Cum panis… condividere lo stesso pane: il titolo calzante per lo scritto di Antonella Iaschi e per la serata dedicata a Siderno alla memoria di una donna. Si chiamava Silvestra Tea Sesini e ha vissuto più vite, ma con una costante: la condivisione col prossimo delle sofferenze, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte. Da antifascista, da partigiana, da attivista nella politica e nel sociale dopo la débacle del regime. Fino agli ultimi anni passati, lei nata a Biella come Silvia Francesca Luigia Tea, a Siderno.
L’incontro è stato voluto dalla sezione ANPI insieme alla Federazione Italiana Teatro Amatori e all’associazione Il Gabbiano, col patrocinio del Comune di Siderno rappresentato dall’assessora Francesca Lopresti. Dopo l’introduzione di Federica Roccisano, la scena l’ha dominata in modo sublime l’attrice Daniela Bertini, con la regia di Daniele Matronda. Grande merito va attribuito ad Antonella Iaschi, poetessa e scrittrice che, come Silvestra Sesini, ha scelto di lasciare il Nord Italia per venire a vivere a Roccella Jonica.
Il marito, l’amica e i nazisti
Il suo testo – liberamente tratto da scritti della stessa protagonista, di Rosalba Topini e di Domenico Romeo – si apre con lo sguardo di Silvestra che scruta il mare. Pensa al marito Ugo Sesini, ebreo antifascista che finì i suoi giorni nel 1944 a Gusen, dopo l’internamento a Mauthausen.
«Padre del mio unico figlio, compagno di vent’anni della mia vita», così lo ricorda Silvestra nella versione di Antonella Iaschi. «Sapessi, Ugo, quanto è stato difficile, continua, (…) rapportarmi con un figlio orfano senza fargli mancare il padre, senza fargli sentire la mia solitudine».
L’ingresso del campo di Mauthausen
Poi la mente di Silvestra si volge all’amica Anna Maria Enriques, chiamandola con il cognome paterno negatole dalle leggi razziali. «Compagna di studi, di stanza, di ideali, di conquiste, di paure e di dolori, donna e partigiana disarmata, lottatrice coraggiosa che nemmeno le più atroci torture naziste hanno piegato».
Antonella Iaschi rende bene lo struggimento della partigiana Silvestra Sesini che scrive «sulla battigia due date: i giorni in cui vi ho perso per sempre fisicamente, ammazzati come bestie dai nazisti, ma un’onda più saggia le ha cancellate (…) quelle date non sono nulla nel calendario delle nostre vite. Il ricordo delle ore trascorse insieme è il campo che ho a disposizione per coltivare frutti buoni. Per la cancrena nazista ho perso il vostro corpo, i vostri sguardi, i vostri abbracci, la vostra voce, ma non la forza di portare avanti i NOSTRI valori».
Condividere lo stesso pane
Silvestra – Antonella è tormentata. Non è sicura che quello successivo alla Liberazione sia stato e sia un tempo di pace effettiva, o solo un’apparenza. «(…) in realtà quella Pace non è mai nata se ancora esistono la fame e gli stenti, l’ignoranza e la sottomissione alla violenza sia nelle case che nelle strade. Se ancora nel mondo esistono decine e decine di guerre altre. In realtà quella libertà è un’apparenza e lo sarà fino a quando un solo bambino, un solo essere umano dovrà patire sopraffazioni e stenti».
Silvestra Tea Sesini
Solo la morte riesce a separare le due amiche. Silvestra Sesini, grazie a «un provvidenziale trasferimento all’infermeria di Regina Coeli» prima della fucilazione, si salva. «La tua sorte, invece, ha calato la sua falce arrugginita sui tuoi 37 anni (…). (Le SS) ti hanno ammazzata con la pistola insieme ad altri partigiani. Tu che avevi scelto l’Amore e la Resistenza disarmata».
Per sopravvivere al dolore immenso della morte di due persone così care e vicine, Silvestra sceglie l’unica strada che sente sua fino in fondo, di fare ciò che può rinvigorirla e in parte consolarla: «Ogni giorno della mia vita è e sarà impegno, devoto agli ideali e disobbediente all’indifferenza. Come eravamo noi. Cum panis. Condividere lo stesso pane».
Silvestra Sesini e Siderno
Ed ecco, infine, l’approdo di Silvestra Sesini a Siderno, nel 1958. Nelle parole che Antonella Iaschi attribuisce a Silvestra, tutto l’amore per questa terra. E certo non è un caso che, ispirandosi a Silvestra, a scriverle sia una donna che ha sperimentato la stessa emigrazione “al contrario”.
«A inizio estate qui al Sud l’erba è già imbiondita ma ancora non è bruciata dal sole, i fichi d’India sono puntellati di fiori gialli, i gelsomini sbocciano per le mani veloci delle raccoglitrici mentre decine e decine di fiori spontanei crescono indisturbati. Se questa terra non fosse dimenticata dallo Stato, maltrattata da persone senza scrupoli, e tenuta nell’ignoranza da un sistema scolastico non sufficiente, le sue bellezze la farebbero diventare uno scrigno d’oro. Come d’altronde era un tempo.
Qui il destino mi ha concesso di nuovo l’emozione grande di incontrare chi non avendo nulla, nemmeno i diritti primari, ti apre il cuore e si affida, senza sapere che sei tu ad affidarti a lui. La gente che si ferma a parlare con me per le strade, in piazza, al mercato, che mi racconta i propri problemi mi ha fatto diventare semplicemente e unicamente Silvestra, una di loro. (…) Questi cieli infinitamente blu, questo mare che sa essere piombo, smeraldo, ametista e turchese, questo arenile dove ogni orma mi dice “sei viva, vai avanti,” mi hanno regalato la consapevolezza di quello che ancora vorrei. È stato talmente facile innamorarmene e decidere di restare».
Il testamento di Silvestra Sesini
Ormai anziana, Silvestra Sesini esprime la sua volontà ultima, dando l’ennesima prova di come il nostro andrebbe conservato come mare di vita – non di morte come accade troppo spesso – per come riesce a penetrare nell’anima delle persone che gli si avvicinano: «Voglio che la mia tomba sia rivolta verso il mare. Sì, questo è il mio testamento. Affido ai Sidernesi il mio desiderio di guardare ancora una volta, anzi per sempre, il mare».
“Come pensare e scrivere un libro di storia”. È questo il titolo dell’incontro in programma il 27 luglio alle ore 20:30 nella villetta comunale di Firmo, in Arbëria.
Durante l’incontro interverrà Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro, autore di Onomastica dei Greco-Albanesi del Regno di Napoli e di Sicilia. Secoli XVI-XVIII. Origini e sviluppi negli insediamenti. Cenni di toponomastica.
Parteciperanno, oltre all’autore del libro, anche Pino Bosco (sindaco di Firmo), Gianfranco Castiglia (dottorando di Ricerca all’Unical), Attilio Vaccaro (Docente di Storia Medievale all’Unical), Antonello Savaglio (deputato di Storia Patria per la Calabria).
La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.
Nicola Serra: un notabile tra due secoli
Nicola Serra
Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.
La passione socialista
Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?
Francesco Crispi
La prima condanna e le seconde elezioni
A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.
Nicola Serra e i compagni col grembiule
La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.
Pasquale Rossi
Nicola Serra in crisi col Psi
Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.
Un notabile di sinistra
A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche. Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.
Lydia Toraldo Serra
Nicola Serra e i legami coi cattolici
Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.
Nicola Serra parlamentare e poi ministro
Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale. Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.
Gennaro Cassiani
Interludio: la strage di Firmo
È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dalsindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi. Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge. Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.
Nicola Serra e il fascismo
Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso. In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.
Luigi Facta
Una celebrazione particolare
Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere. Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
Ma questa è un’altra storia.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.
Pasquale Rossi
Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia
La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.
Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano
Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.
Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana
L’esordio telesiano di Pasquale Rossi
Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.
Laurea e primi guai a Napoli
Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.
Il filosofo e politico Silvio Spaventa
Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.
Medico e socialista in prima fila
C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.
Il leader socialista Filippo Turati
Giornali ed elezioni
Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.
Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano
La psicologia delle folle
Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.
Gustave Lo Bon
La morte prematura di Pasquale Rossi
Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Oggi ci si ricorda di Bonaventura Zumbini con un timore un po’ prosaico: a lui è dedicata la piazza che collega il centro di Cosenza al Tribunale.
Una zona dov’è quasi impossibile parcheggiare e, al contrario, è facilissimo beccarsi una multa.
Zumbini, a cui è dedicata anche una scuola, è uno degli intellettuali più prestigiosi di Cosenza e del Sud a cavallo tra l’Unità d’Italia e la Prima guerra mondiale. Soprattutto, è un intellettuale che ha fatto carriera più per meriti culturali che politici.
Cosa non facilissima nella Calabria di tutti i tempi. Ma andiamo con ordine.
Bonaventura Zumbini: un figlio di papà con l’amore per i libri
La biografia di Bonaventura Zumbini non è troppo diversa da quella di altri notabili meridionali della sua epoca.
Nasce a Pietrafitta, un paesone alle porte di Cosenza, il 10 maggio 1836. È un figlio di papà di famiglia numerosa: è il primo dei sette figli di Tommaso, un facoltoso terriero, e di Maria Orlando. E, a quel che risulta, l’unico della nidiata col pallino dei libri.
Una passione che coltiva nella biblioteca di casa. Infatti, Zumbini non frequenta le scuole ma fa la classica trafila dei precettori domestici, tipica dei rampolli della società-bene. Infatti, il suo unico titolo di studio è la laurea, conseguita a trentadue anni a Napoli (1868).
Bonaventura Zumbini
Il ragazzino e il professore
Nel 1848 Francesco de Sanctis, professore di letteratura alla Nunziatella di Napoli, è il classico intellettuale di belle speranze finito in bassa fortuna.
Infatti, proprio in quell’anno, l’intellettuale irpinate finisce nel mirino della polizia borbonica per la partecipazione ai moti liberali al seguito di un altro intellettuale “radical”, almeno secondo i criteri dell’epoca: Luigi Settembrini.
Quest’ultimo, avvocato mancato e letterato di grido, finisce in galera assieme ai patrioti antiborbonici. Invece de Sanctis ripara in Calabria, prima a San Marco Argentano e poi a Cervicati, dove fa il precettore a casa del barone Francesco Guzolini.
Proprio in questo periodo, conosce il giovane Bonaventura, che ha appena quattordici anni, e resta colpito dalla sua intelligenza precoce e dalla sua erudizione, a dispetto della mancanza di titoli.
È l’inizio di una lunga amicizia, testimoniata da un corposo epistolario.
Intermezzo: l’odissea di de Sanctis
A dispetto delle protezioni altolocate, de Sanctis finisce nelle maglie della polizia, che lo spedisce a Castel dell’Ovo, all’epoca temutissima galera borbonica, dove resta fino al 1853, quando re Ferdinando II lo espelle con una destinazione da cui non dovrebbe più nuocere alla monarchia delle Due Sicilie: gli Stati Uniti d’America.
Ma il destino – o, più prosaicamente, l’equipaggio della nave su cui è imbarcato – vuole altrimenti: complice una tappa a Malta, il campano se la batte e si rifugia a Torino, che per i patrioti e i liberali è un po’ come la Parigi tra le due guerre per gli antifascisti.
Lì si dedica alla grande alla politica e all’attività culturale, prima come mazziniano e poi come garibaldino. La conquista delle Due Sicilie apre a de Sanctis nuove prospettive: prima Garibaldi lo nomina governatore di Avellino. Subito dopo, diventa ministro della Pubblica istruzione del neonato Regno d’Italia.
A questo punto, torniamo a Zumbini.
Francesco de Sanctis
Bonaventura Zumbini: prima prof poi preside
Mentre de Sanctis passa i suoi bravi guai e poi fa carriera, Zumbini fa l’intellettuale ricco, come dopo di lui avrebbe fatto Benedetto Croce. Studia e, soprattutto, scrive.
Pubblica un bel po’ di articoli per Il calabrese rigenerato, l’ambiziosa rivista culturale di un altro supernotabile: Alessandro Conflenti.
Al foglio, che vanta il primato di essere l’unico periodico non napoletano del Regno delle Due Sicilie, collaborano altri due pezzi grossi: il poeta acrese Vincenzo Julia e il nobile e intellettuale cosentino Mariano Campagna. E scusate se è poco.
Poi Zumbini decide di mettersi in proprio e fonda La Libertà, una testata dedicata anche alle analisi socio-politiche.
Negli anni travagliati dell’Unità, lo studioso cosentino entra nell’Accademia Cosentina, altro trampolino importante che, assieme all’amicizia di de Sanctis, si rivela fondamentale. Infatti, il neoministro nomina l’amico cosentino ispettore delle Scuole primarie del Regno.
Poi, a partire dal 1865, Zumbini diventa prof e direttore della Scuola normale maschile di Cosenza (per capirci, l’antenata dell’attuale Liceo Lucrezia della Valle). Infine, decide di andare a Napoli per conseguire la laurea in Lettere, che ottiene a tempi di record.
Autodidatti di successo
A questo punto, è necessaria una riflessione sull’autodidattismo di Zumbini. Possibile che una persona come lui, coltissima ma analfabeta per lo Stato, potesse fare una carriera così notevole?
All’epoca sì. E questo dettaglio deve far riflettere anche sul presunto analfabetismo del Sud nell’epoca preunitaria.
In realtà, nel Regno delle Due Sicilie non è carente l’istruzione in sé ma il sistema scolasticopubblico. Detto altrimenti: le scuole sono poche, rispetto alla popolazione, ma gli alfabetizzati sono comunque di più perché, chi può, anche i “piccoloborghesi”, va dal precettore.
Di questo aspetto curioso della società meridionale si è accorto a suo tempo lo storico Alessandro Barbero che nel suo Prigionieri dei Savoia analizza le corrispondenze dei militari borbonici e nota, anche con un po’ di meraviglia, che quello delle Due Sicilie non è in realtà un esercito di contadini analfabeti ma è pieno di artigiani, commercianti e piccoli professionisti, con un tasso di alfabetizzazione non proprio disprezzabile.
Ciò fa presumere, come ha notato anche lo studioso Lorenzo Terzi, che i dati sull’analfabetismo meridionale al momento dell’Unità potrebbero essere falsati, perché basati solo sull’istruzione pubblica, forte al Nord, ma carente in tutto il resto del Paese.
Come mai lo scarso interesse dei Borbone verso l’istruzione pubblica? La risposta è banale e poco retorica: l’allergia ai debiti e alle tasse della monarchia napoletana.
Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie
Borbone oscurantisti? No, tirchi
I Borbone, soprattutto Ferdinando II, basano molto del loro consenso sul fisco piuttosto mite. Quindi investono poco e si indebitano poco. Al momento dell’Unità, l’ex Regno delle Due Sicilie ha le casse solide, una riserva aurea apprezzabile e, soprattutto, titoli finanziari ben quotati (ad esempio, il Neapolitan Bond). Peccato solo che tutto questo non giovi molto alla popolazione, che produce a livelli di sussistenza senza una reale prospettiva di sviluppo.
Lo Zumbini intellettuale di carriera autodidatta non è, come sarebbe stato Croce, l’eccezione che conferma la regola. È la regola, in quel tipo di società.
Bonaventura Zumbini accademico in carriera
Subito dopo la laurea, Zumbini pubblica Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, che lo fa notare positivamente, grazie anche a una recensione articolata dell’amico de Sanctis.
Come tutti i notabili, anche il Nostro si fa tentare dalla politica e si candida alla Camera in Calabria nel 1870 ma fa un passo indietro a favore di Luigi Miceli, ex garibaldino e astro nascente della politica calabrese.
Non demorde, invece, a livello intellettuale: nel 1874 diventa presidente dell’Accademia Cosentina, nel 1877 fa carriera all’Università di Napoli grazie all’interessamento del solito de Sanctis e di Bertrando Spaventa, fratello maggiore del ministro Silvio e zio di Benedetto Croce.
Anche in questo caso, la carriera è “lampo”: prima ottiene la libera docenza alla Scuola di Magistero (l’antenata dell’odierna Scienza della formazione), poi azzecca il concorso a professore ordinario, infine (1878), succede a de Sanctis nella cattedra di Letteratura. Non finisce qui: il cosentino, forte di appoggi ma capace anche di farsi benvolere, fa il colpaccio e, nel 1881, diventa rettore.
Castel dell’Ovo
Un cosentino giramondo
Ormai Zumbini è napoletano al cento per cento: si è stabilito a Portici ma non dimentica Cosenza, dove va di tanto in tanto.
Soprattutto, non dimentica l’Accademia Cosentina, dove fa conferenze e presso la quale promuove, in qualità di presidente, la creazione di una biblioteca. Detto altrimenti, è anche merito suo se è esistita la Civica.
Anche l’appuntamento con la politica, rimandato negli anni ’70 dell’Ottocento, riprende alla grande: fa parte di varie commissioni ministeriali (sua l’istituzione degli esami delle Scuole medie) e viene nominato senatore nel 1901.
Viaggia tanto, per approfondire lo studio delle letterature straniere, in particolare quelle tedesca e inglese. Al netto di ogni altra disquisizione estetico-letteraria, si può attribuire a Zumbini una specialità accademica: la letteratura comparata.
Muore a Portici il 21 marzo del 1816 alla ragguardevole età, per l’epoca, di ottant’anni. Uno di suoi ultimi pensieri è rivolto a Cosenza e alla sua Accademia, a cui regala la propria biblioteca. Che purtroppo, finisce in cenere durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Restano di lui un busto marmoreo realizzato dallo scultore Mario Rutelli, esposto ancora nei locali dell’Accademia Cosentina, più varie dediche toponomastiche. A Cosenza, di cui si è già detto, e a Pietrafitta.
Il minimo, per un intellettuale illustre, esponente di una élite di livello europeo. Forse l’ultima che abbia avuto Cosenza.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Condidoni, Mandaradoni, Paradisoni, Potenzoni, San Costantino, San Leo, Sciconi, sono le frazioni del comune di Briatico, in provincia di Vibo. Sulla carta, in tutto, sarebbero 3.727 i suoi abitanti. Nel 1951 erano 4.826, ma non è un paese spopolato. D’estate poi si affolla non solo di emigrati in viaggio sentimentale. Tanti turisti scelgono le sue spiagge e amano visitare pure le frazioni, specie in occasione delle sagre e delle faste religiose. Molti i tedeschi, riconoscibili perché formano delle file ordinatissime per pagare il piatto di frittura o i fileja, che devono apparirgli veramente esotici. Esotici come gli italiani, che non riescono a rimanere in una fila.
Prima dei turisti qui, in tempi più remoti e con motivazioni diverse, sono giunti viaggiatori e studiosi per osservare da vicino gli effetti spaventosi del terremoto del 1783. E missioni filantropiche costituite per portare finanziamenti per la ricostruzione, realizzata con innovativi piani edilizi, che prevedevano strade regolari e piazze ampie, edifici bassi e leggeri.
Un’illustrazione sugli effetti del terremoto del 1783 in Calabria
Conoscere la Calabria e i suoi abitanti da sempre ha richiesto un notevole impegno, un grande spirito di sacrificio. I viaggiatori stranieri del Settecento e Ottocento sono stati davvero eroiciad affrontare i sentieri a dorso di mulo, per vedere da vicino le voragini in cui erano scomparse intere città, ma anche i luoghi evocati da Omero, le città mitiche come Sibari, misteriose già per gli antichi romani.
Poi è stato il turno di antropologi, fotografi, ricercatori come Gerhard Rohlfs, impegnato a catalogare e analizzare i dialetti. Cercava le tracce del greco antico e di quello medievale. Il professor Rohlfs ha scattato anche molte foto, dove si vede che uomini e donne si prestavano volentieri a mettersi in posa per lo straniero curioso.
Gerald Rohlfs con un contadino calabrese
Poi, con motivazioni diverse, sono arrivati a Briatico i padri scalabriniani. Giovanni Battista Scalabrini era un sacerdote veneto, nominato vescovo di Vicenza. Impressionato e addolorato dal fenomeno migratorio, che era imponente in Veneto, Scalabrini pensò di fondare una congregazione religiosa, con la missione specifica di aiutare e assistere le comunità di italiani all’estero, perché nell’Ottocento e fino al secolo scorso tanti veneti, lombardi e piemontesi dovevano emigrare. In ogni angolo del mondo gli scalabriniani hanno posto le loro basi, per stare accanto ai loro conterranei e così hanno incontrato le comunità di calabresi, pure loro arrivati fino agli estremi confini del mondo, per costruirsi un avvenire migliore di quello che avrebbero dovuto subire a casa loro, in Calabria.
Giovanni Battista Scalabrini
I padri missionari scalabriniani si sono resi conto da subito che, per aiutare e sostenere queste comunità, era necessario conoscere le tradizioni, le culture, le abitudini dei luoghi di provenienza, i paesi a migliaia di chilometri di distanza. Così hanno fondato dei centri di studio, uno a Parigi, uno a Roma, un terzo, nel 1979 a Briatico, che oggi è in provincia di Vibo Valentia. E a Briatico arriva padre Maffeo Pretto, nato a Cologna Veneta, in provincia di Verona, nel 1929. Non arriva da solo, a Briatico, ma con altri confratelli, perché Briatico ha diverse frazioni, ognuna con la propria chiesa, a cui le piccole comunità sono molto legate.
Padre Maffeo inizia a studiare tutti i libri che trova, sulla Calabria. Li acquista, li raccoglie nella casa parrocchiale. Negli anni costituirà una biblioteca di oltre 15.000 volumi, di storia, antropologia, tradizioni popolari, letteratura. Inizia dai testi di Raffaele e Luigi Maria Lombardi Satriani, che hanno il palazzo di famiglia a San Costantino di Briatico. Coinvolge i ragazzi del paese nella gestione e nella cura di questo patrimonio, almeno quelli che decidono di non andare via.
Ma intanto assolve ai suoi compiti di parroco, conosce le persone, le ascolta. Comprende la difficile realtà di questi piccoli borghi, intristiti dall’emigrazione, con un’economia povera, precaria.
L’antropologo calabrese Luigi Maria Lombardi Satriani
Quando l’ho conosciuto padre Maffeo aveva circa settant’anni, era da venti anni a Briatico e la sua biblioteca aveva assunto ormai proporzioni ragguardevoli. Mi raccontò qualche aneddoto, sui tentativi di mettere assieme le persone, farle collaborare per raggiugere piccoli obiettivi di interesse comune. Cercava di cogliere sempre il lato positivo di quella fatica. Apprezzava l’attaccamento delle persone a quelle minuscole chiese, l’attesa della festa annuale con le luminarie e la processione come un evento centrale per la comunità. Non guardava dall’alto in basso queste manifestazioni, come spesso fanno i sacerdoti, specie quelli non particolarmente colti.
Aveva iniziato a pubblicare i suoi studi sul cattolicesimo popolare, le tradizioni, le devozioni delle comunità di cui era parroco. Si trattava di dispense per i confratelli, pubblicazioni ad uso interno dei padri scalabriniani. Negli anni della sua formazione si parlava molto degli studi di don Giuseppe De Luca, un sacerdote lucano, che a Roma aveva fondato le Edizioni di Storia e Letteratura e l’Archivio della pietà. Appunto per salvare questo patrimonio di cultura orale, messo in pericolo dalla laicizzazione della società, dall’abbandono dei paesi, dall’emigrazione.
Anche in Calabria qualcuno aveva deciso di rimediare. Infatti ci fu l’arrivo, a Briatico, nell’ufficio parrocchiale, nel giugno del 1986, del già irrefrenabile e incontenibile Demetrio Guzzardi, che stava avviando i primi passi della sua casa editrice. Non lo ha convinto subito, padre Maffeo, perché quel giorno Guzzardi, pur prendendo nota mentalmente dell’enorme biblioteca, doveva sposarsi, per questo motivo era a Briatico. C’ero pure io e tanta altra gente, a Sant’Irene di Briatico, uno dei luoghi del cuore della comunità ciellina di Calabria.
Ma un mese dopo l’implacabile Guzzardi era di nuovo lì a convincere padre Maffeo che i suoi studi meritavano una veste editoriale, che sarebbero stati benissimo tra le prime collane di Editoriale progetto2000. E così hanno visto la luce La pietà popolare in Calabria, nel 1983, Santi e santità nella pietà popolare in Calabria nel 1993. Nel 2005 Teologia della pietà popolare. Questo sacerdote veneto schivo, riservato e metodico, ha trascritto tutte le cantilene, le storie raccontate ai bambini, le leggende dei santi che non hanno trovato posto nelle biografie ufficiali, le litanie e le tradizioni che affondano le proprie radici nella notte dei tempi.
Infine un ultimo regalo alla comunità di Briatico, Briatico nella storia, nel 2007. Due grossi volumi, il primo dedicato al periodo feudale, il secondo al tempo moderno, fitti di documenti, storie e personaggi. Una enciclopedia che custodirà la memoria di Briatico. Anche dell’antica Briatico distrutta dai terremoti e ricostruita, per le future generazioni, come devono fare i buoni libri.
Padre Maffeo ha trascorso i suoi ultimi anni nella casa dei padri scalabriniani di Arco, in provincia di Trento. Le sue precarie condizioni di salute non gli hanno permesso di rimanere da solo in Calabria. Assistito dai suoi confratelli ha concluso la sua vita terrena il 9 giugno 2021.
La sede del Sistema bibliotecario vibonese, cui aderisce anche il Comune di Cessaniti
Prima di andare via dalla Calabria ha cercato il modo di lasciare in regalo a questa terra la sua biblioteca. La ha accolta Favelloni, frazione del comune di Cessaniti, vicino ai luoghi della sua missione trentennale. Un segno concreto del suo legame con questa terra e la sua storia.
Di lei resta poco: la dedica di una scuola importante di Cosenza, un sonetto e qualche elemento biografico, tra l’altro non proprio preciso. Eppure, Lucrezia della Valle, una nobildonna vissuta a cavallo tra XVI e XVII secolo, vanterebbe almeno un primato (in assenza di documentazione contraria): è la prima intellettuale cosentina di cui si hanno tracce. Non proprio solide, ma pur sempre tracce. Ricostruiamole un po’.
Lucrezia della Valle, l’enigma della nascita
La data di nascita di Lucrezia della Valle è pressoché sconosciuta. A tentoni, si può ipotizzare che la poetessa sia venuta alla luce attorno al 1565.
Lo si apprende da una lettera indirizzata da Sertorio Quattromani, lo zio di Lucrezia, al patrizio cosentino (e barone di Brunetto) Celsio Mollo.
La missiva è datata 1597. In essa, il celebre letterato e presidente dell’Accademia Cosentina, invita l’amico Mollo a tranquillizzare Lucrezia, preoccupata del carattere a dir poco esuberante di suo figlio, Teseo Sambiasi, che si è ficcato in una bella rissa a Napoli. «Persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza», scrive Quattromani all’amico.
È quanto basta per un calcolo presuntivo: se per “fanciullezza” s’intende la post adolescenza, Lucrezia all’epoca doveva avere almeno trentadue-trentatré anni per poter essere madre di un sedicenne.
Sertorio Quattromani
Una poetessa di buona famiglia
Riavvolgiamo il nastro: sappiamo, da queste informazioni, che Lucrezia della Valle fa parte della Cosenza-che-conta del tardo Cinquecento.
Sappiamo che suo zio è l’illustre accademico Sertorio Quattromani (infatti, è figlia di Giulia Quattromani, sorella minore di Sertorio, e di Sebastiano della Valle, proprietario e giurista legato ai Sanseverino di Bisignano).
Suo marito è un altro accademico e, va da sé, nobile: Giambattista Sambiasi.
Si apprende, da altre testimonianze, a partire da quelle contenute nell’epistolario dello zio, che Lucrezia ha una vita tutt’altro che irrequieta: è mamma di sei figli e, a parte la letteratura e gli impegni nell’Accademia Cosentina, dove è iscritta con il nome d’arte di Olimpia, non ha altre passioni.
Insomma, la classica notabile d’epoca senza grilli per la testa ma con un amore solido per la cultura. Non propriamente un’aspirante Eleonora Fonseca Pimentel.
Il giallo della morte
Anche sulla morte di Lucrezia della Valle c’è un piccolo giallo. Nulla di grave, intendiamoci: riguarda solo le date.
Al riguardo, trae in inganno proprio la ricca corrispondenza di Sertorio Quattromani con i colleghi accademici. In particolare, è fuorviante una lettera di Sertorio a Francesco Mauro, in cui il letterato piange la morte di una nipote, avvenuta nel 1602.
L’incomprensione è acuita da un sonetto di Fabrizio Marotta, composto per consolare Sertorio della perdita di una donna di nome Olimpia. L’equivoco c’è tutto.
Ma basta poco a dissiparlo. Innanzitutto, i due testamenti di Sertorio Quattromani. I documenti risalgono entrambi al 1603, il primo a ottobre, il secondo al 19 novembre, un mese prima della morte dell’accademico.
In quest’ultimo è compreso un inventario della biblioteca dell’illustre critico e, soprattutto, la nomina ad erede di Lucrezia.
Il duomo di Cosenza, ultima dimora di Lucrezia della Valle
Lucrezia della Valle riposa nel Duomo
Il secondo dato toglie ogni dubbio: riguarda il luogo di sepoltura della poetessa, il Duomo di Cosenza.
Questo dato è presente nel volume Cosenza Sacra (1933), di Cesare Minicucci. L’autore riporta anche la data precisa della morte di Lucrezia: 26 settembre 1622.
Entrambi gli elementi, data della morte e luogo di sepoltura, tornano in I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, un saggio dello storico napoletano Carlo De Frede (1999). E torna tutto il resto: cioè che la Lucrezia sepolta nel Duomo fosse proprio quella e non un’omonima.
A questo punto, sappiamo che la poetessa ha vissuto poco meno di cinquant’anni a cavallo tra Cinque e Seicento, che è parte integrante del “generone” cosentino e milita nell’Accademia Cosentina. E poi?
Solo una poesia per dire brava?
Di Lucrezia della Valle resta solo un sonetto. Lo ha trascritto il giurista e storico cosentino Salvatore Spiriti nel suo Memorie degli scrittori cosentini (1750), in cui traccia una breve biografia della poetessa.
Nelle due pagine (102-104) del suo libro dedicate alla poetessa, Spiriti tramanda varie notizie, tra cui quelle sulla produzione letteraria di della Valle, che comunque si riduce a poco. Un Canzoniere composto da quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo dedicato all’amore di ispirazione platonica.
Il tutto, in stile petrarchesco. Ma ci sta: da degna nipote e allieva, la Nostra si ispira molto a zio Sertorio che, guarda caso, è un patito di Petrarca.
Comunque, Spiriti attribuisce a della Valle anche un’opera latina: De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis. Peccato solo che sia andato tutto perso, anche perché alle soglie dell’età moderna non esistono i file epub e pdf che possono dare l’eternità a tutto.
Il liceo Lucrezia della Valle
Fu vera gloria?
Ovviamente c’è chi polemizza e mette in discussione un po’ di cose. È il caso del napoletano Pietro Napoli Signorelli, che nel suo Vicende della coltura nelle due Sicilie
(1810) mette in guardia i lettori dalle «congetture» di Spiriti su Lucrezia.
Forse Signorelli non ha proprio tutti i torti: Spiriti, animato da orgoglio di appartenenza, cerca di riportare l’Accademia ai suoi vecchi fasti e perciò scrive le Memorie, che contengono un bel po’ di propaganda.
Ma ciò non toglie che la poetessa cosentina resti una intellettuale di punta del Sud che scivolava (e non sempre bene) dal rinascimento al barocco. Lucrezia della Valle è stata paragonata ad altre letterate della sua epoca, come la laziale Vittoria Colonna, che appartiene alla generazione precedente.
Al netto di qualche esagerazione retorica o di critiche postume c’è un dato, da non sottovalutare: Lucrezia della Valle è un’esponente di una élite di grande caratura, inserita a pieno titolo nelle classi colte europee. Il che, per una città come Cosenza, che a malapena tocca all’epoca i 10mila abitanti non è davvero poco.
Un risultato notevole, che la città non avrebbe più ripetuto.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
Questa puntata tutta al femminile si svolge nella Calabria greca tra Natile di Careri e Samo e racconta la storia di due generazioni di donne, due imprenditrici dell’Aspromonte. Avevo già conosciuto Tiziana, nella due giorni di Samo. Tuttavia, la decisione di dare un “taglio” di genere è nato dopo l’incontro con Annamaria a Natile Vecchio, durante la salita a Pietra Cappa, il cuore dell’Aspromonte, la Madre.
La prima è la Presidente della Pro Loco di Careri, la seconda la giovane Presidente della Cooperativa Aspromonte: hanno in comune senso di appartenenza e di comunità, amore per l’accoglienza e la bellezza, voglia di costruire a casa loro. E la tessitura. Su questi terreni si incrociano memoria, rapporto con le istituzioni, lavoro contro lo spopolamento, strategie di sviluppo.
Il monolite
Annamaria, la promoter della montagna
«Sono stata sempre una ribelle anticonformista e non mi sono mai arresa. Nasco nel 1964. Nella mia gioventù la montagna era off-limits.
Le donne ci andavano solo con gli uomini per raccogliere le ghiande. Per il resto era considerata pericolosa, specie per le ragazze. Della montagna ricordo di aver sempre sentito il richiamo forse perché legato al senso del proibito, ma era l’era dei sequestri. Gli anni tra l’85 e l’86 sono stati quelli in cui con un picnic di Pasquetta organizzato in località San Giorgio, comune di San Luca, quasi per scherzo, abbiamo aperto le porte della montagna.
E poi piano, piano si è strutturato un giro di appassionati, grazie ai primi pionieri: il professor Domenico Minuto, Alfonso Picone Chiodo, l’avvocato Francesco Bevilacqua che già frequentavano la montagna e, da studiosi, ci hanno fatto scoprire un patrimonio che nemmeno noi conoscevamo. Scoprire di esserne i custodi ci ha dato orgoglio e ha rafforzato il nostro senso di appartenenza. Da lì in poi è partito il mio impegno». Così esordisce Annamaria Sergi, sarta e promoter della sua terra.
Annamaria Sergi e Giuseppe Bombino
Natile, la speranza dopo l’abbandono
Siamo sotto Pietra Cappa, in località Natile Vecchio, nella famosa vallata delle Grandi Pietre, pregna di sacro, già battuta dagli eremiti. Ci sono Demi d’Arrigo di Aspromontewild – la nostra guida -, Nino Morabito di Legambiente, il prof Giuseppe Bombino.
Frazione del comune di Careri e figlio della arcaica Pandore, Natile è una comunità evacuata e sradicata, segnata dai terremoti del 1783 e del 1908 e ferita dall’alluvione del 1951. Dopodiché a tutti gli effetti “delocalizzata”. É la stessa storia che ho sentito ripetere ad Africo Vecchio.
Il monolite domina su di noi. Le lame d’argento della luce di mezzogiorno ci catapultano in una dimensione quasi lunare: intorno a noi la macchia mediterranea si inerpica ai costoni di roccia lucente.
Il cuore dell’Aspromonte pulsa con il suo ritmo nascosto, il battito ancestrale di primavera che sale direttamente dalle viscere della terra e percuote tutta la vallata. Qualche falco pellegrino volteggia. Pietra Cappa, Pietra Lunga e Pietra Castello sembrano essere piovute dal cielo, conficcate come enormi chiodi nel terreno.
Il picnic diventa un ristorante
«A Natile manca tutto, non ci sono servizi, né punti di ristoro, né strutture ricettive. Abbiamo cercato di trasformare le criticità in opportunità.
Allora ci siamo inventate il ristorante all’aperto: organizziamo picnic in montagna e rispolveriamo tutto quello che le nostre nonne facevano quando andavamo a mietere il grano: mettevano tutto nella cesta e partivano.
Facciamo cultura a tavola, accompagnando il nostro piatto con la storia della nostra comunità e delle nostre famiglie, quella di una cultura povera, contadina e accogliente. E raccontare il passato ci consente di ricrearlo nel presente, riattualizzandolo. Non siamo le servette. Siamo le donne che dominano la tavola.
Per me è un onore condividere il mio sapere con gli altri. Non mi sono mai fatta ingabbiare in certi stereotipi. Il mio obiettivo è dare nuove opportunità alla mia terra, aprendo opportunità di crescita e lavoro», mi dice Annamaria al nostro rientro dal monolite. Assieme alle donne della sua Pro Loco ha preparato il pranzo picnic.
C’è il tovagliato, posate di metallo e bicchieri di vetro «perchè il plastic free è il futuro e al futuro si va educati tutti, specie chi viene a visitare il nostro territorio». Il menu è fatto di preparati a chilometro zero. Il pranzo, che è il suo modo di prendersi cura, diventa occasione di scambio, confronto e racconto.
Escursionisti a Pietracappa
Una Pro Loco per cambiare
«La mia missione è accogliere. Vengo da un passato all’interno della parrocchia: sono stata catechista, corista e membro del consiglio pastorale. É stato il mio impegno fino a quando mi sono accorta che forse c’era più bisogno di me fuori dalla Chiesa. La storia della nostra Pro Loco inizia a ottobre del 2014, grazie alla vacanza della sede di Careri. Veniamo avvisate con pochissimo anticipo.
In tre giorni istituiamo la nuova associazione. I tempi stretti ci hanno impedito di effettuare tutta la procedura di evidenza pubblica. Chi non è stato coinvolto si è sentito escluso. Quella di Natile è una Pro Loco fatta prevalentemente da donne, che hanno deciso di mettersi a servizio della loro comunità, nonostante gli scetticismi di tanti. Anzi proprio quel pensare “sunnu fimmini, c’hannu a fari?”, quel sottovalutarci, ci ha consentito di agire al meglio».
Perché Annamaria è ciò che fatto: già vicepresidente regionale e coordinatrice delle Pro Loco reggine, nove anni di impegno sul territorio a contatto con le scuole, con i turisti, gli studiosi, gli artisti. Ha organizzato seminari di studio sulla tradizione greco-bizantina di Natile, laboratori didattici con le scuole, eventi culturali. Un punto di riferimento sul territorio per ricercatori e turisti.
Cibo e tessuti: piccole economie aspromontane
«Assistiamo gli escursionisti che vengono da fuori, divulghiamo e promuoviamo la nostra terra e i suoi prodotti a chilometro zero. Quando organizziamo un pranzo quello che presentiamo deve essere di altissima qualità.
Questo ci consente di coinvolgere le nostre famiglie, i nostri produttori, aziende agricole e piccole realtà trasformative che realizzano i prodotti di nicchia che ordiniamo per i pasti: pane, olio, ortaggi, formaggi, salumi, carne, frutta, dolci. Non presentiamo nulla che non sia stato valutato. Perché tu sei noi e noi ci mettiamo la faccia. Abbiamo anche realizzato dei laboratori di tessitura in alcuni “catoi” del paese. Il telaio, come in molti altri borghi della zona, era parte fondamentale della nostra cultura». E non manca la citazione dotta: «Le vostre donne si vestivano di nero perché portavano il lutto a vita, ma sognavano a colori. Se voi aprite i vostri bauli le coperte che tessete sono zeppe di verde smeraldo, giallo ocra, blu mare, rosso scarlatto». Questa frase a effetto, riferisce Annamaria, proviene da Tito Squillace, medico, attivista, presidente dell’associazione ellenofona Jalò tu Vua di Bova.
Un telaio domestico
Imprenditrici in Aspromonte contro l’abbandono
Cura, ospitalità, istanze di rete: sono gli ingredienti di Annamaria per contrastare il senso di sfiducia e abbandono appiccicato ai natilesi come un lenzuolo bagnato: «Il medico condotto che veniva a fare ambulatorio una volta a settimana non viene più. Viviamo in un territorio isolato che porta ancora le cicatrici della stagione dei sequestri. Ai tempi di Cesare Casella, Natile fu invasa. Lo Stato inviò la cavalleria dei carabinieri: ragazzini impreparati e terrorizzati dall’idea di stare nel cuore della ’ndrangheta.
Sono giunti e hanno spaccato tutto quello che dovevano spaccare, facendo di tutta l’erba un fascio e commettendo un errore: imporsi con violenza senza curarsi dei legami e dei meccanismi di una piccola comunità sempre abituata ad arrangiarsi e proteggersi con i propri mezzi. Si è avuta la sensazione di uno Stato mai percepito come garante o collante. Una madre presente per giudicarti, senza accompagnarti. La mancanza dello Stato nelle sue articolazioni ha minato anche la fiducia dell’essere parte di una collettività che insieme può costruire qualcosa di migliore. Perché stai dando risposta alle esigenze di tutti. Questo ha inciso negativamente sulla capacità di fare comunità. A un livello economico si è tradotto nella riduzione della percentuale del fenomeno cooperativo che, di per sé, si basa sulla fiducia. Noi, poi, non siamo stati capaci di reagire. L’assistenzialismo ha fatto il resto: se a Natile 48 famiglie su 50 hanno la sicurezza del posto fisso alla Forestale, è più facile accomodarsi che prendere iniziative economiche. Io questa sono e non ho intenzione di fermarmi».
Tiziana: dal sociale alla microimpresa
Su questa ancestrale filoxenia punta anche Tiziana Pizzati, attivista e imprenditrice, quando usa l’immagine dell’abbraccio: accogliere significa abbracciare.
Tiziana rappresenta la generazione più giovane: poco più che trentenne, a Samo ha creato un sistema di accoglienza diffusa e una cooperativa per la trasformazione di prodotti agroalimentari.
Collabora con le Guide del Parco e con gli operatori del turismo montano.
«Ho avuto la fortuna di poter lavorare alle Poste nella mia terra, ma volevo fare di più. Ho preso una laurea in Scienze turistiche con una tesi sul brand Aspromonte e sulla sua drammatica bellezza: un’istantanea su come è oggi la nostra terra, sulle sue prospettive di sviluppo e su ciò su cui dobbiamo investire. Paradossalmente il nostro essere rimasti indietro, oggi ci porta a essere un passo avanti. Voglio rendere vivo quello che ho studiato realizzando un nuovo storytelling».
Samo: un altro pezzo di antica Grecia
Ci troviamo a Samo, 300 metri sul livello del mare a 13 km da Bianco. All’ingresso del paese campeggia una stele di metallo con il toponimo grecanico. Anche Samo è un borgo delocalizzato che si allunga come la punta di una lancia nel Parco dell’Aspromonte. Fondato intorno al 432 a. C. in località Rudina a ridosso della fiumara La Verde, allora navigabile, da coloni dell’isola di Samos, il paese onora questo passato ed è gemellato con il suo omonimo greco.
Invaso e distrutto dai Saraceni, teatro di terremoti, è stato più volte spostato fino all’abbandono dell’insediamento di Precacore per assumere i connotati attuali.
«Sentiamo forte la nostra grecità. Lavoriamo per valorizzare il nostro passato: cerchiamo di renderlo seducente e contemporaneo. Ciò significa creare nuovi posti di lavoro contro lo spopolamento. Sogniamo non un Aspromonte fisico, ma culturale. Un orizzonte condiviso».
Imprenditrici in Aspromonte: restanza al femminile
Tiziana, e Annamaria sono le “restate” che combattono: rappresentano la forza, l’orgoglio e la resilienza delle donne d’Aspromonte, quelle che la letteratura ha descritto sempre come un passo indietro. Sono il volto umano del femminino sacro che da Persefone è transitato nel mondo cristiano. Bova, con le sue Pupazze, è l’emblema. Sono restanti e persistenti. Incarnano il doppio e l’unità: due donne, due leader, la Madre e la Figlia. Rappresentano i due passaggi di crescita: una ancora immersa nell’associazionismo, l’altra transitata nel sociale e poi saltata verso la piccola imprenditoria.
Tessuti di Samo
Creare per non partire
«Quando ti ritrovi a vivere con un gruppo di coetanei in un paese di settecento anime hai due possibilità: spostarti o creare qualcosa. Noi abbiamo scelto la seconda strada: ci siamo riuniti, abbiamo formato la Pro Loco e per sei anni abbiamo promosso il territorio. Poi ci siamo accorti che col sociale puoi fare tante cose, ma solo fino a un certo punto».
Così nel 2016 «abbiamo fondato la Cooperativa Aspromonte. Il lavoro fatto dal prof Bombino durante la sua presidenza all’Ente Parco portò a un fiorire di cooperative giovanili. Oggi sento che manca quel meccanismo capace di lavorare a più livelli e per chi, come me, collabora sia col Parco che con i Comuni per la manutenzione di sentieri e segnaletica, è triste». Si riferisce al lavoro fatto per la candidatura dell’Ente Parco Aspromonte a Global Geopark Unesco.
L’ospitalità (green) prima di tutto
«Siamo partiti con l’idea di creare ospitalità diffusa per camminatori ed escursionisti: per noi era naturale prenderci cura dello straniero. Poi con i risparmi di questa attività abbiamo creato un laboratorio di trasformazione dei prodotti alimentari. A parte le conserve, realizziamo il Kypris, liquore al mirto locale raccolto e lavorato in giornata. Abbiamo molte idee, pochi soldi e la burocrazia non ci aiuta».
Nel 2018 la cooperativa ha chiesto un contributo per l’acquisto dei macchinari per il laboratorio di trasformazione agroalimentare a valere sui fondi per i giovani inseriti nelle azioni per le aree svantaggiate del Piano di Sviluppo Rurale.
Il progetto, approvato nel 2022 non è stato finanziato in attesa dei ricorsi per l’aggiornamento delle graduatorie: «nel frattempo abbiamo acquistato tutto di tasca nostra».
Una tessitrice grecanica
Quelle belle stoffe bizantine
E poi c’è la tessitura, perché Samo è la capitale del ricamo bizantino a motivi floreali: «Nell’area della Calabria greca fino alla prima metà del Novecento il telaio era fonte di reddito. Fimmina di telaru, gioa e onuri di lu focularu. Si può dire che in ogni casa ci fosse un telaio. A Samo però venivano realizzati ricami più complessi: le geometrie si alternavano ai tipici motivi floreali intrecciati con con ginestra, lino o seta. Oltre che per le coperte, Samo è conosciuto per le sue pezzare e le sue strisce: filati fino a undici metri dati in dote e preparati per essere stesi all’ingresso della sposa in chiesa».
Si tratta di un’arte che sta scomparendo e su cui lei punta: «con il progetto Telaio in Aspromonte abbiamo mostrato alle scuole il processo completo di lavorazione della ginestra per la tessitura, dalla pulitura all’orditura, come avveniva fino alla metà degli anni Cinquanta. Mi piacerebbe realizzare una scuola di tessitura per tramandare una competenza che sta per estinguersi, ma da cui provengono manufatti tessili di altissima qualità».
La cantastorie e la tessitrice
Tiziana ha mostrato l’arcano e il contemporaneo.
Prima mi ha introdotto a casa di Agata, superstite cantora di età indefinibile, una stufa a legno, la tv a tutto volume e la memoria di Pico della Mirandola, capace di recitare storie e leggende dell’antica Samo in un poema epico dialettale direttamente ispirato alla Chanson D’Asperomont.
Poi mi ha introdotto a casa di Maria, la mastra tessitrice di cui vedete i lavori in foto. Quindi ha filmato è ha realizzato una story acchiappaclic per arricchire di contenuti il profilo Instagram della cooperativa, 1.835 follower. Una risorsa che prima non c’era. Una recente ricerca dell’Unical sulle condizioni delle quattro aree pilota calabresi della Snai rimarca un difficile accesso ai servizi, una desertificazione sanitaria e un invecchiamento misto al calo della popolazione.
La vallata delle Grandi Pietre
Salvare la Calabria greca? Si può
La riqualificazione della vita di queste aree non può passare solo attraverso il turismo: ci vogliono i servizi e una nuova strategia gestionale. E poi ogni altra forma di politica territoriale possibile, turismo e animazione culturale compresi. Serve una visione.
Il 28 luglio 2021 la Regione ha approvato il Sistema di gestione e controllo per l’utilizzo dei fondi nazionali della Strategia nazionale aree interne Snai che «punta a rafforzare la struttura demografica dei sistemi locali delle Aree Interne (intese come sistemi intercomunali) e ad assicurare un livello di benessere e inclusione sociale dei loro cittadini, attraverso l’incremento della domanda di lavoro e il miglior utilizzo del capitale territoriale».
Vi rientra a pieno titolo l’area Grecanica. Il modello d’azione della Snai prevede «di favorire la piena attivazione degli attori locali (istituzioni, imprese, associazioni, ecc.), che sono chiamati ad assumere ruoli e responsabilità centrali nella definizione delle politiche di intervento».
Vedremo se e quanto questo approccio multistakeholder verrà rispettato.
Tiziana Pizzati
Imprenditrici che resistono in Aspromonte
Nel frattempo Annamaria e Tiziana lavorano sui territori per cambiare il senso di rabbia e di abbandono in gratitudine, aumentare il livello di consapevolezza dei loro concittadini, accrescere fiducia e opportunità, creare prospettiva di sviluppo.
Entrambe reclamano attenzione alle aree interne da parte delle istituzioni: chiedono strade, servizi, fondi, affiancamento. Entrambe lavorano per aggregare e per ricreare. E in questa tensione tra l’appartenere, il riconoscersi, il ricreare e il fare c’è l’eterno dilemma del pendolo che oscilla tra autentico e mitopoietico: il secondo è necessariamente destinato a sostituire il primo laddove i vissuti e i saperi scompaiono. Uno storytelling che non si scrosti al primo imprevisto deve raccontare non una vetrina ovattata, ma tradizioni, vite, quotidianità autenticamente presenti.
Qual è l’animale (uomo escluso) che uccide più persone ogni anno sul nostro pianeta? Non pensate a feroci predatori: è la zanzara. Il primato era ancora più indiscusso fino a qualche decennio fa, quando la malaria imperversava anche dalle nostre parti. Non c’era ancora il DDT, le aree paludose da bonificare erano tante e per curare le febbri trasmesse dall’insetto il chinino non era abbastanza per tutti.
Nell’Italia post unitaria, a cavallo tra ‘800 e ‘900, la poverissima e incolta Calabria era tra le regioni più colpite. Così si decise di curare in una colonia la malaria con… l’aria della Sila. E centinaia di bambini si salvarono. Succedeva traCamigliatello e Moccone, in un posto splendido e abbandonato da anni: la Colonia Silana Federici.
La nascita del sanatorio
Siamo a fine giugno del 1910 quando la Colonia apre i battenti, il terreno – tre ettari – su cui sorge l’ha donato il Comune di Cosenza, che aggiunge anche le spese per arredi e trasferimento, personale sanitario e un contributo annuo di 3.000 lire. Nonostante gli aiuti, però, le cose non sono semplicissime all’inizio. Come ricostruisce Francesca Canino in un articolo di qualche anno fa, la farmacia più vicina dista 20 km, mancano illuminazione e riscaldamento e per avere l’acqua tocca rifornirsi alle fontanelle disseminate nella zona. Ma quelli che hanno dato vita alla colonia non demordono e le cose presto migliorano. Proprio a Federici negli anni ’40 arriveranno i primi termosifoni di tutta la Sila.
A mandare avanti le cose ci sono cosentini come il dottor Domenico Migliori, cui per un periodo sarà intitolata la Colonia Silana Federici, ma un ruolo di assoluto rilievo lo hanno i piemontesi: Bartolomeo Gosio, luminare della lotta alla malaria, che ha voluto quel centro in Sila e, soprattutto, Virginia Angiola Borrino e Giuseppina Le Maire.
Borrino è una pediatra, prima donna titolare di una cattedra universitaria di Medicina, che Gosio ha voluto sull’altopiano calabro per occuparsi dei bambini malarici messi peggio. Le Maire, invece, un’educatrice e attivista che collaborerà a lungo con Umberto Zanotti Bianco per il riscatto del Sud Italia e della Calabria. Giuseppina, fonderà anni dopo anche una scuola rurale a Cetraro, e a Camigliatello insegnerà ai bambini le elementari regole d’igiene a loro ignote.
La malaria in Calabria e la colonia in Sila
In Sila, insomma, la malaria si sconfigge anche attraverso l’educazione dei più piccoli e, di riflesso, dei loro familiari. Fino a quegli anni, infatti, i principali rimedi contro le febbri si richiamavano alla medicina tradizionale, se non alla magia. Barbieri e magare praticavano salassi, ai malati si davano da bere infusi di vario genere. Qualcuno beveva gusci di noce tritati e bolliti nel vino con limone e bergamotto. Altri mettevano fichi d’India vicino al focolare o facevano pipì al mattino sui cucuzzielli acriesti maturi, pensando di trasferire alle piante la malattia. A Castrovillari i devoti si rivolgevano così alla Madonna d’Itria in cambio della guarigione: «Madonna mia ‘i l’Itria, chi stai ‘nganna a’sta jumara fammi passà ‘sta freva ‘i quartana c’u jurnu tuju non vugghiu mangia’ panu».
I metodi della Colonia Silana Federici non tardarono a mostrarsi più efficaci. E la struttura crebbe di anno in anno, grazie alle donazioni che arrivarono. Ci furono contributi dalla regina Elena in persona, così come dalla Croce Rossa, dalla Fondazione Carnegie, dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, dall’Associazione Donne di Cremona, dalla marchesa Lucifero di Crotone. Il marchese Berlingieri offrì un padiglione, un altro lo regalò l’ingegnere Barrese. Le Maire donò una campana e la contessa Adorno fece erigere una chiesetta in legno per ricordare suo figlio Enrico, aviatore morto nel corso di un’esercitazione.
Malaria o tubercolosi, si va in colonia in Sila
La Colonia Silana Federici nel frattempo era diventata un ente morale e il fascismo aveva sostituito l’intestazione a Domenico Migliori con una al quadrunviro Michele Bianchi. I bambini guarirono a centinaia e si andò avanti così anche dopo la guerra, quando nella struttura iniziarono a occuparsi anche di tubercolosi. La malaria, in Sila come nel resto d’Italia, era ormai praticamente scomparsa. Salvo rari casi isolati di viaggiatori di ritorno da qualche paese africano, l’abbiamo debellata definitivamente nel 1970.
Sarà forse per questo che proprio in quel decennio a Camigliatello la struttura ha iniziato lentamente a andare in malora. Per un po’ ci ha tenuto corsi di formazione la Regione, poi si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero proprietario della struttura. Vandali e scorrere del tempo nel frattempo hanno fatto il loro mestiere, con la colonia sempre più malridotta.
Sindaci hanno dato vita a petizioni online, giornalisti e associazioni hanno sollevato periodicamente il problema del deterioramento progressivo degli immobili. Che hanno un valore notevole, non solo dal punto di vista storico e sociale. Per anni però non si è mosso nulla.
Una nuova vita, ma senza fretta
Poi, a inizio 2021, sulle pagine web dell’Ente Parco e di vari quotidiani locali arriva l’annuncio: il ministero dell’Ambiente ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero della struttura. Che è del Comune di Spezzano, ma ad occuparsene, sarà, appunto il Parco. Nuova vita per l’ex colonia? Le premesse non mancherebbero. A Federici, si legge nei comunicati di due anni e mezzo fa, dovrebbe nascere «una Scuola di formazione della montagna, destinata alla specializzazione degli operatori, ma pure allo studio e al monitoraggio del bosco, al fine di completare l’Inventario Forestale del Parco Nazionale della Sila». Il tutto condito da efficientamento energetico, foresteria, un centro cultura.
«Siamo pronti – assicurò il Parco per l’occasione – a iniziare questa sfida bellissima, l’ufficio tecnico è già al lavoro sulla progettazione». Trenta mesi dopo, però, a Federici non c’è traccia di cantieri, se non una rete di protezione che col recupero della struttura non ha nulla a che vedere. I soldi, ci hanno assicurato dal Parco, non sono a rischio, il finanziamento è confermato ma è arrivato solo di recente. La progettazione va invece per le lunghe. Il ritardo di Roma nell’erogazione dei fondi ha impedito di fare granché finora. E le parole di gennaio 2021? «Annunci», appunto, ci confessano con un certo candore. Sperando che i fatti li seguano presto.
Nobile, benestante quindi con possibilità di studiare cose “astratte” e “inutili”. E sarebbe un modo per liquidare Sertorio Quattromani in poche battute.
Ma oltre che ingenerosa, questa liquidazione sarebbe inutile: non spiegherebbe perché una via importante del centro storico di Cosenza è dedicata a lui. E non spiegherebbe perché questo umanista cosentino riceve ancora tanto interesse fuori dalla Calabria dagli addetti ai lavori.
Filologo e filosofo, Quattromani ha diviso la maggior parte dei suoi 62 anni di esistenza tra la critica letteraria e la divulgazione del pensiero del suo maestro: Bernardino Telesio. E ha un altro merito: aver tolto l’ego dall’Accademia della sua città, nata come Parrasiana, diventata poi Telesiana e, solo sotto la sua gestione, Cosentina.
Un modo per dire che l’Accademia è della città. Ma anche per affermare che i cosentini che l’avevano fondata erano una élite coi controfiocchi.
Il frontone dell’Accademia Cosentina
Quattromani: un notabile del ’500
Sertorio Quattromani non è un pioniere come Aulo Giano Parrasio. Le sue biografie, che si basano essenzialmente su un epistolario professionale degno di dieci grafomani longevi, lo raccontano come un personaggio pignolo, metodico e zelante.
Come uno di quei professori di cui si subiscono i metodi e l’antipatia da studenti ma che non si finisce mai di ringraziare dopo.
Non è neppure un pensatore della statura di Telesio, il primo grande rinascimentale. Anzi, tutto lascia pensare che Quattromani non abbia osato troppo anche perché schiacciato dalla mole intellettuale del filosofo cosentino. Che tra l’altro figura tra i suoi maestri e nella sua parentela. Notabilato e cultura: sono i primi due elementi utili per inquadrare il Nostro.
Ritratto di Aulo Giano Parrasio
Quattromani e la Cosenza che conta
Come per molti notabili, anche nel caso di Quattromani le date sono incerte.
Nasce, comunque, a Cosenza nel 1541. E vale subito la pena di spendere due paroline sulla genealogia che, per lui, fa tutt’uno con l’araldica. Suo padre Bartolo, feudatario della Sila Grande cosentina, è a sua volta rampollo di una famiglia di nobiltà “privilegiata” (cioè di borghesi nobilitati) originaria di Aprigliano e piena zeppa di giuristi, soprattutto notai, e vescovi. Una volta nobilitati, i Quattromani si stabiliscono a Cosenza e fanno parte in maniera stabile del Sedile, cioè il Senato cittadino. Dove siedono spesso assieme ai Telesio, con cui si imparentano. Infatti, Elisabetta D’Aquino, la mamma di Sertorio, è lontana parente di Bernardino Telesio. Ma non finisce qui: la moglie di Bernardino Telesio, nonno del filosofo, è Giovanna Quattromani.
Fin qui, non c’è una vera differenza tra il patriziato cosentino e le altre nobiltà di provincia della Penisola, perché tutte le famiglie che “nascono” tendono a legarsi fino all’endogamia. La vera differenza è il livello culturale, decisamente alto, dell’élite bruzia dell’epoca, che si divide tra le cariche e le biblioteche e, soprattutto, ha un ruolo sociale davvero forte.
Già: Antonio Telesio, figlio di Bernardino senior e quindi zio del filosofo e parente in doppia linea di Sertorio, è un accademico di grido, che lascia il Sedile solo per far carriera a Roma.
Sertorio Quattromani
Una provincia cosmopolita
Non c’è nulla di meglio che acculturarsi in famiglia. Per Sertorio Quattromani l’espressione vale alla lettera: appena quindicenne, frequenta le lezioni che il cugino Telesio tiene periodicamente all’Accademia.
È in buona compagnia: tra gli uditori ci sono Agostino Doni, medico e filosofo che avrebbe fatto carriera a Basilea, e, giusto per restare in famiglia, il filosofo (un po’ oscuro e decisamente dimenticato) Giovan Paolo d’Aquino, cugino di Sertorio per parte di madre.
Da buon intellettuale cosentino, il giovane Quattromani ha un imprinting progressista (quasi cattocomunista, secondo gli standard dell’epoca): prima di ascoltare il grande Telesio, ha come precettore Onorato Fascitelli, un benedettino molisano dalle simpatie valdesi che, tuttavia, fa carriera. Infatti, diventa vescovo di Isola Capo Rizzuto a metà ’500 e a dispetto delle sue idee.
Con questo popò di bagaglio, che la Cosenza bene non avrebbe mai più raggiunto, al Nostro non resta che cambiare aria, per migliorare. Infatti, va a Roma.
Quattromani supertopo di biblioteca
A Roma, Quattromani dimostra il suo talento eccezionale di topo da biblioteca. Si esercita nella Biblioteca Vaticana, dove divora di tutto, dai classici greci e latini ai grandi poeti italiani, Petrarca in particolare.
Su quest’ultimo, il cosentino ha un’intuizione geniale, con cui riscrive la storia, allora nascente, della letteratura italiana. Secondo lo studioso, infatti, Petrarca si sarebbe ispirato ai poeti provenzali e volgari per comporre il suo Canzoniere.
Per provare la propria intuizione, Quattromani non esita a ricorrere alle “pastette”. Quelle dei compatrioti, come l’alto prelato e nobile Vincenzo Bombini, allora impegnato nel Concilio di Trento assieme a Tommaso Telesio, arcivescovo e fratello del filosofo.
E quelle, forse più efficaci, dell’editore Paolo Manuzio, che convince papa Pio IV a mettere a disposizione di Quattromani tutte le biblioteche capitoline. Dopo aver ingurgitato questa impressionante mole di opere, il Nostro decide di raggiungere Bernardino Telesio, che nel 1565 si trova a Napoli per divulgare e difendere la sua opera.
Papa Pio IV
Telesio nei guai con la Chiesa
Si è già capito che la Chiesa ha avuto un’influenza determinante anche nella nascita dell’umanesimo più laico.
Tuttavia, la Chiesa dell’epoca di Telesio e Quattromani, non è più quella cosmopolita e, a modo suo, progressista della generazione precedente.
È una Chiesa irrigidita e incalzata dalla Riforma, che sceglie, col Concilio di Trento, il razionalismo e punta tutte le sue fiches su Aristotele. Non proprio l’ideale per i nuovi filosofi alla Telesio, che invece si ispirano ai presocratici per costruire i propri sistemi di pensiero, più o meno “rivoluzionari” e comunque di rottura proprio con l’aristotelismo.
Nello stesso periodo, il pensatore cosentino inizia la riedizione delle sue opere e tutto lascia pensare che Quattromani sia andato a Napoli per aiutare il maestro.
Ma stavolta le amicizie e le parentele che contano possono poco: i libri di Telesio, ripubblicati nella Capitale nel 1570, finiscono all’Indice. Quattromani si dà da fare per evitare la condanna e fa pressioni su Bombini, diventato nel frattempo protonotaro apostolico della Curia romana sotto Pio V e Gregorio XIII.
Ne esce un compromesso superclericale: le opere restano all’Indice dei libri proibiti, ma con la formula ambigua “Donex expurgentur”, cioè fino a quando non saranno ripuliti. Da vietati, i libri telesiani diventano “vietatini” (quindi leggibili più o meno sottobanco). Analoga fortuna non l’avranno gli altri grandi pensatori dell’epoca, Bruno e Campanella, molto più espliciti del cosentino e, soprattutto, molto meno protetti.
La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo
Quattromani torna a Cosenza
Finalmente il Nostro rientra a Cosenza per restarvi, salvi vari viaggetti a Roma e Napoli, puntualmente registrati nelle sue lettere.
Da buon rinascimentale, Quattromani coltiva un epistolario monumentale, dove racconta sé stesso e i suoi studi. Scrive a tutti e dappertutto: da Roma, Cosenza, Cerisano ecc. E fa l’intellettuale a tempo pieno. Traduce (o “volgarizza”, come si diceva allora) i classici latini in quantità industriali, come se non ci fosse un domani.
E si dà un gran da fare nell’Accademia Telesiana (già Parrasiana), dov’è braccio destro del suo maestro. Alla morte di Telesio (1588), che aveva trasformato l’Accademia in un club filosofico, Quattromani prende le redini dell’istituzione, la riorganizza e le dà un’impronta più letteraria, forse meno rischiosa della filosofia.
Ma la filosofia comunque non sparisce: né dall’Accademia né dalle preoccupazioni di Sertorio, che omaggia il suo maestro con La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, un “bignamino” del pensiero telesiano, dedicato per l’occasione a Ferrante Carafa, il duca di Nocera.
Immagine di Cosenza all’epoca di Sertorio Quattromani
La fine e l’eredità
La biografia di Sertorio Quattromani non è particolarmente emozionante. L’intellettuale cosentino non è un “rivoluzionario” né un “riformista”: è solo uno studioso acuto e capacissimo, che ha fatto (bene) il proprio mestiere al riparo del notabilato a cui apparteneva e non ha mai messo in discussione il “sistema”. Non in maniera pubblica, almeno. La data precisa della morte, causata dai soliti acciacchi dei benestanti (tra cui l’immancabile gotta) è incerta. Lo studioso Luigi De Franco ipotizza il 10 novembre 1863, che è poi la data del testamento.
A dispetto di un’immagine piuttosto polverosa, Quattromani ha un merito serio: aver contribuito all’affermarsi della lingua italiana, che identifica nella parlata dell’alta Toscana (per capirci, la stessa utilizzata dagli speaker più bravi).
L’eredità fisica più importante è costituita dalla sua biblioteca, lasciata alla nipote, figlia della sorella Giulia: la poetessa e accademica cosentina Lucrezia della Valle.
Ma questa è un’altra storia.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
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