Tag: storia

  • Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Sessant’anni fa, nel 1963, a Cosenza, viene pubblicato il primo dei Quaderni di cinema del circolo Mondo Nuovo. L’informazione si ricava dal terzo, dato alle stampe a Cosenza nel febbraio 1964. Un fascicolo di 54 pagine, con testi di Guido Aristarco, Pio Baldelli, Tommaso Chiaretti, Adelio Ferrero, Giampiero Mughini.

    mondo-nuovo-quando-mughini-scrisse-per-periodico-cosentino
    Antonio Lombardi, tappezziere e agit prop

    Antonio Lombardi, animatore del circolo Mondo Nuovo, presenta il terzo numero dei Quaderni, dedicato ai problemi della critica della settima arte, precisando che il secondo fascicolo è stato stampato in 500 copie, «testimonianza del successo della nostra iniziativa e in direzione della diffusione e della divulgazione della cultura cinematografica». Nello stesso testo Lombardi annuncia che il quarto numero è già in preparazione e sarà dedicato a Cinema italiano 1943-1963.

    Da Fellini a Moretti

    Per tutto il periodo della sua attività, tra il 1960 e il 1980, il circolo Mondo nuovo dedica una particolare cura al cinema, organizzando rassegne di film e dibattiti, a cui interviene un pubblico non solo giovane (i fondatori del circolo sono ragazzi poco più che ventenni). Si era nella stagione d’oro, registi italiani come Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini e tanti altri erano studiati e imitati, premiati nei concorsi internazionali.
    In una registrazione relativa alle origini del circolo, Antonio Lombardi, circa venti anni fa, mi aveva raccontato le sue prime incursioni nel mondo della critica cinematografica, nel clima di grande emozione suscitato dai fatti di Ungheria del 1956. Quel momento rievocato di recente da Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, che spinse tanti intellettuali e semplici militanti ad allontanarsi dal Partito comunista italiano e a cercare nuove strade. In quel clima di delusione, di ripensamento, di ricerca di nuove modalità espressive, si costituisce il gruppo di amici, a Cosenza, che darà vita a Mondo nuovo, che sorge ispirandosi all’omonima rivista fondata da Lucio Libertini.

    mondo-nuovo-quando-mughini-scrisse-per-periodico-cosentino
    Vittorio De Sica, icona e maestro del cinema

    La Ciociara che divide

    Ragazzi appassionati di politica e del nuovo linguaggio del cinema, così racconta Lombardi:
    «A proposito di Chiaretti nel 1960 facemmo una discussione, a Mondo nuovo, su La ciociara di De Sica, tratto dall’ultimo per me grande romanzo di Moravia. Per me il film valeva poco. Chiaretti invece ne scrisse in termini positivi, allora per la prima volta presi la macchina da scrivere e mandai una lettera a Chiaretti, che Libertini pubblicò insieme alla replica di Chiaretti (Libertini mi conosceva, era venuto a Cosenza ad inaugurare Mondo nuovo). Chiaretti nella replica mi invitava a leggere le posizioni critiche di Galvano Della Volpe nella sua Critica del gusto. Insomma queste riviste non ortodosse mi hanno formato, riviste nate da posizioni minoritarie, come quelle di Libertini, polemico con la dirigenza socialista fin dal 1948, quando si era schierato con Tito contro Stalin, e fondato l’Unione socialista indipendente, un piccolo partito, durato fino al 1956».

    Una Olivetti sgangherata

    Lombardi senza nessuna timidezza va, dal suo primo intervento, oltre i confini della sua città, è convinto che sia necessario, da subito, allacciare rapporti con gli intellettuali e gli autori, partecipando agli incontri più innovativi e importanti, come quelli a Porretta Terme. Sarà sempre questo il suo modo di operare, diretto e personale, con la Olivetti ormai sgangherata che ha utilizzato fino alla fine, per molti anni dopo la chiusura del circolo.Il testo di Tommaso Chiaretti pubblicato sul Quaderno numero 3, La critica cinematografica tra industria culturale ed organizzazione di partito, è la relazione tenuta a Porretta Terme al convegno Cinema e critica oggi (10-12 settembre 1963). Lo stesso vale per il testo di Guido Aristarco, Realismo, decadentismo e avanguardia nel cinema contemporaneo.

    mondo-nuovo-quando-mughini-scrisse-per-periodico-cosentino
    I Quaderni di cinema partoriti nella fucina di Mondo Nuovo

    Nella registrazione già citata Lombardi racconta: «Nel 1964 ho fatto un viaggio importante, prendendo contatto con persone come Chiaretti, chiedendogli di collaborare con Giovane critica» di Giampiero Mughini.
    Insomma abbiamo dedicato qualche pagina a Chiaretti, che in quel momento non se la passava bene. Questo viaggio nasceva da uno precedente, nel 1963, quando sono stato invitato a Porretta Terme, al Festival del cinema libero, in cui si alternavano proiezioni e dibattiti. Il Festival del 1963 era dedicato alla critica cinematografica, Aristarco era invitato a parlare dell’avanguardia, Chiaretti sul rapporto tra organizzazione partitica e industria culturale.

    Intellettuali, borghesi, avanguardisti

    C’era anche Giuseppe Ferrara, che ancora non era passato alla regia. Dibattito animatissimo, con una frattura tra gli intellettuali di sinistra, tra chi propendeva per un’integrazione nel sistema dell’industria culturale. E chi invece voleva mantenere le distanze. Era in discussione ben altro, non la critica cinematografica, Mughini non colse questo aspetto. Il nocciolo della questione era la possibilità di fare opposizione di sinistra in Italia. Il capofila della critica ad Aristarco era Lino Miccichè, critico cinematografico de L’Avanti. Sui Quaderni di Mondo nuovo abbiamo pubblicato integralmente la relazione di Aristarco, e lui non perdeva occasione di citarla. Dibattito proseguito a lungo sui giornali, intanto sono andato in giro per capire cosa di pensava in giro.
    L’intervento di Chiaretti, Le ragioni dell’avanguardia, a questo proposito mi aveva colpito anche l’intervento di un altro critico, Mario De Micheli, autore de Le avanguardie artistiche del ‘900. Si dibatteva dell’avanguardia sempre a partire dalla crisi dello stalinismo. Il problema non era solo liquidare l’avanguardia come prodotto borghese, decadente, De Micheli e Chiaretti rileggono la crisi che tra gli intellettuali si apre nel 1848 e giunge al culmine nel 1871.

    Questi intellettuali non arrivano a posizioni veramente rivoluzionarie, ma sono degli irregolari, a livello artistico questa è l’avanguardia. Molti critici ritengono che il realismo moderno non sia la continuazione del grande realismo borghese ottocentesco. De Micheli e altri pensano a un incontro tra le manifestazioni dell’avanguardia, con le rotture dei linguaggi tradizionali, solo da questa sintesi nasce il moderno realismo rivoluzionario. Ad esempio Majakovskij e Brecht, con il futurismo e l’espressionismo.

    Mughini per Mondo Nuovo

    Mondo nuovo aveva stretti legami con il Centro universitario cinematografico, CUC, di Catania, animato da Giampiero Mughini, che invia agli amici cosentini un suo contributo per il Quaderno, Vecchio e nuovo nella critica cinematografica.
    Gli autori del terzo numero dei Quaderni di cinema sono critici militanti, noti e affermati già in quegli anni, spesso al centro di polemiche roventi, accompagnate da risvolti giudiziari. Nel 1953 Guido Aristarco, direttore di Cinema nuovo, viene arrestato per vilipendio delle forze armate, per aver pubblicato sulla rivista da lui diretta un soggetto cinematografico, L’armata sagapò, relativo alla condotta dei militari italiani in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Aristarco e Renzo Renzi, autore del testo, trascorrono quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera. Sono condannati a scontare rispettivamente quattro mesi e mezzo e otto mesi, ma rimessi in libertà grazie alla mobilitazione della stampa e dell’opinione pubblica.

    mondo-nuovo-quando-mughini-scrisse-per-periodico-cosentino
    Il regista e attore Nanni Moretti

    Quel che resta del cinema a Mondo Nuovo

    Nonostante la diffusione in centinaia di copie dei Quaderni di cinema non sono riuscito a trovare gli altri numeri, il primo, il secondo e il quarto, quelli che sicuramente sono stati pubblicati. Nemmeno nelle biblioteche pubbliche sono consultabili, almeno non risultano nel Sistema bibliotecario nazionale, SBN. Potrebbero trovarsi forse in qualche fondo librario non catalogato. Come accade spesso per gli archivi dei gruppi e delle associazioni, gli animatori del circolo, ragazzi estranei alla cultura ufficiale, all’epoca non si preoccupavano di depositare le copie dei propri stampati, né evidentemente di consegnarli direttamente alle biblioteche pubbliche.
    Questo terzo fascicolo, recuperato fortunosamente, apre le porte di un mondo ormai lontano, per certi versi superato, gravato da schematismi ideologici oggi incomprensibili. Ma ci conduce nel cuore del dibattito politico e artistico degli anni Sessanta, seguito con interesse a Cosenza da centinaia di persone. Come nelle palazzine del quartiere romano, dove Silvio Orlando nell’ultimo film di Nanni Moretti, si interroga sul suo ruolo di segretario di sezione del P.C.I. davanti al dramma del popolo ungherese.

    Probabilmente sarebbe ancora possibile reperire queste pubblicazioni in qualche biblioteca privata, anche molto lontano da Cosenza, dato che il circolo Mondo nuovo e Antonio Lombardi in particolare, intratteneva una fitta corrispondenza con centri e persone di ogni parte d’Italia. Sarebbe un modo per recuperare uno dei tanti tasselli dispersi della vita culturale cittadina, non per municipalismo, ma al contrario per documentare i legami e gli scambi che da Cosenza si intrecciavano con le più vivaci energie del tempo.

  • Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Chissà questa destra di governo e di rigurgiti autoritari quanto avrebbe odiato quel pretaccio di Barbiana. Probabilmente parecchio. Probabilmente gli avrebbe riversato addosso tutto il fango mediatico di cui sarebbe stata capace, del resto uno che fa il prete ma non predica l’obbedienza è già uno strano, se poi si mette in testa che siamo tutti uguali e abbiamo diritto alle stesse opportunità, anzi chi sta indietro di più, allora va contro l’idea di scuola del merito fondato sul privilegio di classe e quindi, insomma, è uno pericoloso.

    Altro che Barbiana, a don Milani la destra di oggi avrebbe riservato un destino ben più crudele che un confino in montagna: schiacciato sui social e sui media addomesticati da quegli «scrittori salariati» che oggi si trovano a buon mercato.

    don-milani-pretaccio-destra-potere-avrebbe-odiato
    Rivoluzionario. Un aggettivo per Don Milani

    Perfino la Fondazione Agnelli

    Don Lorenzo Milani nasceva cento anni fa e il suo agire politico – perché di questo si è trattato – avrebbe trovato il culmine nel maggio del ’67 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa, il manifesto sull’ingiustizia della scuola. È difficile trovare qualcuno che critichi apertamente la visione di don Milani, perfino la Fondazione Agnelli, che prospetta da sempre futuri neo liberisti e mercantili per l’istruzione, sul suo sito pubblica articoli positivi sull’esperienza della scuola di Barbiana. Il motivo è che è impopolare dire che la scuola deve fare la selezione, occorre far passare questo messaggio in modo obliquo, in maniera che sembri accettabile.

    Contro la scuola dei “migliori”

    Don Milani ha avuto molti discepoli, ma tra essi non la politica che della scuola ha fatto sempre la Cenerentola, (è di oggi la notizia che il governo Meloni annuncia il taglio di 79 mila posti negli asili) o peggio una trincea da conquistare. Ed ecco che torna la scuola che fa andare avanti i “migliori”, solo che questi, ieri come oggi, sono “i figli del dottore”, dei tempi di Milani, quelli che provengono da famiglie con massime risorse e per ciò stesso con ottime opportunità.
    Don Milani della scuola del merito e del logo grottesco che evocava fasci littori (poi ritirato dal ministero perché certe cose sono pessime pure per loro), non avrebbe riso, perché era pure piuttosto incazzoso, ma avrebbe spiegato che il merito è un inganno, una trappola classista per separare e fare differenze. Perché le disuguaglianze nella scuola ci sono ancora, anzi sono acuite, a più livelli.

    Una questione di lavagne Bosch

    Alcuni anni fa, nel corso di un convegno nazionale sulle esperienze dei licei economico-sociali presso un grande istituto milanese, emerse che uno dei partner di quella scuola era la Bosch, che i ragazzi facevano tirocini nell’azienda e ogni anno le classi avevano una Lim (lavagna interattiva multimediale) nuova e il mio pensiero andò a quei docenti calabresi che invece l’ingiustizia sociale e la fatica di fare uguaglianza devono affrontarla a mani nude. La Bosch non sana la inuguaglianza sociale, ma senza quelle risorse è più difficile, perché alla fine è una questione di soldi e di opportunità. Basti pensare al salto compiuto dalla Calabria nella sola vera rivoluzione compiuta da queste parti, cioè la nascita dell’Unical, grazie alla quale si è passati in un tempo ragionevolmente breve da una generazione di semi analfabeti a una di laureati.

    don-milani-pretaccio-destra-potere-avrebbe-odiato
    Don Milani fa lezione in classe

    Le parole di Don Milani

    E dentro questo contesto che le parole d’ordine di Lorenzo Milani disvelano la loro potente attualità: il prendersi cura degli altri, come segno d’opposizione ai “mene frego” di ieri e riproposti oggi, la negazione dell’obbedienza come virtù e la rivendicazione del diritto a “non tacere”, che sarebbe stato più compiutamente rappresentato negli anni successivi da un altro prete eretico, Don Sardelli, l’antimilitarismo, il rifiuto di fare la differenza tra italiani e stranieri e infine l’idea mai tramontata di fare della scuola il luogo di riscatto, di emancipazione, di reale mobilità sociale, insomma il sapere come potere rivoluzionario di cambiamento personale e collettivo. Perché la scuola deve essere sovversiva e a spiegarcelo, tra gli altri, c’è stato pure un prete.

  • Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Piovene scriveva che la maggior parte dei calabresi aveva una cultura montanara più che marinara. Contemplavano il mare dalle alture dei loro paesi, senza esservi mai stati vicini. La pesca non si praticava molto in Calabria per la mancanza di porti. Solo in alcuni centri come Parghelia e Scilla l’attività di mare era sviluppata.
    Galanti ci informa che i marinai di Scilla erano trecento e veleggiavano su feluche a due alberi che trasportavano merci fino a duecentocinquanta cantaia. Ciascuna imbarcazione aveva un equipaggio di venticinque marinai che partivano in ottobre per vendere e acquistar prodotti di vario tipo.

    Commerciavano soprattutto stoffe, alici salate, mandorle, pasta di “rigorizia”, uva passa, manna, limoni, essenza di bergamotto e “portogalli”.
    Una volta nei porti dell’alto Adriatico, soprattutto Venezia e Trieste, vendevano le loro merci. Inoltre acquistavano prodotti importati specialmente dalla Germania e dalla Svizzera per rivenderli in Puglia e in Calabria.

    La pesca e il problema del sale

    Lungo i villaggi della costa c’erano poche imbarcazioni e la pesca si esercitava solo nei mesi in cui il mare era calmo. D’inverno si vedevano solo barche che provenivano dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Campania. Malpica annotava che i pescatori di Sorrento si stabilivano a Schiavonea, portando con sé mogli e figli, all’inizio dell’inverno e andavano via al cominciare dell’estate. Con le loro agili barche, non avevano timore ad affrontare il mare tempestoso, ma spesso la pesca era infruttuosa e portavano a casa solo debiti.pesce-spada

    L’attività della pesca, ricordava Galanti, era poco sviluppata anche perché risultava difficile smerciare il pesce fresco in quanto il trasporto richiedeva molto tempo. Si mangiava pesce quando la distanza lo permetteva. Il mare era ricco di acciughe e sarde, ma il sale fossile, ottimo per salare le carni, non era adatto per conservarle. La carenza e il costo eccessivo del sale rappresentava un serio problema. A Crotone, ad esempio, quando la pesca dei tonni era abbondante, molti pesci venivano bruciati o ributtati in mare perché era impossibile salarli o venderli.

    Pesce spada, l’imperatore dei mari

    Oltre al tonno, la pesca più importante e spettacolare in Calabria era quella del pesce spada. Nel 1862, Lombroso scriveva che erano numerosi i pescatori che si dedicavano alla sua cattura. Erano divisi in piccole società di 10 o 20 membri e il loro linguaggio era «d’antichissimo conio greco».
    Il pesce spada (xiphias gladius), l’imperatore dei mari, era una “bestia” lunga da sei a otto piedi. Il peso variava dalle due alle trecento libbre e, talvolta, raggiungeva i quattro quintali. La spada attaccata alla testa del corpo filiforme ne faceva un mostro.

    pescatori-scilla
    Pescatori a Scilla

    Nel 1791, Stolberg annotava che, nel mare di Scilla, lottavano incessantemente con i «cani di mare». Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia un pesce spada e un pescecane. Il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la “sciabola” e impossibilitato a nuotare liberamente, era morto insieme a lui. I marinai raccontavano che il pesce furioso per la ferita dell’arpione a volte si lanciava contro le barche sfondandole con la spada. Per questo stavano sempre in guardia, soprattutto se l’animale era di taglia considerevole e la ferita leggera.

    Il pesce spada e l’incantesimo in greco

    Alcuni studiosi sostenevano che il pesce spada arrivava sulle coste della Calabria nel mese di giugno per poi spostarsi sulle coste della Sicilia. Altri scrivevano che a partire dal mese di aprile fino alla fine di giugno, entrando nello Stretto, seguiva la costa sicula per poi costeggiare la Calabria. Il pesce spada si muoveva sempre sulle orme della femmina, che non perdeva mai di vista e un viaggiatore notava che questo sentimento naturale comportava quasi sempre la rovina dell’uno e dell’altra.

    Il marinaio che li scorgeva ne approfittava: i suoi colpi cadevano prima sulla femmina, giacché dal momento in cui questa era colpita il maschio non pensava più a fuggire.
    Brydone raccontava che i pescatori dello Stretto, alquanto superstiziosi, pronunciavano frasi in greco come «incantesimo» per attirare il pesce spada vicino alle loro barche. E che se per disgrazia l’animale li sentiva parlare in italiano, si tuffava di botto sott’acqua per non comparire più!

    Come catturare il pesce spada

    In realtà la pesca del pesce spada era molto complessa e sperimentata nel corso dei secoli. Per catturarlo i marinai usavano i luntri, barche con un albero dall’altezza notevole terminante con una piattaforma, dove stava il giovane incaricato ad osservare i movimenti del pesce.

    Il-Luntro-di-Renato-Guttuso-scaled-e1623501509656-580x423
    Un luntro dipinto da Renato Guttuso

    Queste imbarcazioni, lunghe diciassette-diciotto piedi, avevano la prua più larga e più alta della poppa per facilitare i movimenti del lanciatore: scelto fra gli uomini più forti e abili, era armato di una fiocina, la cui asta, fatta di legno durissimo, era lunga almeno dodici piedi. Il dardo terminale, che i locali chiamavano freccia, era lungo sette-otto pollici e provvisto di due orecchie mobili di ferro.
    Una volta entrata nel corpo del “mostro”, la freccia non poteva essere estratta che dalla mano dell’uomo
    .

    Sulle coste della Calabria, alcune persone si arrampicavano sulle rocce e sugli scogli che costeggiavano la riva per avvistare il pesce e segnalarlo con urla e bandierine ai compagni sulle barche. Il lanciatore, in piedi sulla prua, con l’arma in mano, cercava di tenere l’animale sotto tiro. Quando era alla portata della lancia, aspettando il momento favorevole, lo infilzava e lasciava libera la corda. Il pesce spada ferito, perdendo le forze risaliva in superficie, i pescatori lo avvicinano con un gancio di ferro all’imbarcazione e lo portavano a riva.
    La caccia al pesce spada attirava e affascinava studiosi e viaggiatori che annotavano in maniera dettagliata la tecniche per catturarli. Citiamo le descrizioni di Polibio, Grasser e Bartels.

    Polibio

    caccia-pesce-spada-gallery-6
    Un antico mosaico sulla cattura del pesce spada

    A questo proposito racconta Polibio il modo con che si pescano i pesci spada intorno al promontorio di Scilla. Posta in sito acconcio una barca, la quale serva come di spia, si cacciano in mare molti schifi a due remi, in ciascuno de’ quali sono due uomini, uno per governarlo co’ remi, e l’altro in prora armato di un’asta per ferire il pesce. Al segno che da l’esploratore, che viene il pesce spada, il quale suole con un terzo del corpo star sopra l’acqua, lo schifo gli si appressa, e quello che tiene l’asta, gliela caccia da vicino nel corpo, e subito ritirandola ne rimane la punta fitta nel pesce, perché sendo fatta a guisa di amo, è attaccata all’asta in maniera che facilmente si lascia nella ferita, lanciata che è.

    A quel ferro è congiunta lunghissima cordicella, la quale tanto vanno allentando, ferito che è il pesce, fin a tanto che dibattendosi, sforzandosi di fuggire, si stanchi; allora lo tirano al lido, ovvero lo raccolgono nello schifo, se pure non è troppo pesante, e grande. Se avviene che l’asta cada in mare, non però si perde; perciocchè essendo fatta di quercia la tira bensì sott’acqua, ma fa insieme che dall’altro capo l’abete, come più leggero, s’innalzi, ed agevolmente si possa ripigliare. Avviene anche talvolta, che quello dei remi nello schifo sia ferito dalla grandezza della spada che ha il pesce, e dalla forza con cui la vibra, ond’è che questa pesca sia pericolosa non meno della caccia de’ cinghiali.

    Jacob Grasser (1606)

    Nei pressi del mare c’è un torrione o una guardiola, dove ad un uomo di vedetta vien dato l’incarico di segnalare l’arrivo dei pesci spada. Fa parte della natura di questi pesci tenersi con un terzo del corpo fuori dell’acqua. Quando ciò avviene, i pescatori si distribuiscono in tutta la zona con le loro imbarcazioni, in modo che in ogni singola imbarcazione si vengono a trovare due persone: una con due remi alla guida della barca, l’altra a prua con in mano una fiocina. Appena la vedetta indica il punto dove si trova il pesce, la barca vicina lo raggiunge a remi, mentre un pescatore veloce lo colpisce con la fiocina che viene subito tirata indietro per cui il ferro, che è provvisto di una punta ricurva a mo’ di amo, resta conficcata nel pesce e nella ferita.arpione-pesce-spada

    Quest’uncino è fatto in modo che la punta ricada all’ingiù. Al ferro è fissata una corda di una certa lunghezza che permette al pesce, ancora convinto di poter sfuggire alla cattura, di voltolarsi e muoversi con una certa libertà sino a stancarsi. Quindi lo trascinano a riva o, se non è troppo grande, ché talvolta se ne trovano di una lunghezza superiore a dieci cubiti, lo tirano sulla barca […] Il pesce spada è così violento ed irruente che spesso con la lunga spada riesce a ferire il rematore. È per questo che la pesca è pericolosa come una caccia al cinghiale, ed è anche difficile pescarlo con le reti dal momento che con la spada riesce a strapparle. Appena lo si è pescato, lo si fa a pezzi e lo si mette sotto sale come un tonno. Dicono che la sua carne sia molto delicata ma un po’ difficile da digerire.

    Johann Heinrich Bartels (1786)

    Secondo il racconto di Strabone si utilizzavano due imbarcazioni, una delle quali provvista di un albero su cui sedeva un uomo che aveva il compito di avvistare il pesce. Una volta avvistato il pesce che spuntava con le pinne dalla superficie del mare, l’uomo allertava i suoi compagni indicando loro come raggiungerlo. Subito una seconda imbarcazione si metteva al suo inseguimento mentre un uomo con una fiocina in mano si portava d’un balzo sulla prua.pesce-2

    Appena il pesce, che nel frattempo si era messo a giocare con l’ombra della barca, giungeva a tiro, l’uomo gli lanciava, ferendolo, la fiocina fissata ad un bastone legato a sua volta ad una corda. Nella fuga il pesce trascinava con sé la fiocina col bastone, e, quando le forze lo abbandonavano, veniva recuperato con la corsa e caricato sulla barca. Questa, all’incirca, la descrizione di Strabone; ed è questo anche il modo in cui si opera ancor oggi – con una piccola innovazione che rende più semplice l’operazione. Per attirare ed osservare il pesce, si manda avanti una feluca di una certa dimensione ad un albero, seguita da due piccole imbarcazioni. Appena si avvista il pesce, una di queste imbarcazioni viene mandata avanti con un piccolo equipaggio e un fiociniere. Lo strumento, una punta di ferro fissata ad un bastone, è rimasto immutato.spada-ponte

    Mentre il pesce, ferito, fugge via, la corda fissata al bastone della fiocina viene allentata; e, appena ci si accorge che il pesce ha perso le forze, ecco sopraggiungere la seconda imbarcazione al seguito della feluca, la cosiddetta barca della morte, che insegue il pesce finché questo ce la fa a fuggire, e lo recupera appena muore. Questa pesca si pratica di norma nei mesi di giugno, luglio e agosto.

  • Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Il tarantismo in Calabria era diffuso come in Puglia e, nel corso dei secoli, oggetto di studio da parte di scienziati, medici e letterati. Già nel Seicento diversi studiosi stranieri come Kirchmajeri, Muller, Jonston e Madeira scrivevano che le perniciose tarantole nei mesi di giugno, luglio e agosto tormentavano gli agricoltori calabresi causando un «corybanteo furore».

    Il fisico inglese Thomas accennava a un certo spider il cui veleno veniva curato dagli abitanti delle Calabrie con una pratica magica attraverso musica, canti e danza. Negli stessi anni, Epifanio raccontava che la regione era invasa dai velenosi falangi tanto che in alcune zone i locali ricavavano dalle loro tele una seta bianca anche se, richiedendo molta spesa e lavoro, non era molto redditizia.
    Agli inizi del Settecento il viaggiatore inglese Berkeley annotava che il tarantolismo, malattia provocata dal veleno della lycosa tarantula che sconvolgeva la mente era diffuso specialmente nei paesi pugliesi e calabresi. Francesco Saverio Clavigero affermava che se le campagne romane erano infestate da vipere e le coste adriatiche da zanzare, quelle calabresi erano invase dalle temibili tarantole.

    Il ballo di San Vito

    Pietro Le Brun raccontava che le ariette eseguite nei villaggi della Calabria per guarire i numerosi morsicati dal ragno si chiamavano «canzoni di san Vito», il taumaturgo in grado di neutralizzare il veleno di quegli insetti. Gianrinaldo Carli sottolineava che in diverse comunità della regione gli avvelenati dalle tarantole, per risvegliarsi dal torpore, erano costretti a piroettare al suono di varie melodie per alcuni giorni fino al completo risanamento. Qualche anno dopo il naturalista Minasi raccolse numerose tarantole nei suoi terreni di Scilla e fece addentare piccioni, galline, lucertole e gatti per dimostrare l’inefficacia del veleno. Era esperto dell’insetto, che descrisse minuziosamente, e si racconta che regalò all’imperatrice delle Russie Caterina II un paio di guanti con bozzoli dell’aracnide ridotti in seta.

    tarantola-tarantelle-ecco-morso-calabria
    La lycosa tarantula

    Tarantola e tarantelle

    Nell’Ottocento, l’interesse nei confronti del tarantismo calabrese aumentò notevolmente e i racconti sul rito di guarigione erano spesso contrastanti. Carcano scriveva che la regione era infestata dalle «tarantelle» che, mordendo in tempo d’estate, mettevano addosso una «rabbia» che spingeva a saltellare. Le vittime di quel ragno erano numerose e, poiché per guarire era necessaria la musica, vi erano molti suonatori ben retribuiti che svolgevano questo lavoro. Il medico Antonio Pitaro riferiva di aver assistito a due casi di tarantolismo e raccontava che i contadini per soccorrere le vittime ponevano sulla ferita il falangio schiacciato e due monete bagnate con saliva.

    De Tavel, ufficiale francese, appuntava nel suo diario che tra i calabresi era diffusa la credenza che per neutralizzare il veleno della tarantola bisognava ballare la tarantella, una bizzarra danza in cui, alla maniera dei «selvaggi», compivano contorsioni e gesti indecenti che degeneravano in una specie di delirio. Spizzirri raccontava che un giovane del suo paese morso da una tarantola fu condotto da un chirurgo il quale applicò sulla ferita un bottone rovente senza che ciò apportasse alcun sollievo.

    Bagni di vino

    Il padre mandò a chiamare un noto ciaravularo di Mendicino, che recitò alcuni carmi, sistemò sul capo dell’infermo un mantello di lana e gli fece fare dei bagni di vapore di vino dentro al quale aveva fatto bollire rosmarino e altre erbe. Il ragazzo dopo tre giorni guarì.
    La prolifica e spiritosa scrittrice Chaterine Grace Frances Gore, i cui romanzi erano alla moda in Inghilterra, dedicò un lungo racconto a una tarantolata calabrese. Il dottor Magliari asseriva che in Calabria le tarantole era velenosissime e spingeva gli infermi a saltellare tarantelle diverse da quelle della Puglia; in alcuni paesi, invece, i sanitari curavano gli avvelenati senza liuti e chitarre, usando soprattutto vapori di vino aromatizzato con varie piante.
    Pugliese informava che a Crucoli, nella Calabria Ulteriore, si praticava ancora l’uso di sanare i trafitti della tarantola facendo ballare gli ammalati fino all’esaurimento delle forze al suono della chitarra.

    tarantola-tarantelle-ecco-morso-calabria
    Illustrazione della tarantella suonata e ballata nel Meridione d’Italia

    Salta e suda che ti passa

    Vergari annotava che le tarantole in Calabria erano numerose e i dottori per guarirne il morso usavano l’aceto ammoniacale e farmaci che favorivano la sudorazione, ma il rimedio più diffuso rimaneva quello di far saltellare il paziente per farlo sudare. Il medico Giovanni Nigro di Rossano comunicava che a Cropalati due ragazzi morsicati dalla lycosa tarantula erano guariti con la danza protratta per un mese mentre il dottor Volpe di Nicastro riferiva che in una contrada infestata da tarantole la gente eliminava il veleno mettendo i pazienti in una stufa e allietandoli con chitarre battenti e cantilene.

    In una ricerca condotta sul «male del ragno», Achille Costa sosteneva che diversi territori calabresi erano infestati dai terribili falangi e i morsicati avevano una tendenza al pianto o al riso. I contadini chiamavano le tarantole «schette», «vedove» e «maritate» e le catturavano con un frustolo di paglia avvolto in poca seta: lo calavano nella tana e ne prendevano di gigantesche simili a quelle pugliesi.

    La melodia della tarantola

    Sempre nell’800, Marzano raccontava che in Calabria, la tarantola che mordeva nella stagione estiva produceva smania e irrequietezza e gli infermi, ascoltando la musica, erano spinti ad un convulso volteggiare. Per liberarsi dal veleno del terribile insetto si doveva trovare la melodia dell’aracnide e per questo motivo i parenti assoldavano esperti suonatori di pifferi, zampogne, chitarre e tamburelli.

    Ai primi suoni di questi «schiamazzosi» strumenti, la tarantolata emetteva lunghi sospiri, si contorceva, si dimenava e, all’incalzare del ritmo, si alzava dal letto e iniziava una danza frenetica e delirante. I giovani del vicinato si alternavano a ballare con l’ammalata fin tanto che, affranta dalla stanchezza, questa cadeva esausta tra un fiume di sudore che ne leniva i patimenti. Una volta riposata, la donna cominciava nuovamente a sgambettare in maniera furibonda al suono della tarantella e, dopo tre giorni, si metteva a letto ormai guarita.

    Vedove e zitelle

    Spesso, per animare vieppiù il ballo, alla musica si univa il canto delle comari in cui si rimproverava la tarantola «malandrina» di aver portato la povera ragazza alla rovina. Alla fine del secolo, Pignatari scriveva che i calabresi credevano nel morso del falangio curato col ballo non meno dei pugliesi e dei napoletani e pensavano che se la tarantola era vedova il morsicato preferiva danzare con persone vestite a lutto mentre se era zitella o maritata non badava ai colori. A tal proposito lo studioso notava che, a differenza di quanto sosteneva Aldovrandi, le tarantolate non avevano mai mostrato predilezione per il rosso e il verde, né avevano avversione per il nero poiché le gonne e i giubbetti delle contadine erano colorati con l’indaco.

    A Vena, un villaggio albanese, Francesco Bubba durante il rito di guarigione per il veleno del ragno volle cambiare sette vestiti abbigliandosi da signore, da prete, da sposo, da signora e da campagnola.

    Quando la banda passò

    Agli inizi del Novecento, secondo alcune testimonianze, il tarantismo era ancora presente in Calabria. Lorenzo Galasso di Nicotera, parroco di Comparni, una piccola frazione di Mileto, asseriva che nelle sue zone il volgo era convinto che la tarantola fosse velenosa e, se l’intossicato non guariva tramite il ballo, era messo in un forno ben caldo per circa un’ora. Raccontava di aver visto una giovinetta in salute che, punta dall’insetto, era diventata pallida come la morte e, nonostante spiegasse che altre erano le cause del male, i suoi familiari corsero a chiamare dei suonatori: appena questi cominciarono a suonare, la donna iniziò a gridare e ballare.

    tarantola-tarantelle-ecco-morso-calabria
    Il tarantismo ha attraversato la storia e la cultura del Meridione d’Italia

    La gente riteneva che la morsicata chiedesse abiti da signora, da signorina o da zitella a secondo che la tarantola fosse maritata, zitella o vedova. Secondo l’opinione diffusa, inoltre, bisognava esaudire le richieste delle morsicate e una di loro era così capricciosa che, non soddisfatta degli orchestranti, richiese una banda musicale intera. L’attarantata ballando doveva fare le stesse cose del falangio che l’aveva trafitta fino a tramortire l’insetto che era nel suo corpo e per questo motivo a volte ballava giorno e notte anche per quindici giorni.

    L’estrema unzione

    Nel momento in cui stava per arrivare la morte del ragno, la giovane sembrava entrasse in agonia, barcollava nella stanza sostenuta dalle amiche e, con un fil di voce, voleva ceri accesi e un sacerdote per l’estrema unzione. Il parroco riferiva che un giorno, chiamato da una famiglia del paese, trovò una femmina stesa a terra e i parenti seduti tutt’intorno pretesero che la ungesse perché così richiedeva l’agonia dell’aracnide.

    Intimorito per il tono minaccioso chiese perdono al Signore e con l’olio fece dei segni sulla fronte dell’avvelenata e la benedì con l’aspersorio che avevano portato delle vicine. La tarantata chiuse gli occhi come se fosse davvero morta e le donne continuarono a piangere ma dopo un po’ improvvisamente si alzò in piedi guarita.
    Un altro prete, mentre stava dando l’assoluzione a una tarantolata di settant’anni vide che la moribonda, all’udire dei suoni provenienti dall’esterno, si alzò dal letto e come una indemoniata si mise a saltellare e accanirsi contro di lui con fare minaccioso tale da costringerlo a scappare.

    Interviene il Comune di Mileto

    Galasso informava, inoltre, che nella comunità di Comparni erano state punte dalle tarantole quarantacinque persone e, poiché ogni attività in paese era ferma, per avere cibo bisognò chiedere aiuto al comune di Mileto.

    Per un mese nel paese non si fece altro che suonare, cantare e ballare come in una festa e una fanciulla, che presa d’invidia dalle compagne che ballavano si era aggregata a loro, fu picchiata dal padre con un nodoso bastone. Molta gente pensava che le tarantolate fossero furbe donzelle che volevano farsi ammirare come ballerine ma ciò non era molto credibile perché nessuno desiderava dimenarsi per tanto tempo, senza contare che il rito richiedeva una spesa notevole per famiglie che non potevano permetterselo.

    Il morso della tarantola

    Adriano affermava che la fantasia dei campagnoli calabresi, eccitata da una esagerata suggestione e fomentata dalle più assurde credenze, continuava ad attribuire alla puntura della lycosa tarantula un grave avvelenamento che si manifestava con la taràntula, una danza convulsiva ed irrefrenabile. Così il volgo chiamava indifferentemente con lo stesso nome sia l’animale che gli effetti del suo morso: L’à muzzicatu ‘a tarantula, è stato morsicato dalla tarantola; e tena la tarantula, è affetto da tarantismo.

    Raffaele Lombardi Satriani aggiungeva che i contadini individuavano la tarantola pecurara e quaddarara: nel primo caso il sofferente doveva ballare al suono della zampogna; nel secondo caso si doveva accompagnare il ballo con una lira o battendo con una mazza su una pentola. Il morsicato doveva indossare vestiti diversi a secondo se il falangio era di color nero o rosso: se il ragno era di color nero, gli abiti della tarantolata dovevano essere neri, perché si credeva che la tarantola fosse vedova; se invece era screziato di rosso, gli abiti dovevano essere di zita o di zitu (sposa o sposo).
    La comare, ritenuta esperta delle segrete cose, aveva un ruolo fondamentale durante il rito: assegnava i compiti ai ballerini, sceglieva le armonie degli strumenti e dirigeva un coro in cui si diceva che la «signora tarantola» aveva trafitto la poveretta al piede e con i piedi sarebbe stata schiacciata.

  • Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

    C’è un filo bizzarro che lega in Calabria il brigantaggio, il Partito Comunista d’Italia, la Resistenza, le Nuove Brigate Rosse e Lotta Continua.
    Non ci crederete: l’Alto Ionio cosentino. Che sulla mappa della Calabria è in alto a destra. In questo caso, andiamo oltre l’immagine geografica. Nel Sud profondo è più intensamente vera (e frequente) la regola della Gauche caviar, per cui le figure apicali della sinistra provengono da ambienti socio-familiari vocativamente di destra.

    Antonio Gramsci

    In principio fu Gramsci

    Andiamo con ordine: la famiglia di Antonio Gramsci, si sa (ma mai abbastanza), proveniva da Plataci e qui aveva vissuto per non poco tempo.
    L’intellettuale-simbolo della sinistra sbagliava, tuttavia, quando scriveva nelle sue stesse lettere che la famiglia vi fosse arrivata soltanto nel 1821.
    Macché Ottocento. Anche i Gramsci – come la maggior parte degli albanofoni calabresi – arrivarono tre secoli prima, durante le massicce e note migrazioni greco-albanesi.
    Il suo trisavolo Gennaro (nato nel 1745 circa) sposava da queste parti l’italoalbanese Domenica Blajotta. Il bisnonno Nicola (nato nel 1769) vi moriva lasciando la vedova calabrese Maria Fabbricatore e un figlio, Gennaro, nato proprio a Plataci intorno al 1830.
    Detto ciò, Gramsci resta di nascita sarda e forse già suo padre Francesco ebbe pochissimo a che fare con l’Alto Ionio calabrese. Però la suggestione è parecchia: una famiglia benestante e borghese dalla quale scaturirà il padre del comunismo italiano.

    Lo stemma araldico su un balcone di palazzo Chidichimo ad Albidona

    Chidichimo: dal latifondo ai briganti e poi le Br

    Proletari di tutto lo Stivale (o quasi) mossi da chi affondava radici nel notabilato arbëreshë. Come non pensare, allora, agli altrettanto albanesi Chidichimo che proprio in quella zona – tra Plataci, Albidona, Alessandria del Carretto – mettevano le basi del loro incontrastato potere latifondiario?
    Vogliamo illuderci che non vi fossero stati legami parentali tra le due famiglie? C’è una montagna di buoni motivi per dubitare. E allora seguiamo in questo filo bizzarro…
    Fine Ottocento: una figlia del potente albidonese don Colantonio Chidichimo, la nobile Maria (ometto la sfilza di nomi), diventa consuocera dell’altrettanto nobile Maria Antonia Andreassi di Amendolara.
    Maria Antonia Andreassi era la blasonata un po’ ribelle che offrì rifugio e copertura ai complici e ai favoreggiatori della banda del brigante Palma (Domenico Straface) di Longobucco.
    Finisce qui? Nemmeno per idea. Le due consuocere diventeranno pure trisavole della sfortunata Diana Blefari Melazzi, più nota ai nostri giorni, ovvero la brigatista che si tolse la vita a quarant’anni, tormentata per altri e molteplici motivi personali e tare antiche, mentre si trovava in carcere per l’omicidio di Marco Biagi.

    Diana Blefari

    Da Ferruccio Parri a Carlo Rivolta

    E la Resistenza? Eccola: il nonno della povera Diana aveva una sorella che divenne nientemeno consuocera di Ferruccio Parri.
    Ma si può fare di meglio. Ad esempio, chiarire il nesso con Lotta Continua. Torniamo alle due antiche consuocere: la Chidichimo era anche sorella del bisnonno del compianto Carlo Rivolta, classe 1949, la penna più brillante di Lotta Continua.
    Qui però fermiamoci un attimo. Altro che origini altolocate in capo a Gramsci… Carlo Rivolta fu l’ultimo rampollo – sfortunatissimo anche lui, per carità – di un piccolo impero fondiario di cui forse, avrebbe dovuto (e certamente potuto) cogliere assai più frutti. Su di lui sono stati scritti saggi e girati dei film. Tuttavia, secondo l’opinione di chi scrive, sembra un uomo dalle occasioni mancate o, meglio, sfruttate malissimo.
    Di famiglia più che benestante (la madre era Isabella Chidichimo, già proprietaria anche della meravigliosa Masseria Torre di Albidona, il padre un ex repubblichino), Carlo Rivolta abbandona gli studi universitari per entrare – grazie all’intervento di sua madre – nell’ufficio stampa di Giacomo Mancini, intorno al 1969.

    Carlo Rivolta

    Carlo Rivolta e l’eroina

    Di lì a Paese Sera e di testata in testata. Sempre con il fare da bohémien onnipotente che lo contraddistingue: capelli lunghi, salopette, zoccoli di legno, orecchino, musica reggae, soggiorni al Chelsea Hotel di New York (nella stessa camera in cui Sid Vicious aveva ucciso tre anni prima la fidanzata) e cani presi in vacanza a San Francisco (optional obbligatori di una Plymouth Satellite station wagon lì acquistata). Ma anche casa ai Parioli, grossissime motociclette, una Citroën DS blu (con la quale per sbaglio investe un tizio che muore sul colpo) e pistola Beretta (perché, diceva, «con i compagni non si sa mai»).

    Scrive per Il Manifesto e, ancora giovanissimo, approda – con un contratto privilegiato – a La Repubblica e infine a Lotta Continua. Eppure è ritenuto di estrazione troppo borghese per l’estrema sinistra, e troppo estremista per i moderati. Carlo Rivolta si lancia così in una lunga inchiesta nel mondo dell’eroina, vissuta in modo tanto zelante da restarne vittima. Lasciò un racconto straziante, di un viaggio suo e della compagna Francesca Comencini (sì, la zia di Carlo Calenda), a Fasano nell’estate del 1981, in cerca dell’eroina da portarsi a casa.

    L’articolo di Rivolta sul sequestro Moro per Repubblica

    Radical chic nella masseria di Rivolta

    Per capirci, nella masseria di Trebisacce, dove avevano lasciato Deaglio e Capuozzo e dove un altro loro amico morì per le esalazioni di gas in una delle antiche casette. Francesca lo ricorderà in un film non proprio straordinario, Pianoforte.
    Morire a 31 anni quando hai il mondo nelle mani non è simpatico ma nemmeno furbo. Ora, un giudizio sulle sue qualità di giornalista? Difficile formularlo. Detto ciò, di Carlo Rivolta si può leggere tanto e niente parrebbe essere questa gran rivelazione.
    Meglio sospendere ogni valutazione. Forse la cosa migliore è quella che il tempo (solo lui?) non gli permise di portare a termine, cioè quel suo vecchio progetto, sul modello di Vincenzo Padula, ma cent’anni dopo, e mai messo in piedi: “Il Catalogo dei cambiamenti del Sud”, una specie di Michelin del sociale. Peccato, Carlo. Peccato.

  • Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    Gissing e il Concordia: il Grand Tour nel cuore di Crotone

    C’è quella epopea culturale che conosciamo con il nome aulico di Grand Tour. Una cosa che sta tutta nei libri, più che nelle sale dei musei, nelle collezioni archeologiche. Mi ero ormai fatto convinto che fuori non fosse durato niente. Neanche uno di quei vecchi cimeli e memorabilia. E con questi, nessun luogo privato o pubblico, custodito a futura memoria. Mi sbagliavo. Qualcosa di quel passato è rimasto. Sorprendentemente vivo e godibile, per chi ne ha voglia, beninteso, ancora oggi. Questo luogo è a Crotone. Nella Crotone un tempo Magna Grecia delle migliori annate, poi scivolata ai nostri tempi nel limbo avvelenato e rugginoso della ex Stalingrado del Sud. E non in museo. Per strada. Nel cuore della Crotone di oggi.

    Se arrivate in piazza Pitagora, appena a ridosso dei popolari quartieri del centro storico, oggi colorato di presenze multietniche e negozi da suk, appena sotto i bastioni del grande castello di Carlo V, vi imbatterete in uno straordinario cimelio vivente della stagione del Grand Tour. Voltato l’angolo, a pochi passi dal Duomo che custodisce l’icona della venerata Madonna di Capo Colonna, e dalla storica Libreria Cerrelli, una nobile libreria indipendente, la più antica della Calabria, frequentata anche da Corrado Alvaro, c’è ancora un vecchio albergo, che fu anche il primo costruito in città.

    Il Concordia a Crotone: da Lenormant a Gissing

    Al civico 12 di piazza Vittoria, con ancora l’ingresso sotto i portici pitagorici che, unici in Calabria, fanno tanto Bologna, troverete oggi, come dal 1880, anno della sua probabile fondazione, al primo piano (il piano originario dello stabile costruito sopra i portici), le circa venti stanze che formavano il corpo del vecchio albergo Concordia. Che a quel tempo, nuovo di zecca, sfoggiava sulla balconata un’elegante insegna trascritta con vezzo francese, Hotel et Restaurant Concordia. Il Concordia in realtà era un albergo «semplice ma comodissimo, senza le finezze dei grandi alberghi, ma con delle camere sufficientemente pulite e discreta cucina». Ad uno straniero di passaggio poteva bastare. Lo descriveva così il suo primo illustre ospite straniero, l’archeologo francese François Lenormant che nel 1881 lo immortala nella sua descrizione di “Crotone moderna”, confluita poi nei tre grossi volumi de La Magna Grecia.

    norman-douglas
    Norman Douglas soggiornò al Concordia di Crotone seguendo l’esempio di Gissing

    Paesaggi e storie. Il Concordia sarà poi lo stesso albergo cittadino puntualmente segnalato per la rara clientela internazionale sulle puntigliose pagine del Murray’s Handbooks for Travellers e sulla celebre guida Baedeker per l’Italia Meridionale. Qualche decennio ancora e il Concordia accoglierà altri ospiti di riguardo tra le sue stanze. Non mancarono l’appuntamento con il Concordia firme come il francese Paul Bourget (1890), l’americano James Forman (1927), i britannici Edward Hutton (1915) ed Henry V. Morton (1969). Ma l’epopea del Concordia la fanno soprattutto due nomi di grandi personalità letterarie – il secondo richiamato qui dal primo. Vi sostarono, a cavallo di Otto e Novecento, due scrittori del calibro dei britannici George Gissing e Norman Douglas. Entrambi giunti a Crotone avventurosamente. Sebbene in condizioni economiche, di salute e con stati d’animo persino opposti.

    La rinascita dopo l’abbandono

    Una targa celebrativa apposta dal Rotary nel 2002 celebra con discrezione gli ospiti illustri passati dall’albergo. Accanto alla targa commemorativa, l’insegna del Concordia (nome celebrativo risorgimentale e post-unitario), coevo alla prima ben proporzionata addizione urbanistica in cui si collocava il nuovo albergo, costituita dalle “due belle strade porticate che tagliano in croce la parte inferiore della città”, è da poco tornata a campeggiare su un angolo della storica piazza Pitagora. Il Concordia è rinato infatti da poco dopo qualche decennio di abbandono e di oblio. Merito della famiglia Pezziniti che ne regge le sorti dalla metà del secolo scorso. Assieme, fa piacere ricordarlo, al più antico caffè-pasticceria di Crotone, il Moka. Anche quest’ultimo ha già di suo più di un secolo di storia cittadina alle spalle.

    gissing-crotone-grand-tour-calabria
    La targa del Rotary

    Al Concordia non aspettatevi riverniciature alla moda, sofisticazioni e arredi di design. L’albergo, dopo qualche lavoro sulle vecchie e solide mura, con le volte riportate a vista, è rimasto praticamente quello di allora. In accordo con la sua atmosfera riposante, accogliente e demodé. Senza pretese, ma un porto sicuro per chi viaggiava, e viaggia, da queste parti. Lo snob aristocratico Norman Douglas, che passò dal Concordia due volte nel corso dei suoi viaggi al Sud, in Old Calabria, nel 1911 ne scriveva con soddisfatta degnazione: «Resto fedele al Concordia, l’edificio è migliorato, il cibo è buono e variato, i prezzi modici; il luogo è di una pulizia perfetta. Vorrei solo augurarmi che certi alberghi di provincia inglesi possano essere all’altezza del Concordia».

    Gissing e il Concordia di Crotone

    All’opposto, non un effimero souvenir di viaggio, ma luogo rivelativo di una più profonda esperienza umana, diventerà il Concordia per un vittoriano solitario, George Gissing, che a Crotone approda nel novembre 1897.
    Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, le regioni dell’estremo Sud della Penisola al tramonto di un secolo che, sotto l’incalzare del moderno, stava definitivamente cancellando anche nelle regioni del Sud più ‘archeologico’, problematicamente unificate al resto della nazione, l’ultimo riflesso dell’antica Land of Romance. «Cosa ne è stato delle rovine della Croton magnogreca? In questa piccola città di provincia, dalla fisionomia spoglia e malinconica, oggi nulla è rimasto visibile della sua gloriosa e trapassata antichità».

    concordia-crotone-insegna
    L’insegna del Concordia, oltre un secolo dopo il pernottamento dello scrittore inglese

    Squattrinato e malfermo di salute, Gissing dedica a Crotone quasi metà del suo libro di viaggio. Restò nelle stanze del Concordia una quindicina di giorni. Giorni, e notti, cruciali. Fermato a Crotone da un improvviso attacco di febbre polmonare, conseguenza della tubercolosi che lo affliggeva sin da giovane, la malattia di cui morì a soli 46 anni in Francia, in uno sperduto sanatorio ai piedi dei Pirenei.

    Riccardo_Sculco
    Riccardo Sculco

    Qui fu salvato dall’intervento provvidenziale di un bravo medico, il dottor Riccardo Sculco che se ne prese cura – «il mio amico dottore» – (Sculco fu poi a più riprese anche sindaco progressista della città), e da poche «gentili e affettuose persone». Che altre non erano se non le cameriere, le povere serve di locanda e le grisettes impiegate al Concordia. «La gente dell’albergo Concordia, nonostante la terribile povertà e rozzezza, si dimostra molto gentile e premurosa nei miei riguardi. Due o tre di queste si presentano di continuo nella mia stanza per vedere come sto e per poter solidarizzare, simpatizzando con me».

    La Calabria più vera dalla bolla dell’albergo

    Il Concordia e la febbre polmonare divennero così il suo punto di osservazione sulla città. Il ritratto che fa della popolazione cittadina e della gente che in albergo si occupava di lui e dei clienti, è il cuore stesso di Verso il mar Ionio, la sua più autentica e inaspettata iniziazione al Sud povero. Una Calabria dal vero in cui egli si aggirerà spaesato, fra le quinte di un paesaggio naturale e umano reso ancora più surreale dalla malattia, inasprito dalla storia e dalle circostanze personali.

    Sarà tuttavia questo per lui l’esame di realtà più perspicace, l’esperienza dell’altrove più fertile e umanamente partecipe, l’impressione vitale meno libresca e astratta. Precipitato in una condizione di estremo pericolo, solo, debole e malato, si rimette a ciò che fatalmente può accadergli lì, tra quella mura, in mezzo a gente estranea. Questione di vita o di morte: «Avevo la febbre. Quella febbre. La situazione si faceva grave, più grave che mai, e mentre la febbre continuava a salire, ebbi un solo pensiero: piansi amaramente la circostanza beffarda che quella ricaduta della mia malattia fosse sopraggiunta tra capo e collo proprio lì dove mi trovavo adesso. Poteva accadere ovunque: ovunque ma non a Cotrone». Eppure…

    crotone-panorama
    Una cartolina di Crotone con un panorama d’epoca

    Ciò che Gissing ricorda e scrive in quelle circostanze estreme, nonostante lo spettro incipiente della morte, suona sempre affettuoso, ironico e disincantato, intriso di un’umanità curiosa e bonaria. Eppure la realtà da cui veniva sopraffatto poteva apparirgli persino crudele.
    Sul Concordia, poi, salta fuori ben altro. «A giudicare dalla monotonia e dalle ristrettezze del menù servito ai tavoli del ristorante, il tenore di vita medio in città doveva essere ben misero e stentato. Le pietanze da portata e i pochi piatti che erano in lista componevano un menù meschino, poverissimo e ripetitivo. E peggio ancora, era tutto cucinato in un modo infame. Il vino del posto, un vinaccio locale, non aveva nulla di raccomandabile. Era molto forte, impossibile da reggere, e sentiva più di narcotico che di succo d’uva».

    Dieci giorni d’angoscia e scoperte

    Seguono dieci fatali giorni di infermità al Concordia, in compagnia dell’angoscia. «Mi sembrava una beffa davvero miserabile ritrovarmi qui e giacere ora immobile e ammalato di tisi sulle rive del Mar Ionio. Una vera sfortuna. Non poter uscire di nuovo a veder brillare il sole caldo in un cielo tanto più bello e migliore di quello del lontano Nord». Ma con la malattia si apre anche la porta di una diversa percezione dell’umanità circostante:

    «La gente della casa, l’intero personale, dagli sguatteri di cucina alla padrona dell’albergo, sarebbero apparsi, ne sono certo, poco più che dei selvaggi. Sporchi nella persona e sotto ogni riguardo, di abitudini maleducate, assolutamente rozzi nel loro contegno, sempre a litigare e a inveire l’uno contro l’altro, e peggio sommamente privi di ogni necessaria qualificazione o attitudine per i compiti che in quel pubblico esercizio sostenevano di svolgere. In Inghilterra basterebbe l’aspetto sciatto con cui si presentano a far rivoltare di disgusto un pubblico di inflessibili moralisti e benpensanti. Tuttavia, facendo appello alla mia migliore buona volontà e conoscendoli meglio, un po’ alla volta la mia disposizione d’animo verso di loro mutò decisamente.

    cosenza-colta-accogliente-non-per-i-viaggiatori-i-calabresi
    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Superando la distanza con cui potevo giudicarne la miseria e le azioni per me incomprensibili, ho poi scavalcato anche la prima fase di insofferenza per quella gente così diversa da me. Ho visto il loro lato buono e ho imparato a perdonarne i difetti, conseguenza naturale di uno stato di autentica arretratezza e di primordiale miseria. Ci vollero due o tre giorni buoni e molta pazienza prima che il loro comportamento rozzo e sbrigativo, le maniere brusche e indelicate, si ammorbidissero verso di me in cordialità: una cordialità veramente umana, priva di formalismi ma autenticamente disinteressata.

    Fu proprio quello che avvenne. Quando si seppe che non avrei dato loro soverchie seccature, che avevo bisogno solo di un po’ di attenzione in più per la mia salute precaria, e in materia di cibo e cure, la buona volontà e la simpatia umana di quella buona gente ebbero la meglio per aiutare scarsità irrimediabili e l’inettitudine senza speranze».

    Meglio morire in Calabria che a Londra

    Gissing sembra così divenire via via più consapevole nella bolla del Concordia del legame indivisibile che intercorre nelle relazioni umane tra persone e luoghi. Un sentimento dell’altrove persino più significativo di quello determinato dalla conoscenza delle vicende storiche o da percezioni di ordine squisitamente estetico. Solo l’esperienza del “luogo”, in forza del suo carattere determinato, permette di conoscere più a fondo l’individuo in rapporto con l’ambiente. Solo attraverso essa si coglie tutta la potenza di questi condizionamenti. Gissing è un uomo di educazione classica, tollerante, di mentalità aperta, persino ironico e lungimirante. L’immersione nel paesaggio umano di cui è ospite al Concordia in questi frangenti del suo viaggio al Sud, ne faranno davvero un uomo diverso.

    shoreditch-1868
    Londra, 1868: una strada del quartiere Shoreditch

    A distanza di anni, ricordando l’angoscia della malattia patita a Crotone, rifletteva così: «Ammetto, tuttavia, che allora quel pensiero di morte mi fece soffrire molto più di adesso che ci penso. Dopotutto, resto convinto che un povero di Cotrone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E pensai comunque che per me, dopotutto, sarebbe stata comunque cosa più grata morire lì in un tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace».

    Lo straniero

    Lirico e malinconico, il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing così alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile degli incontri umani, dei luoghi e delle persone, che popolarono il suo viaggio. Come quella povera serva del Concordia – «un essere umano che a fatica potrei chiamare donna», che ad un certo punto, “al capezzale del mio letto da infermo, cominciò a rivolgersi a me in modo incomprensibile, con rabbia, urlando nel suo dialetto oscuro e fangoso. Passò un minuto o due di terrore, prima che riuscissi a cogliere il senso di quel suo sfogo furibondo, incomprensibile e addolorato. Mi chiedeva, agitata e piangente, se era giusto che una “povera cristiana” venisse maltrattata così, dopo aver “tanto, tanto lavorato!”.

    Quello sfogo piangente e belluino era il suo modo di fare appello alla mia simpatia, di muovermi a compassione umana per la sua povera storia, per quella vita miserabile: non era venuta di sicuro a maltrattarmi. No. Voleva solo che il signore malato, lo straniero, l’ascoltasse. Che qualcuno come me le desse per una volta ragione della sua condotta, di tutta quella sofferenza ingiustamente patita. Dopo pochi istanti il peso esorbitante di quel suo dolente resoconto si impadronì di me. Era come se una povera bestia da soma schiacciata dalla fatica, sotto un carico insopportabilmente pesante e vessatorio, avesse improvvisamente trovato la strada per tradurre in un rudimentale linguaggio, inarticolato e ancora subumano, la sua ribellione sbraitata contro il destino infelice a cui era stata condannata dalla sua condizione di oppressa.

    Concordia-Rooms-B-B-Crotone-Exterior
    Una stanza del Concordia oggi. Sulla parete, il ritratto di uno dei suoi primi ospiti illustri: François Lenormant

    La ascoltai a lungo. Si calmò, infine. Scrutai tra le pieghe di quel viso affranto, tra i segni di quel volto corrugato e malinconico, scavato dalla fatica e dallo sconforto. In qualche misura i miei sforzi di rendermi partecipe del suo disagio, quel mio dare ascolto alle sue sofferenze senza infingimenti, di parlarle con calma rispondendole gentilmente, riuscirono. Alla fine del nostro colloquio, la donna si voltò per andarsene via, mi guardò e mi disse ancora per una volta sospirando, “Ah, Cristo!”. Quell’ultima esclamazione fu pronunciata con un accento più dolce, con un po’ di sollievo. E non risuonò, mi parve, del tutto priva di gratitudine».

    Il posto più vicino al paradiso

    Sorprendentemente, nonostante quel che gli accadde, per Gissing proprio la Calabria povera e malvissuta del 1897, da poco unificata al resto dell’Italia, si rivelerà «dopotutto, il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere». Non a caso proprio tra le stanze e dopo l’incontro con la gente del Concordia Gissing conclude le sue riflessioni sulla verità del suo viaggio e dei suoi incontri con l’umanità dimessa e povera che popola anche i recessi più irrilevanti e svisti dell’estremo Sud di cui farà dopotutto una paradossalmente lieta e assillante esperienza umana, con un rimprovero, infine. Ma rivolto a se stesso: «Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?».

    Un parco culturale per Gissing nel Concordia di Crotone

    Fanno bene gli attivisti di Italia Nostra di Crotone a chiedere di estendere il vincolo di Bene culturale a difesa della memoria vivente del Concordia. E a progettare, a partire da quelle stanze fatidiche, insieme al Comune di Crotone, un Parco Culturale da dedicare a George Gissing e ai suoi compagni di viaggio e ospiti crotonesi del Concordia. Basta per capirne il fascino dormirci dentro una notte, in compagnia dello spirito benigno del vittoriano solitario.
    È proprio vero come scriveva già Norman Douglas, che tra le mura del Concordia è rimasto per sempre qualcosa di speciale: «L’ombra di George Gissing aleggia ancora in quelle stanze e in quei corridoi». Provate a passare dal Concordia, la sentirete anche voi.

  • Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    Manna: l’oro bianco della Calabria tutto per il re e gli stranieri

    La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
    La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.

    La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio

    Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.

    Incisioni su un albero per la raccolta della manna

    Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
    Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.

    Guai a chi la tocca

    I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
    Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:

    «Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.

    Meet-a-manna-producer
    Un produttore di manna dei nostri giorni

    Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».

    Le incisioni sugli alberi

    Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.

    frassino_ornus_manna
    Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna

    Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».

    La manna in Calabria: falsi miti e segreti

    L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.

    manna-calabria
    Manna raccolta ai piedi di un albero

    La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».

  • Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Puma d’oro e d’amuri: così il pomodoro si è preso la Calabria

    Al pomodoro, chiamato anche mela insana e mela aurea, erano attribuite proprietà afrodisiache e, secondo alcuni, era impiegato in filtri magici per favorire relazioni amorose. In diverse zone del Sud era consuetudine chiamarlo puma d’amuri o puma d’oro, probabilmente ricollegandolo al mitico pomo d’oro destinato alla più bella tra Venere, Giunone e Atena.

    Rubens_-_Judgement_of_Paris
    Giudizio di Paride, dipinto da Pieter Paul Rubens intorno al 1638

    In passato, però, i pomodori avevano una cattiva reputazione per le proprietà organolettiche. Nel Seicento, studiosi come Benzo, Durante e Mattioli scrivevano che davano scarso nutrimento. E che, una volta maturi, si potevano consumare solo se conditi con pepe, sale e olio, perché «dolciastri e disaggradevoli».
    Soderini, in un noto trattato del 1851 su orti e giardini, nonostante i pomodori ormai si coltivassero ovunque, sosteneva che non fossero buoni da mangiare «ma solo si poteva cercarne d’avere per bellezza».

    Il pomodoro si fa largo

    Ma ignorando le raccomandazioni dei botanici, spinti dalla fame e dal bisogno, superando qualsiasi diffidenza o paura, i contadini piantavano i pomodori. E alcuni cuochi cominciarono a utilizzarli nei loro piatti. Per conferire un bel rosso alla «zuppa alla mosaica», i cuochi consigliavano di usare salsa di pomodoro setacciata e in inverno pomodori secchi tritati o «quelli in bottiglia». Alcuni suggerivano un «timpano» formato da strati di pomodori crudi e vermicelli freschi con sale, pepe e olio, strutto o butirro.piante-pomodoro-semina

    Nel Settecento si faceva la conserva di pomodori «solida» e «liquida». Quella solida si otteneva bollendo i frutti maturi in una caldaia con chiodi di garofano, pepe, cannella e sale. Una volta tolti semi e bucce, si facevano ribollire sino a ridurli a una pasta densa con la quale si formavano dei «bastoncelli».
    Quella liquida si preparava lessando i pomodori, riducendoli a marmellata e mettendoli in barattoli di terra verniciati e ricoperti d’olio.

    Reggio esporta, Catanzaro fa polpette

    In Calabria il pomodoro si seminava in diversi territori tanto da essere citato in una statistica del 1805 come l’unica pianta «americana» messa a coltura nella regione.
    Negli anni seguenti i contadini cominciarono a coltivare i pummadori in maniera intensiva. I più comuni erano quelli a «frutto piccolo rotondo», utilizzati per la salsa, e quelli «a pruno» che si appendevano e duravano sino a primavera. Si usava anche spaccarli a metà, coprirli di sale, seccarli al sole e infilzarli formando delle corde. Oppure tagliarli, salarli, metterli in un vaso per quattro giorni, passarli al setaccio, aggiungere chiodi di garofani, lasciarli al sole e, una volta asciutti, metterli in vasi vetrati.

    pomodorini_calabria-valbona6-1000x573
    Pomodori in essiccazione sotto il sole

    Verso la metà dell’Ottocento, negli orti di Reggio Calabria la coltura predominante era quella dei pomodori, sia perché si prestavano bene alla rotazione dei terreni, sia perché si vendevano in gran quantità nella vicina Sicilia.
    In un noto manuale di cucina del 1819 il pomodoro era utilizzato nelle «polpette alla catanzarese», simili agli odierni involtini di carne. Si consigliava di scegliere un pezzo di manzo e levare accuratamente «pelli» e nervi. Quindi, tagliarlo a fette sottili e stendervi un impasto di lardo tritato, provatura «marzolina» a dadi, pepe, noce moscata, zibibbo senza «pipini» e prezzemolo. Le fettine si arrotolavano, si legavano con un filo e si cuocevano in una «cazzarola» con lardo, prosciutto, cipolla, erbette e un pezzo di butirro. Una volta colorite, alle «polpette» si aggiungeva un po’ di farina, mezzo bicchiere di vino bollente e si copriva il tutto con brodo di carne o sugo di pomodoro. A fine cottura, occorreva scolare, togliere il filo e sistemare gli involtini nel piatto coperto con salsa ben «disgrassata» e passata al setaccio.

    Il pomodoro nel… passato

    I pomodori nelle case contadine erano adoperati in minestre, zuppe o insalate, mentre sulle mense dei ricchi erano serviti ripieni di carne o pesce. Dopo aver tolto la pelle e i semi calandoli nell’acqua bollente, si farcivano con carne «passata e pesta» e si cuocevano in un colì di vitello. Erano serviti anche ripieni di salpicón di animelle, erbette e spezie e, una volta infarinati e dorati, rosolati al forno con parmigiano e butirro. Altri cuochi imbottivano i pomodori con un impasto di burro, gialli d’uova, «provatura» grattata, cipolla, acetosa, targone, menta, prezzemolo, sale e pepe, li friggevano e li coprivano con un colì di prosciutto condito con erbe. Altri ancora li riempivano con rognonata di vitello arrostita e tritata, gialli d’uova, formaggio e spezie. Dopo averli infarinati, passati nel pane e parmigiano grattato, friggevano l’intingolo nello strutto e lo servivano con crostini.

    In alcune zone si usava spezzettare la polpa del pomodoro, aggiungere spezie, noce moscata, butirro, ricotta e gialli d’uova, formare crocchette della lunghezza di un dito, infarinarle e friggerle. Certi cuochi mischiavano la polpa del pomodoro con butirro, spezie, parmigiano, pane grattato, polvere di cannella, gialli d’uova, panna di latte, zucchero di canna, corteccia di portogallo e, una volta ridotta a crema si faceva assodare al forno in una casseruola unta di butirro e spolverata con pan grattato. Altri farcivano i pomodori con un colì di gamberi, acciughe ed erbette, condendoli con olio e salsa di tartufi, oppure riempiti con un trito di acciughe, prezzemolo, origano e aglio, insaporiti con sale e pepe, coperti con pan grattato e cotti al forno.

  • Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Antonio Serra: il galeotto che inventò l’economia moderna

    Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi.
    Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
    Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
    Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.

    antonio-serra-vita-misteriosa-papà-economia-moderna
    Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato

    L’attualità del pensiero di Antonio Serra

    Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
    L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
    Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
    In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?

    autonomi-differenziata-vittorio-daniele-sciagura-sud
    Vittorio Daniele

    In fondo al Mediterraneo

    Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
    L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
    Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
    Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.

    Antonio Serra pioniere dell’economia politica

    Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
    In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
    Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
    Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.

    antonio-serra-vita-misteriosa-papà-economia-moderna
    Un busto di Antonio Genovesi

    L’economia dopo Antonio Serra

    Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
    Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
    La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
    Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
    L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727).
    Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…

    Vita misteriosa di Antonio Serra

    Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
    Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
    Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
    Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
    Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
    L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
    In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.

    antonio-serra-vita-misteriosa-papà-economia-moderna
    Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli

    Un capolavoro dalla galera

    Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
    In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
    Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
    Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.

    L’economista Erik Reinert

    Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto

    È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
    Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
    Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino.
    Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegese Erik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
    Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
    Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    Reggio e la lezione di Resistenza di Napoli e Loy

    QUESTO FILM È DEDICATO ALLA MEMORIA DEL DODICENNE, MEDAGLIA D’ORO, GENNARO CAPUOZZO, AL VALOROSO POPOLO NAPOLETANO ED A TUTTI GLI ITALIANI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ.

    Con questa scritta, coi caratteri proprio in maiuscolo, si chiude il film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, prima proiezione del ciclo “Resistenza e Resistenze” organizzato dalla sezione ANPI C. Smuraglia di Reggio Calabria e dal circolo Arci Samarcanda, in collaborazione con il circolo Zavattini. «Quattro proiezioni – secondo la presidentessa del circolo ANPI Giuliana Mangiola – per riflettere sulla Resistenza come opposizione ad ogni azione tesa a calpestare i diritti della persona, i valori della libertà e della democrazia. Una rassegna che vuole denunciare quelle forme di sopraffazione con le quali l’altro non è più il prossimo ma il mezzo, lo strumento utile per ottenere potere e affermazione».

    Le Quattro giornate di Napoli: la resistenza si allarga

    Del film, e del suo grande valore artistico, abbiamo parlato col presidente del circolo Zavattini, Tonino De Pace, e ne riferiremo più avanti. Prima vogliamo invece analizzare l’oggetto dell’opera, l’episodio dal punto di vista storico. E chiederci anche il motivo per il quale esso non abbia avuto la rilevanza che avrebbe certo meritato.

    quattro-giornate-napoli-scontri
    Un momento delle Quattro giornate di Napoli

    Nel suo manuale di Storia contemporanea il reggino Rosario Villari riporta così le Quattro giornate di Napoli: «A Napoli, intanto – una città che aveva subito nel modo più tragico le conseguenze della guerra, dei bombardamenti aerei, della penuria alimentare e dello sconvolgimento della vita civile – la popolazione, esasperata dalle violenze e dalle angherie delle truppe tedesche, insorgeva battendosi valorosamente e vittoriosamente nelle strade per quattro giorni (27-30 settembre 1943). Era uno dei primi episodi della Resistenza italiana, che coincideva con una diffusa presa di coscienza antifascista in tutto il paese e con la trasformazione dell’antifascismo da atteggiamento di gruppi relativamente ristretti in un vasto movimento di massa».

    La città liberata senza aiuti esterni

    Nel Dizionario di Storia de Il Saggiatore alla voce “Quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943)” troviamo questa descrizione: «Episodio di resistenza armata contro l’occupazione tedesca, alla vigilia dell’arrivo delle truppe anglo-americane. L’insurrezione non fu organizzata da un centro militare e politico ma fu la somma di molte iniziative individuali o di gruppo, anche di giovanissimi; vi morirono sessantasei cittadini, tra cui undici donne». Non è poco.
    Villari segnala che l’episodio è uno dei primi della Resistenza italiana. Dà anche conto di un suo tratto peculiare, la spontaneità, e sottolinea il valore dei napoletani che vi aderirono. Nel Dizionario, le Quattro giornate di Napoli sono traslate di un giorno, ma nel complesso, per lo spazio loro destinato, si deve tener conto che esso contiene 12.000 voci relative a tutta la storia del mondo intero.

    Rimane un dato, incontestabile. Come abbiamo già scritto, il popolo italiano sa poco o nulla di una delle pagine più belle della lotta degli Italiani per la libertà. Dal 27 al 30 settembre del 1943, Napoli diede dimostrazione, con scarsissimi mezzi e altrettanto scarsa o nulla organizzazione, che era possibile scacciare i nazifascisti dalla città, tanto da presentarsi il giorno dopo, all’arrivo delle truppe alleate, già liberata. E tanto da meritarsi due medaglie d’oro al valor militare, una conferita alla città e una alla memoria di un ragazzino di neanche 12 anni, Gennaro Capuozzo.

    Gennarino Capuozzo e le Quattro giornate di Napoli

    Gennarino era nato nel 1932 in una delle case tipiche del centro storico di Napoli, nella quale abitava con i suoi cinque familiari. Suo padre era stato mandato in guerra nel 1941 e lui dovette darsi da fare per il sostentamento suo, della madre e dei tre fratelli. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, con il Re e Badoglio al sicuro a Brindisi, il Regio Esercito è abbandonato a se stesso, non sa più chi sono i nemici da combattere. I nazisti occupano Napoli e, giorno dopo giorno, aumentano la pressione sulla popolazione con angherie e soprusi di ogni genere. Gli alleati sono sbarcati a Salerno, ma la città non può aspettare perché il comandante cittadino dei nazisti assume il 12 settembre i pieni poteri, ordinando alla popolazione di consegnare le armi.

    napoli-quattro-giornate-sgombero
    Lo sgombero della fascia costiera da parte dei nazisti

    Il 22 i nazisti istituiscono un servizio di lavoro obbligatorio per i cittadini dai 15 ai 30 anni e impongono lo sgombero della fascia costiera. Il 27 i Napoletani iniziano ad attaccare i tedeschi con armi di ogni genere, ad alzare barricate, ad assalire i mezzi che trasportano prigionieri italiani. Tra gli insorti ci sono donne e bambini. Il giorno seguente i carri armati tedeschi, mandati dal comandante a fronteggiare la popolazione, sono fermati a a Capodimonte dai partenopei coi cannoni sottratti in precedenza agli occupanti. Messi alle strette, i tedeschi si arrendono e il 30 lasciano Napoli. Nella prima mattinata del 1° ottobre gli alleati entrano nella città, la prima a liberarsi da sola, senza l’aiuto di nessuno se non della dignità messa sotto i loro stivaloni dai nazisti.

    Due medaglie al valore

    Nella Storia collettiva, quella individuale ed eroica di Gennarino Cappuozzo. È il 28 settembre quando Gennarino si aggrega a un gruppo di ragazzi scappati dal carcere minorile che combatte contro i nazisti. Il 29 Gennarino Capuozzo e i suoi compagni decidono che la morte di 10 persone, uccise in un quartiere poco lontano, va vendicata. Avvistano un mezzo tedesco e lo attaccano. Il camion prova a scappare, ma Gennarino gli si avvicina e getta una bomba a mano contro il mezzo militare. Si avvicina e intima ai tre occupanti di scendere. E li fa prigionieri! Gennarino si sposta in un’altra zona della città. Qui, armato di mitragliatore e bombe a mano, si scaglia contro un carro armato. Una granata, a questo punto, mette a tacere per sempre il suo ardimento. Lo raccolgono col volto devastato e una bomba ancora stretta nel pugno.

    Gennarino-Capuozzo
    Gennarino Capuozzo

    La medaglia d’oro verrà consegnata alla madre, con una pergamena dove si legge: «Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo». L’altra medaglia verrà attribuita alla città di Napoli, che «col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
    Questi i fatti che dovrebbero essere conosciuti, al pari di tutti gli eventi che hanno restituito la libertà e consegnato una vera democrazia all’Italia.

    I dimenticati: Nanni Loy e le Quattro giornate di Napoli

    Nanni Loy ha il merito di averli rappresentati magistralmente nella sua opera del 1962, che si segue dal primo all’ultimo fotogramma col fiato sospeso. «Nanni Loy – ci dice Tonino De Pace – è uno dei tanti registi che dopo la scomparsa l’Italia e il suo cinema hanno dimenticato abbastanza in fretta. È stato un regista molto attento alle regole dello spettacolo, ma al contempo anche un geniale innovatore. Il suo Specchio segreto, con l’allora sconosciuta (in Italia) candid camera, ha contribuito a rivoluzionare il mondo della televisione».

    le-quattro-giornate-di-napoli-foto
    Una locandina del film di Nanni Loy

    «Il film – afferma il presidente del circolo Zavattini – è uno dei pochi che raccontano la Resistenza al Sud e ha contribuito a rendere vivo il ricordo dell’insurrezione napoletana. Con la sua coralità reinterpreta lo spirito solidale della Resistenza. Protagonista del racconto è la città stessa con i suoi popolani, con le microstorie che compongono il quadro di un racconto drammatico che prende le mosse dal soggetto di Vasco Pratolini e dal libro, edito nel ’56, del giornalista Aldo De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli. Napoli e il suo popolo di scugnizzi ed eroici combattenti sono al centro della scena, con i loro volti e i loro drammi personali che si sommano a quelli della guerra».

    «Nanni Loy – continua De Pace – ha realizzato un film avvincente, dal ritmo sostenuto, sorretto da una schiera di attori di primo piano: Gian Maria Volontè e Lea Massari, Jean Sorel e Aldo Giuffrè, e ancora le grandi Pupella Maggio e Regina Bianchi, un giovane Enzo Cannavale e Carlo Taranto. Un film che, a dispetto del suo valore culturale e cinematografico, critica e istituzioni hanno ingiustamente dimenticato quando, invece, riveste un ruolo centrale nella storia del nostro cinema proprio per essere uno dei pochi che racconta la Resistenza del Sud, ignorata o quasi, a sua volta, al pari del film di Loy, che la valorizza e la tramanda».
    Insomma, un film da vedere, per il suo valore artistico e per avere una lettura e una conoscenza più complete della Resistenza italiana al nazifascismo.