L’araldica di Calabria nasce anche dalle campagne. Volimento, Pirro-Malena, Inziti, Cicala, Fabrizio Grande, Fabrizio Piccolo, Coscia, Ricota Grande, Ministalla, Lattughelle.
Sono i nomi di alcune contrade tra Rossano, Corigliano – giù e su di lì – dove cominciano a sparpagliarsi vecchie ville rurali, casini ottocenteschi, a difesa e controllo delle rispettive piantagioni d’ogni ben di Dio.
“Terra quantu vidi, casa quantu stai”. Ovvero: “Accumula terre finché puoi ma case soltanto per lo stretto indispensabile”. Così recita un vecchio adagio calabrese evidentemente da aggiornare.
L’antico casino Toscano, poi Giannuzzi, in agro di Rossano
Araldica di Calabria: i rombi di Amarelli
Certamente questa fu zona di sfruttamento intensivo della terra, in ogni accezione se finanche la poverissima liquirizia ne uscì protagonista assoluta (nel bene e nel male).
Un nome, una leggenda dell’imprenditoria internazionale, Amarelli fa parte addirittura della ristrettissima cerchia delle imprese familiari almeno bicentenarie (le radici – è il caso di dire – di questa azienda rimonterebbero addirittura al Cinquecento…) e offre al pubblico un museo che vale assolutamente la pena visitare.
Forse pochi sanno che i “rombetti Amarelli” sono un omaggio allo stemma di famiglia, contenente appunto quelle che in araldica, non solo in Calabria, sono più correttamente dette losanghe.
Araldica di Calabria: triangoli british a Cassano
Ho detto araldica e mi viene in mente un’altra curiosità che scovai a una trentina di chilometri da qui: sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi.
Due sono nella parte superiore: una è la fascia dei Sanseverino e l’altra la stella dei Del Balzo. Il terzo stemma, sul piede del fonte, è nientemeno quello del vescovo Owen Lewis (1532-1594), all’epoca latinizzato in Audoenus Ludovisi o – indecisione di quei tempi –Ludovicus Audoenus: un canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, appunto, vescovo di Cassano.
Un concio coriglianese ritratto da Jean Louis Desprez (Parigi, 1781)
Lo stesso che creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. E proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un altro esemplare di questo suo stemma ‘triangolato’, inconsueto nella tradizione araldica italiana, e che solo da Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino. Ma, stavolta, niente liquirizie triangolari…
Pausa pranzo: strippata a Cerchiara
Semmai, pochi chilometri più su, nelle campagne di Cerchiara ci si può imbattere provvidenzialmente in un agriturismo gestito da una coppia di attempati contadini che mandano avanti la (gloriosa) baracca soli soletti, con una grazia e una simpatia impareggiabili.
La signora insiste per preparare, oltre che la camera, anche un pranzetto veloce ma imbandisce un pranzo che altrove potrebbe bastare per due-tre giorni.
Lungi da me la cosiddetta “retorica del fico d’India”, ma quando va detto va detto: queste sono ricchezze e, semmai, occorre rigettare quel sentimento che s’affaccia spesso anche a queste latitudini.
Siamo infatti terra fertile anche noi per quelli che l’insuperabile e pertanto sottovalutato Enrico Panunzio (L’idiota celeste, 1989) definiva «i miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli» (e ogni brillante riferimento è puramente intenzionale).
Veduta di Cerchiara di Calabria
Araldica della Calabria lugubre: il cimitero operaio
Mi avvicino, lungo questo vagabondaggio, anche a un cimitero (non dirò quale).
I cimiteri raccontano di un paese più di quanto non facciano i monumenti, le strade, le chiese o l’elenco del telefono. C’è una grande cappella sbarrata, murata, puntellata. Appartiene a una vecchia Società Operaia di inizio Novecento.
In cima alla porta si apre un finestrino. Si può sbirciare e lo spettacolo è sconsigliabile ai delicati di stomaco: qualche frana o terremoto ha combinato, chissà quanti anni fa, un disastro. Solo che tutto è stato lasciato così come si rovesciò per terra, così come si aprì, così come si scoperchiò. I particolari, alla fantasia del lettore. Necrofanie altoioniche…
I caduti della ferrovia e il mercato delle pulci
Più in là, nomi di ingegneri francesi deceduti a fine Ottocento, nel periodo in cui lavoravano alla nuova ferrovia sulla costa ionica, impiegati da quella Torino capitale non meno nepotistica delle altre capitali d’ogni tempo.
Ancora più in là, croci senza nomi, foto senza fiori, fiori senza lapidi, nomi senza date, foto di coppia anche senza commorienza (magari era l’unica foto), foto di N.N… Al riguardo, mi vengono in mente certi mercatini delle pulci dove si trovano interi album o ceste pieni di foto in bianco e nero, appartenute a chissà chi.
Roba da ispirare una nuova maledizione, più amara della vecchia «che ti cresca l’erba davanti alla porta!». Ovvero: «Che le tue foto finiscano al mercatino delle pulci!». Un’altra lapide, degli anni Sessanta, le supera tutte: «La moglie e i figli, in memoria di XY. Nel bene e nel male». Accidenti, se non è damnatio memoriae questa…
La foto più vecchia
E, a proposito di foto, mi ha sempre incuriosito chi sia stata la persona più antica mai fotografata. Non intendo, ovviamente, la persona fotografata per prima, che in qualche modo si riuscirebbe pure a pescarla.
No, dico proprio quella più anziana tra le prime fotografate. Il primato è conteso, ma pare che spetti, per ora, a tale John Adams, nato nientemeno nel 1745 (qui la lista più accurata).
Pronuncia della parola pipistrello in Calabria: una mappa di un saggio d’epoca nazista (foto L.I. Fragale)
In compagnia dei pipistrelli nazi
Siamo privilegiati. Indirettamente superstiti: discendenti di sopravvissuti a guerre, epidemie, calamità naturali. Una marea di fortunati che dovrebbe baciarsi i gomiti. Basta, s’è fatto tardi, meglio uscire dal camposanto ora che è vespro. Già: arrivano i vespertiliones dei latini, gli spurtaglioni partenopei, i vespistrelli, i vipistrelli, ora più comunemente pipistrelli.
Oppure, come li chiamano da queste parti, lattarini (direttamente dalla nikterida magnogreca). Poi surici-lattarini che per mutazione fonetica diventano animali immaginari capaci persino di riunire in sé due bestie antitetiche: i surici-gattarill’, sorta di improbabili topo-gattini.
E pensare che nella maggior parte delle lingue straniere è sempre tradotto come topo-volante… Ne faceva una perfetta mappatura fonetica tale Emil Eggenschwiler, in un libro (Die Namen der Fledermaus ecc. ecc) edito nel 1934 a Lipsia, nel pieno della Germania nazista. E Rohlfs zitto (che è meglio, date le non poche cantonate che prese nella sua pur brillante carriera).
Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.
Una Fiat 3½ HP
Otto macchine sulle strade calabresi
Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.
Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
Calabrie per stranieri e viaggiatori
Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.
Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.
Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.
Addio Grand Tour
Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.
Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.
La Guida Touring del 1940
Granturismo Calabrie
Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.
Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.
Bernard Berenson a “I Tatti” sulle colline fiorentine
Calabria, Berenson e il diario
Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.
Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.
Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria
Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.
Piazza Parrasio nel centro storico di Cosenza in una foto d’epoca
I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.
L’amico di Marcel Proust
Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.
Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».
Old Calabria
Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.
Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.
Le bandiere blu ante litteram
Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.
I Berenson da giovani
Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.
Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.
Il reportage di Berenson sulla Calabria
Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.
Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.
La Calabria che non c’è più
Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».
Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».
L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.
Tempi di mezzo
Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».
Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.
Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.
Prima della cementificazione
E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».
Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».
Una parte della spiaggia nel territorio di Praia a Mare
Praia a Mare: fine del viaggio
L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».
Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.
In bocca sua il garantismo non è peloso: è la difesa, appassionata e sincera, di un principio di civiltà, non solo giuridica. Non potrebbe essere altrimenti nel caso di Raffaele Della Valle, avvocato battagliero a dispetto dell’età (84 anni suonati) con un passato politico di tutto rispetto, prima nel Pli e poi in Forza Italia.
Soprattutto, non può essere altrimenti quando si è stati protagonisti di uno dei processi più tragici, controversi e, purtroppo, spettacolari dello scorso secolo: quello a Enzo Tortora.
«Fu il primo processo mediatico e fornì il modello a Mani Pulite», spiega Della Valle. Che aggiunge: «Da quella ingiusta persecuzione giudiziaria emersero i primi preoccupanti segnali della deriva che avrebbe preso di lì a poco l’amministrazione della giustizia».
Della Valle è impegnato in un giro di presentazioni in tutta la Calabria di Quando l’Italia perse la faccia (Pellegrini, Cosenza 2023), il libro intervista scritto assieme al giornalista Francesco Kostner. Un piccolo best seller arrivato alla quarta edizione nel giro di quattro mesi: uscito a maggio, il libro ha esaurito lo stock tre volte. Niente male davvero…
Un primo piano di Raffaele Della Valle
A proposito di processi mediatici e di giustizia-spettacolo: alcuni settori della magistratura, di recente hanno espresso forti critiche sul protagonismo eccessivo di alcuni magistrati, sul ricorso ai maxiprocessi e sul dialogo, ritenuto improprio, di alcune Procure con i media…
Le condivido alla grande, perché riguardano i fondamentali di qualsiasi operatore del diritto.
Avvocati compresi?
Certo, nessuno dovrebbe enfatizzare il materiale raccolto durante l’attività probatoria, tuttavia nella vita reale pochi si fissano questo limite. Tant’è: noi difensori abbiamo spesso appreso le attività degli inquirenti grazie a quello che ho definito più volte il deposito degli atti in edicola.
Cioè la pubblicazione degli atti sui media ancor prima che in cancelleria…
Esatto.
A proposito del processo Tortora, Vittorio Feltri nel suo “L’irriverente” (Mondadori, Milano 2019) afferma di essere stato il primo cronista ad accorgersi che molte cose non quadravano nel teorema della Procura di Napoli e, quindi, a schierarsi col conduttore televisivo finito in disgrazia…
Diciamo che, per quel che mi ricordo, fu tra i primi. Ma è doveroso citare anche Piero Angela, Giovanni Ascheri e Luciano Garibaldi, che assunsero da subito posizioni garantiste. Non facili all’interno dello stesso mondo mediatico: si pensi, per fare un esempio, che la Rai mandava tutti i giorni (spesso ci apriva i tg) le veline della Procura di Napoli. Ma probabilmente il primissimo fu Enzo Biagi.
Enzo Biagi fu forse il primo innocentista nel caso Tortora
La carta stampata, c’è da dire, fece di peggio, come scrive Vittorio Pezzuto nel suo “Applausi e sputi”…
Il Messaggero, ad esempio, arrivò a titolare “Tortora ha confessato”, salvo chiedere scusa a danno fatto. In una fase avanzata del processo, il settimanale Oggi pagò Gianni Melluso per fotografarne le nozze nel carcere di Campobasso. La rivista ricorse a un escamotage per aggirare il divieto dei magistrati: uno dei cronisti fece da testimone allo sposo.
Parliamo di Gianni Melluso, alias Gianni il Bello, alias Gianni Cha Cha Cha. Ovvero di uno dei più grossi accusatori di Tortora, vero?
Su Melluso, il quale si è abbondantemente squalificato da sé, sospendo il giudizio, di sicuro tutt’altro che positivo. Ricordo solo che anche lui fu una creatura mediatica. Lo aiutò molto Francamaria Trapani, giornalista e consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli. A proposito di Feltri: gli va dato atto che stigmatizzò sin da subito il comportamento supino di tantissimi colleghi.
Anche la politica reagì in maniera tutto sommato tiepida, tranne poche eccezioni. Non è così?
Persino il Partito liberale, in cui militavo assieme a Tortora, tentennò, con la sola eccezione di Alfredo Biondi. Col senno del poi, si capisce benissimo che questa “timidezza” era anche indotta dalla pressione mediatica. Solo Pannella, con la consueta aggressività, ruppe il muro di gomma e trasformò il processo Tortora in un caso politico.
Gianni Melluso, uno dei primi accusatori di Tortora
È corretto affermare che nel processo Tortora prese forma il rapporto particolare tra politica e magistratura che si sarebbe affermato durante Tangentopoli?
Certo che sì. Fu il primo processo mediatico, per colpa dell’atteggiamento della stampa, che andò ben oltre il servilismo. Il rapporto tra magistratura e stampa, sin da allora è diventato drogato.
Da un lato, molte Procure tendono a diventare fonti privilegiate, anzi: le fonti per eccellenza. Dall’altro, i cronisti contribuiscono a trasformare gli inquirenti in star, anzi magistar, per usare un efficace neologismo. È un meccanismo perverso che si autoalimenta.
Al punto che il legislatore è dovuto intervenire in più modi: attraverso la riforma delle intercettazioni e, più di recente, ponendo limiti precisi alle comunicazioni degli inquirenti. Non le pare una forma di censura?
Di sicuro in parte lo è. Ma è anche una reazione ad anni di abusi.
Sempre di recente, è stata avanzata una proposta particolare: un master in giornalismo giudiziario riservato ai laureati in Scienze giuridiche. La riqualificazione culturale dei giornalisti non è una valida alternativa?
Altroché. Si consideri pure un’altra cosa: finora per accedere alla professione di giornalista non sono stati necessari titoli particolari. Iniziare a promuovere per davvero la formazione culturale della categoria significa stimolare quel senso critico e di indipendenza che libera il cronista dall’asservimento alla fonte. E quindi, rende superfluo ogni intervento del legislatore a tutela di chi, fino a condanna definitiva, ha il sacrosanto diritto di essere considerato innocente.
Raffaele Della Valle durante l’intervista
Il procedimento a carico del celebre conduttore fece parte di un maxiprocesso a sua volta molto spettacolarizzato: quello alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Oggi, nella magistratura, non mancano le voci critiche anche nei confronti del ricorso ai maxiprocessi. Qual è l’opinione dell’avvocato Della Valle?
I maxiprocessi avrebbero un’utilità apparente: il risparmio di tempo e di energie che deriverebbe dalla valutazione di più situazioni e persone in contemporanea. In realtà, la pratica di mandare a giudizio molte persone contemporaneamente si traduce spesso in una mattanza probatoria, che danneggia senz’altro gli imputati e i loro difensori. Ma danneggia anche tantissimo il lavoro degli inquirenti, che finisce spesso in un tritacarne confuso. La differenza, in questi casi, la fanno gli inquirenti. Se sono bravi, puntigliosi, concreti e garantisti come lo fu Giovanni Falcone, i procedimenti filano bene e danno risultati. Altrimenti diventano spettacoli da stadio, tanto rumorosi quanto improduttivi.
Dal processo Tortora emersero anche i limiti nell’uso dei pentiti…
La gestione dei collaboratori di giustizia è un altro problema irrisolto.
Perché?
Perché è un problema strutturale, etico prima ancora che giuridico. La normativa, infatti, proteggeva gli ex terroristi che saltavano il fosso. Tra di loro ci furono molti pentiti sinceri che, una volta finita l’illusione ideologica e ammessa la sconfitta politica, volevano tornare alla normalità e chiesero scusa. Questa dinamica, va da sé, non è facilmente applicabile ai malavitosi, che non hanno motivazioni ideologiche. Non normalmente, almeno.
Ne deriva un problema di credibilità e di affidabilità piuttosto diffuso. Anche in questo caso, il processo Tortora diede spie d’allarme.
Enzo Tortora in manette tra i carabinieri
Sospendiamo il giudizio su Berlusconi, che deve essere comunque un giudizio politico. Al netto di tante polemiche, non sembra eccessivo il numero di procedimenti senza risultati subiti dall’ex premier fino alla fine dei suoi giorni?
Il problema è uno solo: le vicende giudiziarie di Berlusconi sono l’appendice giudiziaria di Mani Pulite.
Non entro nel merito di quella maxi inchiesta. Mi limito, al riguardo, a notare che, da allora, la magistratura ha cambiato il suo Dna costituzionale ed è diventata un organo politico. Faccio un esempio attuale: tra chi si oppone ai tentativi di riforma di Nordio figurano trecento magistrati, che hanno sollevato dubbi di costituzionalità.
Ora, non sarebbe più logico mettere le normative alla prova, magari impugnando davanti alla Corte Costituzionale, quando necessario, anziché lanciarsi in proclami politici?
Se la magistratura si politicizza non c’è da meravigliarsi di vicende come quella dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Chi la fa l’aspetti, o no?
Io mi meraviglio che ci si sia fermati a Luca Palamara, al quale si sono attribuite troppe responsabilità. Palamara, semmai, era solo un terminal di interessi e posizioni di potere consolidatissimi.
La magistratura ha travalicato da tempo le sue funzioni. Tant’è che troviamo parecchi magistrati al di fuori delle sedi istituzionali. Li troviamo, ad esempio, nei ministeri, come consulenti e capi di gabinetto incaricati di redigere le normative. Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il rapporto tra l’ordine giudiziario e il potere politico ne risulti quantomeno alterato.
L’ex magistrato Luca Palamara
In questi giorni ha presentato il suo libro in tutta la regione. Come le è sembrato il pubblico calabrese?
Preparato e sensibile ai temi giuridici. E devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito anche dagli amministratori locali con cui ho avuto modo di confrontarmi: c’è una crescita di livello che lascia ben sperare.
Nel tentativo di realizzare una carrellata estiva di figure della musica calabrese che mi sembrano particolarmente significative e che ancora non tutti conoscono, mi viene in mente l’iniziativa di un noto quotidiano locale, che nel 2008 accolse l’idea magnifica di Franco Dionesalvi – indimenticato poeta e innovatore delle politiche culturali calabresi – di invitare cultori, specialisti e appassionati a scrivere con intento divulgativo, una Storia dei Musicisti calabresi. Ne venne fuori un volumetto intensissimo di informazioni. Non c’erano solo Mia Martini o Rino Gaetano, la cui popolarità aveva già raggiunto confini planetari, ma nomi poco noti o addirittura ignorati dal pubblico, persino quello locale.
Franco Dionesalvi
I lavori di specialisti, musicologi e storici, che pure esistevano, erano ancora noti solo al livello accademico degli studi. L’idea di Dionesalvi, così, restituì una più vasta popolarità a musicisti come Stanislao e Giuseppe Giacomantonio, Emilio Capizzano, Maurizio Quintieri, Alessandro e Achille Longo, Paolo Serrao. E, ancora, ai più lontani Giandomenico Martoretta, Leonardo Leo, Michelangelo Jerace, Leonardo Vinci, Giacomo Francesco Milano. Era un elenco senz’altro incompleto: mancavano Giorgio Miceli e un adeguato approfondimento del lavoro di Armando Muti o Osvaldo Minervini e altri ancora). In quegli anni era, però, uno sforzo atteso dai lettori. Che infatti lo apprezzarono assai.
Saverio Mattei e la Filosofia della Musica
Tra tanti musicisti riuscimmo a inserire un intellettuale del ‘700 che alla Musica tanto diede di cuore, di mente e di non infeconda attività. Un personaggio singolarissimo, che coi suoi natali calabresi onorò anche il nostro mondo della musica (in un modo singolare anch’esso), fu Saverio Mattei, andreolese, nato a Montepaone nel 1742 e morto a Napoli nel 1795. Quella del 1742 pare essere oggi la data di nascita più accreditata, ma per lungo tempo si è pensato al 1741. Gli studi continueranno senz’altro, anche rispetto all’attribuzione della residenza.
Quest’ultima è, per così dire, un fitto mistero. Esistono i ruderi di una villa di campagna, abbastanza nascosta, sulla strada verso S. Andrea Ionio, che molti abitanti attribuivano ai Mattei, e che dovrebbe essere stata la sua abitazione in Calabria. Vedremo dove ci condurranno le ricerche.
Saverio Mattei fu un intellettuale ed erudito, giurista, ebraista, grecista e filologo, consigliere di Ferdinando IV di Borbone. Fu il primo calabrese ad occuparsi in modo sistematico di Filosofia della musica – ma il primato si potrebbe estendere a tutto il Regno di Napoli -, avendo pubblicato proprio una Filosofia della Musica e altri scritti dedicati all’estetica e alla critica musicale. Naturalmente, tutto (o quasi) nella capitale.
Leggende e repliche sospese
Giovanissimo, si spostò – dopo il matrimonio con Giulia Capece dei Baroni di Chiaravalle – vivendo un frenetico viavai tra Napoli e S. Andrea Ionio, almeno fino a che i suoi studi e le traduzioni dei Salmi (I libri poetici della Bibbia tradotti dall’ebraico originale) non convinsero i due letterati Galiani e Tanucci a offrirgli una cattedra a Napoli, intorno al 1768. Poi venne chiamato a corte come Consigliere. E, forse, è lì che potremmo far sorgere la leggenda del Saverio Mattei paludato, pomposo, affettato al limite del comico, sempre dedito allo studio, con la testa fra i libri, con una risposta per ogni domanda e in continua lite con la moglie (la prima, in verità: la seconda, Orsola, arrivò nel 1784).
Duetti Sacri Sopra i Salmi Tradotti in poesia Dall’Avvoc[ato] Il Sig.r D. Saverio Maei […]: Frontespizio (Napoli, Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”)Così lo dipinge il Socrate immaginario, commedia per musica in tre atti, un’opera rispetto alla quale si tramanda l’idea che il personaggio principale fosse ispirato a Saverio Mattei. Un Socrate, in fondo, già presente nelle Nuvole aristofanee, ma molto simile all’erudito le cui abitudini erano note al librettista (Lorenzi, con il contributo di Galiani) e al compositore (Paisiello) che erano suoi amici. D’altra parte accadde che le recite dell’opera, rappresentata nel 1775, fossero sospese improvvisamente.
Scene da un matrimonio
Il pubblico attribuì la decisione al fatto che le stravaganze del protagonista e le sue baruffe con la consorte fossero troppo simili a quelle di casa Mattei per poterlo considerare estraneo: si disse che l’opera faceva il verso nientemeno che al consigliere del sovrano e che dunque quest’ultimo aveva pensato, in un primo tempo, di vietarne le repliche in segno di disappunto. In realtà l’opera fu poi rappresentata anche nel Teatro del Palazzo Reale il 23 ottobre dello stesso anno.
Il colore farsesco e buffo della musica, ma anche la modernità comica e brillante della vicenda furono restituite dalla sapientissima revisione della partitura operata da Roberto de Simone per il teatro San Carlo nel 2005.
Musicisti suo palco del Teatro San Carlo di Napoli
Saverio Mattei e gli epistolari con Metastasio
Ma il legame di Saverio Mattei con la musica è davvero stretto se si considera che a musicare le sue traduzioni dei Salmi furono Piccinni, Jommelli, Hasse (un tedesco napoletano), lo stesso Paisiello. Insomma, tutti i più noti compositori della grande Scuola partenopea del secondo Settecento.
Per non contare gli epistolari con Metastasio, specialmente quelli sul rapporto tra poesia e musica che cambiano in modo radicale l’approccio critico con il tema dell’aderenza dell’una all’altra nell’azione scenica cantata. E poi l’Elogio del Jommelli in cui le sue tesi sul nuovo Teatro per musica si scontrano con la più nota e decisiva riforma di Christoph Willibald Gluck. Tutto riportato da una ristampa anastatica dell’edizione Forni che resta un riferimento fondamentale assieme ad un volume di Renato Ricco e Milena Montanile del 2016 dall’evocativo titolo Saverio Mattei, tradizione e invenzione, (quest’ultimo è la raccolta degli atti di un convegno tenuto a Salerno nel 2014).
Pietro Metastasio
Prima curatrice in Italia del volumetto intitolato Filosofia della Musica fu la stessa Montanile nel 2008, per Editoriale Programma di Padova, da lì gli studi su Saverio Mattei musicologo, critico e addirittura musicista si sono intensificati in modo esponenziale, chiarendo alcuni dubbi e lasciandone intatti altri come, per esempio, le effettive competenze strumentali possedute dal Nostro.
Sbirciando tra le lettere vediamo che per una pervicace convinzione si accostava con curiosità agli strumenti “greci” come l’arpa e il flauto, cioè la cetra e l’aulòs, tralasciando quelli moderni
Il musicista come legislatore dell’arte
E sempre dalla corrispondenza (con padre Martini, lo stesso Metastasio e altri eruditi dell’epoca) pare che le sue conoscenze in materia di contrappunto e tecnica strumentale non fossero profondissime (era un giurista, in realtà, il resto era passione e curiosità). E tuttavia sembrano sufficienti a comprendere le idee estetiche e le trame del teatro napoletano, il rapporto tra musica e verso, tra cantanti, librettisti, impresari e musicisti tanto da difendere uno di loro (il Maestro Cordelli) con totale devozione nella Probole Se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani. Una specie di arringa in cui difende l’arte della concertazione e della composizione come arte liberale e, implicitamente, pone la figura del musicista come legislatore dell’arte.
Le sue intuizioni musicologiche ed estetiche, organizzative e didattiche erano, per l’epoca, straordinarie. La riforma dei Conservatori napoletani, cui collaborò attivamente meriterebbe una trattazione a parte. E profondissimo fu il suo legame diretto – ma anche implicito – con la Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella che deve a Saverio Mattei la propria esistenza ed è, giocoforza, a lui intitolata. Una storia complessa fatta di lungimiranza e caparbietà che mette oggi a disposizione degli studiosi partiture e parti delle opere del Settecento di tutta la scuola napoletana. Dagli autori più noti ai minori. Un presidio di cultura musicale riconosciuto immediatamente anche dai musicisti francesi che inviarono copisti diversi per apprendere l’arte del contrappunto napoletano.
La biblioteca del conservatorio S. Pietro a Majella intitolata a Saverio Mattei
Nell’epoca in cui Diderot e gli enciclopedisti fissavano l’attenzione sulla critica musicale, Saverio Mattei, con le sue riflessioni e intuizioni estetiche talvolta ingenue, talaltra abbaglianti, fissava nel Regno di Napoli i termini di una Critica del teatro musicale emergente che avrebbe avuto ricadute cruciali anche sulla stampa dei decenni successivi.
Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
Non tornano i conti: la gente dove finisce?
Fine estate Calabria: fuga dal mare
Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro? Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.
Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto
Cipolle e porci? Proprio no
Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina(frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.
I profumati cedri di Sion
Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri. Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
Ma è tutt’oro quel che profuma?
Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro
Fitzcalabria
Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori. Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.
Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)
Fine estate Calabria: sudare vino
A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi. Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.
Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris
Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.
La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri
Le vie francigene della Calabria fantastica
Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano. Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso– e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro. Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.
Inferiorità meridionale? Alcune tesi non scompaiono mai del tutto. Tra queste, l’idea secondo la quale il ritardo del Mezzogiorno non dipenda solo da cause oggettive, economiche o politiche, ma sia, in ultima analisi, da ricercare nei meridionali stessi.
Con l’Unità d’Italia, in molti scritti e discorsi, la diversità tra Nord e Sud venne rappresentata come contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra Italia e Africa. Alla fine dell’Ottocento, in un tempo di “superstizione della scienza” – come scrisse Gramsci – l’opinione già diffusa dell’inferiorità meridionale assunse la forza di “verità scientifica”.
A questo argomento, tra l’altro, chi scrive ha dedicato un capitolo de Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019).
Cesare Lombroso, il padre della Criminologia moderna
Due Italie, due razze
Il criminologo Cesare Lombroso, e ancor più nettamente gli antropologi Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, entrambi siciliani, argomentarono che in Italia vi fossero due “stirpi” o “razze” e che quella che popolava il Sud avesse origine africana (si escludevano i greci). Essendo di origine africana, la razza meridionale era «refrattaria, cioè inerte, davanti ai nuovi portati della civiltà» e meno adatta di quella nordica al progresso sociale e culturale.
L’inferiorità meridionale secondo Richard Lynn
Quest’idea, mai del tutto abbandonata, riemerge ancora. Fece scalpore e scandalizzò, la tesi di Richard Lynn, psicologo recentemente scomparso. Lynn nel 2010, in un articolo sulla rivista Intelligence, sostenne che i divari socioeconomici tra Nord e Sud dipendano da differenze nel Quoziente d’intelligenza (QI). Secondo Lynn, il QI medio dei meridionali sarebbe di circa 10 punti inferiore a quello dei settentrionali a causa dell’eredità genetica dei fenici e degli arabi che, in epoche diverse, si insediarono in parte del meridione.
La tesi di Lynn, condivisa da altri studiosi, presuppone l’esistenza di razze umane differenti per alcune caratteristiche fisiche e sotto il profilo cognitivo. Sulla base dei risultati dei test sul QI e di quelli scolastici, Lynn ha stilato una graduatoria internazionale dell’intelligenza. Ai primi posti, col QI più alto, gli asiatici dell’est (giapponesi, coreani, cinesi), seguiti dalle popolazioni europee o di origine europea; al fondo della graduatoria, le popolazioni dell’Africa Subsahariana e gli aborigeni australiani.
Lo psicologo neorazzista Richard Lynn
I terroni? Sono sempre i più stupidi
All’articolo di Lynn ne sono seguiti diversi altri. Tra i più recenti, quello diEmil Ole William Kirkegaard e di Davide Piffer. I due studiosi hanno sostenuto nel 2022 che le differenze nell’intelligenza media tra Nord e Sud Italia siano rimaste sostanzialmente stabili sin dall’Unità.
Per dimostrarlo, i due ricercatori hanno utilizzato dati ottocenteschi sul cosiddetto age-heaping, cioè l’arrotondamento dell’età che, secondo alcuni, misurerebbe l’incapacità della popolazione a far di conto.
Hanno mostrato, poi, come i dati dell’Ottocento siano in relazione con i risultati attuali nei test scolastici Invalsi e con gli indicatori di sviluppo socioeconomico delle regioni italiane. Nello stesso numero della rivista che contiene l’articolo di Kirkegaard e Piffer (Mankind Quarterly) ce n’è un altro di Richard Lynn, in cui si riportano i risultati dei test su un campione di bambini siciliani di 6-11 anni che, secondo la rilevazione, avrebbero un QI medio di 92 punti, inferiore a quello disponibile per alcune città o regioni del Nord Italia.
Anche la Spagna ha i suoi terroni
Questi studi non riguardano solo l’Italia, ma anche altri paesi. Ad esempio la Spagna, dove esistono divari regionali nei livelli di sviluppo e nei risultati scolastici. Alla loro base vi è la tesi secondo la quale la causa ultima delle differenze internazionali nello sviluppo socioeconomico sia da ricercare nella genetica, nell’intelligenza delle popolazioni. In altre parole, la natura umana è all’origine delle disuguaglianze.
Emil Kirkegaard, studioso neorazzista e allievo di Lynn
Inferiorità meridionale? Solo un fatto economico
Questa tesi è fortemente contestata. Per quanto riguarda l’Italia sappiamo che, effettivamente, ci sono ampie differenze regionali nei risultati dei test scolastici, come conferma anche l’ultimo rapporto Invalsi 2023. Tuttavia, dimostrano molte ricerche, i divari regionali nei test scolastici sono, in larga misura, spiegati da fattori culturali, sociali ed economici e, probabilmente, in parte anche dalla qualità media dell’istruzione. Differenze regionali nei test sul QI e in quelli scolastici sono documentate in molti Paesi, per esempio in Germania, Portogallo, Regno Unito e Spagna. In tutti i casi, i punteggi nei test risultano più elevati dove maggiori sono i livelli di sviluppo. Il legame tra QI e sviluppo socioeconomico è molto forte.
Lo psicologo americano James Robert Flynn
L’effetto Flynn
Questo legame è così forte che i risultati medi nei test d’intelligenza tendono ad aumentare col progresso socioeconomico. È un fenomeno affascinante e incoraggiante, noto come “effetto Flynn”, osservato in molte nazioni.
Alle tesi richiamate si possono opporre molte obiezioni. La più ovvia è che, a oggi, non esistono prove scientifiche di differenze razziali nel QI. Inoltre, lo stesso concetto di “razza” applicato agli uomini è discutibile. Di conseguenza, non esiste alcuna prova che l’influenza genetica africana, nei meridionali come in altre popolazioni, possa avere una qualche influenza negativa sulle capacità cognitive. Quello che, invece, sappiamo con certezza è che tra Nord e Sud Italia esistono radicati divari sociali ed economici. Sotto questo aspetto, non certo per quanto riguarda il QI, l’Italia è un paese con profonde differenze.
Vittorio Daniele professore ordinario di Politica economica Università Magna Graecia
Ho trascorso una breve vacanza a Locri, cinque giorni presso l’Ostello Locride, una struttura che fa parte della galassia GOEL, un gruppo di persone, progetti, attività economiche, attivo ormai da venti anni in questo pezzo di Calabria. Una storia interessante, la si può leggere sul sito dell’Ostello. Un immobile sequestrato alla ‘ndrangheta, acquisito dal Comune e dato in gestione appunto a GOEL. Goel è un nome biblico, colui che riscatta e libera le persone.
L’ostello nello stabile dato in gestione a Goel
Il mare dei Greci
A Locri si può andare al mare, ovviamente, ma pure visitare un vasto parco archeologico, esteso oltre i limiti comunali, nel limitrofo territorio di Portigliola. Il mare richiama, evoca, la storia antica di questa terra e pure quella attuale, dato il continuo arrivo di barconi e gommoni stracarichi di fuggitivi di tutte le guerre del mondo.
Le spiagge di questo lembo di Calabria sono immense, bianche di sabbia e piccoli ciottoli; a Locri sono presenti i lidi, ma tra uno e l’altro i tratti liberi sono molto estesi, attrezzati di docce, bidoni per la raccolta differenziata dei rifiuti e accessi facilitati. Parcheggi gratuiti e intervallati da posti riservati a disabili e madri con bambini piccoli. Enumero questi particolari perché in altre rinomate e blasonate località sul mare il parcheggio si paga (quando ve bene, anzi, benissimo) 2 euro l’ora, le spiagge libere sono ridotte a qualche scampolo, e il mare non sembra neanche pulito, con tutto il rispetto per le bandiere blu.
Da cosentino attempato mi chiedo, poi, quali colpe ancestrali dei nostri mitici antenati o quali attività fantasiose e creative più recenti abbiano portato alla distruzione delle spiagge della mia infanzia, sul Tirreno cosentino, dato che lungo la Statale 106 non ho visto battaglioni di carabinieri impegnati a sorvegliare il bagnasciuga, come lo chiamava un tale famoso.
Reperti nel Parco archeologico di Locri
Visita (non guidata) al Parco archeologico
Torniamo alle processioni sacre della Magna Graecia, che è meglio. Il parco archeologico è vasto, percorrerlo a piedi sotto la canicola per me sarebbe letale, mi limito a qualche passeggiata simbolica, fino all’area di Centocamere, il quartiere degli artigiani, con i forni per cuocere le anfore oggi in mostra nel museo. Torno indietro, l’allestimento del museo è recentissimo, la climatizzazione funziona a meraviglia, l’apparato illustrativo e i video sono stati realizzati in modo così chiaro, efficace, che pure i lanzichenecchi di Elkann, nel caso di una trasferta a Locri, si orienterebbero.
Le donne di Locri
Le aree di scavo sono distanti una dall’altra, la città doveva essere vasta e le ricerche sono state condotte in tempi recenti, la mancanza di fondi ostacola ulteriori campagne di scavi, dato che i nuovi ritrovamenti poi andrebbero sorvegliati e protetti. Le foto in bianco e nero mostrano il sito di una fonte sotterranea, dove le donne di Locri si recavano in processione, per i bagni rituali. Le più giovani per sancire la loro condizione di nubende, pronte alle nozze. Le altre per invocare fecondità e abbondanza, in occasione dei culti in onore della dea Demetra, la protettrice dei raccolti.
In onore di Demetra le suddette signore sacrificavano dei maialini, seppelliti vivi, immolati alla fecondità dei campi. Dovevano strillare parecchio, i maialini, ma ai tempi la Protezione animali non era stata inventata, anzi gli studiosi sono sicuri che in epoche più oscure i sacerdoti immolassero persone, sugli altari posti davanti ai templi. Le ragioni? Placare gli dei, vincere la guerra, ottenere raccolti abbondanti.
Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini
Ripensando al Pasolini di Calabria
Questo viavai di processioni femminili oggi si svolge soprattutto tra il lungomare, le spiagge e i lidi, in forma decisamente incruenta e molto gradita alla popolazione maschile di ogni età. Tutti ricordano le frasi di Pasolini, quando visitò le spiagge meridionali, durante un suo celebre reportage, scrisse che erano popolate da frotte di maschi annoiati e disperati, che non riuscivano a incrociare una ragazza, neanche una, su quelle spiagge desolate.
Sarà per lasciarsi alle spalle questo passato imbarazzante e deprimente che le donne di tutte le età occupano militarmente i punti strategici di ogni lido, di ogni spiaggia, oppure corrono in bicicletta sul lungomare, amazzoni scattanti e vigili. Intanto i maschi, prostrati dal caldo, cercano di darsi un tono con una birra in mano, ormai calda e imbevibile.
Cassandra
Vicino alla mia postazione un bambino chiama insistentemente la nonna, che infine, seccata, emerge dal lettino: abbronzatissima, ossigenata, occhiali da sole e bikini leopardato. Sono questi i momenti in cui si avverte l’assenza della penna di Pasolini.
Di sera si può andare a teatro, in scena Cassandra Site Specific di e con Elisabetta Pozzi, che dirige anche la rassegna annuale: Tra mito e storia. Festival del teatro classico di Locri Epizefiri.
Appuntamento a Portigliola, presso il Palatium romano di quote San Francesco. Per non perdermi lungo la statale 106 digito tuto il toponimo e il navigatore mi deposita davanti allo spiazzo, dove la Pozzi e i tecnici stanno provando microfoni e luci. Alla fine siamo almeno duecento persone, il luogo è suggestivo, il personaggio di Cassandra viene attualizzato con riferimenti a vicende recenti, modificando il testo che la Pozzi porta in scena da oltre un decennio.
Nessuno dava ascolto a Cassandra, come potevano essere così dissennati i suoi concittadini? Come potevano fidarsi dei Greci e del cavallo di legno lasciato sulla spiaggia? Anche oggi ci sono ministri che dicono che va tutto bene, fa caldo, è estate, ripetono, mentre il termometro indica temperature da incubo.
Elisabetta Pozzi
Dopo lo spettacolo Elisabetta Pozzi chiacchiera con il pubblico, la notte è quasi fresca, il peggio dell’estate, forse, è passato.
Ci guardiamo intorno prima di andare via, si tratta di una campagna disseminata di masserie, agrumeti e orti, forse pure sotto il pavimento di questi edifici si troverebbero le anfore per il vino e l’olio di duemila anni fa, come è accaduto sotto la masseria Macrì, che oggi, inglobata nel museo, mostra le stratificazioni romane e quelle greche più giù. Perché dopo i greci qui sono arrivati i romani, a quindici chilometri da Portigliola si può visitare la villa romana di Casignana, enorme, migliaia di metri quadrati di edifici ancora da riportare alla luce. Le due parti visibili della villa, scoperta casualmente nel 1963, sono collegate da un sottopasso su cui scorre il traffico della statale 106. Dal triclinio si vede il mare oltre un boschetto; era una dimora da ricconi, mosaici dappertutto e impianti termali. Bella vita.
A Locri c’è pure il cinema all’aperto, a palazzo Zappia, proiettano Astolfo, di Di Gregorio. Un vecchio professore, distratto rispetto ai suoi interessi, si trova costretto a tornare nella dimora di famiglia, in abbandono da anni. Dove però incontra persone interessanti e forse si innamora. Palazzo Zappia è un po’ malandato, ma questa Locri di fine Ottocento ha un suo fascino. Qui e nei palazzi vicini hanno pensato di staccarsi da Gerace, di ottenere, nel 1905, l’autonomia per Gerace Marina. E poi, dal 1934, fregiarsi del nome prestigioso della città riemersa dopo venti secoli. Persone intraprendenti.
Una targa ricorda una data importante per la comunità locrese
Il cameriere oratore
Ultima sera a Locri, cena all’aperto, in un locale che è insieme ristorante pizzeria. Il cameriere è alle prese con un tavolo di ragazzini pestiferi. Consapevole di trovarsi forse nell’antica agorà di Locri Epizefiri (ancora non localizzata) prova a convincerli con un discorso razionale, sulle orme degli antichi oratori. Chiede di votare per alzata di mano, come si usa in democrazia, vorrebbe riepilogare le ordinazioni, cerca di attrarre l’uditorio con argomentazioni ineccepibili (poi dite che non vi arriva quello che avete chiesto, poi vi lamentate con i vostri genitori).
Ma come accadeva oltre duemila anni fa, il demos, il popolo non ascolta la voce della ragione. I ragazzini se ne sbattono dell’accorato discorso, l’oratore rinuncia, va via sconfitto, come tanti brillanti filosofi, estromessi dalla voce volgare del demagogo di turno. Anzi i greci li hanno messi a morte i loro uomini migliori oppure mandati in esilio, che era peggio della morte per un greco. Così finì miseramente la democrazia antica, così naviga in acque pericolose la nostra, propensa a seguire il Trump di turno. Domani mattina restituirò la brocca cerimoniale e tirerò le somme di questa vacanza sostenibile in terra di Locri. Ma posso già ammettere che i conti sono positivi, posso dirlo già qui, in piazza, dove ancora oggi si svolge il confronto delle idee che tanta luce ha portato alla nostra traballante civiltà.
Non troverebbe spazio sui Cahiers du cinema, ma poco importa. Mancava il punto di vista sartoriale per entrare nella galassia Oppenheimer, il film di Christopher Nolan sul padre dell’atomica americana. C’ha pensato Fabio Bernieri, divulgatore social di eleganza classica e buon gusto con il nome d’arte Douglas Mortimer, a uscire fuori dal coro quasi unanime sul biopic del momento. Analizza la pellicola sul suo canale YouTube con un piccolo viaggio fra tessuti pregiati, giacche mono e doppiopetto, camice con collo all’italiana, panciotti d’ogni forma e guisa, nodi e cravatte, scarpe raffinate. Del resto con uno pseudonimo così il cinema non può mancare a casa Bernieri. Il colonnello Mortimer è il bounty killerLee Van Cleef nella trilogia del dollaro di Sergio Leone.
Douglas Mortimer (nel riquadro in alto) analizza sul suo canale YouTube l’eleganza dei personaggi del film “Oppenheimer”
Ma non siamo in una pellicola del maestro italiano, se non fosse per certi primi piani, quasi primissimi. Nolan gioca sempre la carta del tempo sospeso, sfuggente, moltiplicato, dilatato. Dalle cavalcate nel New Mexico fino ai claustrofobici e inquisitori interrogatori. Paura dei comunisti? Sì, ancora oggi sopravvive, figuriamoci in quegli anni. Nemmeno uno scienziato come Robert Oppenheimer può farla franca. Quasi scontato quando hai un’amante, una moglie e un fratello con la tessera dal partito più inviso al potere e tu finanzi i repubblicani nella Guerra di Spagna. Per non parlare del sindacato. Peccati capitali per comuni mortali. Con una mente come la sua in pieno conflitto mondiale e con i razzi V2 pronti ad ospitare testate nucleri naziste, tutto viene perdonato (almeno fino alla resa inevitabile del Giappone). La Ragion di Stato lo porta dritto alla guida del Progetto Manhattan.
“The gadget”, nome in codice del primo ordigno nucleare fatto esplodere a Los Alamos nel New Mexico
Il Gadget di Zio Sam
La corsa contro il tempo impiega soldi e menti brillanti. Alla fine The Gadget, questo il nome del primo ordigno nucleare fatto esplodere nel deserto, svolge egregiamente il suo compito. Un fungo di luce e miscela mortale entra a far parte del nostro immaginario collettivo. L’orologio dell’Apocalisse sempre più vicino alla mezzanotte ci avverte dell’attualità – a tratti persino ripetitiva e retorica – di un film del genere. Una guerra nel cuore dell’Europa con un potenza nucleare e muscolare non ci fa dormire sonni tranquilli. L’uscita nelle sale ha tenuto conto del contesto? Forse è una preoccupazione moltiplicata di più nel vecchio continente. Forse no.
Oppenheimer distruttore di mondi
I mondi di Oppenheimer invece sono dentro i suoi flussi di coscienza: atomi si muovono e scontrano prefigurando un futuro prossimo. Lo scienziato è un prometeo americano, come il titolo del libro, vincitore del Pulitzer, da cui è tratto il film. Scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin. La sceneggiatura appartiene allo stesso regista Christopher Nolan. Dialoghi impeccabili e ritmati. Oppenheimer, Oppie lo chiamano gli amici, è, invece, l’eterno dilemma tra scienza ed etica. Mettiamoci pure la politica. Una questione della tecnica riproposta ancora una volta sul grande schermo. Un brillante Cillian Murphy – chi lo ricorda nel Vento che accarezza l’erba di Ken Loach? – smette i panni di Tom Shelby dei Peaky Blinders e indossa quelli del «distruttore di mondi». Così recita quel testo sanscrito amato da Oppenheimer. The father of atomic Bomb, si legge sulla copertina del Time di quegli anni. Quando abbiamo capito di non poter più tornare indietro. Perché in qualche modo ci aspetta l’Armageddon dietro l’angolo o poco più avanti. A ricordarci che non possiamo sbagliare.
Illustrazione sulle diverse modalità di fischiare utilizzando le dita
C’è un grido per le vacche, uno per i tacchini
Ho recuperato entrambi i libri, per un motivo che c’entra solo a metà con queste Strade Perdute: anni fa restai affascinato dalla varietà di grida utilizzate da una certa famiglia di contadini nel dare varie indicazioni ad animali di diversa tipologia. Potenza della vita civilizzata (sono ironico): riescono a sorprenderci cose che fino a 150 anni fa avremmo ascoltato forse quotidianamente, senza troppe difficoltà… Per fortuna c’è chi ancora queste cose le sa, ne fa uso, le tramanda per necessità: c’è il grido per le vacche, quello per le pecore, per i tacchini, le oche, i cavalli, i muli. Il grido per avvicinarli, per allontanarli, eccetera. Leggevo da qualche altra parte che addirittura i bufalari in Terra di Lavoro affibbiano specifici nomi ad ogni capo. E i capi comprendono, registrano, rispondono solo se chiamati con quel nome. Guai a sbagliarsi, i bufali sono orgogliosissimi.
Il tempo si è fermato a Montegiordano
A due passi – si fa per dire – dal centro storico di Montegiordano vive una famiglia di contadini e allevatori esemplare. La cultura rurale alla massima potenza: figli e figlie hanno imparato a due anni ad andare a cavallo senza sella, tutto si produce in casa, dal pane alla carne passando ovviamente per i prodotti dell’orto. Sei raffreddato? Devi fare un giro all’alba nelle stalle, a respirare l’odore del letame fresco.
Sei febbricitante? Raccogli la liquirizia, la metti a bollire in tre litri d’acqua, con tre foglie d’alloro, tre fichi secchi e tre fascette di camomilla. Quando i tre litri sono evaporati fino a diventare un litro solo, allora bevi. Tutto ciò accade in una masseria ubicata in mezzo a un paradiso terrestre: un’ex grangia cistercense di impianto addirittura duecentesco, che gli appassionati di studi federiciani dovrebbero considerare un po’ di più, senza limitarsi alla solita solfa dei castelli e dello scenografico sistema difensivo. E se lo dico c’è un motivo…
Ruderi della grancia cistercense in agro di Montegiordano (foto L.I. Fragale)
Perfino l’archeologo Lorenzo Quilici visitò la masseria nel 1961. Perfino lo scrittore Tiziano Fratus l’ha recentemente perlustrata e ne ha annotato gli alberi più monumentali tutt’intorno. Mentre qualche anziano contadino di quello stesso circondario ancora utilizza – e perciò ancora ‘possiede’ – un vocabolo dialettale apparentemente avulso dalla semplicità del contesto rurale, e invece profondamente connesso: lo spartagguale, ovvero l’equinozio, segno di un’antica conoscenza contadina dei rudimenti astronomici (mettiamocelo in testa: il vocabolario di un analfabeta di duecento anni fa era molto probabilmente più vasto di quello di un comune ignorante odierno).
Io mi diverto invece a porre al capofamiglia domande imbarazzanti, del tipo se lui abbia mai visto in zona un roi de rats (risposta: no) oppure «come mai non si produce il formaggio di donna?». Solo che la risposta è ancora più imbarazzante: «Perché il sapore non è buono». Colpito e affondato nei nuovi dubbi. Mi racconta che in una cucciolata di maialini ogni piccolo sceglie un determinato capezzolo materno da cui attingere. Da lì in avanti non avviene nessuno scambio: a ciascuno il suo. E se un cucciolo muore anzitempo, il “suo” capezzolo rinsecchisce. C’è poco da scherzare: quanto alle mie provocazioni in merito al latte di altri mammiferi (scrofe, cagne, cavalle, coniglie, gatte), pare che il problema sia molteplice.
Latte di porco
Vi è innanzitutto una questione quantitativa: questi animali fanno troppo poco latte e per periodi troppo brevi (ergo l’investimento potrebbe non risultare vantaggioso); e una questione qualitativa: il latte di questi animali non è effettivamente gradevole al palato umano (chiediamoci: se fosse stato minimamente commestibile… davvero milioni di poveri contadini nella storia dell’umanità non ne avrebbero mai approfittato?). E però entrambi questi fattori oggi possono essere superati in un mercato di nicchia, dato che non è affatto difficile trovare accaniti consumatori di cibi tanto ‘esotici’ quanto apparentemente rivoltanti alla vista e al gusto (tempo fa andava di moda il costosissimo caffè fatto con chicchi precedentemente mangiati, digeriti e defecati da un simpatico zibetto).
Chicchi di caffè di zibetto
Il problema del gusto quindi non si pone per quanto riguarda il latte umano, visto che tutti l’abbiamo bevuto. E ci piaceva pure. Quanto alla quantità: quanti bambini sono stati allattati da balie che lo facevano di mestiere? Il problema sta semmai nella pastorizzazione. Sulla legalità della cosa, in linea di massima non sussisterebbe alcun problema, rientrando comunque negli atti di disposizione che non ledono in modo permanente l’integrità fisica della persona (si posso vendere i propri capelli, le proprie unghie (ammesso che vi sia domanda). Perché poi il latte d’asina sì, e il latte di cavalla no?
Contadini con la C maiuscola a Montegiordano
Ma torniamo alle cose commestibili: invitato a pranzo da questi Contadini (la maiuscola, qui, è d’obbligo), davanti al ben di Dio c’è poco di che applicare la regola della “creanza del cardalana” che consisterebbe nel lasciare educatamente sempre qualcosa nel piatto: la usavano gli esperti cardatori, lavorando a domicilio e perciò necessariamente invitati a pranzo, per evitare di apparire troppo famelici.
E dopo il primo, l’agnello al forno, le cotenne e le orecchie di maiale, le polpette, la soppressata, le cicorie selvatiche, cipolle&uova, i piselli, le olive e litri di vino, tra i fumi dell’alcool e della digestione, un indovinello dialettale e un altro, mi rendo conto che più passano i minuti meno ho la lucidità di afferrare il loro discutere di mandrie e greggi da recuperare qua e là, fuggitive per la pioggia; e così arrivo all’ebbra conclusione che questi, c’è poco da scherzare, parlano greco. Un greco travestito da italiano. Altro che Area Lausberg, nel cui mezzo ci troviamo optime, ovvero quella zona linguisticamente nota con il nome di Mittelzone, quella ‘zona arcaica calabro-lucana’ che si contraddistingue per il particolare sistema vocalico equivalente a quello sardo.
Il vecchio cementificio lungo la Statale 106
Montegiordano e il Nordest di Calabria
Siamo nei boschi un tempo appartenenti a Oriolo Calabro (Ursulus, Orgilus, Ordiolus), prima ancora che il paese di Montegiordano venisse fondato dove – carte del 1015 alla mano – sorgeva il castello di Petra Coeci e il monastero di Sant’Anania, che non stavano affatto in territorio di Nocara, come da qualche archeologo locale erroneamente affermato. Se andiamo avanti così, archeologi di questo tipo faranno fatica tra cent’anni persino a individuare il vecchio cementificio montegiordanese lungo la vecchia statale 106, interessante esempio di rudere industriale in mezzo al profumo dei pini d’Aleppo.
E proprio lungo questa statale si può ancora accedere ad una delle spiagge più appartate e scenografiche: una contorta pineta naturale, scogli affioranti – gli scogli della Grilla e della Galera – e acqua trasparente, il tutto preferibile a giugno o a settembre, quando vi si incontrano solo sparuti gruppi di pescatori all’alba, cioè prima o dopo della ressa luglio-agostana – tendenzialmente apulo-materana, va detto – che purtroppo fa di questa spiaggia una mezza discarica.
Ma siamo già al confine con il Comune di Roseto Capo Spulico come già annotava comicamente un atto del 1742, per niente avaro di sostantivi reiterati con funzione di moto per luogo: «Comincia detto confine dalla volta della Grilla, canale canale esce alla terra della Caprara, confinante col territorio di Roseto, e serra serra per lo lago del Vintrioso, che confina col territorio di detta Terra d’Oriolo, serra serra và al Monte grande confine colla Rocca Imperiale, scende nuovamente serra serra per la Timpa di Vitale, scende al Canale, che confina con detta Terra di Rocca Imperiale e canale canale esce al batto del mare e marina marina và al piano della volta della Grilla medesimo fine». Musica.
La pineta naturale presso lo Scoglio La Grilla (foto L.I. Fragale)
Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.
Il campo di internamento di Ferramonti
Mille giorni a Ferramonti
I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.
Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.
Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”
Lara Chiellino diventa Nina Weksler
Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.
Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.
Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)
Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina
Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.
Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.
Lara Chiellino e Dora Ricca
La regia attenta di Dora Ricca
La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.
Baracca 62
Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.
Soldati all’esterno del campo
Dove era Dio?
Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.
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