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  • Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Di Aulo Giano Parrasio si sa molto. Ma non tutto quel che si sa è preciso.
    Ad esempio, il luogo di nascita, che di solito è autorevolmente indicato in Figline Vegliaturo, un paese di poco più di 1.200 abitanti a sud-est di Cosenza.
    Tuttavia c’è chi ipotizza che il luogo di nascita dell’intellettuale cosentino fosse, invece, Serra Pedace, che ora fa parte di Casali del Manco e non confina neppure con Figline. E non manca chi pensa a Cosenza.
    Più certi il giorno di nascita, 28 dicembre 1470, e i dati familiari, che forniscono un identikit socio-economico piuttosto dettagliato di Parrasio.
    Nato come Giovanni Paolo Parisio, il Nostro era figlio di Tommaso, un giurista molto apprezzato e discendente dei feudatari di Figline, e della nobildonna Bernardina Poerio.
    Si tratta, nel suo caso, di una nobiltà decaduta, in seguito alle lotte feroci tra angioini e aragonesi, e costretta a riciclarsi nelle professioni liberali.

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    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Parrasio umanista mediterraneo

    Per papà Tommaso la scappatoia è la laurea “in Utroque”, per Giovanni Paolo, invece, è la filologia.
    Infatti, va a lezione di latino e greco da Crassio Pedacio e da Tideo Acciarino Piceno, un illustre studioso marchigiano arrivato a Cosenza nel 1880 al servizio dei Sanseverino e rimastovi per dieci anni.
    Poi, come tutti i rampolli delle famiglie bene, cambia aria e va prima a Lecce e poi a Corfù, per approfondire il greco. Quindi ritorna a Cosenza, dove prova ad aprire una scuola sull’esempio dei suoi maestri. Ma, evidentemente, le cose non vanno troppo bene. Ed ecco che Parisio, il quale nel frattempo ha latinizzato il suo nome in Parrasio, cambia di nuovo aria e nel 1491 va a Napoli. E lì scopre un mondo.

    La cultura al Sud

    A questo punto, serve una piccola operazione verità. Innanzitutto, non è vero che nel medioevo la cultura classica fosse scomparsa.
    Si era, più semplicemente, inabissata la letteratura greco-romana. Ma il latino e il greco sopravvivevano, anche a livello di massa, perché i due più grandi best seller dell’epoca erano scritti in latino e greco. Ci si riferisce alla Bibbia e al Corpus Juris Civilis.
    Ancora: nel Sud Italia il greco restava piuttosto diffuso, sia nelle classi colte sia a livello religioso. Si pensi, giusto per fare un esempio, al ruolo del monaco basiliano Barlaam di Seminara (che, tra le varie, fu anche maestro di Boccaccio).
    Il Sud, a cavallo tra medioevo e rinascimento, è ancora un territorio importante e conteso: è il centro del Mediterraneo, ancora non “scavalcato” dalle rotte atlantiche. Napoli e Palermo sono due capitali di tutto rispetto che surclassano Roma e non hanno nulla da invidiare a Firenze. Le élite meridionali sono in genere aperte e cosmopolite e scommettono non poco sulla cultura. Parrasio è uno degli ultimi esponenti di questa nobiltà che lancia le ultime fiammate prima di declinare.

    Il monaco Barlaam di Seminara

    Parrasio nella Napoli degli Aragona

    Vuoi per le origini nobili, vuoi per sensibilità culturale della nobiltà napoletana, vuoi perché Napoli è accogliente, Parrasio si sente subito a casa.
    Si lega a Giovanni Pontano, un umanista umbro al servizio degli Aragona. Pontano vuol dire senz’altro cultura: riscuote un grande successo nei circoli “dotti” ed è il fondatore dell’Accademia Pontaniana. Ma significa anche politica.
    Parrasio approfitta di entrambi gli aspetti: entra nell’Accademia e, soprattutto, a corte, dove riceve la protezione di re Ferdinando II di Aragona, che lo riempie di riconoscimenti e quattrini.
    Troppo bello per essere vero? Forse. Soprattutto, troppo bello per durare: Ferdinando muore nel 1496 senza eredi. Gli succede lo zio Federico, che di sicuro non simpatizza con lo staff del nipote. Infatti, l’intellettuale cosentino abbandona Napoli e si rifugia a Roma. Ci resta giusto il tempo di farsi notare dal clero-che-conta e, soprattutto da Pomponio Leto, un umanista che lavora per il papa ma vuole restaurare la religione imperiale. Leto iscrive Parrasio nella sua Accademia Romana. Per fortuna sua, quest’ultimo lascia la città dei pontefici per tempo, cioè nel 1498. Altrimenti sarebbe finito nella retata dei papalini contro l’Accademia.
    La meta successiva di Parrasio è Milano. Un must per i calabresi di tutti i tempi…

    Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli e duca di Calabria

    Parrasio e i veleni tra intellettuali

    Il cosentino arriva nella Milano degli Sforza, dove domina Ludovico il Moro, a inizio 1499.
    Qui conosce Alessandro Minuziano, un foggiano di origini oscure, che fa l’editore. In realtà, Minuziano è un superfaccendiere. Filologo geniale e – secondo i critici – un po’ arronzone, il pugliese gestisce una biblioteca e un pensionato di studenti. Ha buone entrature a corte, ma fa troppe cose. Perciò ha bisogno di un collaboratore.
    Assume quindi Parrasio, di cui nota l’estrema abilità nella scrittura latina, e lo usa come ghost writer.
    Tuttavia il rapporto tra i due si incrina, a causa di un terzo incomodo: il cattedratico Emilio Ferrario, che disistima Minuziano e non lo nasconde affatto. Anzi, arriva ad accusare il pugliese di aver stravolto Cicerone e si fa beffe di lui con dei versi micidiali.
    Parrasio, all’inizio si schiera con Minuziano.

    Una carriera in ascesa

    L’arrivo dei francesi a Milano cambia le carte in tavola. Ferrari, legatissimo agli Sforza, deve lasciare la città e la cattedra di Eloquenza. Parrasio, che gode del favore dei francesi, ne prende il posto. E inizia a far concorrenza al suo ormai ex mentore.
    Minuziano, che evidentemente è la classica malalingua, mette in giro calunnie pesantissime. A suo dire, Parrasio sarebbe scappato da Napoli perché colpevole di omicidio. E non basta: lo accusa anche di pederastia.
    Ma il cosentino, per quanto amareggiato, tira dritto. Anzi, si lega all’ateniese Demetrio Calcondila, una specie di Machiavelli dei Balcani rifugiatosi a Milano in seguito a gravi problemi politici, e ne sposa la figlia Teodora. E ottiene la protezione di Étienne Poncher, vescovo di Parigi e membro influente del Senato meneghino.

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    Demetrio Calcondila

    I meriti di Parrasio

    Un piccolo intermezzo per rispondere a una domanda banale: quale fu l’importanza vera di questa generazione di umanisti, di cui Parrasio fu la classica punta di diamante?
    Con non poca retorica, parecchi storici attribuiscono a questi intellettuali il merito di aver recuperato il meglio della cultura classica.
    In realtà, le cose sono più complicate, perché quella cultura non era mai andata persa. L’aveva salvata la Chiesa, in particolare i monaci, che per secoli avevano copiato e conservato manoscritti.
    Parrasio e i suoi colleghi hanno, semmai, un altro merito: la divulgazione di questa cultura in chiave laica. E attenzione: a questo processo non è estranea la stessa Chiesa, che si serve volentieri dell’opera di questi umanisti.
    Lo prova il rapporto tra Parrasio e Poncher. Grazie ai buoni uffici del vescovo francese, il cosentino cura le riedizioni di Ovidio e Claudiano ed entra nei giri politici che contano. Ovviamente, questo tipo di rapporti tra Chiesa e intellettuali contiene il classico boccone avvelenato: questi filologi laici sono più spregiudicati e pubblicano di tutto, a partire dai presocratici e proseguendo con opere esoteriche.
    Questa spregiudicatezza darà le basi al pensiero filosofico successivo, che prenderà direzioni di rottura con il sistema ecclesiastico (Telesio) o sconfinerà nell’eresia e nell’anticlericalismo (Campanella), con conseguenze a volte tragiche (Bruno). Ma questa è un’altra storia.

    L’odierna piazza Parrasio, nel centro storico di Cosenza

    Parrasio intellettuale girovago

    A Milano l’aria diventa pesante per Parrasio: Poncher è richiamato in Francia. Gli subentra Jeoffroy Charles, che prende a benvolere il cosentino, ma ha meno potere per tutelarlo.
    Per questo, Parrasio decide di tagliare la corda. Girovaga tra Vicenza, Pavia e Venezia. Poi, stanco e acciaccato dalla gotta, nel 1511 torna a Cosenza con molti libri e pochi quattrini. Perciò, per sbarcare il lunario fonda una scuola privata: è l’Accademia Parrasiana. Questa istituzione ha un bel successo che, forse, va oltre le intenzioni del fondatore: una generazione dopo la prende in mano Telesio e la ribattezza Accademia Telesiana. Poi la gestione passa a Sertorio Quattromani, che le dà il nome con cui è tuttora nota: Accademia Cosentina.
    Ma i quattrini scarseggiano e il Nostro deve rimollare Cosenza. Stavolta per Roma, dove papa Leone X gli affida una cattedra di eloquenza.
    Stavolta Parrasio non ha nemici, tranne la salute, che lo costringe a tornare a Sud, prima a Napoli, dove gode della protezione di Isabella d’Este, infine a Cosenza, dove arriva moribondo e si spegne il 6 dicembre 1821.
    Ha cinquantuno anni portati malissimo e, alle spalle, un’esistenza passata tra biblioteche e politica che ne vale almeno quattro.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    In una delle sale che si aprono accanto alla sagrestia di San Domenico a Cosenza, ambienti antichi ma piuttosto rimaneggiati e ingombri, vedo appesa alla parete una stampa. Ne ho una uguale a casa, una riproduzione dell’immenso convento domenicano di Soriano Calabro, nel Vibonese, prima che fosse distrutto ripetutamente dai terremoti. Oggi a Soriano è ancora leggibile il perimetro gigantesco dei chiostri, che si estendevano intorno alla chiesa superstite, ricavata da uno dei transetti della grande costruzione originaria.

    San Domenico e gli Oblati: missionari a Cosenza

    La Calabria è costellata di rovine gloriose. Il convento di San Domenico a Cosenza ha superato i secoli, le inondazioni, le requisizioni che l’hanno trasformato in caserma, con interventi arbitrari sulla struttura e dispersione degli arredi. Ma è ancora in piedi, a pochi passi dalla confluenza dei fiumi Crati e Busento, uno dei luoghi più suggestivi della città.
    Da anni i padri domenicani sono andati via. Sono arrivati a sostituirli gli Oblati di Maria Immacolata, una congregazione nata in Francia, nell’Ottocento, e diffusa in tutto il mondo, perché sono dei missionari. Evidentemente hanno deciso che a Cosenza c’era bisogno di missionari votati al sacrificio, come dargli torto?

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    Il rosone all’ingresso della chiesa di San Domenico a Cosenza

    La lunga notte

    Per parlare delle loro missioni hanno aderito alla Lunga notte delle chiese, un’apertura straordinaria, di sera, il 9 giugno scorso, con visite guidate e musica, un aperitivo solidale per raccogliere fondi per le loro missioni. Visto che ormai le università si propongono di notte (i ricercatori devono improvvisarsi intrattenitori per reclutare i futuri studenti), i musei pure, anche le congregazioni religiose devono adeguarsi ai tempi e aprire le porte al popolo della notte. Proprio il contrario di quello che le regole prescrivevano: quando si è fatta una certa si chiude e basta. Chi c’è c’è.

    Scomparse

    Arrivo in piazza Tommaso Campanella che l’aperitivo solidale è in corso. Anche nel locale accanto fanno l’aperitivo, a quest’ora il centro di Cosenza è tutto un aperitivo. Un tempo qui c’era un negozio di cordami e attrezzi vari. Leonida Repaci, che conosceva bene la città, ha ambientato un suo racconto, Magia del fiume, proprio in questa zona, in una delle case cresciute sul convento, accanto alla facciata e al suo splendido rosone.
    Anche Dante Maffia ha dedicato alcune pagine di un suo libro, Il romanzo di Tommaso Campanella, al convento cosentino, al tempo in cui il giovane fra’ Tommaso leggeva i libri della biblioteca domenicana. La biblioteca è svanita, non si sa dove siano finiti i manoscritti e i libri a stampa; si ipotizza che una parte dei testi delle biblioteche ecclesiastiche cosentine siano arrivati, dopo le soppressioni ottocentesche, negli scaffali della Biblioteca Civica.

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    L’interno della Biblioteca civica di Cosenza

    Cosenza, la cappella del Rosario a San Domenico

    L’apertura notturna mi sembra una buona idea, vedo tanta gente che dalla piazza comincia a entrare in chiesa, entro anch’io e mi ritrovo in un piccolo gruppo. Ci sono diverse guide, con la pettorina che si usa in queste occasioni. Cominciamo dalla cappella del Rosario che, ci spiega la guida, è più antica rispetto all’allestimento attuale della chiesa principale, più volte rimaneggiata nel corso dei secoli.

    Ci mostra le tele alle pareti e le immagini inserite nei riquadri del soffitto ligneo; alcune -aggiunge – mancavano già quando Cesare Minicucci visitò San Domenico e segnalò le perdite nel suo libro, Cosenza sacra, del 1933.
    Ma chi è questa signore tranquillo che ci sta accompagnando? Cosenza sacra di Minicucci è uno di quei libri che si potevano consultare, un tempo, in Biblioteca Civica e in pochi altri luoghi. Mi pare insolito che un volontario, per una serata, sia riuscito a procurarsi un testo così raro.

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    La cappella del Rosario

    Misteri

    Dalla cappella passiamo nella sagrestia, ancora riconoscibile l’architettura gotica, nonostante gli interventi piuttosto pesanti che sono evidenti. Tanti gruppi di visitatori si muovono da un locale all’altro, le altre guide sono in fibrillazione per consentire a tutti la visita, soprattutto quella a un luogo difficilmente accessibile e angusto, lo scolatoio.
    Ma il nostro gruppetto non si affretta, il misterioso Virgilio ci sta illustrando le figure del coro ligneo della sagrestia. Le illumina una per una con la torcia del cellulare, per farci cogliere i particolari. Figure maschili con il seno, fauni, Adamo ed Eva con teste di creature lussuriose, e gambe che si sono trasformate in rami e foglie, come in certi racconti mitici.

    Questo coro è un mistero, dice la nostra guida, perché nell’epoca in cui è stato realizzato non si richiamavano più questi motivi medievali, e anche nel Medioevo sono piuttosto rari, rintracciabili in luoghi lontani da Cosenza. La distruzione di molti archivi religiosi rende ardua la ricostruzione delle vicende artistiche, l’individuazione delle maestranze che hanno lavorato qui. Molto interessante, appena ci si accosta ai nostri monumenti saltano fuori intrecci strani, come se da queste parti arrivasse gente da ogni parte del mondo. Probabilmente era così, la piccola Calabria si trovava comunque in mezzo alle terre allora conosciute.

    Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria

    Cosenza e i penitenti di San Domenico

    Passa un ragazzo che lo saluta: «Buonasera professore!». Rapida indagine: si tratta del professore Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’università della Calabria. E con altri incarichi accademici e tante pubblicazioni. Gli Oblati hanno schierato l’artiglieria pesante, per l’occasione. Mi spiega che oblato è pure lui, ma laico, mi dice dopo.
    Dopo, dicevo, perché prima ci espone cos’è lo scolatoio verso cui siamo diretti. Una signora del gruppo ha un’esitazione, perde il sorriso quando sente che in questo scolatoio, un locale circolare con dei sedili di pietra forati, venivano posti a scolare, a perdere gli umori, il grasso e la carne, i corpi dei monaci dopo la morte. In modo da ritrovarsi con gli scheletri puliti e pronti all’inumazione. Periodicamente i frati andavano a pregare presso i corpi dei confratelli in disfacimento, per tenere a mente che per i cristiani la vita sulla terra è solo un breve cammino, prima dell’atra vita, quella eterna.

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    Lo scolatoio

    Il professore ammette che, sì, non doveva essere uno spettacolo piacevole, ma un monaco deve riflettere su certe cose. E poi nei secoli passati il rapporto con la morte era molto più tranquillo rispetto ai tempi nostri. Le persone morivano come mosche, non se ne faceva un dramma.
    La signora rinuncia alla discesa nello scolatoio, forse pensa che sia un luogo sinistro. Io come aspirante reporter vado senza esitazione (anni fa ho visitato quello nel Castello di Ischia, all’interno del convento delle Clarisse). Prendo una ginocchiata tremenda sul muretto che bisogna scavalcare, i rischi del reporter di una certa età. Lo scolatoio è molto semplice, spoglio, il pavimento coperto di terra battuta.

    Scelte radicali e tentazioni ovunque

    La notte delle chiese è un’iniziativa efficace, ma le chiese sono chiese, questi non sono percorsi nel mistero, però possono aiutare a capire quanta distanza ci separa da una scelta radicale come quella di lasciare il secolo. Così dicevano, una volta. Morire al mondo. E poi morire nel corpo e stare nello scolatoio a ricordare ai confratelli più giovani perché stanno lì.
    I domenicani e le altre famiglie religiose nel mondo continuavano a starci, a prendere posizione sulle vicende del mondo. Tommaso Campanella, oltre che studiare e riflettere, fece una serie di cose che lo portarono a un passo dal boia. Per salvarsi finse di essere pazzo e fu tenuto in prigione per molti anni. Congiurare contro il governo spagnolo comportava seri rischi. Anche scrivere libri come La città del Sole poteva portare problemi.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Me ne esco dallo scolatoio con molta precauzione, ripasso dalla sagrestia con le sue misteriose figure. Il prof ha preso in consegna un altro gruppetto di volenterosi emuli di Indiana Jones. Sta illuminando con la torcia un punto sotto una panca del coro, una figura demoniaca, per ricordare ai frati che la tentazione può presentarsi ovunque, anche mentre si recitano i salmi. Una signora, per vedere meglio, si è inginocchiata come una penitente, come Dante nel Paradiso Terrestre mentre veniva purificato, mondato. Ormai la cultura richiede una certa prestanza fisica. I partecipanti a un evento come questo sanno che devono essere pronti a tutto. Spero che la signora riesca a rialzarsi.

    Notte e cultura

    Sono tornato fuori, in piazza Tommaso Campanella. Adesso i volontari offrono dolci, in premio, ai visitatori in uscita. E ricordano che San Domenico è sempre aperto e ci saranno altri momenti di incontro a Cosenza. Saluto il professor Parisoli e lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato. Adesso sono stanco, sono stato in piedi per oltre due ore, il ginocchio mi fa male. Mi trascino dignitosamente verso la macchina, questa vita culturale notturna mi sta distruggendo. Una volta potevi andare solo a qualche noiosa conferenza, ti sedevi e poi tornavi a casa per l’ora di cena, senza rischi ortopedici collaterali.

    Domani sera niente visite notturne, se proprio voglio vedere un convento mi guardo una puntata di Che Dio ci aiuti. Pare che nell’ultima serie Francesca Chillemi faccia la novizia, ma non so se la sceneggiatura virerà verso situazioni del tipo Gertrude-la monaca di Monza. Le tentazioni, il peccato, il pentimento e, poi, lo scolatoio.

  • Monongah: l’apocalisse dimenticata dei calabresi in West Virginia

    Monongah: l’apocalisse dimenticata dei calabresi in West Virginia

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    Tra i monti Appalachi esiste un posto che prende il nome da una parola in uso tra le tribù locali di nativi americani: Monongah. In italiano si traduce lupo. Quella stessa parola, seppure un po’ storpiata, si usa anche da un’altra parte nel mondo, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. In Calabria, a San Giovanni in Fiore, sui monti della Sila, terra di lupi. Lì però vuol dire un’altra cosa. Indica un luogo oscuro e pericoloso e se qualcuno ti augura di jire a minonga (o mironga), beh, non è che ti voglia troppo bene in quel momento.
    Ma cosa c’è dietro questa specie di miracolo linguistico e una traduzione così dissonante? Centinaia di morti – decine di calabresi – nel più grande disastro mai accaduto in una miniera statunitense. Una storia chiusa in un cassetto il più in fretta possibile e rimasta lì dentro per oltre un secolo.

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    La folla radunatasi all’ingresso della miniera 8 dopo l’esplosione

    Monongah, un silenzio lungo oltre un secolo

    Perché l’Italia si ricordasse dell’ecatombe dei suoi emigrati tra le viscere di quel paesino in West Virginia, infatti, c’è stato parecchio da attendere: 106 anni. Era il 2003, giusto vent’anni fa, e fu l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in viaggio istituzionale negli States a interrompere il lunghissimo silenzio dello Stato su Monongah e i suoi caduti. Dal 6 dicembre del 1907 a quel momento non lo aveva fatto praticamente nessuno. Nonostante in quel lontano giorno siano morte oltre 360 persone, la metà delle quali emigrati dal Bel Paese. E nonostante quel bilancio sia la migliore delle ipotesi, perché nelle stime più pessimistiche – e, purtroppo, più attendibili – il numero delle vittime sale. Sempre. Anche fino ad arrivare quasi a 1.000.
    Uomini, ragazzi, bambini. Bruciati in pochi istanti. Spappolati dalle rocce. Coriandoli di carne neri come il carbone che li ha uccisi, sparsi da un’esplosione a centinaia di metri di distanza.

    Un villaggio di vedove e orfani

    Ai primi del ‘900 l’America cresce e ha un incessante bisogno di carbone per le sue industrie rampanti. Monongah è una company town, una baraccopoli simil villaggio piena di minatori, tirata su nei pressi di qualche ricco giacimento dalle grandi compagnie d’estrazione, in questo caso la Fairmont Coil Company. Ci vivono circa tremila persone, ma dopo quel 6 dicembre in paese ci saranno circa 250 vedove e un migliaio di orfani.
    Gli immigrati sono tanti, polacchi e italiani soprattutto. Sono arrivati fin lì per una paga che può arrivare fino a 75 cents al giorno per dieci ore di duro lavoro, soldi che poi spendono nei negozi di proprietà della compagnia stessa.

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    Gli abitanti di Monongah in disperata attesa di buone notizie sui loro cari

    Canarini in miniera

    Quei 3/4 di dollaro sembrano pochi spiccioli, ma per chi arriva da un posto come la Calabria di inizio ‘900 rappresentano un tesoro. Equivalgono a 3,75 lire al giorno, che sono quasi il decuplo della paga media nel Meridione per un bracciante agricolo. Uno stagionale in Calabria può svolgere al massimo 100 giorni di lavoro, guadagnando così 40 lire. In miniera non ci sono limiti di questo genere e se il fisico te lo consente in dodici mesi americani arrivi ad accumulare l’equivalente di vent’anni di guadagni italiani.
    Devi sgobbare come un mulo, però, e la tua vita è in mano a… un canarino. Per capire se l’ossigeno nei cunicoli è sufficiente i minatori si portano appresso una gabbietta con dentro quell’uccellino: quando il canarino ha problemi a respirare bisogna scappare. E farlo in fretta.

    Il grisù

    Non è tanto questione di non asfissiare, il pericolo numero uno nelle miniere di carbone si chiama grisù. Niente a che vedere col draghetto dei cartoni animati: è una gas inodore, più leggero dell’aria, che si forma nelle gallerie minerarie depositandosi in sacche sui soffitti. Quando la percentuale di grisù nell’aria supera il 2% il gas diventa infiammabile, dal 5,3% in poi esplosivo. Se poi va oltre il 15% e non è ancora esploso conduce all’asfissia, che paradossalmente, diventa l’ultimo dei problemi.
    Anche una piccola scintilla se c’è del grisù di troppo in giro può provocare una catastrofe. È per questo che nelle miniere sono in funzione enormi impianti di ventilazione, tengono la quantità di gas sotto controllo. Ma il 5 dicembre 1907 a Monongah è un giorno di riposo, si festeggia in anticipo la festa di San Nicola, in miniera non va nessuno. E – stando ad alcune testimonianze – qualcuno per risparmiare ha pensato di tenere quegli impianti a mezzo servizio.

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    I resti dell’impianto di ventilazione dopo l’esplosione della miniera 8

    Di chi è la colpa?

    Sarà quella la causa dell’esplosione il giorno dopo? Oppure, come sostiene la Fairmont Coil Company, una scintilla provocata da un errore umano di qualche sprovveduto? Nella miniera di Monongah si va avanti col cosiddetto buddy sistem: ogni minatore può portare con sé un aiutante, spesso il figlio o comunque qualcuno più giovane, per dargli una mano, poi divideranno la paga di giornata. E i buddies non conoscono tutti i segreti del mestiere, né si annotano nel registro delle presenze. Nelle viscere di Monongah con ogni probabilità ci sono centinaia di corpi senza nome. E quasi 120 anni dopo una risposta ufficiale al perché di quella tragedia ancora non c’è.

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    I soccorritori fanno una pausa all’esterno della galleria durante le ricerche degli eventuali sopravvissuti

    Terremoto a Monongah

    Di certo c’è solo che quando le gallerie 6 e 8 esplodono la terra trema fino a oltre 10 km di distanza e appare subito evidente che per chi era là sotto le speranze sono infinitesimali. I minatori non di turno cominciano a scavare alla ricerca dei compagni, altri ne arrivano da miniere nelle vicinanze. Non è semplice, l’ossigeno è poco pure per le squadre di soccorritori che si alternano rischiando la pelle a propria volta. Ma si va avanti per giorni, con donne e bambini intorno ai pozzi densi di fumo nero a piangere e sperare.

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    Nel cimitero cattolico del villaggio si scava per far posto agli italiani e ai polacchi morti nelle miniere saltate in aria

    Dalle gallerie sono riusciti a scappare solo in 4. Tutti gli altri escono cadaveri. A centinaia, spesso irriconoscibili perché bruciati o mutilati. Lungo la strada principale di Monongah si accumulano le bare, occuperanno un’intera collina nel cimitero cattolico del Calvario. È il destino dei più fortunati, i resti di tanti loro compagni di sventura finiranno semplicemente in una fossa comune.

    Centinaia di vittime, decine i calabresi

    Tre mesi dopo la tragedia, con le indagini ancora in corso, una corrispondenza da Washington parlerà di 956 vittime, 596 in più dei 361 riportati nelle stime ufficiali. Analisi successive calcoleranno circa 500 decessi complessivi nell’esplosione delle due miniere. Gli italiani estratti dalle gallerie di Monongah risultano 171, il tributo più pesante lo paga il Molise con i suoi 87 morti. E poi c’è la Calabria. Nelle miniere 6 e 8 hanno perso la vita decine di nostri corregionali. I comuni che ebbero delle vittime furono:

    • Caccuri: Francesco Loria;
    • Castrovillari: Francesco Abate, Carlo Abate, Giuseppe Abate;
    • Falerna: Domenico Cimino;
    • Gioiosa Jonica: Pasquale Agostino, Tommaso Borzonia;
    • Guardia Piemontese: Francesco Contino;
    • Morano Calabro: Francesco Gaetani;
    • San Nicola dell’Alto: Domenico Guerra, Carmine La Rosa, Francesco La Rosa, Michele Rizzo;
    • Strongoli: Francesco Todaro.

    Un Natale di lacrime a San Giovanni in Fiore

    Storia a sé fa San Giovanni in Fiore, capitale della Sila ma anche dell’emigrazione calabrese di quegli anni. Non ci fu Natale nel 1907 a Monongah, scrisse un giornale del West Virginia, ma non ci fu nemmeno nel paese dell’abate Gioacchino. C’erano 32 compaesani morti in miniera in America da piangere:

    • Francesco Abbruzzino
    • Francesco Antonio Basile
    • Giovanni Basile
    • Salvatore Basile
    • Saverio Basile
    • Giuseppe Belcastro
    • Serafino Belcastro
    • Antonio Bitonti
    • Pasquale Bitonti
    • Rosario Bitonti
    • Giovanni Bonacci
    • Giovanni Bonasso
    • Giuseppe Covello
    • Luigi De Marco
    • Antonio De Vito
    • Giuseppe Ferrari
    • Antonio Foglia
    • Antonio Gallo
    • Raffaele Giramonte
    • Francesco Antonio Guarascio
    • Francesco Saverio Iaconis
    • Giovanni Iaconis
    • Pasquale Lavigna
    • Givanbattista Leonetti
    • Salvatore Lopez
    • Salvatore Marra
    • Giovanni Oliverio
    • Antonio Olivito
    • Domenico Perri
    • Tommaso Perri
    • Francesco Saverio Pignanelli
    • Pietro Provenzale
    • Luigi Scalise
    • Antonio Silletta
    • Francesco Urso
    • Gennaro Urso
    • Antonio Veglia
    • Leonardo Veltri
    • Leonardo Giuseppe Veltri

    I risarcimenti

    La Fairmont fece di tutto per non assumersi la responsabilità del disastro e le autorità statunitensi si lavarono le mani altrettanto volentieri dell’intera questione dopo poco tempo. Alcuni governi europei che avevano perso loro cittadini a Monongah chiesero risarcimenti, ma non l’Italia.
    Una raccolta fondi per le vittime servì a racimolare in tutto 150mila dollari, poco più di un decimo messo dalla compagnia d’estrazione. Gran parte di quei soldi non si sa che fine abbia fatto. Qualche vedova ha ricevuto 200 dollari; qualche figlio rimasto orfano prima di compiere 16 anni pochi dollari in meno; il resto chi lo sa.

    Padre Briggs e il ricordo di Monongah

    Di Monongah nessuno ha più parlato per quasi un secolo. Solo il prete del paese, padre Everett Francis Briggs, ha provato a tener vita la memoria dei minatori morti negli USA col supporto della rivista Gente d’Italia. È grazie a lui e al viaggio di Ciampi che quell’ecatombe di nostri connazionali è tornata alla ribalta anche da noi, seppur con 106 anni di ritardo.

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    A Monongah oggi c’è un ponte intitolato a padre Briggs

    Negli anni seguenti a San Giovanni in Fiore hanno realizzato una scultura in ricordo dei propri caduti e stretto un gemellaggio con Clarksburg, la città attualmente più vicina al luogo del disastro. La Regione Molise ha donato una campana e la Calabria ha dato una mano alla realizzazione di un monumento tra le poche case che restano oggi a Monongah. Stando a Wikipedia il comune di Falerna ha contribuito con 150 euro.

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    Il monumento all’Eroina di Monongah realizzato nel 2007 col contributo della Regione Calabria

    Il monumento in questione è dedicato all’Eroina di Monongah e, nonostante la targa non lo riporti, è probabile che ad ispirarlo sia stata Caterina Davia. Secondo un articolo di qualche anno fa su Little Italy, altra rivista per italoamericani, era la vedova di un minatore scomparso nel disastro. Suo marito è rimasto lì sotto per sempre e lei ogni giorno è andata all’ingresso della miniera a raccogliere un pugno di terra per poi depositarlo davanti casa. Per ventinove anni di fila.

  • Jole, Nobel e Gegè: il Cav di Calabria ingegnere all’Unical

    Jole, Nobel e Gegè: il Cav di Calabria ingegnere all’Unical

    Certamente non aveva letto Gramsci, figuriamoci, ma Silvio Berlusconi il messaggio del comunista sardo l’aveva intuito bene. Aveva capito che la conquista del potere per essere duratura ed efficace, deve essere preceduta dalla conquista dell’egemonia culturale. E quella battaglia il Cavaliere l’aveva vinta piano piano. Modificando la società italiana, forgiando letteralmente un Paese nuovo, costruito sul desiderio di un benessere privato. Una grande operazione di distrazione collettiva, di ottimismo infondato, che rifuggiva ogni forma di impegno.

    Una rivoluzione senza spargere sangue

    Le sue armate erano le sue televisioni, che entravano ogni giorno nelle case di tutti e atomizzavano la società, risultando mille volte più efficaci. Una rivoluzione senza sangue, fatta con le tette prominenti delle ballerine di Drive In, di programmi ridanciani, costruiti su battute facili e un po’ sguaiate, mille miglia lontane dall’eleganza vigilata dei programmi della vecchia Rai. Il potere politico è venuto dopo, quando fu necessario capitalizzare la mutazione antropologica imposta da anni di dominio televisivo. Ma anche il quel caso lo strumento televisivo, in vario modo determinò la nascita e il trionfo del berlusconismo. Come quando nel ’94 il Cavaliere asfaltò Achille Occhetto nel confronto televisivo.

    Pier Silvio Berlusconi e le ragazze di Drive In durante una puntata della trasmissione

    Berlusconi vs Occhetto: la modernità conquista la politica

    Ad arbitrare quella partita che divenne la Waterloo di Occhetto c’era un giovanissimo Mentana. Il leader della sinistra era vestito tristemente di marrone, come un qualunque funzionario di partito, pronto ad argomentare con ragionamenti lunghi e complessi. Ma dall’altra parte c’era un nuovo mostro, con il doppio petto blu di alta sartoria e la cravatta di Marinella che costavano quanto tutto il guardaroba del segretario post comunista.
    Non era solo una questione d’immagine, anche se questa svolse un ruolo fondamentale, ma pure di parole: lunghe e complicate quelle del leader della sinistra, brevi come slogan pubblicitari quelle di Berlusconi.
    E se hai plasmato la testa di milioni di persone avendoli trasformati da cittadini in massa e da elettori in pubblico, allora stravinci.
    Era la modernità che si impadroniva della politica.

    Berlusconi, Occhiuto e i Gentile: Forza Italia arriva in Calabria

    Ancora oggi quel confronto televisivo viene analizzato nelle aule dove si studia comunicazione di massa, esattamente come si rivede il confronto tra Nixon e Kennedy. Ma quel trionfo fu solo la battaglia finale. La guerra era cominciata prima, quando Berlusconi aveva piegato la grande struttura di Publitalia alle esigenze politiche, facendola diventare un partito. Ogni ufficio dell’agenzia di raccolta pubblicitaria divenne una sezione della nascente Forza Italia. E ogni figura di vertice di quella struttura si trasformò in coordinatore per investitura imperiale.

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    Pino e Tonino Gentile

    Fu così che in Calabria Giovambattista Caligiuri, Gegè per gli amici, uomo di punta di Publitalia, costruì dal nulla un partito la cui forza elettorale venne presa in prestito dai fratelli Gentile, allora potentissimi. Così potenti da scacciare un giovane ma già rampante Roberto Occhiuto, che pure tra gli Azzurri avrebbe voluto stare.
    L’ingresso dei Gentile non fu indolore. I militanti (che però non si chiamavano così) occuparono la sede di Corso Mazzini con i soffitti affrescati. Si opponevano all’ingresso dei potenti fratelli, che a loro sembravano il vecchio.
    La rivolta durò fino a quando da Berlusconi in persona giunse l’ordine di sgombrarli. Perché è vero che quelli erano i Club della libertà, ma i Gentile servivano per vincere.

    Berlusconi e la Calabria tra Regione e Parlamento

    E infatti anche in Calabria i berlusconiani stravinsero a lungo, governando la Regione, ma anche mandando in Parlamento parecchi calabresi. Per esempio Jole Santelli, che divenne pure sottosegretario in un paio di governi Berlusconi. Parecchio tempo dopo il centrodestra la candidò alla guida della Calabria proprio su decisione del Cavaliere. Berlusconi però ebbe a lamentarsi, con la consueta tendenza alla volgarità scambiata per simpatia, del fatto che lei «in 26 anni non gliela aveva mai data».

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    Il comizio di Berlusconi con la celebre battutaccia su Jole Santelli

    In Calabria Berlusconi venne pure a prendersi una laurea honoris causa, diventando ingegnere. Quel simbolico titolo accademico acquisito nel ’91, però, dovette sembrare troppo poco ai suoi adoratori calabresi. E infatti fu Tonino Gentile a proporne – senza percepire il rischio dell’esagerazione –  la candidatura al premio Nobel.
    Del resto la fedeltà può andare oltre ogni limite. E non furono pochi i calabresi eletti in Forza Italia che votarono nel 2011 assieme a mezzo Parlamento asserendo che davvero Berlusconi credeva che Ruby Rubacuori fosse la nipote di Mubarak.

    L’eredità di Berlusconi e il berlusconismo in Calabria

    Oggi, a dispetto della canzoncina cantata a squarciagola a margine dei comizi, Silvio non c’è più. Quel che Berlusconi lascia è un Paese mutato per sempre, deluso dalla impossibilità di inseguire un benessere ingannevole come una pubblicità, ma più povero moralmente e culturalmente.
    La sua eredità è una destra nazionale muscolare che si è nutrita di quel populismo di cui il Cavaliere era stato fautore, ma che lo aveva prontamente sepolto ancora da vivo.
    In Calabria Berlusconi ci lascia la politica delle promesse, degli annunci trionfanti, dei larghi sorrisi. Perché il berlusconismo sopravvive al suo creatore.

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    Silvio Berlusconi con Roberto Occhiuto

  • Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Anche certe strade ferrate sono “Strade Perdute”. Una di queste è la linea ferroviaria a cremagliera tra Cosenza e Paola.
    La Biblioteca Nazionale di Cosenza ha ricevuto in dono, pochi anni fa, le carte del compianto ingegner Francesco Sabato Ceraldi (Fuscaldo, 1888 – Roma, 1960) relative alla realizzazione di questi 35 km di linea, che lo tennero impegnato dal 1911 al 1915 . Dipendente delle FF.SS., Francesco Sabato (il quale aggiungerà il secondo cognome solo nel 1939) aveva preso servizio a 23 anni come ingegnere allievo ispettore. Diresse in prima persona il cantiere di Paola, ostico per quella pendenza del 75 per mille che obbligò all’uso della rotaia supplementare centrale: la cremagliera, appunto.

    I monti di Paola

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    Francesco Sabato Ceraldi

    Questo suo fondo archivistico è un piccolo tesoro. Gioia non tanto e non solo per i topi d’archivio, ma anche per i cartografi e per chi si occupi di storia della tecnica. Circa un centinaio tra mappe e progetti, dal più generico al più particolare, dalla sezione longitudinale di ogni singola galleria all’edilizia ferroviaria di servizio, dalle varianti al tracciato più ardite, alle traversine, ai rubinetti dei servizi delle stazioni. E, infine, all’orografia dei monti di Paola, cupi e impenetrabili ora come allora.
    Fatevi un regalo, consultate quelle carte, un affaccio sulla stratificazione storica di sentieri, fabbricati rurali, stradine, stradone, gallerie e, appunto, strade ferrate che lambivano – nolenti e piuttosto impotenti – burroni, fiumi. Persino quello scenografico eremo di Santa Maria di Monte Persano, in agro di San Lucido.

    L’eremo e il laghetto

    Il tracciato di quella ferrovia è oggi abbandonato. In parte lo hanno convertito in strada carrabile, altrove è un sentiero, in altre parti restano ancora i binari. L’eremo, oggi, è invece quasi sfiorato dall’orrenda SS 107 (sta pochi metri più su rispetto alla doppia galleria, per intenderci) mentre restava lontano dal vecchio tracciato della cosiddetta strada della Crocetta. Terra di curve e/o di gallerie, terra di mal di pancia o segni della croce se l’attuale treno da Paola a Castiglione Cosentino si dovesse fermare al buio in quei dieci minuti di galleria.

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    L’eremo di Monte Persano, risalendo da Paola verso Cosenza

    Strada gemella della vecchia Crocetta è invece la meno conosciuta SP 31. Sale da Fuscaldo verso Montalto, passando attraverso San Benedetto Ullano, il paese che diventò albanese senza esser nato tale. Mirabile allungatoia di fortuna, alla bisogna, che pochi hanno la curiosità di percorrere, per certe ritrosie abitudinarie che restano incomprensibili.
    C’è pure un grazioso laghetto lì dove si scollina. E nel laghetto abbiamo finanche un primato, il nostro piccolo e più innocuo “mostro” di Lochness: il Tritone alpino (Triturus Alpestris Inexpectatus, si chiama proprio così), un animaletto preistorico sopravvissuto quassù, come tante altre cose…

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    Il “laghicello” di San Benedetto Ullano

    Lo Stromboli da sopra Paola

    Ad esempio, quei riti – a metà tra realtà e leggenda – che altro non sono se non deformazioni degli antichi culti dionisiaci e orfici. Tra essi, la dibattuta farchinoria calabrese, nemmeno troppo differente da certi culti agrari relativi alla stregoneria popolare del nord-est italiano. Eppure è rimasta in un alone di mistero da quando lo studioso Giovanni De Giacomo provò a scriverne agli inizi del Novecento su una rivista tedesca di antropologia che rifiutò lo scritto in quanto troppo osceno e cessò poi le pubblicazioni.

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    Un tritone alpino

    Pazienza: abbiamo Tritone, Dioniso e Orfeo… possiamo accontentarci di questi tre. Se non fosse che dai monti di Paola si vede facilmente, e spesso, lo Stromboli. E allora mi vengono in mente i riti magici popolari di quelle isole e le formule del taglio delle trombe d’aria di cui ho già scritto. Quelle formule che risuonano e rimbombano sullo specchio d’acqua fra la Calabria e le Eolie, come minimo. Da millenni, sempre uguali.

    Farchinoria ed ergotismo

    E allora mi viene da chiedermi sempre la stessa cosa: quanto uso si faceva, qui dalle parti della farchinoria, della farina di segale? Vi chiederete cosa c’entri questa domanda. C’entra tantissimo: può muoversi un appunto nei confronti di Ernesto De Martino, ovvero il non aver esaminato a fondo la natura originaria di alcuni aspetti del mondo magico popolare, di quegli episodi legati all’onirismo, alle visioni e, aggiungo, alla credenza nei miracoli.
    È noto, oramai, quanto alla base delle più diffuse credenze di carattere soprannaturale si debbano collocare iniziali episodi di isteria collettiva, psicosi collettiva o, ancor più acutamente, di ergotismo, ovvero la patologia conseguente alle epidemie di segale cornuta. Ed è altrettanto noto quanto, nel mondo antico, la segale fosse utilizzata nell’alimentazione. Già Ippocrate parla del “morbo negro” e solo più tardi si parlerà di secale luxurians.

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    Pane di segale

    Tuzzunara e LSD

    Il fungo parassita detto Ergot è lo stesso da cui, verso la metà del Novecento, Albert Hoffman ricavò l’LSD. E ad Alicudi, per esempio, è ancora viva la memoria di allucinazioni collettive che produssero le più diverse forme oniriche tramandate, poi, in forma orale, alla stregua di leggende. La probabile epidemia di ergotismo che ne starebbe alla base è confermata dall’inveterato uso della segale nei processi di panificazione locale. Basti pensare che la farina prodotta con la segale alterata, quella appunto “cornuta”, aveva persino un proprio nome dialettale: la tuzzunara.

    Memorie e oblio

    Non è rimasto quasi nulla neppure di queste memorie. Siccome non si può pretendere da tutti la curiosità di uno storico né lo stesso suo attaccamento alle cose passate, succede pure che ognuno ricordi solo le cose vissute in prima persona e al limite quelle più interessanti raccontate dai propri genitori o dai propri nonni. Tutto il resto cade nell’oblio, di generazione in generazione, per incuria e per disinteresse, nel senso più stretto del termine: l’assenza di un profitto recepibile nell’immediatezza.

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    Cantonieri calabresi a fine ‘800

    Per le piccole cose materiali, la dinamica è più sottile: se si guarda quanti anni ha l’oggetto più antico che si possiede ci si può facilmente rendere conto della caducità della memoria materiale. E non mi riferisco certo all’antiquariato acquistato ex post ma agli oggetti di famiglia; nemmeno ai pochi fortunati casi di famiglie più o meno blasonate e più o meno fornite di patrimoni mobiliari aviti di qualche pregio. La giacca di quel nostro antenato del Settecento (e un rapido calcolo potrebbe mostrarvi con sorpresa come ciascuno di noi abbia necessariamente avuto all’incirca millecinquecento antenati diretti vissuti nel solo diciottesimo secolo) o lo scialle seicentesco di un’altra o il calamaio cinquecentesco o la forchetta quattrocentesca sono spariti.

    Vecchio e antico

    In parte ciò è giustificabile anche a seguito di fattori oggettivi che ne imponevano l’abbandono: si pensi alla peste del Seicento che costrinse a incendiare interi paesi con tutto quello che vi si trovava. E si pensi a quei cicli di impoverimenti che pure hanno colpito tutte le famiglie e che costrinsero alla vendita (e, d’altro canto, al furto) di quasi tutto ciò che si possedesse e almeno degli oggetti preziosi. Questa giustificazione non è applicabile però a tutto: il resto, se non degradato e non diversamente riutilizzabile, è stato deliberatamente gettato via quando era troppo vecchio e non ancora antico per essere apprezzato con altri occhi.
    Cosa è vecchio, adesso, in questo momento storico? Cosa potrebbe diventare antico? E cosa stiamo perdendo senza magari nemmeno accorgercene?

  • Cosenza ciellina: un amarcord da ciclostile

    Cosenza ciellina: un amarcord da ciclostile

    Via Padre Giglio numero 27, via Rivocati numero 94, piazza Archi di Ciaccio numero 21, via Monte San Michele numero 6, corso Telesio numero 17, sono gli indirizzi di alcune delle sedi del movimento di Comunione e Liberazione a Cosenza, negli anni che vanno dal 1976 al 1989, quando ne facevo parte.

    Giovani e impegnati

    Ognuno di questi indirizzi è legato a momenti diversi di vita del nostro gruppo di amici, perché eravamo anche amici, dato che passavamo insieme molto tempo, tra gli incontri, i volantinaggi, le manifestazioni pubbliche, la vendita militante della nostra stampa. Per fortuna eravamo amici, quindi abbiamo vissuto con una certa leggerezza o forse incoscienza, la decisione di proporci in città e nella neonata Università della Calabria, ancora in costruzione, come la risposta ai dubbi esistenziali, sociali e politici non solo nostri, ma dell’intera umanità.

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    Il Polifunzionale dell’Unical

    Comunione e liberazione: ciclostili mistici

    Oggi guardo con indulgenza a quel gruppo di ragazzini che eravamo, in mezzo ad altri gruppi, animati dalle stesse certezze granitiche, ma con riferimenti diversissimi e opposti. Queste convinzioni, queste letture della realtà del nostro tempo venivano messe a punto negli incontri, che avvenivano nelle sedi ricordate prima e in altre ancora.
    Come tutte le sedi dei gruppi e dei movimenti politici, l’arredo era piuttosto precario e approssimativo: sedie spaiate, un tavolo, qualche scaffale per la carta e l’inchiostro, necessari per l’indispensabile ciclostile, il top della tecnologia comunicativa degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Preparare un volantino e vederlo uscire, una copia alla volta, dal rullo del ciclostile, era un’operazione solenne, mistica, iniziatica. Solo pochi eletti avevano il permesso e la capacità di manovrare il prezioso apparato, da cui dipendeva il nostro apostolato, la nostra presenza.

    Il Pantheon ciellino a Cosenza

    Sui volantini e pure sui manifesti confezionati artigianalmente, con un pennarello, bisognava ricordarsi di scrivere “manoscritto in proprio”, in fondo, altrimenti si violava non so quale norma del Codice civile. Ne conservo pochi, di questi sbiaditi foglietti, forse se facessi visita all’Ufficio politico della Questura potrei recuperare gli altri, ammesso che in Questura abbiano un archivio ordinato. L’Ufficio politico raccoglieva amorevolmente tutte le stampe, di tutti i gruppi, anche i più sfigati, quelli a cui nessuno dava credito. Per poi studiarli, analizzarli e classificarli, secondo il livello della nostra e altrui pericolosità per l’ordine costituito. Mi piacerebbe anche sfogliare la graduatoria dei gruppi acquisita agli atti.
    L’arredo era simile anche nelle sedi degli altri gruppi, di sinistra o di destra.

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    Monsignor Oscar Romero

    Cambiavano i poster alle pareti, i ritratti dei santi protettori, Marx, Che Guevara, Evola. I gruppi cattolici tradizionali, ospitati negli oratori parrocchiali, accanto ai simboli religiosi, appendevano un ritratto di monsignor Camara, oppure di monsignor Romero, o di madre Teresa o di Escrivà de Balaguer, secondo le simpatie e gli orientamenti.
    Noi ciellini, notoriamente movimentisti, avevamo le sedi, perché le sale parrocchiali erano riservate all’Azione cattolica. Sto elencando questi particolari perché essendo nato nel 1961 temo che le persone un po’ più giovani di me facciano fatica a immaginare cosa fosse la realtà dei gruppi di quei fatidici decenni.

    Per questo, per colmare la distanza, insieme all’editore Demetrio Guzzardi, che era uno degli spericolati ragazzi di cui sopra, abbiamo predisposto tante schede, come quella che riporta gli indirizzi sopracitati. Le schede fanno parte di un mio libro di 152 pagine, e ci sono quelle dedicate ai libri, alle riviste, a case editrici, luoghi e iniziative (Ciellini ad Arcavacata (1976-1989), Cosenza, editoriale progetto 2000, 2023).
    Lo abbiamo fatto soprattutto per noi, per riflettere, dopo quarant’anni, sulla nostra storia, su momenti decisivi per la nostra formazione e la vita successiva, che abbiamo deciso di spendere in Calabria, anche dopo il distacco da Comunione e Liberazione, per una serie di situazioni che sarebbe lungo spiegare. Se non lo si fa dopo quarant’anni, il punto sulla vicenda, poi bisogna affidarsi ai posteri, vallo a sapere se i posteri ne avranno voglia.

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    Demetrio Guzzardi

    Formidabili quegli anni a Comunione e liberazione

    In quegli anni, in quelle brutte sedi, abbiamo conosciuto gli amici della vita, e pure, in qualche caso fortunato, le compagne della vita. Anche solo per questo ci è sembrato che ne valesse la pena, di affrontare l’impresa, scavando nella memoria e nelle vecchie carte.
    Alcune persone non ci sono più, di altre si sono perse le tracce. Con qualcuno ancora capita di incontrarsi e parlare. Non so se è lo stato d’animo dei commilitoni, dei reduci, quello che si prova, quando ci si incontra tra persone legate da una profonda esperienza di militanza e di appartenenza. Esiste ancora oggi un sentimento di questo tipo? Come spiegarlo a chi non l’ha vissuto? Proprio ora che le appartenenze sembrano così vaghe, fluide, affidate ai gruppi sui social. Non usavamo tessere, a differenza di altri movimenti, ma l’appartenenza ci sembrava scolpita nella roccia.
    Facendo questo libro, dalle bozze alla stampa, mi sono chiesto quali luoghi, quale sentimento di appartenenza avranno nella memoria i ragazzi, quelli che oggi hanno venti o anche trent’anni.

    Quando non c’erano i social

    I luoghi fisici forse non sono insostituibili, noi ne abbiamo cambiato tanti, ma negli appartamenti ci ritrovavamo a parlare, a confrontarci. Poi continuavamo a parlare pure dopo gli incontri e i volantinaggi, tornando a casa, spesso a piedi. A volte a passaggi o a piedi siamo andati a Bivio Morelli, un sobborgo fuori dai confini comunali che ai tempi era poco urbanizzato e con ampie zone verdi. Lì facevamo una sorta di volontariato, soprattutto con i ragazzini del posto, che secondo noi erano un po’ isolati. Non eravamo gli unici in città a organizzare attività simili. Lo facevano anche altri gruppi, non solo tra i cattolici.
    Tutte queste iniziative, incontri, manifestazioni, vendite militanti, presupponevano che le persone si vedessero e avessero tempo e voglia di parlare, di ascoltare almeno, anche per pochi minuti. Oggi le opportunità di comunicare sono infinite e meravigliose, rispetto al nostro glorioso ciclostile. Il problema è convincere l’interlocutore a spostare lo sguardo dal cellulare, togliere le cuffie dalle orecchie, e magari scendere dal monopattino elettrico o da altri aggeggi, che non ho nessuna intenzione di provare a utilizzare.
    Oggi i movimenti e i gruppi sono un’altra cosa, mi pare. Tanti, specie quelli politici giovanili, non esistono più, almeno nelle arcaiche forme della militanza e dell’appartenenza a me note. Altri navigano in rete, pare che perfino nelle parrocchie siano in funzione gruppi social, per gli avvisi, per far circolare dei testi, per comunicare gli orari del catechismo. Fede in rete: Hai incontrato Gesù? Sì, No, Non lo so. (Barrare una sola casella).

    Le ragazze e i ragazzi di pomeriggio si muovono come formiche operose, secondo gli interessi e l’estro del momento, tra palestre, scuole di calcio, corsi di danza, di musica e di inglese. I bambini vengono trasbordati da una ludoteca all’altra, hanno in agenda tante di quelle feste che fanno concorrenza ai Vip più invidiati. Quale messia potrebbe riuscire a dirottarli verso un cortile, verso un oratorio, verso un centro sociale per un dibattito politico (brividi di orrore al pensiero)? Se anche un volenteroso evangelizzatore si esibisse in una serie spettacolare di miracoli, magari in piazza Bilotti, credo che, al massimo, gli chiederebbero quale ultima versione sta utilizzando. Per la Play Station miracolosa. Questo effetto speciale del miracolo, che applicazione è?

    Scuole d’inglese al posto delle sedi di CL

    Credo che alcune ex sedi ospitino, attualmente, scuole di alta formazione per la lingua inglese. Ce ne sono così tante in città che, andando a spasso, ci si dovrebbe sentire come a Piccadilly Circus. Invece, per fortuna, mi sento rassicurato quando mi ritrovo nella solita atmosfera mediorientale delle strade della mia giovinezza. Tutti col naso sul cellulare, ci mancherebbe, ma nel consueto pittoresco chiacchierare ad alta voce dei fatti propri e altrui. Privacy in salsa calabra.
    Davanti ai bar ci sono i tradizionali gruppi maschili che presidiano il territorio, ci sono i plotoni di ragazzi, e quelli di mezza età in fuga dai problemi di famiglia, poi i vecchi, veterani della riserva. Le ragazze seguono altri misteriosi percorsi, i due schieramenti si vedranno di notte. Di notte niente più libri sul comodino. Solo gli sfigati possono leggere di notte.
    L’atmosfera mi tranquillizza sul successo dei corsi di inglese di altissimo livello. Forse quelli che superano gli esami, B2 e C2, poi vanno via, a Piccadilly Circus, Oxford, Cambridge e dintorni. Cosa dovrebbero fare, a Cosenza, col loro impeccabile accento di Oxford?

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    Una manifestazione di Comunione e liberazione

    Che fine hanno fatto volantini, megafoni e striscioni?

    I cellulari e la rete ci assicurano il posto nel terzo millennio, ma cosa ci portiamo dietro? Con quale bagaglio affrontiamo la globalità? Abbiamo lottato con sgomento per padroneggiare il Pc e il mouse, trenta anni fa, sapendo che era in gioco il nostro posto nel mondo.
    La mia classe di ferro, 1961, la più numerosa del secolo, conserva ancora memoria del tempo arcaico del ciclostile, del telefono a gettoni, delle contrapposizioni ideologiche. Tutti tenevamo a essere diversi, a sbandierare i nostri testi sacri. Ogni gruppo aveva i suoi.
    Dovremmo fare ancora uno sforzo per recuperare il nostro vissuto. Cosa accadeva nelle sedi degli altri gruppi? Quale modello di ciclostile utilizzavano? Cosa pensavano, gli altri, di noi? Cosa ne è stato dei più fieri e intransigenti contestatori? Quale buco nero ha inghiottito tutti i volantini, i megafoni, gli striscioni, le tessere e le agende su cui stavamo a scrivere come forsennati? E la nostra pretesa di leggere la realtà e giudicarla era solo assurda? Quelli che ci giudicavano degli esaltati avevano ragione? Bisogna stare con i piedi per terra? Cosa rimane di quegli anni? Come raccontarli ai ragazzi e alle ragazze della movida notturna?

  • Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
    Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
    Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?

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    Bernardino Alimena

    Emergenza criminale fin de siècle

    Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
    Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
    Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.

    A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
    Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
    Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.

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    Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese

    Bernardino Alimena figlio di patriota

    Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
    Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.

    Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
    Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
    Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.

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    Il monumento a Cesare Lombroso

    Il primo fu Lombroso

    La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
    Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
    Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.

    Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
    Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.

    E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
    Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.

    Il Museo Lombroso di Torino

    I limiti del positivismo

    I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
    In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
    Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
    Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.

    Bernardino Alimena e la Terza scuola

    Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
    Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
    Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.

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    Salvatore Ottolenghi

    Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso

    Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
    Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.

    Un duello internazionale

    Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
    Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
    In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.

    Nicola I del Montenegro

    Un notabile in carriera

    La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
    Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
    La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
    Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.

    Rapporti che contano

    Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
    Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
    Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
    Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Si chiamava Colosimo, Giacomo Colosimo, e a Chicago era arrivato da… Colosimi, piccolo centro del Savuto cosentino al confine con la provincia di Catanzaro. Ma lì in Illinois avevano cominciato presto a conoscerlo con altri due nomi. Il primo era Big Jim, per la stazza non indifferente. Il secondo, Diamond Jim: adorava ostentare pietre preziose sul pomo del bastone, il fermacravatta, la cintura, il bavero di giacche e cappotti, persino le ghette.
    Ma come aveva fatto quel giovane calabrese emigrato negli States in cerca di fortuna a trasformarsi in Diamond Jim? La risposta sta in due parole: Chicago Outfit.
    La moda, però, con questa storia non c’entra nulla. L’Outfit di Big Jim Colosimo è la mafia di Chicago. La chiamano così, comanda nella Windy City da oltre un secolo. E l’ha creata proprio lui.

    Hinky Dink e Bathouse: Big Jim Colosimo si prende il Leeve di Chicago

    Giacomo arriva a Chicago con papà Luigi e mamma Giuseppina nel 1885 e all’inizio ci prova pure a guadagnarsi il pane onestamente. Consegna giornali, fa lo sciuscià, lavora alle ferrovie. Ma per arrotondare passa presto a furti ed estorsioni mentre, sulla carta, fa lo spazzino. È con quest’ultimo lavoro che conquista i favori di due dei politici più corrotti che Chicago abbia mai avuto: Michael Hinky Dink Kenna e John Bathouse Coughlin.
    Sono loro a comandare nel Levee, il distretto del vizio della viziosissima Chicago, e Big Jim Colosimo gli procura un bel po’ di voti oltre a raccogliere per i due aldermen il pizzo nel quartiere.

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    “Hinky Dink” Kenna e “Bathouse” Coughlin

    Il re lenone e la regina Victoria

    Il calabrese ha carisma da vendere e pochi scrupoli. Gli piacciono tre cose: i soldi, le donne, l’Opera. Grazie alle prime due scopre la sua vera “vocazione” criminale: fare il magnaccia.
    È così che comincia a farsi un nome in certi ambienti e conosce Victoria Moresco. Lei è la tenutaria di due bordelli a Levee. È obesa, più anziana ed è pazza di lui. Jim fiuta l’occasione e nel giro di una settimana la sposa, diventando il gestore delle sua attività. Per ogni cliente che paga 2 dollari “a consumazione”, lui ne incassa 1,20. E i clienti sono tanti. Sempre di più.

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    Victoria (prima a sinistra) e sua sorella con Jim e famiglia

    Circa dodici mesi dopo le nozze, le case del piacere a Levee sotto il controllo di Big Jim Colosimo sono diventate trentacinque. In pochi anni se ne aggiungeranno centinaia, non solo in città. I bordelli più famosi sono il Saratoga e il Victoria, lo chiama così in onore della sua signora. E poi ci sono bische, scommesse, bar e saloon a rimpinguare ulteriormente le casse. I giornali locali lo chiamano vice lord, il Signore del vizio.

    La tratta delle bianche

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    Big Jim Colosimo, il re del vizio a Chicago

    Big Jim e le sue ragazze soddisfano le esigenze di qualsiasi cliente, da quelli che possono spendere pochi spiccioli ai più ricchi e perversi. Nel 1908 buona parte dell’underworld della città è nelle sue mani e anche la “Chicago bene” è di casa nei suoi locali.
    Il suo impero si fonda soprattutto sulla prostituzione, settore che nella metropoli nordamericana degli anni ’10 muove un giro d’affari stimato in 16 milioni di dollari dell’epoca e “impiega” oltre 5.000 persone.
    Per un business del genere servono continuamente forze fresche. Così tra il 1904 e il 1909 Big Jim Colosimo si dedica alla tratta delle bianche tra Chicago, St. Louis, Milwaukee e New York insieme a Maurice e Julia Van Bever, una coppia proprietaria di due bordelli vicini ai suoi.

    La Mano Nera

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    Il fac simile di una tipica lettera della Mano Nera negli States ai primi del ‘900

    Si stima che i tre facciano arrivare in quegli anni oltre 6.000 ragazze, quasi sempre minorenni, nel Levee. Le rapiscono, le drogano, le fanno stuprare dai loro uomini. Poi le mettono a lavorare in qualche casa chiusa o le vendono a qualche altro pappone per farle prostituire in strada. Per Big Jim è un affare da 600mila dollari all’anno, una cifra monstre ai primi del ‘900.
    Tutto quel denaro lo trasforma in Diamond Jim e, come spesso accade negli ambienti malavitosi, quell’ascesa irresistibile si rivelerà fatale per lui.
    A Colosimo nel 1909 arriva una lettera. C’è scritto che deve pagare 5.000 dollari se non vuole guai. E in fondo al foglio c’è una firma che può dare problemi anche a uno come lui che ha sul proprio libro paga gran parte della polizia e della politica locale: una mano nera.

    La Mano Nera è un insieme tanto eterogeneo quanto temibile di criminali italiani che vessano i propri connazionali in America. Nella sola Chicago, tra il 1895 e il 1905, ha ucciso oltre 400 persone che hanno rifiutato di piegarsi alle sue richieste. Colpisce anche fuori dagli Usa se necessario e i calabresi lo sanno bene.
    Big Jim Colosimo stesso ha lavorato per la Mano Nera nei suoi primi anni a Chicago. È del mestiere, insomma, e sa che se acconsente a pagare gli arriveranno presto nuove lettere e richieste di somme sempre più alte. Decide di sborsare il denaro la prima volta, ma azzecca la previsione e la Mano Nera non tarda a rifarsi viva. Stavolta di dollari ne vuole 50mila, il decuplo, e ne vorrà ancora di più se il re dei bordelli accetterà nuovamente di pagare.

    Big Jim Colosimo e l’arrivo di Johnny Torrio a Chicago

    Così Big Jim ne parla con Victoria e lei lo mette in contatto con suo nipote a New York: Giovanni “Johnny” Torrio. Ha già fatto parecchia strada nella malavita della Big Apple, lo chiamano The Fox, la volpe, o Papa Johnny per la sua capacità di mediare tra capi. Le arti diplomatiche di Johnny a Chicago però non balzano subito all’occhio, anzi.

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    Johnny Torrio

    Organizza un incontro con tre emissari della Mano Nera, ma ad aspettarli ci sono i sicari di Torrio che li freddano sotto un ponte. Un anno dopo fa eliminare un altro rompiscatole, Sunny Jim Cusmano. E sorte simile attende anche una prostituta-schiava scappata da un bordello di Colosimo che vuole testimoniare contro di lui in tribunale. È nascosta a Bridgeport, Connecticut, in attesa del processo quando alla sua porta bussano alcuni uomini. Si presentano come agenti federali, la fanno salire su una macchina, le scaricano dodici pallottole in corpo.
    Processo sulla tratta delle bianche chiuso.

    Il Colosimo’s e Dale Winter

    La serenità ritrovata non è l’unico beneficio dell’arrivo di Johnny. Big Jim si dedica sempre di più al locale dei suoi sogni, il Colosimo’s, che ha aperto nel 1910 al 2126-28 di South Wabash Avenue, il miglior ristorante di tutta Chicago. Ci puoi trovare seduto il grande Enrico Caruso e al tavolo accanto un gangster sanguinario o un membro del Congresso. E dal 1913 ci canta lei: Dale Winter.

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    L’interno del Colosimo’s, il ristorante di Big Jim

    A Colosimo l’ha fatta scoprire un giornalista che l’ha ascoltata cantare nel coro di una chiesa metodista da quelle parti. Viene dall’Ohio, ha una ventina d’anni, sogna di esibirsi all’Opera ed è molto carina. Big Jim se ne innamora. La porta nel suo locale e ne fa la stella, le paga lezioni di canto coi migliori insegnanti. E Dale, a sua volta, lo trasforma: il re lenone ora indossa abiti meno sgargianti, mette da parte i gioielli e i modi bruschi, studia meglio l’inglese che non ha mai davvero imparato. E a Chicago qualcuno inizia a chiedersi: Big Jim Colosimo si è rammollito?

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    1917, la pubblicità di una serata al Colosimo’s con Dale Winter protagonista

    Big Jim Colosimo e il Chicago Outfit

    Rammollito o meno, gli affari proseguono alla grande però. A occuparsi di tutto è Johnny Torrio, ormai braccio destro dello zio, dal suo ufficio nel Four Deuces, un bordello da pochi soldi con annesse bisca e sala torture che ha aperto poco distante dal Colosimo’s. Johnny non beve, non fuma, non va a donne e ogni sera, se può, la passa con sua moglie a casa. Non ama sporcarsi le mani e ha sempre l’idea giusta.

    Quando il sindaco democratico nella prima metà degli anni ’10 prende di mira il Levee e manda la Buoncostume a chiudere i bordelli, lui dissemina le ragazze in migliaia di appartamenti sparsi per il quartiere. E a poco a poco gli altri “imprenditori del settore” si mettono sotto l’ala protettrice di Big Jim Colosimo e Johnny Torrio: è nato il Chicago Outfit.

    I due iniziano ad aprire nuovi casini fuori città, lungo il confine con l’Indiana. Sono autentiche roadhouse del piacere da cui clienti e prostitute – si alternano 90 ragazze al giorno – possono varcare in un attimo la frontiera in caso arrivi la polizia e schivare l’arresto. Ad avvisare Johnny e i suoi di eventuali pericoli sono i benzinai lungo la strada, che fanno affari d’oro con tutte quelle macchine da quelle parti.

    1919: «We’ll stay with the whores, Johnny»

    L’anno della svolta è il 1919. Con l’elezione del nuovo sindaco repubblicano William Hale Thompson nel 1915, il Chicago Outfit ha di nuovo chi gli consente di spadroneggiare in città da qualche anno. Ma nel ’19 entra in vigore il Volstead Act, la legge che dà il via al Proibizionismo. E nello stesso tempo Big Jim decide di lasciare sua moglie Victoria, la zia di Johnny, per sposare Dale.
    «È quella giusta», dice al socio per spiegarli la scelta, quello commenta: «Sarà il tuo funerale».

    Una manifestazione contro il Proibizionismo nell’America degli Anni ’20: «Vogliamo la birra»

    Non va meglio quando parlano di alcolici. Secondo Johnny Torrio il Volstead Act è il più grande regalo che lo Stato potesse far loro: quelli che bevevano – e sono tanti – vorranno bere ancora di più ora che è vietato e a dissetarli di nascosto e a caro prezzo saranno proprio lui e Big Jim. Con la polizia locale già al loro servizio e gli immobili che hanno, si prospettano affari d’oro. Ma stavolta a gelare l’altro è Big Jim: «We’ll stay with the whores, Johnny», continuiamo con le puttane.

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    Una retata della polizia durante il Proibizionismo

    Il Proibizionismo prima o poi passerà, prostituzione e gioco d’azzardo ci saranno sempre, spiega il boss al suo vice. Sono già milionari così e non ha senso rischiare problemi con i federali per fare altri soldi, insiste. Ma non lo convince. Per quanto Johnny voglia bene allo zio Jim, gli affari sono affari. Big Jim Colosimo è disposto a investire poche migliaia di dollari in una distilleria clandestina, ma nulla più, quel business non è roba per il Chicago Outfit.

    Un nuovo ragazzo in città

    Ad affiancare Torrio in quei giorni c’è un nuovo ragazzo. Gli guarda le spalle perché la precedente guardia del corpo ha provato a ucciderlo ma restarci secca è toccato a lei. Arriva da New York, dove The Fox gli ha fatto da “maestro” di strada prima di trasferirsi a Chicago. Lo manda Frankie Yale, al secolo Francesco Iuele, calabrese di Longobucco a cui il nipote di Victoria Moresco ha affidato i suoi affari nella Grande Mela al momento di partire per l’Illinois. Di nome fa Alphonse Gabriel, ma tutti lo chiamano Al o Scarface, lo sfregiato, perché un coltello gli ha lasciato un ricordino sul volto. Il cognome? Capone. Anche lui, la storia è piuttosto nota, pensa che contrabbandare alcolici non sia un affare a cui rinunciare.

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    Al “Scarface” Capone

    A marzo del 1920 Big Jim divorzia da Victoria e le versa 50mila dollari affinché non abbia più nulla da pretendere. Pochi giorni dopo sposa Dale Winter in Indiana e se ne va in luna di miele. Torrio, nel frattempo, fa il Papa Johnny: parla col resto della mala di Chicago e coi suoi ex capi newyorkesi. Quando vengono a sapere che Colosimo ha di nuovo pagato la Mano Nera per paura che qualcuno facesse del male a Dale concordano tutti: si è rammollito. E non sarà certo un debole come l’ex Diamond Jim a tenerli fuori dall’affare del secolo. Johnny ha l’ok per farlo fuori.

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    Jim e Dale poco dopo il matrimonio

    Delitto al ristorante italiano

    La mattina dell’11 maggio 1920 a casa Colosimo squilla il telefono. È Torrio, dice a Jim che nel pomeriggio alle 4 sono in arrivo due carichi di whiskey per il suo amato ristorante, ma lui non potrà esserci. Tocca a Colosimo aspettare i corrieri. Ci va smadonnando in italiano per tutto il viaggio, racconterà il suo chauffeur alla polizia. Al Colosimo’s di quella consegna nessuno sa nulla, però. Jim aspetta fino alle 4:25 e si avvia verso l’uscita. Spunta un uomo dal guardaroba, gli ficca un proiettile dietro l’orecchio e sparisce per sempre.

    Pochi giorni dopo una bara da migliaia di dollari, tutta in bronzo, attraversa Chicago tra una folla oceanica. Ci sono migliaia di fiori ad accompagnarla, due bande musicali, nove aldermen, due membri del Congresso, un senatore, membri dell’ufficio del governatore, il direttore dell’Opera. Il funerale non è stato in Chiesa, però, e non c’è spazio per la salma nel cimitero cattolico. Il divieto arriva dall’arcivescovo George Mundelein in persona, ma solo perché il defunto è un divorziato.
    Big Jim Colosimo finisce in una cappella tutta per lui nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Sulla lapide la data di morte è sbagliata (o forse, in fondo, non troppo): 1919.

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    La folla di fronte al Colosimo’s durante i funerali di Big Jim

    Chi ha ucciso Big Jim?

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    Frankie Yale

    Lascia dietro di sé due grandi misteri. Il primo è quello su chi lo abbia materialmente ucciso. Capone anni dopo racconterà a Charles MacArthur di essersene occupato di persona. Eppure il sospettato principale di quel delitto ancora oggi senza colpevoli ufficiali resta Frankie Yale. Era a Chicago quel giorno, lo hanno beccato alla stazione mentre prendeva un treno per New York. E l’unico testimone del delitto, un cameriere del Colosimo’s, ha dato una descrizione dell’assassino che pare combaciare perfettamente con lui. In giro si dice che Torrio abbia promesso a Frankie 10mila dollari in cambio di quel favore.

    Era Yale il tizio che, dopo aver mangiato un gelato e bevuto un drink all’albicocca, ha lasciato scritto dietro lo scontrino un misterioso saluto «So long Vampire, so long Lefty» ed è riapparso dal guardaroba con un revolver in mano prima di dileguarsi? Il cameriere si rifiuterà di confermarlo in aula. Quanto a Frankie, torna a New York e resta lì fino al 1937, quando una raffica di mitragliatrice Thompson consegna all’oblio eterno la sua versione dei fatti.

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    Il coroner simula per i giurati la dinamica del delitto Colosimo nel suo ristorante

    Dove sono i soldi?

    L’altro grande mistero è che fine abbia fatto l’immenso patrimonio di Diamond Jim. Dopo l’omicidio i suoi avvocati trovano solo 67.500 dollari in contanti e titoli e poco meno di 9.000 in gioielli nelle proprietà di Colosimo. Pensavano che solo a casa ci fosse a dir poco mezzo milione. Nessuno scoprirà mai dove sia il resto del malloppo.
    Dale Winter prova a chiedere l’eredità, invano: una legge dell’Illinois vieta a chi divorzia di risposarsi prima di un anno, il suo matrimonio con Big Jim è nullo. La famiglia Colosimo le dà 60mila dollari in titoli e diamanti e altri 12mila li consegna a Victoria, tagliando ogni ponte con le due donne.

    Chicago e l’eredità di Big Jim Colosimo

    Torrio controllerà Chicago fino al 1925, prima di cedere al suo alunno migliore il comando dopo aver subito un attentato dagli irlandesi nel North Side. Qualche anno dopo passerà il tempo a dare consigli a un altro suo allievo di gioventù newyorkese, Lucky Luciano. Morirà nel 1957 su una sedia da barbiere, d’infarto però.
    Capone, sempre più violento anche per la sifilide contratta in uno dei bordelli di Big Jim, diventa presto il pericolo pubblico numero uno per la stampa statunitense e l’FBI di Hoover. In galera ci finirà qualche anno dopo, nel 1932, ma per evasione fiscale. Libero ma ormai demente per la malattia, si spegnerà nel 1947.
    Il Chicago Outfit, invece, è più vivo che mai ancora oggi.

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    La tomba del gangster calabrese
  • Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Avevano promesso loro un pezzo di terra nel cuore della Sila, dov’erano nati e cresciuti. E quella terra la ottennero. Solo che a migliaia di chilometri di distanza. Dall’altro capo dell’oceano. In mezzo al nulla.
    È una storia di menzogne e sfruttamento, sacrifici e sogni infranti, quella delle famiglie che l’Opera per la valorizzazione della Sila (Ovs), all’inizio degli anni ’50, inviò da San Giovanni in Fiore in Brasile per fondare una città, Pedrinhas. E ha i tipici ingredienti delle storie di fallimenti targati Italia: interessi politici, poveracci fregati, annunci distanti anni luce dalla realtà.

    La riforma agraria, l’Opera Sila e Pedrinhas

    opera-sila-pedrinhasIl Ventennio fascista si è concluso da poco, lasciando in eredità macerie e povertà. Nonché un ente, l’Icle (l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero) che ha creato Mussolini e fino a quel momento ha gestito con scarsi risultati e parecchi denari i flussi migratori dalla Penisola al resto del mondo. Nella neonata Repubblica parte la riforma agraria, una battaglia contro il latifondo per una più equa distribuzione delle terre ai contadini. Ma in Calabria, più che altrove, le cose vanno a rilento.
    La legge Sila, che prevede gli espropri ai ricchi possidenti locali, è del ’51. A San Giovanni in Fiore l’Ovs, nata quattro anni prima, prende possesso di quasi 3.300 ettari di terreno. Diciotto anni dopo quelli ridistribuiti saranno ancora poco più della metà, circa 1.800. E il malumore nella “capitale della Sila”, dove il rosso è il colore politico più in voga, inizia presto a farsi largo.

    La soluzione arriva da un accordo che il nostro governo e quello carioca hanno siglato nel ’47: l’Italia invierà manodopera in Brasile, in cambio di forniture varie. Sembra il modo di prendere due piccioni con una fava: i contadini avranno la terra che spetta loro, seppur in un altro continente, e, con la scusa di aiutarli, ci si libererà pure di qualche rompiscatole di troppo spedendolo all’altro capo del mondo. L’Opera Sila, a forte trazione democristiana, non si lascia sfuggire l’occasione e lancia l’operazione Pedrinhas.

    Dal manifesto a… l’Unità

    E così sui muri dei paesi silani, nel dicembre del ’51, appare un manifesto che inizia così: «La terrà è poca e non basta a soddisfare le esigenze di vita e di lavoro di tante famiglie di contadini della Sila. Per superare queste difficoltà, l’Opera per la valorizzazione della Sila ha concordato con la I.C.L.E., in uno spirito di cordiale collaborazione, un programma di emigrazione organizzata che inizia la sua attuazione il 2 dicembre. In tal giorno alcune famiglie partiranno da San Giovanni in Fiore dirette verso il Brasile, generoso ed ospitale, ove riceveranno una terra ed una casa. L’atto di solidarietà nazionale, che ispira la riforma, trova così un’eco nel gesto di solidarietà del Paese amico che accoglie i nostri lavoratori».

    Quel 2 dicembre non è una data casuale: è il giorno in cui arriva in Sila l’onorevole Luigi Gui, sottosegretario all’Agricoltura, insieme al presidente dell’Ovs Vincenzo Caglioti per una cerimonia in cui è la propaganda a farla da padrona. Sono 52 le famiglie, spiegano i due, che partiranno dalle montagne calabresi verso il Brasile. «Riformatori o negrieri?», titolerà L’Unità a distanza di qualche giorno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Pedrinhas e l’Opera Sila in Parlamento

    Giacomo Mancini ricorderà quella giornata pochi mesi dopo alla Camera, definendo l’operazione Pedrinhas «un’indegna farsa» per celare «l’attività negriera» dell’Opera Sila. In effetti, la terra da distribuire in Sila all’epoca era più che sufficiente per non costringere ad emigrare proprio nessuno. Dello stesso avviso il comunista di Acri Francesco Spezzano, che dal suo scranno in Senato tuona contro l’Ovs: «Da Opera di applicazione della riforma fondiaria, da Ente esecutivo della riforma fondiaria, si è trasformato in ente di organizzazione dell’espatrio in massa dei contadini. Potrei dire anzi, che, per diminuire la pressione dei contadini, da ente di riforma si è trasformato in ente di vendita di carne italiana».

    Brasil…a: dal latifondo al deserto rosso

    A 550 km dalla capitale São Paulo, a 50 dalla città più vicina, in una sconfinata distesa di terra rossissima, fertile ma in gran parte ancora da bonificare, arrivano i primi italiani. Sono 143 famiglie provenienti da 16 regioni diverse, nove arrivano dalla provincia di Cosenza. Ma la parte del leone della nascente colonia l’avranno i veneti, in particolare quelli che arrivano da San Dona’ di Piave.
    Guida, spirituale e non solo, di Pedrinhas sarà infatti Ernesto Montagner, prelato partito insieme ai sui parrocchiani verso quel remoto angolo di Brasile. E “l’atto di nascita” della cittadina italo-brasiliana è proprio la posa della prima pietra della chiesa di San Donato nel bel mezzo del minuscolo paese a settembre del ’52, anche se il primo nucleo di operai italiani è lì già da dodici mesi. I sangiovannesi arrivano il 23 dicembre dello stesso anno.

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    I primi italiani ad arrivare in Brasile per la fondazione della città

    Le speranze di un futuro migliore lasciano presto il posto alla durissima realtà. Il clima torrido è un inferno per i silani e la vita brasiliana è ancora peggio di quella tra i monti calabresi.
    A raccontare la delusione è Virgilio Lilli, inviato sul posto dal Corriere della Sera nel ’54. «Quando le famiglie trasportate sulle belle navi giunsero a Pedrignas (confini Stato Paranà-Stato San Paolo), trovatesi di fronte alla terra rossa incolta, alle case ancora deserte, al silenzio della terra tropicale (malgrado l’altezza), scoppiarono in pianto. Anche le donne di quelli che resistettero piansero sei mesi di fila, tutte le notti; poiché avevano intravisto il lusso, il conforto, la felicità, in mare, ed ora si scontrarono con la dura vita degli inizi. Quanto ai deboli, arrivarono gridando che volevano tornare a casa e ottennero un giorno di tornare a casa».

    «Tutto quello che ci hanno fatto lo devono pagare»

    È ancora Mancini a far conoscere al Parlamento le condizioni dei coloni, leggendo alcune loro lettere inviate ai familiari in Calabria dal Brasile.
    «Cara madre, ti scrivo con un po’ di ritardo, causa che ho voluto prima vedere la situazione. Qui tutto male. Ci hanno imbrogliato bene, a cominciare dalla paga che non basta solo a me per il sapone e per qualche pacchetto di sigarette, perché qui è un caldo che non si resiste. Ci danno 35 cruzeiros che ammontano a mille lire italiane; 500 se le trattengono al giorno per la mensa e le altre se ne vanno così: sapone prima base, perché qui è una terra rossa che siamo diventati tutti rossi. Quindi questo anno ci debbo stare, perché c’è il contratto che ognuno di noi ci dobbiamo fare un anno di lavoro; appena finisco sono con voi. Un anno di sacrifici, ma tutto quello che ci hanno fatto a noi i signori lo devono pagare».

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    Contadini al lavoro nella neonata Pedrinhas

    «Fuori dalla civiltà umana»

    Un altro colono sangiovannese si rivolge così al marito di sua sorella: «Caro cognato, in quanto mi dite che avete inoltrato domanda per venire in Brasile ti prego di rinunciare subito. Le nostre condizioni sono molto tristi in quanto non abbiamo niente di buono. L’acqua viene tirata dai pozzi; è filtrata, un’aria tropicale e un caldo insopportabile. Come paga non abbiamo niente; come vi ho già scritto che abbiamo 35 cruzeiros, 15 di mensa, 10 se li trattengono per il viaggio, e possiamo mandare il quaranta per cento del guadagno ma non dobbiamo fare nient’altro né fumare, né bere una birra né sapone; fatevi voi il conto se possiamo mandare soldi a casa; e non possiamo neanche scrivere a nostro piacere: per i francobolli ci vogliono 6 cruzeiros. Caro cognato qua si vive fuori dalla civiltà umana, non c’è distinzione di giorni, né domeniche, né feste, sono tutti i giorni uguali. Sono andato alla direzione della nostra compagnia e ci ho detto che ci rimpatria subito così sono io che vi devo raggiungere».

    Fuga dalla schiavitù

    I contadini silani a Pedrinhas sono tra i primi a ribellarsi. Minacciano di dare fuoco alle case appena costruite e nel giro di un anno si ritrovano praticamente tutti al porto di Santos per tornarsene in Sila. Le fughe dalla colonia sono solo all’inizio. A settembre del 1953 oltre 150 coloni italiani scappati da Pedrinhas sono a São Paulo in attesa di rimpatrio. Le famiglie vanno via in piena notte, incuranti di aver abbandonato casa, attrezzi, bestiame.
    Un anno dopo 170 coloni già ingaggiati con contratti capestro lasciano Pedrinhas, denunciando di aver subito un trattamento da schiavi. Restano per mesi nella Hospedaria de Imigrantes di São Paulo dove li trattano «peggio dei prigionieri», abbandonati da tutti. Rosario Belcastro, futuro dirigente della DC e della Cisl calabrese, pur di farsi rimpatriare preferisce spacciarsi per comunista agli occhi della polizia brasiliana, finché questa non lo accompagna alla frontiera e lo rispedisce in Sila.

    Basta Pedrinhas: l’Opera Sila e i passaporti strappati

    I calabresi a restare a Pedrinhas sono pochissimi, come ricostruisce Pantaleone Sergi in un articolo per il Giornale di Storia Contemporanea del 2016 che ripercorre il progetto brasiliano dell’Opera Sila. Ci sono Biagio Talarico, che è arrivato lì con altri familiari presto rientrati tra i monti calabresi, e il sarto Francesco Mascaro. Entrambi, però, si trasferiscono dopo pochi anni in città più grandi. E c’è Francesco Romano, che resiste invece in mezzo a quella terra roxa «che penetra ovunque, si respira nell’aria, s’attacca ai panni e alla pelle, colora di rosso ogni cosa, segnando tutto col suo marchio inconfondibile».pedrinhas-paulista-06-1-opera-sila

    Poco tempo dopo lo raggiungerà anche un fratello, ultimo dei “bra-silani” di quel poco riuscito tentativo di emigrazione programmata. E gli altri lavoratori ingaggiati in Calabria? Niente più Pedrinhas per loro, riferirà ancora Mancini in Parlamento: si sarebbero presentati negli uffici dell’Opera Sila per poi stracciare il passaporto in faccia ai funzionari dell’ente «che, per incoscienza o per cinismo», si erano dati da fare «per fornire altra carne di lavoratori di San Giovanni in Fiore al Brasile generoso e ospitale di Caglioti».

    Pedrinhas Paulista, 2023

    Settantuno anni dopo la sua fondazione, Pedrinhas Paulista è una cittadina di circa 3.000 anime, il doppio rispetto agli anni ’50, in buona parte di origini italiane. Le stradine si incrociano con Avenida Brazil e Avenida Italia, arterie principali del paese, e pare si viva anche bene da quelle parti. Di certo, meglio che agli inizi. Ci sono statue di centurioni e della Lupa capitolina che allatta Romolo e Remo. Una targa ricorda i nomi dei primi coloni e i loro sacrifici per tirare su il villaggio. Accanto alla chiesa di San Donato c’è il Memorial do Imigrante. Un grande arco, un colonnato e gli stemmi dei posti da cui arrivarono i “padri fondatori”, Regione Calabria inclusa.

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    Il Memorial do Imigrante: sotto l’arco, secondo da sinistra, si intravede lo stemma della Calabria
  • Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Come ho già ricordato, a Girifalco sorse la primissima loggia massonica d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra). E lì vicino, a Parghelia, nacque pure Antonio Jerocades, l’abate eretico tra i primissimi “grembiuli” della Penisola. Si può aggiungere un terzo vertice e formare – com’è giusto (e perfetto) che sia – un triangolo: un massone di spicco nacque infatti a Cardinale, lì tra le montagne a metà strada tra Pizzo e Soverato, a due passi da Serra San Bruno e da quella Chiaravalle Centrale che decenni fa era – per i bibliofili – sinonimo di Frama-Sud sul colophon di certi volumi ormai introvabili. Si tratta di Francesco De Luca.

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    Cardinale in una foto di qualche decennio fa

    Da Catanzaro a Napoli e ritorno

    Giustamente ci si chiederà: “quale Francesco De Luca?”, dal momento che credo si tratti della combinazione onomastica più diffusa in Calabria… Si tratta di quello nato il 2 ottobre 1811 in casa del farmacista liberale Martino De Luca e di sua moglie Maria Carello. Una famiglia solida e prolifica, la loro, dato che il piccolo Francesco avrà poi altri nove fratelli più piccoli (Eugenio, Giovanna, Vincenzo, Elisabetta, Isabella, Sebastiano, Caterina, Domenico e Giuseppe Maria). E, soprattutto, una famiglia di formazione illuministica e positivistica. Non a caso, Francesco fu indirizzato subito agli studi e si diplomò al Liceo Galluppi di Catanzaro per poi laurearsi in Fisica – ovviamente a Napoli – nel 1832 e in Diritto – sempre a Napoli – nel 1835.

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    Palazzo Loffredo, ex sede del Real collegio di Potenza

    Tuttavia, nonostante il milieu borghese e le entrature che certamente non gli saranno mancate, Francesco De Luca non torna vincitore dai concorsi per l’insegnamento – né in Fisica né in Diritto Civile – presso il Real Collegio di Potenza. Ripiega quindi verso il capoluogo natio, dove si dedica all’insegnamento privato.
    Decurione di Catanzaro, questa fin troppo libera docenza gli concede però il tempo di scrivere alcune opere di matematica, metrologia ed economia nonché di incominciare a svolgere la meno libera professione d’avvocato – anche per conto del Ministero delle Finanze – presso la Gran Corte Civile delle Calabrie, patrocinando poi anche in Cassazione nell’ambito del diritto commerciale.

    Francesco De Luca, il ribelle anticlericale

    Fin qui nulla di tanto strano: sembrerebbe la normale biografia di un medio notabile di provincia. Ma c’è dell’altro: Francesco De Luca non aveva mai troncato i contatti con l’ambiente politico liberale napoletano né poi con quello mazziniano. Amico di Francesco De Sanctis e dei patrioti Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Camillo De Meis, partecipa infatti ai moti risorgimentali difendendo le barricate alzate dai popolani, il 15 maggio 1848, dinanzi alla chiesa napoletana di Santa Brigida, sul retro dell’attuale Galleria Umberto I. Fu questa esperienza rivoluzionaria che gli suggerì di scrivere un saggio, Della educazione politica de’ popoli del Regno di Napoli (Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1848). Al suo interno De Luca esprimeva l’avversione verso l’assolutismo e la gerarchia ecclesiastica, auspicava che tutti i beni di questa passassero ai Comuni e che si limitasse il numero dei prelati.

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    “Il 15 del maggio in Napoli”, litografia di Ferdinando Perrin (1851) sui moti del 1848

    Comincia dunque a delinearsi meglio la sagoma di un Francesco De Luca anticlericale e ribelle. Proprio per questi scritti lo arrestano nel 1852 con l’accusa di “detenzione di carte, stampe e libri criminosi e varie lettere di corrispondenza con persone emigrate”. Prosciolto e scarcerato dietro cauzione nel 1853, assieme ai suoi fratelli Vincenzo e Domenico, De Luca raggiunse la Francia passando attraverso la Corsica, e stabilendosi in esilio a Parigi presso il fratello Sebastiano.

    La proposta a Garibaldi

    Ma nel 1859 Francesco De Luca è già di nuovo a Napoli, gomito a gomito con Giuseppe Garibaldi al quale propone la soluzione federalista. Auspica la nascita di una Camera del Meridione che avrebbe evitato il plebiscito unitario, ritenuto pericoloso per la fusione delle terre meridionali al contesto subalpino. Eh, quale illuminazione e lungimiranza!
    Fu così che De Luca divenne Consigliere Provinciale nel 1861. Nello stesso anno venne eletto al Parlamento nelle file della Sinistra, nel collegio di Serrastretta, rimanendo alla Camera fino alla morte (rieletto poi anche nei collegi di Napoli, Chiaravalle Centrale, Molfetta e Minervino Murge).

    Francesco De Luca, un meridionalista alla Camera

    Alla Camera fu difensore degli interessi del Mezzogiorno, nonché uno dei maggiori esperti nelle questioni economiche e finanziarie: presentò tre progetti di legge, “Sul riordinamento della compilazione Statistica nel Regno d’Italia”; “Sui tributi diretti erariali”; e sulle “Modificazioni al sistema dei tributi diretti”. Vicepresidente della Camera nel 1866 nonché Vicepresidente e Presidente della Commissione generale del bilancio in sette diversi mandati, Francesco De Luca votò a favore del trasferimento della Capitale a Firenze e capeggiò il gruppo dei “deluchisti”, ovvero quella «Sinistra Giovane» particolarmente attiva nel votare in favore di leggi che venissero incontro al Meridione.

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    Francesco De Luca nei suoi primi anni da parlamentare

    Nel 1869 fece il possibile affinché da Serrastretta potesse transitare la nuova Strada Statale n.19 delle Calabrie ma prevalse la scelta proposta da Giovanni Nicotera, il quale impose il tratto stradale Soveria Mannelli – Decollatura – Platania – Nicastro – Maida. Quando, infine, la Sinistra Storica e la Sinistra Giovane presentarono un programma unitario, De Luca non accettò il compromesso a causa di – come scrisse De Sanctis – «soverchia rigidità  nei principii e per l’inflessibilità  del suo carattere, mirando diritto e sdegnoso delle linee curve».

    La massoneria e lo scontro con Carducci

    Fin qui la politica. E poi c’è la massoneria. Nel frattempo, infatti, Francesco De Luca si affiliò nel 1862 alla Loggia «Sebezia» all’Oriente di Napoli – su probabile suggerimento e invito dell’arciprete calabrese Domenico Angherà, che ne fu Maestro Venerabile fino al 1873 –, passando poi alla «Dante Alighieri». Nel dicembre 1862 fu tra i promotori del Gran Concistoro dei Sovrani Principi della Valle di Torino e fu membro del Gran Concistoro italiano costituito nel marzo 1863.

    Tenne inoltre la presidenza della Costituente massonica riunita a Firenze dal 21 al 23 maggio 1864, durante la quale Garibaldi si dimise dalla Gran Maestranza del Grande Oriente d’Italia. In quell’occasione lo stesso De Luca fu nominato nientemeno Reggente, in carica dal settembre 1864 fino al 18 maggio 1865.
    Durante tale riunione fiorentina delle diverse Logge massoniche italiane di diverso rito, De Luca ne auspicò una fusione che ammettesse anche candidati cattolici e socialisti. Un auspicio, questo, che lo portò a scontrarsi duramente con Giosuè Carducci, assolutamente fedele al massonismo più nazionalista e anticlericale.

    La quadratura del… triangolo

    De Luca divenne infine Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia il 28 maggio 1865, in chiara ottica antipapale. Ricoprì il ruolo fino al 20 giugno 1867, quando lo delegarono a rappresentare il Grande Oriente d’Italia al Congresso della pace di Ginevra. Tornò poi alla meno impegnativa carica di Maestro Venerabile presso la loggia “Masaniello”, ovviamente all’Oriente di Napoli. Durante il 1866 aveva peraltro costituito in Grecia, assieme a sette logge italiane, il Centro Massonico di Atene, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, che l’anno dopo diventò indipendente con il nome di Grande Oriente Ellenico. Niente male, insomma, per un intellettuale come tanti, arrivato dalla periferia del Regno.saverio-fera

    Ora, non vorrei rovinare la perfezione del triangolo di cui parlavo in apertura, ma se aggiungessimo un altro vertice potremmo anche fare quadrato e menzionare velocemente la vicinissima Petrizzi, patria di un altro Gran Maestro, di un’altra massoneria italiana, quella di Piazza del Gesù: Saverio Fera. Due Gran Maestri a 15km e una quarantina d’anni di distanza: primato mica da poco, per i figli di due minuscoli paesini quali erano Cardinale e Petrizzi rispettivamente nel 1811 e nel 1850.

    Francesco De Luca e i suoi fratelli

    Ma torniamo a De Luca: dei suoi fratelli, Vincenzo si distinse nella repressione del brigantaggio, Domenico fu oculista insigne, Giuseppe Maria geografo e socio dell’Accademia dei Georgofili, Eugenio docente presso l’Accademia Militare della Nunziatella e Sebastiano fu professore di Chimica nelle Università  di Pisa e Napoli, Direttore dell’Ateneo Italiano di Parigi e infine nominato senatore del Regno nel 1880 in quanto membro della Regia accademia delle scienze.

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    Cardinale, il monumento massonico in ricordo di Francesco De Luca

    Quanto a Francesco, ammalatosi nel novembre del 1873, morì a Napoli il 2 agosto 1875 e per sua espressa volontà fu sepolto nella Chiesa matrice di San Nicola, a Cardinale. Essendo tuttavia stato esponente di massimo rango della massoneria, l’arcivescovo di Catanzaro ordinò di tumularlo presso il cimitero comunale e senza esequie religiose. Con buona pace dell’arcivescovo, lo commemorarono alla Camera il 15 novembre 1875. Nel tempo gli hanno intitolato alcune vie a Serrastretta e a Palermiti (Catanzaro), nonché una piazza a Cardinale e la casa massonica di Catanzaro.