donava al tiranno. Ora il compito dè nostri guai è spento, ed incomincia l’era della luce, e noi faticando su di un difficile apostolato dobbiamo ridurre tutto il falso al vero, e combattere fino a morire l’ignoranza e la superstizione».

    Morte alla monarchia e a chi la difende

    E in un altro documento approvato in un convegno della Luogotenenza di Cosenza e le subluogotenenze di Rogliano e Paola si legge:
    «La Luogotenenza del Cosentino, e sue Subluogotenenze fan pieno plauso al programma della Democrazia Sociale e fan loro bensì la circolare di Cotesto C.C. che ha per iscopo di combattere il falso indirizzo di Mazzini. È indubitato che questo grande uomo ci fa la guerra: però più che col fatto col nome (almeno per quanto si può giudicare da noi ed in questa continenza Calabra Cosenza) e questo nome ci farà vieppiù la guerra che credesi di accordo con Garibaldi, ed il popolo ricco di affetti, e di devozione e pur di ingegno più che di intelligenza atteso che manca lo svolgimento intellettivo e di associazione al solo nome di Garibaldi cede ad ogni gloria ed anche alla propria salute: ci è che anzi tutto bisogno inerente alla nostra costituzione facessimo conoscere ai fratelli della nostra residenza centrale, che stante Mazzini ci ostacola colle idee e coi falsi indirizzi. Garibaldi involontariamente ci ostacola col suo prestigio che porta seco, entusiasmo perpetua anche alle colte intelligenze come colui che in faccia a Mazzini che rappresenta l’idea della sfera del vuoto, desso rappresenta il moto nel campo del fatto, perciò il nostro voto è di conciliare per tutta la nostra continenza i Garibaldini all’opera nostra. Ed è certo che Garibaldi ci può essere forza e luce, senza intelligenza, senza mente socialista un’ente della rivoluzione che serve col suo braccio a rendere per altro tempo esistente la monarchia in Italia, ma il suo fine è quello di liberare il popolo, ma che per altro non fa creare una rivoluzione che compia il bene di questo immiserevole popolo, anzi la conseguenza del fatto suo lo agghiaccia dippiù.

    Ma è ora terribile fatale ora, che ci annunzia che dinnanzi che ci scorre, che ci passa come fulmine un atomo di momento che tutti noi dovremmo metterci alla videtta di affermare per la causa del popolo e non farlo scorrere innanzi indolentemente per abbracciarlo quella stregona monarchia che non ci farebbe rendere il capo a quel suo vecchio infame crudo che ha la testa cornuta che i privilegiati adorano, e fanno rispettare col sacrilego nome di Diritto Divino. Non bisogna in questo momento solenne di libera associazione radergli i peli per poi spuntarli più duri e feroci. Si distrugga una volta questa idra con miliardi di teste. Bisogna che ci cooperiamo tutti che questo momento fatale destinato dai tiranni a pro loro per l’ignoranza del popolo tanto dia ora per opera della luce nostra, latte, a quella sopirata bimba, libertà.

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    Casa Savoia, la famiglia reale riunita all’epoca di Vittorio Emanuele II

    Morte alla monarchia, sterminio a chi la difenda, l’unico grido sia questo, ed in tutti i punti dello spazio la voce del fratello nostro predichi, che i diritti essenziali che l’uomo ricevette dalla natura, nella sua perfezione originaria e primitiva sono l’uguaglianza e la libertà, che il primo assalto a questa uguaglianza fu portato dalla proprietà, ed il primo assalto alla libertà fu portato dalle società politiche e dà governi, i soli appoggi della proprietà e dè governi sono le leggi religiose e civili, che per ristabilire l’uomo né suoi diritti è necessario incominciare dal distruggere ogni religione ed ogni società civile e terminare coll’abolizione della proprietà.

    Siffatta formula la nostra società deve predicerla fino ad avere l’audacia di farla inserire fra gli atti alla Regia dè tiranni. Fratelli prendete in considerazione che questa terra del cosentino, misera di mezzi come è, ma ricca di individui forti di spirito e di audacia è tutta pronta a sostenere la vita e la pace ad una siffatta iniziativa di rivoluzione democratica-sociale, e ricordatevi che fu l’unica terra fra tutto il mondo che ha protestato senza interruzione in faccia all’umanità contro la proprietà e contro la tirannia della monarchia».

    Cosenza, spie e rivoluzione

    Nel giugno 1866, probabilmente in seguito a una spiata, la polizia effettuò perquisizioni in casa di alcuni rivoluzionari. In quella di Gregorio Provenzano trovò documenti e piani per l’insurrezione. Il giovane, impiegato nello studio di un avvocato, fu arrestato, richiuso e interrogato nelle carceri della città. Al processo alcuni testimoni dissero che era un scrivano competente, onesto e gentile. Ma aggiunsero anche che «viveva in una tale stranezza e una tale confusione che si rendeva incomprensibile».

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    Palazzo Arnone, oggi sede della Galleria Nazionale, era il carcere della città

    Uno di loro disse ai giudici: «Facendo il Provenzano il giovane di studio del G. Marini ha frequentato vari giovani forniti di varie cognizioni e ascoltando or da uno or dall’altro nei discorsi qualche idea o qualche principio scientifico si à infarcito la mente di tante idee che han formato nella di lui mente un guazzabuglio tale da non potergli credere. Per lui non vi ha proprietà, non vi è Iddio, l’uomo deve far tutto per l’amore del prossimo, non può esser né cittadino né suddito ma deve vivere secondo viveva nei primi giorni della creazione».

    Cospirazioni e intelligenza

    Nel corso degli interrogatori, il giovane Provenzano ammise di aver fatto parte dell’associazione sovversiva. Cercò, però, di sminuire l’attività del gruppo e confessò di aver vagheggiato astratti ideali in un momento difficile della sua vita. A differenza di quanto era scritto nei documenti della società sul carattere indomito dei cosentini mostrato durante i moti risorgimentali e la spedizione garibaldina, il giovane scrivano affermava: «Io sono innocente dell’imputazione che mi si addebita, poiché non ho mai cospirato né attentato sapendo benissimo che le cospirazioni non si fanno individualmente con se stesso ma unitamente ad uomini di alta intelligenza che in questa nostra terra di Cosenza non se ne trovano».

  • Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Da ribelle a notabile: la parabola di Francescantonio Mazzario

    Francescantonio Mazzario fu uno degli undici figli di Giuseppe, avvocato e possidente rosetano, e della nobildonna amendolarese Isabella Andreassi.
    Ebbe tra i suoi zii l’avvocato Alessandro Mazzario (diarista e protagonista del Grand Tour) e il giudice Domenico Andreassi. Un suo cugino-cognato fu il barone Lucio Toscani di Canna e Nocara.

    Rivoluzionario e poi avvocato

    Mazzario studiò Giurisprudenza all’Università di Napoli. Lì partecipò ai moti del 1848 che gli costarono il carcere.
    Laureatosi, esercitò l’avvocatura nel foro partenopeo. Si fece le ossa in via Medina 61, nello studio legale del celebre sandemetrese Cesare Marini (già giudice di pace nel Circondario di Spezzano Albanese, difensore – assieme ad altri – dei fratelli Bandiera, poi deputato nel Parlamento napoletano e futuro consigliere della Gran Corte dei Conti).
    Al 1851 risalgono due delle sue allegazioni difensive a stampa, pubblicate a Napoli e oggi al più rintracciabili in copie uniche presso la Biblioteca Casanatense in Roma o la Nazionale in Napoli. Una è a difesa di Ferdinando Barbati, accusato di omicidio, mentre l’altra è redatta negli interessi di don Gerardo Coppola di Altomonte (la cui zia era Isabella Coppola, bisnonna di Francescantonio), zio del senatore Giacomo Coppola e del deputato Ferdinando Balsano.

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    La fucilazione dei fratelli Bandiera

    Mazzario torna a casa

    Nel 1852 Francescantonio Mazzario fa definitivamente ritorno a Roseto Capo Spulico per dedicarsi all’amministrazione pubblica e a quella del «non tenue patrimonio» di famiglia.
    Il giovane ex rivoluzionario è un rampollo benestante ma per nulla conservatore: un ribelle in contrasto, per alcuni versi, con lo stesso ambiente familiare in cui era cresciuto, fatto di svariate cariche amministrative distribuite pressoché a tutti i membri della casa (era fratello, tra gli altri, di Filippo, Domenico e Pietro, tutti variamente graduati nella Guardia Nazionale, e di Nicola, sindaco di Roseto dal 1888 in poi).

    Un politico in carriera

    Francescantonio Mazzario

    Come suo fratello, Francescantonio Mazzario fu sindaco di Roseto per ben vent’anni, e consigliere Provinciale per due.
    Dagli atti amministrativi emerge il suo impegno disinteressato nella cura della cosa pubblica e la preoccupazione di offrire lavoro ai bisognosi, soprattutto nei periodi dell’anno in cui l’agricoltura era ferma e nelle annate di carestia. Già nominato barone nel 1855, ricevette poi il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia con decreto del 1877, e quello di Cavaliere di San Maurizio.
    Nel 1867 Mazzario tenta, invano, l’ingresso alla Camera dei Deputati ma si impelaga in un lotta elettorale durissima, di cui restano non poche tracce in Risposta ad una lettera intitolata «La elezione del deputato nel collegio elettorale di Matera nel 1867», la sua terza ed ultima pubblicazione superstite.

    La superpolemica elettorale di Mazzario

    Palazzo Mazzario (foto di Luca I. Fragale)

    È il pamphlet che raccoglie tutte le tappe della diatriba fra lui e il deputato Francesco Lomonaco, a cominciare dal foglio a stampa che Mazzario aveva inviato agli elettori del Collegio elettorale di Matera per la sua candidatura alle Politiche del 1867, per continuare con il ringraziamento ai 281 elettori (nonostante la sconfitta subita contro i 360 di Lomonaco), redatto il 2 aprile 1867 e intitolato Ai miei elettori del Collegio di Matera.
    A ciò, Mazzario unisce la lettera assai critica inviatagli dal patriota Nicola Franchi di Pisticci (Al Signor Francescantonio Mazzario. Roseto Capo Spulico, e data alle stampe a Potenza per i tipi di Favatà nel giugno 1867), il quale lo accusa di aver gestito in modo poco dignitoso la propaganda elettorale. La perla, in questo caso, è la lunga risposta risposta Al signor Nicola Franchi. Pisticci, datata 21 ottobre 1867. È un capolavoro di prolissità, tale da sfinire qualunque avversario, colmo di citazioni manzoniane, bibliche e latine. Più un gustoso esercizio avvocatesco: la “dissezione” del la lettera di Franchi ai minimi termini.
    Mazzario aveva denunciato nella sua propaganda elettorale il pessimo ordinamento del tesoro nazionale, e gli errori della pubblica amministrazione, «vera causa del disordine e quindi delle gravi imposte». Inoltre, ribadì che «l’incameramento dei beni chiesastici sarà sempre un potente aiuto alla nostra finanza», fece promesse solenni affinché fosse «celermente espletata la ferrovia dalla foce del Basento a Potenza, e da Potenza ad Eboli» e creati «dei consorzii per la costruzione di strade rotabili che vi avvicinassero (…) alle future stazioni della detta ferrovia».

    Mazzario e le scuole

    Lo stemma dei Mazzario

    Nel 1869 Mazzario è Delegato Scolastico Mandamentale per il distretto di Amendolara e – assieme ai nobili Lucio Toscani di Oriolo, Lucio Cappelli di Morano e altri – denuncia la situazione dimessa dell’istruzione pubblica a ridosso dell’Unità d’Italia. Quindi sottoscrive una petizione finalizzata all’inamovibilità dall’impiego degli insegnanti, al miglioramento degli stipendi, all’assegnazione di pensioni di riposo, al riconoscimento del diritto di elettorato politico agli insegnanti e all’obbligatorietà dell’istruzione elementare per entrambi i sessi, per una determinata fascia di età.
    Ma fu pure sua la proposta di radiare gli “allievi maestri” della scuola normale maschile e della magistrale femminile di Cosenza e di ridurre a un terzo i contributi comunali agli asili infantili di Cosenza, Paola, Mongrassano e Rossano, poiché già oltremodo gravanti sulla Provincia.

    Mazzario contro l’Accademia Cosentina

    Eletto all’unanimità vicesegretario del Consiglio Provinciale di Cosenza, Mazzario propose di tagliare il numero dei veterinari; di offrire un contributo di 6 mila lire per l’esondazione del Tevere (Vincenzo Dorsa gli controproporrà un contributo di sole mille lire: la cifra che verrà deliberata); un altro sussidio di 12 mila lire per l’impianto della succursale del Banco di Napoli in Cosenza (proposta, invece, approvata); e di far collocare la lapide in memoria di Ferdinando Balsano nel luogo del delitto (che verrà invece collocata all’interno del Liceo Classico).
    Poeta per diletto – come si evince da alcuni incartamenti privati del 1872 e del 1874 – prese parte anche all’acceso dibattito sui finanziamenti alla Biblioteca Comunale di Cosenza. Infatti, il 17 novembre 1871, Francescantonio Mazzario propose la cessazione dell’assegno al segretario dell’Accademia Cosentina, «non parendogli che la Provincia ne abbia de’ vantaggi, essendo essa piuttosto una riunione letteraria privata». Ben centocinquanta anni fa.

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    Il castello di Roseto Capo Spulico

    La morte e la discendenza (illegittima)

    Ammalatosi, Francescantonio Mazzario trascorre l’ultimo periodo della sua esistenza nel casino di caccia, oggi diruto, della Caprara, di Montegiordano, dove redige l’ultimo dei suoi testamenti. A distanza di quasi 120 anni dalla morte, il Comune di Roseto Capo Spùlico gli ha intitolato una strada del centro storico, a ridosso del palazzo di famiglia. Non si sposò e ufficialmente e non ebbe figli ma fu in realtà abbastanza prolifico nella sua meno nota discendenza illegittima. Variamente declinata.

  • Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    «Il comunismo, con la sua sacrilega aspirazione a cambiare l’uomo, ha ucciso milioni di uomini e ha, come un moderno Gengis Khan, seminato vittime di ogni tipo lungo il percorso della sua conquista. Eppure è anche vero che là dove non era al potere, ma restava come un’alternativa d’opposizione nei paesi dell’Europa Occidentale, per esempio, il comunismo non è stato solo distruttivo, ma anzi ha contribuito al progresso sociale della gente. Come sistema di potere, fondato sull’intolleranza e sul terrore, il comunismo doveva finire. Ma come idea di sfida all’ordine costituito? Come grido di battaglia di una diversa moralità, di una maggiore giustizia sociale?».

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    Un giovane Tiziano Terzani inviato in Cina

    Appunti di un giornalista dal socialismo reale

    A scrivere è Tiziano Terzani, nelle pagine conclusive di Buonanotte, signor Lenin. Pubblicata nel 1992, l’opera di Terzani è il frutto di un viaggio di due mesi attraverso l’Unione sovietica, in dissoluzione proprio in quel periodo. Il fallito putsch contro Gorbaciov lo aveva colto nell’estremo oriente russo, lungo il fiume Amur, al confine con la Cina. Da qui, aveva deciso di muovere verso le Repubbliche dell’Asia centrale che, una dopo l’altra, si stavano liberando dal giogo imperiale, zarista prima e comunista dopo.

    Mi è venuto in mente il brano citato, scritto da un anticomunista, ascoltando in questi giorni le solite affermazioni della destra italiana, moltiplicatesi in prossimità della Festa della Liberazione e tutte tese a evitare di pronunciare la parola antifascismo. Nei ragionamenti dei post fascisti ricorre sempre l’equiparazione di tutti i totalitarismi, che andrebbero condannati in blocco, senza distinguo. Le parole di Terzani centrano il punto. La condanna del comunismo, del socialismo reale divenuto pratica di governo per settant’anni in Unione sovietica, è netta e senza appello. Come nette e senza appello sono state le prese di distanza da parte dei comunisti italiani da tantissimo tempo, dallo strappo di Berlinguer in poi. A continuare a vaneggiare di comunismo è rimasto qualche sparuto e insignificante gruppetto di nostalgici.

    Detto ciò, volere a tutti i costi e a ogni piè sospinto tirare in ballo il comunismo, quando l’argomento in discussione è la dittatura e i crimini perpetrati dal fascismo in Italia, rappresenta solo un esercizio strumentale, che non ha alcuna attinenza coi fatti e con la Storia. Il movimento comunista, come dice Terzani, ha contribuito in Italia al progresso sociale. E non solo.

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    Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

    La destra che attacca la Resistenza

    Qualche balzano ordine di scuderia è stato impartito ultimamente agli scudieri della destra, i quali spesso hanno tirato fuori, incensandolo, l’apporto degli Alleati nella lotta per sconfiggere il nazifascismo nel nostro Paese, con l’unico fine di sminuire quello della Resistenza e del movimento partigiano. La faziosità e la pretestuosità di tale posizione è francamente inaccettabile. Non perché si voglia mettere in discussione l’importanza decisiva dell’intervento alleato. Tutt’altro. Ma tale riconoscimento non può portare a depotenziare il concorso nella lotta di Liberazione delle Brigate partigiane. E tra queste, delle formazioni che idealmente e dal punto di vista organizzativo si richiamavano al Partito comunista. Così come non può essere negata, semplicemente in quanto generata dal travisamento dei fatti, la collaborazione decisiva dei comunisti nella edificazione della Repubblica e nella redazione della sua Carta fondamentale, fondata sull’antifascismo e su principi sociali ed economici innovativi e progressisti.
    Il presidente Mattarella, col suo intervento memorabile di Cuneo, ha tracciato chiaramente e definitivamente i tratti fondativi della nostra democrazia. La speranza è che essa possa diventare adulta nel rispetto della Verità, senza il quale essa rimarrà monca e precaria.

  • Dov’è finita la sinistra?

    Dov’è finita la sinistra?

    “Mi è scomparsa la sinistra”. Recitava così una vignetta di Vauro di qualche anno fa sul Manifesto. Il tempo passa, il problema resta. Nel frattempo al governo del Paese, e non solo, le destre avanzano inesorabili. Di fronte a uno scenario così c’è chi pensa di interrogarsi sulla crisi della gauche. Sinistra! (Einaudi 2023) di Aldo Schiavone prova a intravedere delle traiettorie. Non fornisce spiegazioni prêt-à-porter, non è una cassetta degli attrezzi. Ma offre spunti, riflessioni, domande.

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    Da sinistra: Aldo Schiavone; Domenico Cersosimo; Gabriele Passarelli; Massimo Veltri; Antonlivio Perfetti

    Ieri lo storico napoletano ha presentato il suo libro a Cosenza nella sala conferenze di Villa Rendano nell’ambito di “Libri in villa”, il ciclo di incontri organizzato dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani. Era presente il presidente Walter Pellegrini e il membro del CdA, Francesco Kostner.
    Il dibattito è stato moderato dal giornalista Antonlivio Perfetti, direttore di Camtele3tv.it.
    Oltre all’autore de libro, sono intervenuti: l’economista e docente dell’Unical, Mimmo Cersosimo; Gianluca Passarelli, docente di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma; l’ex senatore e docente dell’Unical, Massimo Veltri.

    Dalla coppia potenza/atto di Aristotele fino alla dialettica servo-padrone di Hegel, Schiavone tira fuori molti arnesi del pensiero occidentale per generare una diagnosi impietosa: «La sinistra ha smesso di pensare, perché la realtà ha superato il suo pensiero, le categorie di Marx non possono più spiegare il reale, le sinistre perdono la base sociale di riferimento». L’intellettuale napoletano intravede nella tecnica la possibilità di riannodare «l’inclusività dell’umano», tipica delle sinistre. Quella stessa tecnica troppo spesso «demonizzata».
    Per il prof Mimmo Cersosimo quello di Schiavone è «un libro denso, profondo, eretico». Un testo su una sinistra che «ha perso la testa ma non il cuore».

    Il prof Passarelli è perentorio: «Un libro che fa domande, non dà risposte. Schiavone propone un nuovo umanesimo politico. E si rivolge sostanzialmente al Partito democratico».
    Per l’ex senatore Veltri «la crisi degli intellettuali» è uno dei fenomeni tipici della crisi della sinistra. Proprio loro così in grado di «leggere il passato per affrontare il futuro come dice Schiavone».

  • Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Il dio greco di Acri che diede i muscoli agli americani

    Nei sotterranei della Oglethorpe University in Georgia (USA) c’è una camera a tenuta stagna. Sulla porta c’è scritto «Non aprire prima del 28 maggio 8113». È la prima – e più grande finora – capsula del tempo mai realizzata e custodisce per i posteri testimonianze significative di ciò che l’umanità ha prodotto (ed è stata) fino agli anni ’40 del secolo scorso.
    Quando, tra circa sei millenni, la porta si aprirà, gli uomini del futuro – o chi per loro – si troveranno di fronte un po’ di tutto. Dalle voci registrate di Hitler, Stalin, Mussolini alla sceneggiatura di Via col vento, passando per microfilm con dentro la Bibbia e la Divina Commedia, un portasigarette, un rasoio elettrico e dei bigodini.
    Nella stanza ci sono pure la statuetta di un uomo e un foglio. La prima raffigura in scala 1:8 Angelo Siciliano, calabrese di Acri emigrato negli States ai primi del ‘900. Il secondo riporta le misure del paisà: altezza, peso, circonferenza del torace e dei suoi muscoli. Sul foglio c’è anche la foto di Angelo, ma il nome che si legge sotto è un altro: Charles Atlas.

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    L’interno della Crypt of Civilization della Oglethorpe University. La foto risale a poco prima della sua chiusura nel 1940

    Bokonon e la tensione dinamica

    Ma chi era Angelo “Charles Atlas” Siciliano e perché custodirne il ricordo per i prossimi 6.000 anni? Non pensate a roba à la Lombroso (o chi per lui). Un primo indizio si può trovare in quel gioiello della letteratura americana che è Ghiaccio-nove (in originale, Cat’s Cradle) di Kurt Vonnegut.

    Josh, il protagonista, è un giornalista che sta leggendo l’agiografia di Bokonon, immaginario santone venerato sull’altrettanto immaginaria isola caraibica di San Lorenzo su cui si trova in quel momento. È lì ospite di “Papa” Monzano, lo spietato dittatore dell’atollo, e dei figli di uno degli inventori dell’atomica, sul quale vorrebbe scrivere un libro.

    Quando vidi per la prima volta l’espressione “Tensione dinamica” nel libro di Philip Castle, feci quella che ritenevo una risata di superiorità. Era una delle espressioni preferite di Bokonon, stando al libro del giovane Castle, e io credevo di sapere una cosa che Bokonon ignorava: che quell’espressione era stata divulgata da Charles Atlas, un insegnante di culturismo per corrispondenza.
    Poco dopo, proseguendo nella lettura, appresi che Bokonon sapeva esattamente chi era Charles Atlas. Infatti Bokonon era un ex allievo della scuola di culturismo.
    Era
    ferma convinzione di Charles Atlas che i muscoli si possano costruire senza l’aiuto di pesi o attrezzi a molle, che si possano costruire semplicemente mettendo in competizione una fascia muscolare con l’altra.
    Era
    ferma convinzione di Bokonon che una società sana possa essere costruita solo mettendo in competizione il bene con il male, e mantenendo sempre elevata la tensione tra le due forze.
    E sempre
     nel libro di Castle, lessi la mia prima poesia, o Calipso, bokononista. Faceva così:

    “Papa” Monzano è veramente pessimo
    Senza di lui, però, sarei tristissimo
    Senza il “Papa” cattivo con la sua iniquità
    Funzionerebbe Bokonon
    A esempio di bontà?

    Acri-New York, solo andata

    Se la venerazione per Bokonon si limita all’atollo del romanzo di Vonnegut, quella per «l’insegnante di culturismo per corrispondenza» nella realtà si diffonde invece a macchia d’olio. Per comprenderne la ragione, però, bisogna andare a ritroso nel tempo fino a quando Angelo Siciliano non era ancora Charles Atlas.

    Tutto comincia il 30 ottobre del 1892. Ad Acri, paesone alle pendici della Sila cosentina, nasce il figlio di Nunziato Siciliano e Francesca Fiorelli, giovani contadini del posto. È il giorno della festa del Beato locale e il piccolo si chiamerà in suo onore Angelo. Qui le versioni della storia divergono.

    Secondo alcune, Nunziato undici anni dopo parte per l’America in cerca di fortuna, portando con sé Angelo e un’altra donna. Altre raccontano che Siciliano senior sia fuggito oltreoceano dopo aver ucciso un uomo, abbia trovato una seconda moglie lì e che a New York nel 1904 poi si siano trasferiti anche Francesca ed Angelo, ma a vivere a casa di uno zio.

    Il bullo in spiaggia: da Angelo Siciliano a Charles Atlas

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    Un giovanissimo Angelo Siciliano prima della “trasformazione” in Charles Atlas

    Comunque sia andata, nella Grande Mela Angelo diventa presto per tutti Charlie. È un ragazzo mingherlino che deve fare i conti con la povertà e le angherie come tanti altri emigrati dell’epoca.
    Nell’estate del 1909 convince una ragazza ad andare sulla spiaggia di Coney Island insieme a lui. L’appuntamento, però, va a rotoli.
    Un bagnino, vedendolo magro come uno spillo, inizia a prenderlo in giro e buttargli sabbia in faccia coi piedi (kick sand). Angelo è incapace di replicare al bullo e la ragazza lo molla lì, da solo a piagnucolare.

    Poco tempo dopo visita con la scuola un museo, in una sala c’è una statua di Ercole: il suo fisico è perfetto, a nessun bagnino verrebbe in mente di dar fastidio a uno con muscoli del genere. Angelo decide che si allenerà finché non avrà anche lui un corpo così. A casa Siciliano, però, soldi ne girano pochi, così deve arrangiarsi. Costruisce un bilanciere con un bastone e delle pietre, studia gli esercizi sulle riviste di ginnastica e prova a replicarli. Trova lavoro in una conceria. Ma il fisico di Ercole resta un sogno.

    Per realizzarlo servirà una nuova illuminazione, questa volta allo zoo di Brooklyn.
    Angelo osserva i leoni in gabbia mentre si stiracchiano. Sono così forti – pensa – eppure non hanno avuto bisogno di pesi o panche per diventarlo, com’è possibile? Intuisce che la risposta è proprio in quello stretching dove i muscoli, contrapponendosi l’un l’altro, si allenano a vicenda. Anche se ancora non lo sa, Angelo Siciliano ha appena inventato la Dynamic Tension che farà di Charles Atlas un mito mondiale del fitness e lo renderà milionario.

    Fachiro e modello

    Il ragazzo mette a punto un programma di esercizi che chiunque può svolgere a casa propria senza attrezzature particolari, bastano al massimo un paio di sedie. Oggi la definiremmo un mix tra ginnastica isotonica e isometrica. Si allena in continuazione e quando ritorna in spiaggia per i suoi amici è uno shock. Il Charlie di nemmeno 45 kg bullizzato poco tempo prima adesso sembra la statua di Atlante (Atlas in inglese) che sormonta un palazzo lì vicino. Tutti iniziano a chiamarlo così. E col nuovo fisico arriva anche qualche quattrino in più, che non guasta mai.

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    Il giovane Angelo Siciliano e il suo nuovo fisico

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano molla la conceria ed inizia ad esibirsi come fachiro in un circo. Guadagna 5 dollari per stare coi muscoli in tensione sdraiato sopra un letto di chiodi mentre dei volontari tra il pubblico camminano su di lui.
    Gli introiti aumentano quando comincia a posare per gli artisti. La celebre scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, animatrice dei salotti newyorkesi, lo elegge suo modello preferito, adora la sua capacità di restare immobile anche per 30 minuti di fila.
    Ora guadagna anche 100 dollari a settimana.

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    Angelo in posa nello studio di Pietro Montana

    Angelo Siciliano sta per lasciare per sempre spazio a Charles Atlas, ma da modello “assume molte altre identità” nei monumenti. Posa per Pietro Montana e la sua Dawn of Glory dell’Highland Park di Brooklyn, è Alexander Hamilton di fronte al Palazzo del Tesoro, George Washington in Washington Square Park.

    Addio Angelo Siciliano, è arrivato Charles Atlas

    L’ulteriore svolta arriva nel 1921, quando invia una sua foto per partecipare a un concorso organizzato dalla rivista Physical Culture che eleggerà “L’uomo più bello del mondo”. Trionfa. E l’anno dopo concede il bis aggiudicandosi nel Madison Square Garden gremito da migliaia di persone anche il titolo di “Uomo col fisico più perfetto del mondo”.
    Sarà l’ultima edizione del concorso: gli organizzatori decidono che con Charles Atlas in gara per gli avversari non c’è speranza di vincere.

    Il premio in palio nel 1922 è la parte da protagonista nel film The Adventures of Tarzan o, in alternativa, mille dollari. Angelo Siciliano opta per il denaro e cambia definitivamente nome. Ora è Charles Atlas anche per l’anagrafe e col premio apre una palestra per insegnare il suo metodo, che propone anche per corrispondenza in società con lo scrittore Frederick Tinley. Gli affari però non ingranano fino al 1929, quando incontra un altro Charles che cambierà definitivamente la sua vita.

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    Il premio grazie a cui iniziò la carriera imprenditoriale di Charles Atlas

    Quel gran genio di Roman

    Charles Roman è un giovane pubblicitario fresco di laurea, assunto da poco nell’agenzia che in quel momento si occupa di promuovere le attività dell’italoamericano e Tinley con scarsi risultati. Ed è un genio nel suo campo. Un giorno prende coraggio e si rivolge direttamente ad Atlas. Gli dice che se vuole vendere il suo programma di esercizi deve degli un nome più intrigante e conia Dynamic Tension. Poi si fa raccontare la storia del culturista.

    Capisce che la migliore pubblicità per la Dynamic Tension è Atlas stesso. Il ragazzo qualunque che con la sola forza di volontà ha cambiato il suo destino partendo dal nulla; l’emblema di quel sogno americano di cui gli Usa, nel pieno della Grande Depressione, hanno più bisogno che mai per risollevarsi; l’emigrato che si è trasformato in dio greco, sempre in forma e sicuro di sé, bello come un Apollo e le stelle di Hollywood sempre più idolatrate dalle masse.
    Se salutismo, forma fisica e culto dell’estetica diventeranno le nuove religioni, Roman ha già in mente chi sarà il loro profeta. Compra le quote di Tinley, lascia l’agenzia e insieme al paisà fonda la Charles Atlas Ltd.

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    Roman e Atlas nel loro ufficio a New York

    Roman, poi, disegna una striscia a fumetti: The insult that made a Man out of Mac, “L’affronto che ha fatto di Mac (alter ego di Angelo, nda) un Uomo”. Farà la storia della pubblicità americana. Sono poche vignette che ripercorrono l’appuntamento di Coney Island andato male anni prima: il bagnino che riempie di sabbia Mac, la ragazza delusa che se ne va, il mingherlino di 45 kg che torna a casa e decide di mettere su muscoli, il ritorno a Coney Island con annessa rivincita sul bullo, le altre ragazze ad acclamare il nuovo «eroe della spiaggia». Sotto i disegni, una foto dell’erculeo Charles Atlas che promette: «In soli sette giorni posso fare di te un vero uomo» e cose simili.

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    Il fumetto che ha fatto di Atlas un personaggio di culto

    Muscoli e cervello

    Le pubblicità invadono i giornali sportivi e la stampa per ragazzi. Diventano virali decenni prima che internet ci abitui ad usare questo termine. Dynamic Tension va a ruba, il culto del fisico arriva a oltre un milione di fedeli pronti a spendere 35 dollari per fare come Mac. La Charles Atlas Ltd assume decine di impiegati solo per leggere le loro lettere in cui raccontano i progressi fisici ottenuti grazie alle lezioni. L’azienda è ormai un impero internazionale.

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    1969, Charles Atlas, alle soglie degli 80 anni, in uno scatto di Diane Arbus

    I due Charles si dividono i compiti: Atlas ci mette i muscoli, che continuerà a curare ogni giorno finché campa; Roman il cervello, ideando sempre nuove dimostrazioni di forza del suo socio per accrescerne la fama. Se il primo ha “inventato” il fitness per tutti, il secondo è il padre del marketing applicato.
    Atlas in pubblico trascina locomotive per decine di metri, solleva auto e gruppi di ballerine, strappa elenchi telefonici a mani nude. Una volta si esibisce in uno dei penitenziari più famosi d’America. Roman detta il titolo ai cinegiornali: «Un uomo piega una sbarra di ferro a Sing-Sing: i prigionieri esultano, nessuno scappa».

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    1939, Charles Atlas solleva le Rockettes sul tetto del Radio City Hall

    E chi sei, Charles Atlas?

    Ormai negli States quando qualcuno compie o dice di aver compiuto qualcosa di eccezionale è facile che gli rispondano: «E chi sei, Charles Atlas?». L’emigrato di Acri che le prendeva dai bagnini adesso partecipa al compleanno del presidente Roosevelt.
    Anche i “giornaloni” sono pazzi di lui: Forbes lo mette tra i venti migliori venditori della storia; Life gli dedica un servizio fotografico; il New Yorker lo fa intervistare da Robert Lewis Taylor, un Pulitzer. Lui gli racconta di aver perfino dato dei consigli gratuiti a Gandhi: «L’ho visto tutto pelle e ossa».

    Pazienza se il Mahatma, dopo averlo saputo, liquiderà la storia con un sorriso e una battuta sulla tendenza degli americani, «Mr Atlas in particolare», a spararle grosse per farsi belli. Il programma di esercizi funziona lo stesso se hai costanza – ancora di più se il Dna ti dà una mano – ed è quello che conta. E se poi l’ex ragazzino di 45 kg trasformatosi in Atlante non bastasse come testimonial di se stesso, non mancano altri esempi di successo tra i suoi allievi.

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    Il grande Joe Louis, The Brown Bomber, dà una controllata ai bicipiti di Charles Atlas

    Sei fissato col body building? Thomas Manfre è diventato Mister Mondo nel 1953 dando retta a Charles. Sogni di poter stendere con un pugno qualcuno che ti ha maltrattato? Grazie a Dynamic Tension pugili come Max Baer e l’immenso Joe Louis sono saliti sul ring per il titolo mondiale dei pesi massimi. Vuoi conquistare la donna dei tuoi sogni? Anche il mito Joe DiMaggio ha forgiato i suoi muscoli seguendo Atlas. E chi ha sposato poi? Marilyn Monroe. Se poi vuoi far paura a qualcuno… beh, dietro la maschera di quel cattivone di Darth Vader nella trilogia originale di Guerre Stellari c’è un altro atlasiano doc come David Prowse.

    Culturisti di culto

    Angelo “Charles Atlas” Siciliano, insomma, non è stato solo un culturista. È parte della cultura popolare americana (e non solo). La sabbia in faccia, per esempio, è un’espressione entrata nel vocabolario comune. La trovi in We are the Champions dei Queen come nei testi di Roger Waters (Sunset Strip) e Bob Dylan (She’s Your Lover Now).
    Gli Who hanno inserito una pubblicità di Charles all’inizio di I can’t reach you, nel disco The Who Sell Out in cui il bassista John Entwistle appare in copertina travestito proprio da Atlas in versione Tarzan.

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    John Entwistle prende in giro Atlas sul retro di The Who Sell Out

    Robin Williams ne L’attimo fuggente si paragona al Mac/Angelo indifeso della spiaggia quando racconta agli studenti i suoi primi approcci alla poesia. Tim Burton lo cita nel suo film d’esordio Pee-wee’s Big Adventure, Terry Gilliam nel Monty Python’s Flying Circus.
    La parodia del fumetto su Mac è finita in una puntata di Futurama e su National Lampoon: qui un topolino bullizzato in spiaggia da un carnivoro più grosso di lui manda una lettera a Charles Darwin, Isole Galapagos, «e dopo pochi milioni di anni di esercizi evolutivi» si ripresenta con ali e artigli per vendicarsi azzannando il rivale mentre tutte le femmine intorno inneggiano al nuovo «eroe dell’habitat».

    Tensione dinamica

    L’elenco (parziale) dei riferimenti al culturista calabrese comprende anche i videogame: il Little Mac del classico della giapponese Nintendo Mike Tyson’s Punch-Out è un chiaro omaggio al mingherlino di 97 libbre (97-pound weakling) del fumetto di Roman. E nella prima versione del cult The Secret of Monkey Island c’era una statua che secondo il protagonista «sembrava la versione deperita di Charles Atlas».

    Il principale (e più irriverente) omaggio al bambino arrivato a Ellis Island dalle montagne di Acri, però, resta quello del Rocky Horror Picture Show. Nel musical più libertino della storia lo scienziato pazzo alieno Frank’N’Furter dà vita alla sua creatura, l’amante perfetto dal corpo scolpito, intonando la Charles Atlas’ Song/I can make you a man. E se la porta a letto poco dopo, spiegando in I can make you a man (Reprise) che quei muscoli gli fanno venire voglia di prendere per mano Charles Atlas e di “tensione dinamica”.

    Nemo propheta in patria

    Angelo Siciliano non ha mai ascoltato le due canzoni. Il RHPS è uscito a teatro nel 1973 e al cinema nel ’75, lui è morto di infarto la vigilia di Natale del ’72. Nei successivi 50 anni e mezzo ad Acri pare non gli abbiano ancora dedicato una piazza, una strada, un vicoletto. Nemmeno una targa o una palestra qualsiasi.
    Sarà perché non ci è mai tornato. Sarà perché in Calabria dimenticano i campioni olimpici, figuriamoci un culturista. O, forse, aspettano anche lì il 28 maggio 8113.

  • Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Attorno al 25 Aprile c’è una antica e proficua pratica del “chiagni e fotti”, esercitata con successo dai fascisti prima e dagli epigoni del Msi che oggi governano provvisoriamente il Paese. È la retorica “dei vinti e dei vincitori”. I primi dovrebbero essere i tiranni che avevano trascinato l’Italia nel baratro della dittatura e della guerra. I secondi, i partigiani che quella tirannia l’avevano sconfitta. Non ci sono dubbi che a vincere fu la democrazia. Ma immaginare i fascisti come vittime condannate all’oblio e alla marginalità sociale è quanto di più lontano dalla storia ci possa essere.

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    Palmiro Togliatti

    La paura dei comunisti

    Il 25 Aprile non è il giorno della liberazione d’Italia, ma la data scelta dal Cln per dare inizio all’insurrezione in tutto il territorio nazionale ancora occupato dai nazifascisti. Un momento di forte unità nazionale, quindi. Invece, ancora oggi appare come una data divisiva, più volte attaccata sul piano revisionistico e minacciata di cancellazione. Le cause di tanta avversione affondano le loro radici nell’anticomunismo potente che attraversò l’Italia nel primissimo Dopoguerra e a lungo negli anni successivi, malgrado il Pci di Togliatti avesse formalmente scelto una strada tutt’altro che insurrezionale, impegnandosi a sostenere la comune causa antifascista senza volerla egemonizzare, pur potendolo fare, considerata la massiccia presenza di partigiani comunisti. Anche sul piano culturale, non solo propriamente politico e strategico, le azioni dei partigiani nella narrazione del Pci erano gesti legati alla liberazione dal tiranno, non finalizzati alla lotta di classe.

    I fascisti riprendono i loro posti

    Tutto questo non bastò. E il nuovo Stato, che pure il Pci aveva grandemente contribuito a far nascere con il coraggio e il sacrificio di moltissimi, conservava nelle sue viscere proprio quei fascisti che con banale trasformismo avevano ripreso i loro posti nella polizia e nella magistratura. Va da sé infatti che la persecuzione a carico dei capi partigiani all’indomani della fine della guerra non può essere separata dalla composizione della classe egemone di allora. La stessa che spesso aveva orrendi scheletri da far dimenticare, anche grazie ad apparati dello Stato che erano colpevolmente scampati a una adeguata e necessaria epurazione. Del resto dopo l’amnistia togliattiana i carnefici – e perfino i loro capi – erano tornati a casa e spesso avevano riavuto il loro posto nella gerarchia sociale.

    Fu in questo clima che i carnefici che avevano torturato e stuprato furono rilasciati con sentenze assai blande. Chi aveva con le armi liberato il Paese, invece, fu perseguitato con stupefacente accanimento. Questo sin dalla primavera del ’45, quando i tribunali militari alleati perseguirono i capi delle formazioni garibaldine del nord Italia per fatti avvenuti nel corso della guerra, ma ritenuti illegittimi.

    I processi ai partigiani

    Per dare la misura della persecuzione vale la pena di citare I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana, di Michela Ponzani. L’autrice parla di «308 partigiani fermati, 142 arrestati, 46 denunciati a piede libero, 34 condannati alla pena complessiva di 614 anni e 10 mesi di reclusione, di cui 55 assolti dopo aver scontato 35 anni complessivi di carcere preventivo e 54 amnistiati dopo aver scontato 10 anni e 8 mesi di carcere preventivo. A queste cifre devono aggiungersi quelle relative al solo 1950 che indicavano il numero di 131 partigiani processati per fatti inerenti la guerra di Liberazione, dei quali 27 condannati a una pena complessiva di 460 anni e 10 mesi di carcere e 52 amnistiati dopo aver scontato complessivamente 128 mesi di carcere preventivo».

    Non furono pochi i partigiani che subirono processi dopo la guerra

    Lo stigma sociale 

    Ma non c’era solo il carcere, c’era lo stigma sociale dell’essere stato partigiano. E c’erano la fatica di trovare un lavoro, il marchio della militanza politica (come successo a Cesare Curcio a Pedace) e la scomunica della Chiesa. Fino ad arrivare a giorni più prossimi ai nostri tempi, perché la Festa della Liberazione pur essendo antica, non ha trovato che di recente cittadinanza sui giornali e nelle aule di scuola, uscendo da un dimenticatoio ben organizzato e resistendo fin qui ad attacchi improvvisati e maldestri, ma le cui origini sono antiche.

    È guardando indietro che capiamo chi sono davvero i vinti e chi i vincitori. E capiamo che il 25 Aprile è divisivo giacché separa i giusti dagli ingiusti. E se oggi La Russa – che quasi non riesce a pronunciare la parola antifascismo – è presidente del Senato, è perché quelle aule non sono un bivacco di manipoli, come chi è raffigurato nei busti che tiene in casa avrebbe voluto.

  • Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    Fasci, toponimi e un centrosinistra che non t’aspetti

    E anche quest’anno ci si avvicina al 25 aprile, sacrosanto, e alla molto meno sacrosanta fiera dei luoghi comuni. Li hanno preceduti a Cosenza – com’è d’uopo – le commemorazioni per il bombardamento statunitense subìto nella giornata del 12 aprile 1943 e non più grave degli altri alleatissimi bombardamenti su Cosenza – che chissà perché nessuno menziona mai – del 6, del 28 e del 31 agosto, del 3, del 4, del 7 e dell’8 settembre dello stesso anno. Forse quella ricorrenza andrebbe spostata a fine estate, se non stessero tornando tutti dalle vacanze…

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    Bombe alleate su Cosenza durante la Seconda guerra mondiale

    Il 25 aprile parte da molto lontano

    Se di 25 aprile bisogna parlare, si deve cominciare da molto lontano e fare di tutta l’erba una fascina, senza fare due fasci e due misure. Possibilmente, senza scadere nella ingenua e nefasta distinzione tra belli e brutti: non soltanto commemorazione della Liberazione (variamente attribuita più o meno candidamente a questo o a quel motivo), ma celebrazione di uno spartiacque tra un intero periodo da chiudere e uno da aprire, possibilmente con piede diverso e non col piede di porco come fu vent’anni prima. E questo periodo da chiudere viene da lontano. Viene dalla Marcia su Roma e da ancor prima.

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    Paolo Cappello, martire socialista ucciso dai fascisti

    Paolo Cappello, martire socialista

    Uno dei primi e più crudi episodi fu, a Cosenza, senz’altro quello legato all’aggressione di Paolo Cappello. Pochissimi giorni fa è deceduta, in Romagna, la vedova senza figli dell’ultimo dei testimoni dell’affaire Cappello. La storia si fa con i documenti, quantomeno con quelli, soprattutto con quelli. Ci mancherebbe altro. Vi sono quelli scomparsi, quelli “alleggeriti”, quelli artefatti, falsificati etc. Poi per fortuna vi sono, talvolta, anche quelle fonti dirette che restano sempre un po’ in penombra, ritenute ancillari e di minor conto. Tutto ciò per dire che il testimone in questione, il cosentino Franz Coppola, raccontò in punto di morte – novantaseienne – la sua versione dei fatti, in fondo poco discordante da quella delle fonti ufficiali.

    Franz Coppola (1910-2006)

    Era il 14 settembre del 1924 quando venne strappato il garofano rosso dal bavero del socialista Francesco Mauro, col parapiglia che ne seguì e le tragiche conseguenze ai danni del socialista Cappello. Cappelli e coppole: Franz Coppola aveva all’epoca quattordici anni e meno di un anno prima aveva perso la mamma di sangue blu, la nobile Regina Monaco – dei Monaco dello Spirito Santo – che era andata in sposa al non meno nobile Gustavo Coppola, di Francesco.

    Alcuni agenti provocatori fascisti aizzarono Franz e altri ragazzini del centro storico affinché infastidissero Mauro e ne strappassero il garofano. Accadde all’altezza della Piazza Piccola e forse, dunque, non esattamente per mano del milite fascista Francesco Bartoli, come le fonti riportano.

    Un garofano nel destino 

    Ignari della valenza politica del gesto, i ragazzi cominciarono a rendersene conto ai primi spari. Se avessero parlato, i mandanti si sarebbero accaniti anche contro di loro e contro le loro famiglie, con esiti probabilmente spaventosi.
    Una dinamica non molto dissimile fu, due anni dopo, quella dell’attentato bolognese a Mussolini, laddove fu armata la mano innocente del piccolo Anteo Zamboni, poi fermato dal tenente Pasolini (padre di PPP, per la cronaca) e letteralmente linciato per strada da squadristi e arditi, fino alla morte. Come dei piccoli Anteo fortunatamente mancati, i ragazzi cosentini minacciati di ritorsioni riuscirono a ripiegare con la fuga delle proprie famiglie in altre città, se non addirittura all’estero.

    E Franz Coppola? Dopo una lunga militanza comunista e partigiana, segnalata a “dovere”, e poi un barcamenarsi in comparse per Cinecittà (lo si veda, in veste di usciere, con Alberto Sordi ne Il Moralista del 1959), tornò a risiedere a Cosenza ormai vecchio. Morì nello stesso Palazzo Monaco in cui era nato e lì lo ricordo tremolante, sveglissimo e brontolone impenitente. Ironia della sorte, una foto lo ritrae bambino, intorno al ’18, proprio con un garofano appuntato sull’abito. Segni del destino.

    Tommaso Arnoni e Michele Bianchi

    Sarebbe stata la Calabria in cui durante il fascismo avrebbero spiccato, su tutte, due figure: Michele Bianchi e Tommaso Arnoni (qui in un raro filmato cosentino dell’Istituto Luce).
    Il sindacalista Michele Bianchi aveva avuto dapprima un maestro di socialismo come Pasquale Rossi. Si sarebbe poi indirizzato verso un profondo radicalismo attuato in modi anche violenti nell’agitazione delle folle contadine del ferrarese quando lì dirigeva la Camera del Lavoro. Sfuggì alla galera, e seguì nel ’19 Mussolini, ponendosi – con l’83,8% dei voti – alla guida del fascismo in Calabria. Qui riuscì a fare realizzare notevoli opere di bonifica e lavori pubblici, non senza i buoni uffici della sua amante, la marchesa De Seta.

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    Maria Elia de Seta Pignatelli e Michele Bianchi (foto Wikipedia)

    La stessa – mentre il marito partecipava alla costituzione dell’MSI – avrebbe in futuro proposto e ottenuto che il pio don Luigi Maletta diventasse tra il ’48 e il ’51 “assistente ecclesiastico” del MIF, il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia». Lo aveva fondato lei assieme al piucchenero Ezio Maria Gray. Fu il primo e dichiaratissimo movimento neofascista organizzato (con sede furbamente extraterritoriale, in Vaticano), diretto a sostenere anzitutto i fascisti carcerati. E chi l’avrebbe detto?

    Don Luigi Maletta

    Il tempo cancella

    Ma torniamo a Bianchi. Quadrumviro nei giorni della Marcia, Segretario Nazionale del Partito Fascista, Ministro dei Lavori Pubblici, morì prematuramente e all’apice della carriera. Camigliatello – da ora Camigliatello Bianchi – gli erigeva un monumento. Cosenza gli dedicava un intero rione, quello più bello. Il tempo, chiamiamolo così, cancellò poi entrambe le denominazioni. Così come sempre a Cosenza sarebbero sparite – qualcuna subito, qualche altra dopo molto tempo – le varie

    • piazza Italo Balbo (già delle Colonie, poi Eritrea, e soltanto alla fine piazza Amendola),
    • piazza Littorio (Villa Nuova),
    • via Arnaldo Mussolini (via A. Arabia),
    • via Rosa Maltoni Mussolini (via G. Tocci),
    • viale Benito Mussolini (viale degli Alimena),
    • piazza Predappio (piazza P. Scura),
    • via Axum (via C. Marini),
    • via Cirene (via A. Sensi),
    • via Bengasi (via R. Caruso),
    • lungobusento Tripoli (via A. von Platen),
    • via Massaua (via P. Perugini),
    • via Asmara (via F. Principe),
    • via Rodi (via G. Nucci),
    • via Somalia (via L. Picciotto),
    • via Neghelli (via E. Loizzo),
    • via San Sepolcro (via C. Cattaneo).

    Un omaggio inatteso

    Eppure pare che a Michele Bianchi sia stata reintitolato qualcosa: la piazza dell’acquedotto cosentino Merone, finanziato proprio grazie al suo interessamento e laddove fu commemorato nel 1934.

    Una vecchia foto dell’acquedotto Merone con ancora i simboli fascisti sulle mura

    Matteo Dalena, nelle vesti di presidente provinciale dell’ANPI fa notare quanto segue: «Per le opere pubbliche realizzate in città e in provincia il fascista Michele Bianchi gode, a mio avviso purtroppo, di buona reputazione in città. Ma è quantomeno inopportuno che prima nel 1993 e poi nel 2009 due amministrazioni comunali, tra l’altro di centro-sinistra, abbiano deliberato e poi dato attuazione all’intitolazione di una piazza a Michele Bianchi al Merone con l’apposizione della relativa targa segnaletica. Bianchi fu tra i fondatori del fascismo, orchestrò la marcia su Roma, e fu tra gli esponenti più radicali, espressione di quello squadrismo intransigente che si macchiò di atroci delitti in tutta Italia: Camere del Lavoro date alle fiamme, giornali bruciati sulla pubblica piazza, arti spezzati, vere e proprie spedizioni punitive. Oggi il suo nome sulla targa segnaletica è coperto da vernice bianca: sono gli stessi cittadini a non gradire evidentemente questa intitolazione. È l’attuale amministrazione comunale a dover decidere se ripristinarla, e dunque rivendicarla, oppure toglierla, intitolandola magari a qualche povera vittima della dittatura fascista».

    Uno sì e l’altro no?

    Accolgo la segnalazione dell’amico Matteo e però aggiungo: ma che strada si fa per andare all’acquedotto? Via Tommaso Arnoni. E allora perché Arnoni sì e Bianchi no?
    In fondo, Bianchi se ne andò tubercolotico dopo soli otto anni di regime. Arnoni, invece – dopo aver bruciato le tappe massoniche passando dal primo al terzo grado in meno di un anno, con l’evidente benestare di Nicola Spada, deus ex machina di quella precisa loggia in cui militava anche Luigi Fera – nel ’24 risultò secondo eletto del ‘listone’ fascista in Calabria, appunto dopo Bianchi. Ottenne 43.000 voti, quasi tutti in provincia di Cosenza. Nella città fu addirittura primo, con 703 preferenze, contro le 608 di Mancini e le 602 di Bianchi.

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    Tommaso Arnoni e Benito Mussolini

    Davanti alle insistenze del duce, la carica podestarile a Cosenza sarebbe passata nelle sue mani e fu perciò che Arnoni si interessò alla costruzione di scuole e ospedali. Tra il ’31 e il ’41 raccolse non a caso onori e riconoscimenti: Grande ufficiale e poi Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere e poi Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, intanto nominato nel ’39 senatore del Regno (mica bruscolini) poiché già deputato per tempo sufficiente (non per una delle altre venti e più nobili categorie dell’epoca), presentato da Pietro Tacchi Venturi (quel gesuita pochissimo delicato in fatto di leggi razziali), e infine – dal ’39 al ’43 – membro della Commissione dell’Economia Corporativa e dell’Autarchia.

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    Targa nell’Ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo sancì in capo ad Arnoni la decadenza dalla carica di senatore. Tuttavia, con sentenza dell’8 luglio 1948, la Suprema Corte di Cassazione la dichiarò nulla. Pare che «l’analisi dell’attività pubblica, delle opere realizzate sotto la sua supervisione, lo spirito democratico e la testimonianza di esponenti comunisti e socialisti sulla sua condotta irreprensibile», avessero fatto sì che egli venisse reintegrato nella carica di senatore alla quale, «per sensibilità», poi rinunciò.

    Epurazioni e ragion di Stato

    In realtà gli valsero molto di più le aderenze nella Democrazia Cristiana. All’epoca la chiamavano “continuità”. La stessa che fece sì che il primo Presidente della Repubblica (la Repubblica Italiana, quella democratica, fondata sul lavoro, che ripudia la guerra e vieta la riorganizzazione del partito fascista) sarebbe stato Enrico De Nicola, già presidente della Camera all’inizio del governo Mussolini, già sostenitore della fascistissima Legge Acerbo, già eletto deputato con i liberali nel listone fascista del ‘24, e già nominato senatore nel pieno del 1929… Si sa, tra le epurazioni e la ragion di Stato c’è di mezzo un mare…

    E poi che dire di quegli altri relitti cosentini di toponomastica imperialista (sia fascista che prefascista) che a Cosenza ancora sembrerebbero resistere, come via del Tembien, via del Tigrai, via Capoderose, piazza Ogaden, via Macallè, via Adua, o via Daua Parma? O tutti (si fa per dire) o nessuno. E, dopotutto, scempi toponomastici a Cosenza ne sono stati fatti di ben peggiori (vedi centro storico, e non soltanto).
    Almeno il 25 aprile, “pensiamoci liberi”…

  • Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Eroismo e crimine: la tragedia del gobbo del Quarticciolo

    Roma, 16 gennaio 1945. La Capitale non è più in mano tedesca da circa sei mesi.
    Ora la occupano le truppe inglesi e americane. E quel che resta dello Stato italiano fa il possibile per recuperare una parvenza di vita civile tra le macerie.
    Al civico 12 di via Fornovo, nel quartiere Prati, c’è un uomo in fuga. O meglio, un ragazzo: Giuseppe Albano, che ha quasi diciannove anni, molti dei quali trascorsi tra la piccola delinquenza e la Resistenza clandestina.

    L’appuntamento fatale di Giuseppe Albano

    Albano si nasconde dalle forze dell’ordine e dalle truppe Alleate, che lo cercano per l’uccisione del caporale britannico Tom Linson. Ha un appuntamento con Umberto Salvarezza detto er Guercio, il segretario di Unione proletaria, una formazione di ultrasinstra.
    Il ragazzo aspetta Salvarezza, ma invano. Quindi se ne va. O meglio, ci prova. Poco dopo, lo trovano steso davanti al palazzo dove avrebbe dovuto incontrare il “compagno” Salvarezza con un proiettile conficcato nella nuca.
    Che sia Albano non ci sono dubbi: lo tradiscono l’immancabile borsalino nero, la pistola e la gobba vistosa, che lo ha reso famoso in tutta Roma, dove lo chiamano Peppino il gobbo o il gobbo del Quarticciolo, il suo quartiere di provenienza.

    Un reparto di granatieri affronta i tedeschi a Porta San Paolo

    Calabrese, bandito e partigiano

    Riavvolgiamo il nastro. Giuseppe Albano non è romano de Roma. E neppure burino, che significa provinciale. È un calabrese trasferitosi nella Capitale coi genitori nel ’36 da Gerace Superiore, dov’è nato il 23 aprile del 1926.
    Albano, come tanti immigrati, è un soggetto borderline che campa come può: spesso di piccoli lavori e, in certi casi, infrangendo la legge.
    Infatti, Peppino il gobbo mette su una banda di coetanei, anch’essi originari della Calabria o del Sud.
    Con l’occupazione tedesca della Capitale, Peppino fa il salto di qualità. Il 10 settembre del ’43 affronta una pattuglia tedesca in perlustrazione. Pochi mesi dopo disarma e malmena da solo due avanguardisti, cioè fascisti “juniores” (tra i 14 e i 17 anni di età) che lo minacciano con un pugnale.
    Sono solo due episodi, neppure troppo eclatanti, della carriera resistenziale di Albano, che in pochi mesi diventa un mito nelle borgate e negli ambienti di sinistra.

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    Al centro nella foto, Giuseppe Albano

    Il cadavere che scotta di Giuseppe Albano

    Torniamo alla scena del delitto. Il comunicato ufficiale parla di conflitto a fuoco con i carabinieri. E qui c’è la prima discrepanza: un colpo alla nuca sembra più l’opera di un sicario che l’esito di una sparatoria.
    Ancora: a quel che risulta Albano non avrebbe sparato neppure un colpo.
    Pure la testimonianza di Salvarezza è un capolavoro di ambiguità: il segretario di Unione proletaria sostiene di aver chiamato lui stesso i carabinieri, perché intimorito dal Gobbo. Quest’ultimo, sempre secondo Salvarezza, sarebbe andato a via Fornovo per recuperare dei documenti su incarico di Togliatti.
    Solo successivamente emergerà una versione diversa, quasi opposta: Salvarezza avrebbe incaricato il gobbo di fare un attentato a un comizio comunista. Albano non solo si sarebbe rifiutato, ma avrebbe spifferato tutto al servizio d’ordine del Pci.
    Questo conflitto di versioni non è la sola stranezza di questo delitto e della vicenda del gobbo.

    Giuseppe Albano capopopolo

    C’è Resistenza e Resistenza. Al Nord, le formazioni partigiane ingaggiano i tedeschi e i repubblichini in operazioni di guerriglia, in cui valgono ancora le regole militari.
    A Roma le cose cambiano: le azioni contro gli occupanti somigliano ad atti terroristici. Questo non vuol dire che i partigiani del Nord fossero “buoni” rispetto a quelli romani. Più semplicemente, significa che la Resistenza si adegua al contesto urbano, dove un combattimento tradizionale è semplicemente inconcepibile.
    Logico, allora, che un personaggio come Peppino il gobbo diventi un leader ideale di questo tipo di resistenza: è duro, coraggioso e animato da un particolare senso di giustizia sociale. Che lo fanno notare subito.
    Abilissimo a organizzare raid, attentati e colpi di mano, Albano rende inaccessibili il Quarticciolo e Centocelle a tedeschi e squadristi. «È il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo», scrive di lui Italia libera, l’organo del Partito d’azione.

    La targa celebrativa dei partigiani del Quarticciolo

    Il Robin Hood de’ noantri

    Albano e i suoi mescolano background delinquenziale, ottima conoscenza del territorio e capacità militari.
    E hanno una specialità, che li rende popolari: rapinano treni e depositi per redistribuire viveri e beni di prima necessità agli abitanti delle borgate, ridotti alla fame dalla guerra e dalla borsa nera. Il comando tedesco lo teme al punto di adottare una misura bizzarra e atroce: il fermo di tutti i gobbi di Roma.
    Ma Peppino resta inafferrabile, protetto dalla complicità dei borgatari e, soprattutto, da una grotta riscoperta solo di recente.

    Giuseppe Albano nell’inferno di via Tasso

    Il gobbo è molto politicizzato, ma è il classico cane sciolto: stringe rapporti con Pietro Nenni ed esponenti di spicco del Pci. Tuttavia, non è organico a nessuno, e questo spiega anche alcuni rapporti discutibili, come quello con Salvarezza.
    Albano alza la posta ad ogni giro di vite tedesco. E rischia brutto.
    Il 10 aprile 1944 irrompe in un’osteria del Quadraro e ammazza tre soldati tedeschi come rappresaglia alla strage delle Fosse Ardeatine. La reazione germanica è durissima: Herbert Kappler ordina un maxi rastrellamento della zona, al termine del quale settecento romani sono deportati nel Reich. Metà di loro muore in prigionia.
    Alla fine, le Ss beccano anche il gobbo nei locali di un’azienda dove si era rifugiato. E lo portano nel famigerato carcere di via Tasso, dove subisce le torture dell’altrettanto famigerata banda Koch.
    Ma, ulteriore fortunato paradosso, nessuno riconosce Albano, che resta in galera fino al 4 giugno di quell’anno. Poi, mentre i tedeschi si ritirano, la popolazione libera i prigionieri di via Tasso.

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    Il rastrellamento del Quadraro

    Infiltrati, spie e provocatori

    Torniamo al delitto e, soprattutto a Umberto Salvarezza. Sedicente segretario di Unione proletaria, Salvarezza è un complice delle attività più estreme del gobbo.
    Non ci si riferisce alle azioni contro i fascisti e i tedeschi, ma ai reati comuni della banda di Peppino (omicidi, estorsioni e rapine), in cui l’aspetto politico è davvero labile.
    Il regime è crollato ma la Repubblica non è ancora nata. E Roma non riesce a trovar pace neppure sotto il controllo alleato.
    Anzi, la Capitale diventa un crocevia di traffici e rapporti – politici e non – quantomeno strani. Nei quali uno come Salvarezza sguazza alla grande.
    Infatti, come sa bene la questura di Roma, il segretario di Unione proletaria è una ex spia fascista che tenta di rifarsi la verginità. È un uomo a cavallo di più mondi, inclusi forse i servizi segreti, italiani e Alleati, che tentano di recuperare i fascisti meno compromessi per usarli in funzione anticomunista. Anche Albano finisce in questo gioco complesso.

    Vendicatore e di nuovo bandito

    Dopo l’arrivo degli Alleati, il gobbo del Quarticciolo si mette a disposizione della questura, dove tra gli altri si fa notare Federico Umberto D’Amato, astro nascente dell’intelligence italiana.
    Ufficialmente, Albano dà la caccia ai torturatori della banda Koch e agli ex fascisti. Ma, allo stesso tempo, intensifica le sue attività criminali, appena nobilitate dall’ideologia: le vittime predilette del gobbo sono gli ex fascisti e gli speculatori arricchiti.
    E tra le vittime figura una star: il tenore Beniamino Gigli, considerato un collaborazionista dei tedeschi, che subisce una pesante rapina in casa.

    Beniamino Gigli, la vittima più illustre di Peppino il gobbo

    A tu per tu coi fascisti

    Nella Roma liberata non ci sono solo gli Alleati e i partigiani. Vi operano anche parecchi fascisti, spesso latitanti, che creano varie organizzazioni, tra cui il famigerato Gruppo Onore.
    Che c’entra Albano con questi reduci che lui stesso aveva contribuito a sconfiggere?
    Il collegamento è indiretto e ruota attorno a un altro personaggio, che per ambiguità dà i punti a Salvarezza: il fiorentino Umberto Bianchi, ex deputato socialista convertitosi al fascismo ma finito nei guai per sospetto spionaggio in favore dell’Urss.
    Riabilitato da Mussolini, alla fine della guerra Bianchi si lega a Salvarezza. E i due si danno a doppi e tripli giochi che risulterebbero divertenti se non fossero inquietanti.
    Nella rete di relazioni tessute dalle menti di Unione proletaria c’è davvero di tutto: gli ambienti monarchici e massonici, l’Oss (l’antenata della Cia) gli ex fascisti e l’ultrasinistra. In quest’ultimo caso, va da sé, il collegamento è Albano.

    L’ultima retata

    Il corpo del gobbo è ancora caldo quando la notizia dell’uccisione fa il giro di Roma e, ovviamente, arriva al Quarticciolo.
    A questo punto, la questura decide di liquidare il resto della banda e ordina un blitz nel quartiere che si trasforma in un assedio, con tanto di mezzi blindati. La retata ha successo e tra gli arrestati figura anche Iolanda Ciccola, la fidanzata di Albano.
    Un modo di tappare la bocca a potenziali testimoni scomodi?
    Forse. Per aggiungere ambiguità ad ambiguità, c’è anche la testimonianza di un informatore degli Alleati, che – come riporta lo storico Giuseppe Parlato – definisce il fratello di Albano una spia tedesca. Ultimo, non irrilevante dettaglio: il gobbo si sarebbe avvicinato a Salvarezza su indicazione di Nenni, per tenere sott’occhio Unione proletaria.

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    Gérard Blain e Anna Maria Ferrero ne “Il gobbo”

    Giuseppe Albano dalla storia al mito

    Il Giuseppe Albano reale è dimenticato nel giro di pochi anni. Gli sopravvive il mito, con tutte le sue ambiguità e i suoi paradossi romantici.
    Versione riveduta e più o meno corretta dei leader dei briganti, il gobbo è immortalato nel cinema due volte.
    La prima da Carlo Lizzani, nel suo Il gobbo (1960), in cui il francese Gérard Blain presta il proprio volto ad Alvaro Cosenza, incarnazione su celluloide di Albano. Il film riprende, in maniera molto romanzata la storia di Peppino il gobbo, con un linguaggio a cavallo tra il noir e il neorealismo. Giusto un dettaglio per i cinefili incalliti: nel film esordisce Pier Paolo Pasolini nel ruolo di Leandro er Monco.
    La seconda incarnazione cinematografica di Albano è ne La banda del gobbo (1977) un cult del genere poliziottesco diretto da Umberto Lenzi e interpretato dal mitico Tomas Milian.

    Pier Paolo Pasolini e Carlo Lizzani sul set de “Il Gobbo”

    L’epilogo

    Sulla fine di Peppino il gobbo le tesi e le dietrologie si sprecano.
    Quella della questura (che pure si è servita di certi servizi di Albano e forse ha chiuso il classico occhio su tutto il resto) sembra un depistaggio, ma forse non troppo: regolamento di conti tra bande rivali. Come dire: liberata Roma, il gobbo e i suoi non servono più. O, per parafrasare Shakespeare: il gobbo ha servito, il gobbo può andare.
    Più interessanti gli esiti della controinchiesta condotta da Franco Napoli, già braccio destro del gobbo e mente operativa della banda: Albano, secondo lui, sarebbe stato ucciso a tradimento da Giorgio Arcadipane, ex spia dei tedeschi a Regina Coeli e poi infiltrato in Unione proletaria. Il che riporta a Umberto Salvarezza.
    Anche quest’ultimo finisce nel dimenticatoio: viene arrestato con l’accusa di vari reati da faccendiere (truffa, millantato credito ecc). Subisce una condanna a sette anni. Poi se ne perdono le tracce.
    Nessun abitante del Quarticciolo e del Quadraro riceve riconoscimenti per meriti esistenziali. E solo Iolanda Ciccola tiene viva la memoria di Peppino con l’impegno politico. Ovviamente nella sinistra rivoluzionaria.
    E a questo punto cala per davvero il sipario sull’unico calabrese che ha avuto una leadership forte nella Resistenza.