Cosenza è stata indicata come l’Atene delle Calabrie per via dell’Accademia ma essa in realtà era una sorta di confraternita in cui i potentati della città, di tanto in tanto, si riunivano per dare sfoggio d’erudizione. Uno storico del passato scriveva che i soci dell’Accademia Cosentina, per lungo tempo si dedicarono al poetare scompigliato, recitando nelle rare sessioni «rancide poesie» e qualche verso «Dio sa come raffazzonato».
I tronfi ciarlatani dell’Accademia Cosentina
Nel 1750, Spiriti precisava che il fine dell’Accademia non era quello di rischiarare aspetti sconosciuti del mondo greco o romano, approfondire controversie di storia sacra o profana, speculare sulle scienze fisiche, matematiche o filosofiche. Gli accademici, infatti, recitavano i loro componimenti poetici accompagnati «dal suono di dabbudà o colascione, insipidi poetastri accozzavano sillabe affacenti alle loro orecchie». Credendo di aver già meritato, così, l’ambito titolo di poeta andavano in giro per la città tronfi e pettoruti: tali ciarlatani ambiziosi e senza alcun merito pensavano di coprire la loro ignoranza con lo specioso titolo di accademico!
Versi per la nobildnona d’Althann
Un volume del 1724, edito a cura dell’Accademia Cosentina, ci offre un quadro del clima politico e culturale che si respirava al suo interno. Nella pubblicazione sono raccolti diversi componimenti recitati durante una pubblica adunanza in memoria della contessa Anna Maria d’Althann. Lionardo Jacuccio scriveva che gli accademici cosentini avevano l’antica e nobile costumanza di celebrare con «funebri pompe di prose e di rime» la memoria delle persone «grandi e valorose» e, considerato che nelle principali città del regno si faceva risuonare «fra tanto strepito» la fama della contessa, essi non potevano certo «starsene oziosi tacendo».
Egli, quindi, invitava i virtuosi accademici a piangerla e lodarla in rime poetiche da dare alle stampe e divulgare. Ben quarantadue accademici, che non conoscevano la nobildonna, risposero all’appello componendo odi, egogle ed epigrammi in cui si esaltano le doti eccezionali della defunta.
Telesio fu isolato dai cosentini
Gli intellettuali della provincia di Cosenza che coraggiosamente si sono battuti per affermare le loro verità hanno pagato un caro prezzo. Tra il Cinquecento e il Seicento, nella provincia cosentina molti pensatori e scienziati sono stati emarginati, esiliati, perseguitati e considerati traditori. Bernardino Telesio, uno dei primi filosofi europei ad abbandonare ogni considerazione metafisica della natura e a sostenere che la conoscenza deve basarsi sullo studio dei principi naturali, trascorse gli ultimi anni della vita isolato dai concittadini e, scomunicato per le speculazioni filosofiche, le sue messe all’Indice.
Giovan Battista Amico, autore di un trattato scientifico in cui discute e sviluppa la teoria delle sfere omocentriche così com’era accolta nella filosofia aristotelica, unanimemente giudicato uno scienziato pieno d’ingegno, fu aggredito e ucciso a Padova, probabilmente da sicari al servizio di qualcuno interessato ad un suo manoscritto mai ritrovato.
Il trattamento riservato a Campanella
Il celebre Campanella che soggiornò in città, autore di scritti in cui sosteneva che la natura va conosciuta nei suoi principi e che tutti gli esseri sono dotati di sensibilità e di conoscenza, fu perseguitato dal Tribunale dell’Inquisizione. Accusato di avere organizzato una congiura che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, subì terribili torture, fu condannato a morte e riuscì a salvarsi solo fingendosi pazzo, rimanendo in galera per ventisette anni.
Il religioso perseguitato
Paolo Antonio Foscarini, vicario provinciale dell’Ordine dei Carmelitani, fu perseguitato per aver pubblicato scritti in cui sosteneva che le scienze e le arti portano ad una migliore conoscenza di Dio e che le teorie di Copernico non contraddicevano le Sacre Scritture. Fu accusato di avere esposto i testi sacri diversamente da come erano stati interpretati dai padri e le sue opere messe all’Indice.
L’economista politico
Antonio Serra, autore di un geniale trattato di economia politica in cui analizza le cause della scarsità di risorse monetarie nel Regno di Napoli e indica i modi per invertire il povero sistema produttivo, si trovava nelle carceri napoletane della Vicaria, secondo alcuni per un reato di falsa moneta, secondo altri perché aveva partecipato ad un tentativo insurrezionale.
Il chirurgo Severino
Marco Aurelio Severino, ritenuto uno dei fondatori della moderna chirurgia, famoso in tutta Europa per le lezioni e gli interventi chirurgici, fu processato dal Tribunale dell’Inquisizione, imprigionato e spogliato di tutte le cariche. Morì durante la peste del 1656 mentre assisteva gli ammalati e fu seppellito in una tomba senza nome nella chiesa di San Biagio de’ Librari.
Il filosofo e lo scacchista
Tommaso Cornelio, filosofo e medico di gran valore, considerato uno dei protagonisti della rivoluzione scientifica italiana del Seicento, vagò per l’Italia e subì dure persecuzioni da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Gioacchino Greco, conosciuto anche come il Calabrese, scacchista famoso in tutte le corti europee e autore di un codice sul gioco pubblicato in diverse lingue, nel 1634 si recò nelle Indie Occidentali dalle quali non fece mai ritorno.
L’elenco degli studiosi cosentini perseguitati o costretti ad abbandonare la loro terra è lungo.
Il fondamento mitico della città
L’atteggiamento dei cosentini dopo secoli non è cambiato. La rielaborazione storica di Alarico, Federico II e Carlo V degli studiosi locali, fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e avvenimenti che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.
Le verità manipolate
Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord, il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Molti studiosi e amministratori, convinti che i cittadini non hanno alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a fornire racconti inverosimili. Alarico, ad esempio, il cui nome incuteva nelle popolazioni italiche un fremito di terrore, viene familiarizzato al punto da diventare una icona cittadina. Egli non è più l’odiato e temuto barbaro ma un antenato-eroe da celebrare, un re dalla folta chioma e dagli occhi azzurri, amante della tolleranza e della pace!
L’invenzione della storia
Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno parte di una industria del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione del sapere che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma.
L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, distrarre momentaneamente gli individui proponendo semplificazioni e illusioni, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni. L’invenzione della storia per celebrare il primato culturale della città, tuttavia, spesso si rivela inconsistente.
Alarico superstar
Le celebrazioni dedicate a grandi personalità come Alarico in cui prevale l’aspetto ludico e di consumo sono prive di valore sentimentale. I cittadini vi partecipano come a una grande fiera, non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli organizzatori, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».
Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi; per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità, sebbene a volte caratterizzate da grande successo di pubblico, per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione da consentire alla collettività di riconoscersi in una storia comune.
La maggior parte dei lettori non avrà quasi idea di cosa siano i caratteri mobili per comporre un testo da imprimere sul foglio. I tipografi non sono più quelli di una volta, la professione è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Le innovazioni sono state tantissime e hanno mutato radicalmente il modo di lavorare, fino alla rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali. Le piccole tipografie locali hanno subito duri contraccolpi e l’introduzione di diversi macchinari ha reso molte figure non più necessarie.
Basti pensare al compositore, che si occupava di comporre la pagina da stampare unendo pazientemente i pezzetti di piombo con lettere, spazi e segni di punteggiatura. Nei periodi elettorali, invece, si utilizzavano dei grandi caratteri in legno, utili a stampare inviti di voto su carta colorata di diverse dimensioni. Anche questo sistema è tramontato, e l’innovazione ha semplificato notevolmente i passaggi.
Stampatori da primato
Il primo libro stampato a Reggio Calabria risale al 1475 ed è la più antica opera in caratteri ebraici stampata al mondo. A Cosenza già nel 1478Ottaviano Salomonio, anche lui probabilmente di origine ebraica, imprimeva con i suoi torchi alcuni opuscoli che recano impressi data e luogo di stampa. A dispetto di questo rapido arrivo, le tracce delle tipografie calabresi scomparvero per quasi un secolo, per ricomparire negli ultimi anni del ‘500.
Agli inizi dell’800 l’istituzione delle Intendenze da parte dei dominatori francesi portò all’impianto di una nuova tipografia a Cosenza. Era quella di Francesco Migliaccio, stampatore appartenente ad una famiglia napoletana già operante nel settore che attraverso i propri torchi darà luce a moltissime opere di autori locali noti. A cominciare da “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1865, ma anche opere e operette di autori meno noti che altrimenti avrebbero difficilmente lasciato una traccia nella storiografia.
Gutenberg calabresi
Nell’ultimo quarto dell’800 il boom. Il monopolio di Migliaccio venne pian piano eroso da altre piccole tipografie, spesso legate alla diffusione di giornali e periodici espressione di particolari categorie o correnti culturali. Nel 1884 a Cosenza si contavano Giovanni Alessio, della tipografia dell’Indipendenza, Domenico Bianchi, Davide Migliaccio e Francesco Principe, della tipografia Municipale. Questi, con tutta probabilità titolari degli stabilimenti, avevano a loro volta diversi operai. Anche in provincia erano presenti attività tipografiche, tra cui quelle di Leonardo Condari e di Francesco Patetucci a Castrovillari, di Giuseppe Giuliani a Cerchiara, la tipografia del Ginnasio a Corigliano, a Lungro quella di Gaetano Guzzi e a Paola la tipografia della Concordia di Salvatore Stancati Vasquez.
Nel Catanzarese la situazione era altrettanto vivace. Nel capoluogo c’erano le tipografie degli editori Vitaliano Asturi e Luigi Mazzocca, la tipografia della Prefettura di Giuseppe Dastoli, la tipografia Municipale e quella di Francesco Veltrie C. A Nicastro la tipografiaColavita, a Filadelfia la tipografia della Società operaia. Monteleone contava le tipografie di Fedele Gentili, Francesco Rubo, Giovanni Troise e la Tipografia Cordopatri, mentre a Crotone operava Tomaso Pirozzi. A Reggio Calabria operavano Luigi Ceruso della tipografia “all’insegna del Petrarca”, Domenico Corigliano, Adamo D’Andrea, Marianna Pananti Lipari e l’editore Paolo Siclari. A Palmi stampavano Giuseppe Lo Presti e Domenico Lipari.
Stampa e politica
Era il periodo della diffusione dei periodici locali, soprattutto cittadini, spesso semplici fogli in concorrenza tra loro e schierati su fronti diversi. Molti di questi si erano dotati di una propria tipografia per ridurre i costi dalla stampa del giornale. Queste piccole officine della parola scritta passavano non di rado dalla stampa del giornale alla pubblicazione di opere a tiratura più o meno elevata. Pasquale Rossi, antesignano della psicologia sociale, si serviva spesso per le sue opere dalla tipografia del giornale cosentino “La Lotta”. E allo stesso modo facevano oscuri intellettuali locali con scritti di cui non resta quasi memoria.
La tipografia Riccio durante l’alluvione del 1959 (Foto dal gruppo fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)
Tra fine ‘800 e inizi ‘900 nasce così anche in Calabria, e nel Cosentino in particolare, una piccola classe di operai-tipografi. Il lavoro dei tipografi iniziava ad essere “politico” e si svolgeva in modo sparso nella città. Nella prima metà del ‘900 il quartiere cosentino di Rivocati ne accoglieva più di una, mentre la tipografia Riccio occupava uno stabile sul Lungo Crati soggetto a inondazioni. Una foto dell’alluvione del 1959 mostra l’edificio con ancora l’insegna della tipografia dipinta a grandi lettere sull’intonaco sopra l’ingresso principale.
L’onorevole Aldo Moro visita i locali dove veniva stampato Parola di Vita (Foto in Salvatore Fumo, Il giornalismo cattolico e lo sviluppo della Calabria Editoriale, Progetto 2000-2004)
La parte alta di corso Telesio ospitava nei locali del palazzo vescovile, poco lontano da quelli dove ancora campeggia l’insegna del giornale “Cronaca di Calabria”, la tipografia che sarebbe diventata “La Provvidenza”, i cui torchi diedero alle stampe molto materiale di ambito cattolico. In tal senso è da segnalare la presenza in città negli anni ’40 di una tipografia della Pia Società S. Paolo, le note Edizioni Paoline, che tra l’altro diede alle stampe nel 1948 un’edizione dell’opera del sacerdote antifascista don Luigi Nicoletti, Meditazioni Manzoniane, che sarebbe finita sui banchi di molte scuole d’Italia.
Un leghismo d’altri tempi
All’alba del Novecento il termine “leghismo” aveva un senso e un colore politico opposti a quello odierni. Muratori, sarti, falegnami, panettieri, calzolai, facchini e tipografi cosentini diedero vita nel 1906 ad altrettante “leghe di resistenza”. Si trattava di movimenti di fratellanza operaia, veri e propri cordoni solidaristici capaci di proteggere e orientare menti non eccelse e braccia toste come il legno silano, che unendosi avrebbero potuto porre un freno alla forza padronale e un argine ai rischi connessi a lavori duri e pericolosi.
La lega dei tipografi cosentini era presieduta da Federigo Adami, uno dei fondatori del circolo repubblicano intitolato ai Fratelli Bandiera, destinato a diventare nel 1913 il primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza.
«Dovete fidare soprattutto in voi stessi, se volete davvero incamminarvi per la luminosa via de la rivendicazione» ripeteva Adami ai giovani apprendisti tipografi. Negli annali della Camera del Lavoro e del socialismo cosentino, Adami è descritto come organizzatore degno di stima, sempre pronto alla battaglia. Esercitava un certo influsso sui giovani apprendisti, che vi si affidavano per ogni cosa.
Il tipografo d’idee repubblicane Federigo Adami, primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza
All’epoca i tipografi come i muratori, i falegnami o i fornai si dividevano in due macro-categorie: i “mastri” – custodi dell’arte e proprietari di un’attività – che speravano nel buon andamento e magari in un ampliamento della stessa, e i “garzoni” che stavano a bottega dal mastro artigiano con la prospettiva di diventare anch’essi capi d’arte e chiedevano semplicemente condizioni di trattamento migliori. La Cosenza d’inizio Novecento andava estendendosi verso le campagne ca minanu a Renne: si aprivano ovunque cantieri, e nei piccoli opifici di contrada Castagna il lavoro abbondava.
Primo maggio 1906
Insieme ai muratori del rione Massa, i giovani tipografi che facevano capo ad Adami furono i protagonisti della prima celebrazione del 1° maggio, datato 1906, che si svolse a Pianette di Rovito perché la pubblica sicurezza vietò il comizio in una piazza cosentina. Nei giorni precedenti tipografi e muratori avevano cercato di convincere sarti e calzolai delle migliori boutique di corso Telesio ad astenersi dal lavoro. Il favore di questi “artigiani privilegiati” sarebbe servito a far udire le lagnanze salariali ai ceti agiati della città che vi si servivano. Così fu.
Durante la celebrazione del 1° Maggio 1906 fece la propria comparsa tra gli applausi l’anziano tipografo Rosalbino Serpa, dalle mani solcate da decenni di fatica. Era il “proto”, coordinava cioè il reparto di composizione e controllava l’esecuzione tecnica della stampa del giornale “La Lotta”, che al tempo fomentava la battaglia politica cittadina. Come ricorda Pietro Mancini: «Egli [Serpa] ci comunicò subito che era rimasto solo nella tipografia e quindi era stato mandato via a festeggiare il primo maggio dal direttore del giornale».
La tipografia degli orfanelli
A Cosenza l’infanzia abbandonata, i cosiddetti “trovatelli”, e insieme a loro ladruncoli e perdigiorno trovavano posto nell’orfanotrofio “Vittorio Emanuele II”. L’ospizio nacque nel periodo preunitario con l’obiettivo di garantire un futuro e avviare al lavoro i figli della miseria provenienti dai quartieri e rioni popolari di Massa, Spirito Santo e Santa Lucia. Nella seconda metà dell’Ottocento fu installata nell’orfanotrofio un’officina tipografica, destinata a diventare nei decenni una vera e propria scuola.
Il reparto di composizione della scuola poligrafica dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II di Cosenza
Con entusiasmo il deputato provinciale Francesco Vetere nel 1882 la presentò come una gloria nell’insegnamento delle «arti meccaniche, di cui l’Ospizio può attingere un incremento di forza, e gl’infelici orfani e trovatelli, raccolti dalla pubblica carità, potere apprendere un’arte colla quale possano campar la vita, acquistare un posto nella società». Fino ai 18 anni i giovani aspiranti tipografi venivano suddivisi in squadre di sette elementi alle dipendenze di un capo d’arte. Il frutto del loro lavoro – libri, opuscoli ecc. – sarebbe stato venduto e 1/5 dell’utile (al netto delle spese) sarebbe stato diviso in parti uguali tra i giovani lavoranti.
Sfruttamento e futurismo
Ma le cose non andarono sempre per il verso giusto. Già sei anni dopo, il commissario governativo Tancredi ravvisò che i capi d’arte sfruttavano il lavoro degli apprendisti per proprio tornaconto, che nessuno degli alunni aveva appreso le prime nozioni e tutti lavoravano senza compenso. La tipografia dell’orfanotrofio conoscerà una stagione ben più florida negli anni ’50 del Novecento. L’ospizio era presieduto da Ruggero Dionesalvi e nel consiglio d’amministrazione figurava l’avvocato e giornalista sampietrese Giuseppe Carrieri (1886-1968) definito dal suo compaesano Alfredo Sprovieri «primafila dell’ultima avanguardia futurista italiana in grado di sedurre il mondo».pIO
La “poesia silenziosa” di Carrieri venne scandagliata attraverso le opere di Pietro De Seta e Gaetano Gallo pubblicate proprio nel “Baraccone”, com’era chiamata l’officina annessa all’orfanotrofio e trasformata il 10 giugno 1950 in una vera e propria scuola poligrafica allo scopo «di tenere il piccolo drappello di fanciulli lontano dai rumori e vizi della città […] educare alla scuola del lavoro le tenere e frequenti vittime dei pregiudizi e dei disordini sociali».
La vecchia tipografia dell’orfanotrofio, oggi cadente e in preda al degrado, fu tagliata fuori dal progetto di ristrutturazione, adeguamento antisismico e riconversione dell’ex convento dei Carmelitani, e che fu sede dell’orfanotrofio, nel moderno Istituto Alberghiero “Mancini”, una delle opere di edilizia scolastica del primo mandato di Mario Oliverio quale presidente della Provincia.
Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.
La lingua del cuore e quella del pane
«Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).
«Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».
Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».
Sapori che si fondono
Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».
Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
Donne e uguaglianza
Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».
«A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».
Preti con moglie e figli
Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».
Mosaici e oro
La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale diSan Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battistacon le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».
La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa
O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a SpezzanoAlbanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».
I luoghi del cuore
Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».
Primo maggio alla Montagnella
Mare nostro
Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë èuna via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».
Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.
In Argentina, a metà degli anni ’70, c’è un uomo alto alto che passa le giornate a trovare il modo di salvare vite. Fabbrica uno a uno i documenti che servono per spedire donne uomini e bambini lontano dalla violenza del regime argentino. Riesce a salvarne centinaia ma, ciononostante, dorme con il dispiacere di non aver potuto fare nulla per tantissimi altri di quelli che hanno bussato alla sua porta. Passa e ripassa a mente i loro volti, cerca di capire cosa può fare per capire che fine hanno fatto, se in qualche modo possono ancora essere salvati. Va avanti così per molti anni E per un ragazzo in particolare: suo nipote Eduardo.
Il sindaco emigrante
È una storia, quella di Filippo Di Benedetto, che inizia sulle pendici del Pollino, a Saracena. Quinto di sette figli, assorbe la passione per gli ideali comunisti da suo padre, Leone di Benedetto, il primo abbonato al quotidiano comunista L’Unità. Lavorava in una piccola falegnameria e affiancandosi all’opera del pedacese Fausto Gullo, durante gli ultimi anni del regime fascista, all’età di 21 anni, contribuì a organizzate le prime proteste antifasciste del comprensorio. Per questo fu arrestato, torturato e rinchiuso nel carcere di Castrovillari nel 1943. Poi cadde la dittatura e alle prime elezioni democratiche del 1947 divenne sindaco di Saracena.
Di Benedetto, secondo da sinistra, con Sandro Pertini
Organizzò una manifestazione in paese contro chi si opponeva a portare il servizio idrico nelle case di campagne: un corteo che quando arrivò nei campi trovò la strada sbarrata da un cordone di uomini in divisa con i fucili pronti a sparare. «Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori». Un episodio rimasto negli occhi dei molti presenti a lungo, che tuttavia non lo aiutò a far crescere le condizioni economiche della sua comunità, alle prese con un dopoguerra ricco solo di miserie e soprusi.
«Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori»
Con il Comune in grave dissesto, la sua decisione nel 1952 fu quella di provare a raggiungere suo fratello Orlando in Argentina. Avrebbe cercato di rimettersi in forze e di tornare a Saracena, ma gli eventi della vita ebbero il sopravvento e dall’Argentina tornò in Calabria diverse volte, ma come faceva un emigrante.
Ebanismo e sindacato
A Buenos Aires diventò Felipe per gli affetti, e sposò una calabrese emigrata che si chiamava Rosa Garofalo, originaria di Cosenza. Ebbero due figli maschi, Mario e Claudio. Di Benedetto imparò il mestiere di ebanista e provò a integrarsi nella nuova realtà, piena di emigrati come lui. La passione politica lo aiutò parecchio: si iscrisse al Partito comunista e nel 1975 fu nominato responsabile del patronato Inca Cgil di Buenos Aires. A centinaia si rivolgevano a lui per questioni sindacali e ancora di più quando iniziò a frequentare l’Associazione calabrese di Buenos Aires, della quale fu eletto presidente nel 1976.
Di Benedetto durante un comizio del Pci in Argentina
Non era un periodo facile, l’Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo democratico del Cono Sud dell’America latina stava per capitolare sotto i colpi di un conflitto latente. Il 24 marzo del 1976 arrivò il colpo di Stato, e in poche settimane la repressione si fece durissima, fino ad arrivare al crimine contro l’umanità noto come “Sparizione forzata”. A migliaia furono presi clandestinamente, incarcerati, torturati, uccisi e fatti sparire.
Un acclamato intervento di Di Benedetto a una cena di emigrati in Argentina
Sulle orme di papà
Oggi Claudio Di Benedetto, proprio come faceva il papà a Buenos Aires, restaura mobili antichi alle pendici del Pollino, a Castrovillari. Negli anni ’80 ha vinto una borsa di studio in restauro del mobile e ha svolto un corso di perfezionamento in Brianza. Poi ha deciso di vivere in Calabria.
«Mio padre veniva due o tre volte all’anno in Italia. Portava in Argentina i prodotti locali della Calabria e parlava in dialetto calabrese. Perciò, qui era tutto familiare e mi colpì della Calabria la natura: 10 minuti il mare, 10 minuti la montagna… tutto vicino, mentre in Argentina abbiamo delle lunghe distanze difficili da coprire, e un brutto clima. Soprattutto a Buenos Aires».
Riprese di Gianluca Palma, montaggio di Marco Mastrandrea.
L’intervista fa parte dell’Archivio Desaparecido, un progetto di memoria attiva promosso dal Centro di Giornalismo Permanente di Roma
Claudio è molto fiero della storia del padre, anche se è cosciente che per l’indole schiva del carattere che ha ereditato se n’è parlato poco e niente. «Successe che un giorno nel suo ufficio incominciarono ad arrivare alcuni genitori di origine italiana. Raccontavano che alcuni dei loro figli erano stati rapiti e non avevano avuto più notizie di loro. Così mio padre, immediatamente, va a chiedere spiegazioni sia all’ambasciata che al consolato italiano di Buenos Aires, dove era conosciuto. Da parte delle autorità italiane bocche cucite però: nessuna informazione. E questo fa capire la complicità del governo italiano con quella giunta militare».
L’unico ad aiutarlo
A Buenos Aires, a quei tempi un’autorità italiana che ha deciso di non rimanere cieca davanti a tutto quello in realtà c’è. Si chiama Enrico Calamai e fa il viceconsole. La storia lo riconosce come un gigante, sono innumerevoli le opere che raccontano il suo impegno, nel 2004 è stato decorato dall’Argentina con l’Orden del Libertado General San Martín e il suo nome figura fra quelli del Giardino dei Giusti a Milano. Nella sua biografia ricorda il contributo di Di Benedetto, è fra i pochissimi ad averlo fatto: «Aveva una tosse infernale, una giacca logora, ma sapeva da quale impiegato delle Poste andare per spedire un telegramma senza essere denunciato».
Il diplomatico italiano Enrico Calamai
Ai tempi a Di Benedetto diede anche un consiglio importante, lo ricorda il figlio Claudio: «Decisero insieme di aiutare vite umane, salvando centinaia e centinaia di persone da morte sicura; aiutandoli a espatriare anche con passaporti falsi, nascondendo molti di loro in luoghi sicuri e denunciando alle autorità italiane quello che stava succedendo. Io mi ricordo che Calamai molte volte diceva: ‘Filippo, non ti esporre in questo modo… io sono un console, ho l’immunità, ho la scorta, ma tu non hai nessuno che ti protegge. Così metti a repentaglio la tua vita e quella della tua famiglia’. Ma mio padre continuò a salvare vite».
Eduardo è sparito
Ha continuato fino a quando è stato possibile, cercando di non raccontare a nessuno cosa faceva. In famiglia non ne parlava mai, teneva separati gli ambiti, anche perché era molto pericoloso. Difatti, dopo poco tempo, l’orrore che stava piombando nel cuore della notte di migliaia di case argentine bussò anche alla porta di casa Di Benedetto. Domenica Maria Alba Di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, insieme al marito Antonio Eduardo Czainik, vennero presi dagli squadroni della morte mentre erano intenti ad accompagnare a scuola i due figli. Vennero portati in un centro clandestino di detenzione, dove furono brutalmente torturati. Perché?
Eduardo era nato nella capitale federale il 27 aprile del 1947 e faceva il meccanico in un’officina a Posta de Pardo, Ituzaingó, Buenos Aires. Era un militante del gruppo rivoluzionario Forze Armate di Liberazione 22 agosto (FAL 22), ecco perché era su una lista. Ufficialmente risulta sequestrato il 25 agosto 1977 in via Nazca 920, dove abitava. Al quotidiano argentino Pagina/12 Christian Czainik, uno dei figli di Eduardo, ha raccontato che la famiglia riuscì a ottenere qualche informazione attraverso canali non ufficiali, ma che queste informazioni non sono servite a nulla perché hanno respinto il ricorso di habeas corpus e la denuncia al Ministero dell’Interno presentate dalla madre.
Il cruccio più grande
I tentativi furono i più disparati, Domenica in quegli anni ha girato in lungo e in largo le caserme alla ricerca del marito, riuscendo a incontrare anche il celebre agente dei servizi Raul Guglielminetti, ritenuto l’uomo che avrebbe portato gli archivi segreti della dittatura in Svizzera, più avanti processato in Argentina per aver sequestrato imprenditori a scopo estorsivo. Nulla è servito a sapere qualcosa di Eduardo, desaparecido all’età di 30 anni.
Una richiesta di informazioni su Antonio Czainik apparsa su Pagina 12
Di Benedetto prendeva informazioni e segnalava più casi di giovani perseguitati possibile, si spingeva fino al limite, ricevendoli nel suo ufficio e accompagnandoli in consolato. Li nascondeva fino al rimpatrio permesso dall’opera diplomatica di Calamai. Rischiava grosso, ma riuscì a contribuire al salvataggio di più di 300 persone, secondo le stime ufficiali. Moltissimi riuscirono a farsi passare per turisti, arrivarono in Italia e scamparono a una fine orribile anche grazie all’impegno di Filippo Di Benedetto, ma fra loro non c’era il nipote Eduardo. Per lui non ci fu niente da fare, era troppo tardi, e questo fu un cruccio che si portò appresso per tutta la vita.
Di Benedetto muore in Argentina nel 2001 sostanzialmente in povertà, senza nemmeno gli onori della cronaca. Solo 18 anni dopo, il 7 settembre del 2019, a Saracena decidono di intitolargli una strada. L’evento non ha l’eco che meriterebbe, ma in prima fila c’è un uomo che ha fatto tanta strada per esserci. Prende il microfono e di Filippo Di Benedetto dice: «Eravamo in contatto continuo e lo ricordo come una persona di un grande calore umano, generosa, molto umile e pure pieno di una grande saggezza ed intelligenza, di una grande cultura vera di civiltà». Parola di Enrico Calamai.
I mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale furono estremamente difficili per gli italiani d’Australia. Ore di fila davanti alle caserme di polizia, tesserini identificativi, divieti di possedere apparecchi radiofonici o macchine fotografiche, restrizioni su alcuni tipi di lavoro: la loro normalità finì sconvolta.
Da una parte c’erano i dettami della white policy sostenuta dal governo del quinto continente, che mirava a un paese abitato quasi unicamente da persone bianche (e gli italiani, così come i greci e gli jugoslavi, non erano considerati propriamente bianchi). Dall’altra, la paura che la comunità italiana presente sull’isola (in quegli anni stimata intorno alle 30mila unità che ne faceva il gruppo etnico non anglosassone più numeroso), potesse agire da quinta colonna in favore delle forze dell’Asse.
In mezzo loro, migliaia di contadini, maestri, pescatori, muratori che avevano deciso di trasferirsi down under nel tentativo di accedere a una vita migliore. Una situazione da separati in casa che precipitò il 10 giugno del ’40 quando Mussolini, tra gli applausi osannanti della folla di piazza Venezia, rese pubblica la dichiarazione di guerra contro la Francia e contro il Commonwealth britannico, di cui l’Australia era parte integrante. Il rovinoso ingresso in guerra del Bel Paese segnò infatti l’inizio di un periodo tremendo per gli italiani d’Australia, Da quel giorno e fino alla fine del conflitto divennero, loro malgrado, enemy aliens, nemici stranieri.
In internamento
Fascisti, antifascisti, anarchici ma anche semplici cittadini che avevano avuto il “torto” di avere fatto il servizio militare in patria o che finirono al centro delle delazioni dei vicini di casa. Furono tantissime le segnalazioni degli australiani che guardavano con sempre maggiore sospetto a quella comunità così eterogenea che stava mettendo radici nel loro paese. Bastava pochissimo per finire nella lista.
Migliaia di uomini e donne – molti dei quali avevano già ottenuto la cittadinanza australiana o erano stati naturalizzati – da un giorno all’altro finirono in un incubo nascosto dietro nomi rassicuranti come Loveday, Orange e Hay. Nei tre maggiori campi costruiti nelle zone più remote del continente dall’esercito australiano per contenere quella massa indistinta di umanità, furono rinchiusi in quasi 5000, poco meno del 20% dell’intera comunità italiana. Una percentuale enorme se confrontata ai medesimi provvedimenti adottati per gli enemy aliens nelle altre nazioni con cui eravamo in guerra.
Il campo d’internamento di Loveday in Australia
I primi arresti seguono di pochi giorni la dichiarazione di piazza Venezia. Nel mirino del ministero della Guerra finiscono tutti quelli che potrebbero, anche lontanamente, costituire una minaccia per il Commonwealth, donne e anziani compresi. Una rete dalle maglie fittissime in cui finiscono impigliati migliaia di innocui lavoratori, in una sorta di criminalizzazione etnica che lasciò strascichi pesantissimi sulla comunità italiana. Famiglie divise, attività economiche perdute, sequestri di beni: una pagina nerissima della storia australiana del ventesimo secolo costruita più su un pregiudizio razziale che su un reale pericolo.
Arrestateli tutti
I primi a finire in arresto, oltre ai pochi fascisti che agivano alla luce del sole, furono i pescatori di Bagnara Calabra che agli antipodi avevano messo in opera le loro conoscenza del mare diventando, assieme ai colleghi di Molfetta in Puglia, i maggiori protagonisti del settore ittico in New South Whales e in South Australia. La loro colpa, muoversi su pescherecci d’altura che avrebbero potuto favorire l’ingresso nel Paese di spie e armi per la conquista del continente.
Ma a finire nei campi d’internamento – vere e proprie carceri con torrette, filo spinato e guardie armate, costruite a migliaia di chilometri dai centri abitati spesso nelle zone desertiche del continente – furono tantissimi semplici lavoratori che nulla avevano a che fare col fascismo e nulla avevano a che fare con la guerra.
Processi sommari
«È italiano, è giovane, ha svolto il servizio militare. Queste sono le uniche cose che bisogna prendere in considerazione. La domanda deve pertanto essere respinta»: si erano infrante su queste poche parole, pronunciate a margine dell’udienza per la sua scarcerazione, le speranze di Giuseppe Panetta di ritrovare la libertà. La polizia militare lo aveva arrestato a Cabramatta, una trentina di chilometri a sud est di Sydney, tre mesi prima, nell’ottobre del 1940.
Ma già nelle settimane e nei mesi precedenti, gli uomini in divisa si erano presentati alla sua porta tante volte per interrogarlo. Due anni prima, nell’agosto nel 1938, si era imbarcato in terza classe sul transatlantico Oronsay assieme al fratello Michele: partivano da Martone, piccolo borgo arroccato sulle colline dello Jonio reggino, destinazione Sydney.
Giuseppe Panetta fu una delle vittime della giustizia australiana
«Sono venuti ad arrestarmi, ma nessuno di loro mi ha detto perché. Mi hanno chiesto dove lavoravo, dove vivevo e con chi, ma nessuno mi ha mai letto le accuse per cui venivo arrestato». Sono passati tre mesi dalla sera in cui i militari lo hanno trasferito nel campo di detenzione di Hay, nelle desolate zone desertiche del NSW e Panetta è riuscito, grazie all’aiuto di un altro detenuto calabrese che farfuglia qualche parola d’inglese, a presentare domanda di rilascio al tribunale che si occupa degli enemy aliens.
«Io sono venuto in Australia per lavorare – racconta ai giudici – perché in Italia non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia. Sono arrivato qui grazie alla chiamata di mio zio e appena avrò denaro sufficiente farò arrivare anche mia moglie e i miei quattro figli». La sua storia è simile a quella di tanti che come lui sono finiti senza prove nei campi disseminati nel bush australiano.
La lettera con cui Panetta prova a spiegare di non aver avuto mai legami col fascismo prima del suo arrivo in Australia
Ma ai giudici che lo interrogano, paradossalmente, non interessa troppo la sua vita in Australia: loro vogliono sapere di quando si trovava in Italia. «Sì, ho fatto il militare quando avevo 21 anni – risponde Panetta, che di anni ormai ne ha 33 – tre mesi di addestramento in artiglieria e poi il resto della leva a riparare dormitori e caserme. Facevo il muratore. Non sono mai stato iscritto al partito fascista, non mi interessava». In effetti Panetta non ha mai preso la tessera del partito e quella scelta aveva finito anche per pagarla molto cara, ma i giudici non gli credono e su quel tasto insistono parecchio.
«Nessuno mi ha mai chiesto di iscrivermi al partito fascista, e io non sono mai andato a cercarli – racconta ancora ai giudici – non avevo niente da spartire con i fascisti. Prima di venire in Australia avevo anche chiesto al potestà del mio paese di poter partire per l’Etiopia, ma la mia richiesta fu respinta perché non avevo la tessera del partito. Mi disse che se volevo partire, avrei potuto farlo come soldato, ma che senza la tessera non mi avrebbero mandato come semplice colono».
La scheda delle forze armate australiane su Panetta
Non era un fascista Giuseppe Panetta (così come non erano fascisti migliaia degli internati nei campi), né una minaccia: era un lavoratore, un migrante economico ante litteram. E in testa aveva solo il pensiero di fare un po’ di soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. Esattamente come i disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste a bordo di scassati barchini. La sua colpa era di essere giovane, in salute e di provenire da un paese lontanissimo ma in guerra con il paese dove si era rifugiato per scappare dalla miseria.
«Pur non essendoci alcuna prova di attività fasciste del soggetto – annota a verbale J.D. Holmes, rappresentante della pubblica accusa in nome del ministero della Guerra britannico – egli ha vissuto nei sei mesi precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia a casa di un iscritto al partito fascista (un conterraneo per cui Giuseppe Panetta lavorava e che gli aveva concesso, compreso nel salario, l’uso di una brandina dove dormire, ndr). E se è vero che il padrone non è tenuto a dare spiegazioni ai propri operai sulle proprie attività politiche – dice il pm – lui non poteva non sapere. Abbiamo davvero poco materiale per attaccare lui o il suo comportamento in Australia, tuttavia il soggetto ha quella nazionalità (italiana, ndr), è giovane e ha prestato servizio militare. Questi, signori, sono gli unici argomenti che occorre sottolineare».
Una giustizia tremendamente ingiusta a cui il governo australiano tenterà di porre rimedio, con scuse ufficiali per quella ingiustificabile sospensione dei diritti civili, solo nel 1991. In quel campo, Panetta, ci trascorrerà altri tre anni prima di essere trasferito, assieme a tanti altri detenuti italiani, nei Civil Aliens Corps, le unità che raggruppavano lavoratori da destinare ai settori economici interni che più pagavano l’assenza di manodopera australiana impegnata al fronte.
Lavori forzati
All’alba dell’armistizio quindi, siamo nel 1943, la situazione per gli enemy aliens all’interno dei campi comincia un po’ ad alleggerirsi. Ma le autorità militari australiane non sono ancora disposte a rilasciare gli internati per farli tornare alle loro case e alle loro professioni. Vengono così istituite delle unità lavorative in cui incanalare gli uomini che venivano rilasciati dai campi d’internamento: minatori nelle cave di sale, taglialegna nelle foreste pluviali, operai impegnati nella costruzione della ferrovia panaustraliana che deve collegare, attraverso migliaia di chilometri di deserto, il Northern Territory con il South Australia. Nei Civil Alien Corps poi finiscono anche quegli enemy aliens che erano riusciti a scampare agli arresti del ’40: «In pratica – scrive Isabella Cosmini Rose dell’università di Adelaide – ogni uomo compreso tra i 18 e i 60 anni poteva essere costretto a prestare servizio nei Cac».
Il DIpartimento della Difesa australiano imponeva alla popolazione non britannica di registrarsi in un apposito elenco
Ma i campi di lavoro sono diversi da quelli d’internamento. Le regole sono dure ma meno stringenti, le baracche non hanno le sbarre e i lavoratori, se il loro comportamento viene giudicato consono, possono anche tornare dalle loro famiglie per un paio di giorni ogni mese. E poi nei Cac, gli enemy aliens vengono pagati, anche se con stipendi decisamente inferiori a quelli dei colleghi australiani. Ma i lavori a cui gli enemy aliens vengono destinati sono duri, in alcuni casi durissimi. E sono tanti che, sfruttando l’assenza di guardie armate, ne approfittano per scappare e tornare qualche giorno a casa. Multe salatissime e il concreto rischio di arresto non furono sufficienti a trattenere i lavoratori nel campo.
Domenico Cirillo era partito da Caulonia nel 1935, destinazione Adelaide. Quando fu “arruolato” nei Civil aliens corps fu mandato a Port Price nella penisola di York a lavorare nelle cave di sale. «A Port Price estraevamo il sale con le pale e i picconi. C’erano altri 6 italiani con me e dormivamo sul pavimento senza un materasso, solo con un cuscino e un lenzuolo. A terra era così freddo che si rischiava il congelamento e così un giorno chiesi al mio capo il permesso di tornare a Adelaide a prendere qualche coperta ma si rifiutò. Determinato a prendere le coperte, un venerdì notte, presi segretamente il furgone della posta fino a Port Wakesfield e da lì il treno fino a Adelaide. Il mattino dopo sono andato al commissariato e sono stato multato di 50 sterline».
Tra il 1942 e il 1945 furono 1058 i procedimenti avviati e 947 furono le condanne emesse. In 305 casi le sentenze furono di internamento e i rimanenti procedimenti finirono con delle multe. Uno degli stranieri fu punito con 21 giorni di carcere con l’accusa di avere lasciato il campo viaggiando da Port Augusta a Findon senza permesso.
L’uomo, Luigi Fazzolari anche lui partito da Caulonia, ha raccontato: «All’Allied Works Council mi avevano detto che mi avrebbero dato un lavoro leggero ma quando sono arrivato là, il capo mi ha detto che avrei lavorato con il piccone e la pala. Gli ho detto che non avrei potuto farlo a causa delle mie condizioni di salute e gli ho chiesto un lavoro più leggero o di essere messo nelle cucine. Mi ha risposto che non c’erano lavori leggeri e che non mi avrebbe messo in cucina. Così ho deciso di tornare a Findon dalla mia famiglia. Volevo tornare là per vedere un medico e per andare all’Allied Works Council a chiedere ancora che mi dessero un lavoro leggero».
Una pagina nerissima e colpevolmente poco conosciuta dell’emigrazione in Australia che vide coinvolti centinaia di calabresi che dall’altra parte del mondo ci erano finiti per inseguire una vita migliore e a cui furono sospesi diritti civili e di cittadinanza.
Nel pacchiano lusso di una sala da cerimonie di Little Italy, budelli di chitarra si abbandonano a una melodia antica. «Junior, come on», l’anziano capofamiglia rompe gli indugi, chiude gli occhi e inizia a cantare. Così, come nel mantice della fisarmonica, due mondi si allontanano per finir riavvicinati: la seconda generazione di paisà accompagna commossa l’esibizione della prima, mentre la terza ridacchia a dissacrarla.
Corvina e ribelle, la più giovane degli eredi tracanna Martini alla goccia mentre lancia molliche di pane ai vecchi che le hanno rubato le attenzioni del padre, ché quella delle platinate star americane è musica, non questa fottuta lagna italiana. Poi esce di scena, vanamente rincorsa dal padre nelle leggendarie nuvole di vapore del traffico di New York.
Al rientro in sala della scena, la canzone fa piangere pure i baffi dei camerieri: niente riuscirebbe a rompere la solennità del momento. Il boss se ne accorge compiaciuto, sistema il nodo della cravatta e si aggrappa a ciò che resta della sua famiglia. Seduti più dietro, con un bisbiglio, una donna americana accosta la chioma laccata a quella di chi dal vecchio l’ha messa al mondo nel nuovo: «What does it mean “Core ngrato”?» (Che vuol dire Core ‘ngrato, ndr), chiede. «Ungrateful heart» (Cuore ingrato, nda)è la risposta.
È il finale della terza stagione di “The Sopranos”, la serie televisiva di culto che, secondo lo speciale del New York Times, rappresenta «la più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo». L’uomo che ha scritto i versi della ballata scelta per raccontare il tormento dei paisà è nato in una piccola casa al centro di un abitato ai piedi della Sila cosentina, ma la sua incredibile e dimenticata storia è ancora nascosta settemila chilometri più distante.
Dalla Presila a New York
È la storia di un uomo che si chiama Alessandro Sisca, nato il 27 ottobre 1875 a San Pietro in Guarano, piccolo avamposto presilano dove il padre Francesco faceva l’impiegato comunale. A soli 11 anni i genitori decidono di mandarlo in seminario però, così lascia il borgo natio per entrare nei francescani di San Raffaele a Materdei a Napoli, città di sua madre, Emilia Cristarelli.
Ben presto, però, tutti si accorgeranno che è letteraria la sua vocazione. Comincia così a scrivere con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro, dovuto ovviamente all’amore per l’Ivanohe, e inizia a raccogliere successi. Nel 1892 tutto cambia di nuovo, perché la chiamata alle armi incombe. Il giovane poeta non ha tempo da perdere, parte per l’America e la motivazione la lascia in un biglietto di poche righe in cui scrive: «Io non ho padroni, non servo nessuno, non riconosco l’autorità di nessun capo».
Si stabilisce prima a Pittsburgh – dove è tuttora presente una folta comunità di sampietresi – da uno zio, poi a New York. Lì, insieme a suo padre e a suo fratello Marziale, nel gennaio 1893 fonda una rivista satirica dal titolo La Follia di New York, in onore dell’omonima rivista che si edita a Napoli. Si distingue ai massimi livelli come giornalista, poeta e drammaturgo. Tanto che Emelise Aleandri in The Italian American Experience: An Encyclopedia sostiene che «Alessandro Sisca è il più prolifico e importante scrittore italoamericano del cambio di secolo». Poi nel 1911, arriva l’intuizione. In mezzo a tanti altri, scrive il testo della canzone che lo destina all’immortalità.
La porcheriola
Composta insieme al maestro Salvatore Cardillo, inizialmente nessuno dei due aveva il sentore che la canzone sarebbe stato un grande successo. Anzi, lo stesso Cardillo spesso l’apostrofava con la parola «porcheriola». Sbarcata a Napoli invece, Core ‘ngrato ha da subito una grande presa sul pubblico e cambia il verso della storia. Diventa la prima canzone napoletana di successo proveniente dagli Stati Uniti e non il contrario, come era stato fino ad allora.
Sui palchi di tutto il mondo l’hanno interpretata tutti i più grandi. Giusto per citare qualcuno: Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, José Carreras, Claudio Villa, Roberto Murolo. In tempi più recenti ne hanno fatto vanto anche Mina, Vinicio Capossela, Il Volo e Andrea Bocelli, ma il testo scritto da Sisca ha saputo varcare i confini dell’arte canora, andandosi a incastrare in diverse intersezioni culturali e finendo per rimanere presente nell’immaginario collettivo contemporaneo.
Il battesimo di Franco e Ciccio
Esempi significativi arrivano dal mondo dell’avanspettacolo, del cinema e del calcio. Nel teatro “Costa” di Castelvetrano nel 1954 Core ‘ngrato è il titolo del debutto di un duo comico palermitano che si fa chiamare “Franco e Ciccio”. Il loro esordio fu del tutto casuale. La compagnia teatrale di Pasquale Pinto si era spostata da Napoli a Palermo senza un attore, Nino Formicola, che si era ammalato. Il capocomico Giuseppe Pellegrino, per sostituirlo, si rivolse a Ciccio Ingrassia. Che però era tornato a lavorare come calzolaio e inizialmente rifiutò, proponendo di contattare Franco Franchi, che aveva conosciuto poco prima e apprezzava.
Pellegrino non era convinto della scelta, in quanto avrebbe dovuto ingaggiare uno sconosciuto che non era neanche un vero attore, e contropropose a Ciccio di ingaggiarli insieme. A questo punto entrambi furono assunti dalla compagnia e iniziò un successo clamoroso. Franco non aveva né padronanza dell’italiano né delle tecniche teatrali, così prima di entrare in scena propose a Ciccio: «Senta, perché lei non entra in scena e si mette a cantare poi entro io e la disturbo?».
In un’intervista degli anni Ottanta è lo stesso Franco a ricostruire l’episodio: «Il pubblico appena vide sulla scena uno spilungone magro e uno basso e tarchiato scoppiò in una risata incontenibile. Mentre Ciccio cantava questa canzone drammatica, arrivavo io ad infastidirlo scatenandomi in una serie di gag sconnesse: la scimmia, il coccodrillo, il burattino, la bilancia, la danza del ventre, il pianto funebre siciliano. Tutto repertorio folcloristico oggi assurto a patrimonio culturale nazionale mentre allora non si concepiva che in teatro si recitasse in dialetto». Il numero durò inizialmente appena cinque minuti, ma in seguito fu allungato di quattro minuti per le richieste del pubblico, girò tutta l’Italia, arrivò in tv e segnò l’inizio di una carriera sfolgorante per i due.
Così parlò Core ‘ngrato
Quanto al cinema, già detto dei “Soprano”, Core ‘ngrato si associa a un caratterista straordinario interpretato dal compianto Antonio Allocca in Così parlò Bellavista, capolavoro di Luciano De Crescenzo, tratto dall’omonimo libro. Core ‘ngrato era un buffo esattore della Camorra che suggeriva ai poveri Giorgio e Patrizia, neo-commercianti di statuette sacre, di pagare il pizzo «prima che inizi l’escalation»; trovandosi il negozietto all’angolo di due strade contese da due clan rivali, la coppia si trova a provare a risolvere l’inghippo in scene memorabili, prima di arrendersi, chiudere bottega e trasferirsi a Milano.
Un caso che dalla pura invenzione si è realizzato nel 2016, con un chiosco di bibite ubicato nella Maddalena, sede di un noto mercato popolare a ridosso della Ferrovia in zona piazza Garibaldi, al quale veniva imposto di pagare due volte il pizzo come nel film. La contesa fra il cartello Brunetti-Giuliano-Amirante, egemone nel centro storico tra Forcella e la zona del Borgo di Sant’Antonio Abate, quello della cosiddetta ‘paranza dei bambini‘, e gli affiliati dello storico clan dei Mazzarella si risolse con la coraggiosa denuncia e l’arresto dei malavitosi.
Il goal dell’ex
Quanto al calcio, Core ‘ngrato è il soprannome affibbiato ai calciatori che dal Napoli si sono trasferiti alla Juventus. Il primo fu Josè Altafini, centravanti brasiliano naturalizzato italiano amatissimo all’ombra del Vesuvio, protagonista di una passione napoletana superata soltanto dall’arrivo di Maradona un decennio dopo. La sua cessione alla Juve ebbe un’eco vastissima e un’estate di intense polemiche. Ma fu solo dopo un suo gol al San Paolo che diede la vittoria decisiva per lo scudetto ai bianconeri che su un cancello dello stadio partenopeo comparve la scritta «Altafini Core ‘Ngrato». Il soprannome restò ad Altafini per decenni, prima di passare sulle spalle di un altro centravanti sudamericano, Gonzalo Higuain, alfiere del Sarrismo che si trasferì alla Juventus dopo l’imbattuto record di gol in campionato con la maglia del Napoli.
The Sisca papers
Forse tutto ciò basterebbe per capire come la figura di Sisca alias Cordiferro meriti di essere ripescata e studiata dagli ambiti accademici. Ma non è abbastanza per comprendere perché l’Università del Minnesota conservi in tre enormi scaffali d’archivio una imponente mole di materiale sull’emigrato calabrese che scriveva in lingua napoletana. Uno spazio importante, che meriterebbe di essere scoperto e tramandato.
Grazie agli sforzi del professor Rudolph J. Vecoli, direttore del Center for Immigration Studies dell’Università del Minnesota, la Collezione Sisca è stata depositata nell’archivio degli immigrati nell’ottobre 1968 da Michael Sisca, editore della Follia di New York. Prevalentemente in italiano, questa collezione è composta da 9,5 piedi lineari di documenti e corrispondenza. Il materiale è stato elaborato nel periodo 1973-1974 dalla studiosa Lynn Ann Schweitzer.
Perché uno spazio così importante per quello che si ricorda solo come l’autore dei versi di una canzone di successo? Perché Alessandro Sisca era molto di più. La Follia, infatti, riscosse successo tra i letterati delle colonie italiane di New York City (sei milioni di copie vendute), e si impose anche grazie alla varietà dei temi trattati, riuscendo a conquistare sempre maggiori consensi nella più ampia comunità italoamericana.
Questo successo spiegò le vele alla vera ispirazione di Sisca, l’impegno politico/sindacale in difesa dei propri connazionali emigrati, totalmente dimenticato al netto di meritevoli eccezioni (cfr. Amelia Paparazzo, Calabresi sovversivi nel mondo, Rubbettino Editore).
Un’inclinazione scomoda per gli Stati Uniti del tempo, che lo condusse a cambiare molto spesso pseudonimo, a rifugiarsi in incarichi riservati e che gli aprì le porte delle carceri americane più di una volta.
Celebre per il suo lavoro di giornalista di inchiesta (non solo con La Follia ma anche per i suoi contributi a La Sedia Elettrica, La Notizia e L’Aarlemite), a Cordiferro chiesero di parlare con diverse organizzazioni italiane di lavoratori nelle quali serpeggiava il malcontento per l’intenso sfruttamento. È stato un agitatore culturale anarchico di grande successo, con un seguito di migliaia di persone, che lo elessero infine portavoce ufficiale del comitato Utica, NY pro Sacco e Vanzetti.
Sacco e Vanzetti
La vicenda è stranota: il 23 agosto 1927, poco dopo la mezzanotte, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti venivano uccisi sulla sedia elettrica nel penitenziario di Charlestown, ingiustamente condannati per un reato che non avevano commesso. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la Guardia nazionale lo attendeva dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.
I due italiani subirono un processo totalmente condizionato dal razzismo e dal pregiudizio nei confronti delle idee anarchiche che i due professavano, tanto che il giudice Webster Thayer non esitò a definirli «bastardi anarchici». Dopo la cremazione a portare i loro corpi in Italia fu Luigina Vanzetti. Oggi riposano rispettivamente nel cimitero di Torremaggiore e in quello di Villafalletto.
L’indimenticabile monologo di Gian Maria Volontè nel film ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti
Moltissimi negli USA e in Europa si batterono per salvare la loro vita. In tutto il mondo molti intellettuali del tempo come George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells, Arturo Giovannitti sostennero a favore di Nick e Bart una campagna per giungere a un nuovo processo sostenuta persino dal premio Nobel francese Anatole France, che invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico Nation.
Una traccia sepolta dalla polvere
Fra questi non abbiamo ereditato alcuna traccia dell’impegno dell’intellettuale calabrese Alessandro Sisca, che pur svolgeva il delicatissimo e importantissimo incarico di portavoce del movimento che da New York chiedeva la liberazione dei due. Perché? Nella imponente mole di carte custodite in Minnesota (fra cui alcune lettere di due presidenti repubblicani al fratello Marziale) potrebbe esserci la risposta al quesito. Del resto, è un fatto che i raduni per la difesa degli anarchici italiani lo trovarono spesso come il principale oratore e le sue commedie, ispirate in gran parte dalla condizione degli italiani negli States, erano frequentatissime dagli operai del tempo.
Una fotografia di Alessandro Sisca
Tutto questo rappresenta una traccia incancellabile ma, come la sua casa natia ai piedi della Sila, con il tempo rischia di andare in polvere, realizzando la teoria che alcuni studiosi di canzone napoletana hanno sviluppato sul nome femminile Caterina, invocato all’inizio della sua canzone. Pare infatti che fosse il nome scelto all’epoca per rivolgersi in codice alla comunità degli italiani, quindi il vero cuore ingrato, che ha dimenticato una vita di amore e di impegno del poeta.
I dolori di Sisca furono infatti sempre più intensi: dapprima in pochi mesi perse la moglie Annina e i figli, Emilia e Franchino. Poi nemmeno un secondo matrimonio lo salvò da una forte depressione, e nel 1940 tutto questo lo condusse alla morte come fine di un sempre più acuto periodo di sofferenze. Era il 24 agosto, il giorno dopo l’anniversario dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti.
Ci sono storie di uomini che si sono fatti la guerra sul mare e navi che sono affondate con i loro segreti che continuano a tornare come fantasmi inquieti.
Il 3 Luglio del 1941 un convoglio composto da tre navi mercantili – la Mameli, la Pugliola e la Laura C – scortate da due cacciatorpediniere aveva appena superato lo Stretto di Messina con destinazione il Nord Africa. Di lì in poi veniva la parte più insidiosa della navigazione, dove maggiormente era probabile un attacco inglese. E infatti alle 10 e 30 del mattino il sottomarino britannico Upholder (che solo qualche giorno prima aveva affondato la motonave Lillois al largo di Scalea) nascosto in agguato tra i flutti del mare di Saline Joniche, lanciava due siluri.
Il sommergibile Upholder, che affondò la Laura C, in una foto d’epoca
Un carico esplosivo
Possiamo solo immaginare le strisce parallele lasciate dalla corsa degli ordigni, la concitazione a bordo delle navi, gli ordini gridati ed eseguiti per evitare l’impatto e poi le esplosioni a bordo della Laura C quando venne colpita. Il resto è il tentativo di salvarsi manovrando verso la costa, dove a meno di cento metri dalla riva la nave è affondata portando con sé seimembri dell’equipaggio (uno dei quali proveniente da Paola) e il carico.
Il libro di bordo racconta di stive con beni di conforto come fiaschi di Chianti, birra, bottiglie di Campari, farina, stoffe e macchine da cucire, biciclette per i bersaglieri, anche profumi e boccette di inchiostro di china. Ma, soprattutto, armi, munizioni e tritolo.
Il telegramma con cui il prefetto annunciava al Ministero dell’Interno l’affondamento della nave
Il tritolo stragista
Oggi la Laura C dormetra i trenta e i sessanta metri di profondità ed è diventata una ricchissima oasi di vita sottomarina, ma il suo è un sonno inquieto.
Nel corso degli anni in cui si è registrata una certa corsa al pentitismo, diversi collaboratori di giustizia hanno sostenuto che il tritolo conservato nelle stive della nave affondata poco al largo di Saline era una specie di polveriera a disposizione dei clan. Da quelle stive sommerse sarebbe stato prelevato l’esplosivo per diversi attentati, tra cui quello mancato e poi rivelatosi finto, a Giuseppe Scopelliti.
Ma nella mitologia ‘ndranghetistica perfino le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio vennero realizzate con il tritolo dei tempi della seconda guerra mondiale.
In realtà le indagini condotte dalle Forze dell’ordine, dalla magistratura antimafia e perfino dal Sisde, riuscirono a trovare conferme parziali a tali dichiarazioni. Furono condotte delle analisi sulle tracce di esplosivo usato in alcuni degli attentati e in parte fu trovata compatibilità con l’esplosivo conservato nel ventre della nave. Era sufficiente perché le autorità decidessero di chiudere le stive del relitto, per impedire qualunque possibilità di trafugamento.
La prima bonifica
Il primo intervento di bonifica fu realizzato dalla ditta di lavori subacquei Cormorano Srl di Napoli e costò quasi quattro miliardi di vecchie lire. Ma i lavori non furono efficaci, a causa del cemento pompato nelle stive, la nave si piegò su un lato, vanificando almeno in parte l’opera. Per un tempo infinito quella nave è stata l’oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per tutti quanti operano nel settore del turismo subacqueo. La Laura C non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, ma è anche spunto per riprese video mozzafiato ed è facilmente raggiungibile dalla costa.
La natura si è fusa con quel che resta della Laura C sul fondo del mar Jonio
Una grande occasione perduta per un settore del turismo calabrese, magari di nicchia, ma molto esigente e ricco. Scendere sulla Laura C resta una esperienza potente. Dopo avere nuotato poche decine di metri in superficie ci si immerge trovando subito l’albero di prua che esce dalla sabbia che copre per intero la parte anteriore del relitto. Si prosegue dunque verso poppa, conquistando quote piuttosto impegnative e scorrendo lungo la fiancata della nave si possono vedere le mille forme di vita che ne hanno colonizzato le lamiere.
Divieto di turismo
Ma è una esperienza che resta nei ricordi di chi l’ha potuta vivere, visto che malgrado le operazioni di bonifica siano state dichiarate concluse con successo, il relitto resta un sogno proibito. Già nel 2002 due senatori dell’Ulivo, Boco e Turrroni, rivolgevano al Ministero dell’Ambiente e a quello dell’Interno un’interrogazione per domandare quando la nave potesse tornare fruibile turisticamente, considerata la sua valenza naturalistica, caratterizzata anche da rarità biologiche.
Nel 2015 le autorità militari e la magistratura annunciarono che «dopo un duro lavoro svolto dai sommozzatori della Marina e dalla Guardia Costiera», la Laura C non era più una polveriera. Sembrava poter venire meno l’interdizione alle immersioni e invece dopo anni di lavori, moltissimo denaro speso, immergersi lì non è ancora possibile. Perché come diceva Conrad, le navi hanno sempre un carico «di desideri e rimpianti».
«In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».
Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.
‘Ndrangheta e religione
La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.
Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.
Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.
In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».
Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.
Colluso o martire? Don Giovanni Stilo
Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».
Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.
Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo conl’onorevole Fanfani».
Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente. Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comuneappartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».
Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nelluglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.
Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».
Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa
Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.
Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.
Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.
È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria. La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.
«I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.
La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos.
Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.
Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.
DOV’È HUMBERTO?
Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.
Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso.
Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti.
Il Palazzo del Congresso a Buenos Aires
Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.
A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”.
Il 19 aprile1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanzaargentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina.Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.
Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.
Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare.
EL ATLETICO
Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.
Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È statooperativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti.
«Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.
La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».
Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.
L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.
UNA STORIA DI CALABRIA
Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madree del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio.
Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.
Andrés e Maria Bellizzi insieme a loro figlio Humberto
Humberto Bellizzi con sua madre Maria e la sorella Silvia
Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.
Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età.
Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.
Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.
Il cantante Jorge Drexler posa a sostegno della battaglia per Humberto Bellizzi
Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese.
«Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno. «È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade».
Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare.
«Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».
E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».
RIVOLUZIONARI DI CALABRIA
La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.
Dante Gullo: sua madre Angela Maria Aieta fu un’altra delle vittime di origini calabresi uccisa in uno dei voli della morte
Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.
Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.
Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto.
Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.
La Biblioteca Civica è uno scrigno prezioso che custodisce al suo interno un patrimonio librario a stampa e manoscritto di oltre 250mila testi. Difficilissimo riuscire ad avere un catalogo aggiornato. Perché? Non esiste, mai fatto per mancanza di personale specializzato. Un grande limite, che nel corso degli anni ha consentito la sottrazione di diversi testi senza che la direzione della Civica avesse piena contezza del maltolto. Un elenco in questi anni ha provato a stilarlo la giornalista cosentina Francesca Canino. Tra i titoli rubati figurano:
Telesio B., La Philosophia, Napoli, 1589;
Manilius M., Poetae clariss. Astronomicon ad Caesarem Augustum, Lugduni, 1566;
Tasso T., Le sette giornate del mondo creato, Venezia, 1608;
Tasso T., Il Rinaldo, Milano, 1618;
Galenus C., Ars medicinalis. Nicolao Leonicino interprete, Venezia, 1538;
Hippocrates, Aphorismi, cum Galeni. Commentariis Nicolao Leoniceno…, Venezia, 1538;
Galilei G., Dialoghi, Firenze, 1632;
Galenus C., De usu partium…, Lugduni, 1550;
Sallustio con altre belle cose. Volgarizzate per Agostino Ortica della Porta, Venezia, 1531;
Privilegi et capitoli della città di Cosenza, Napoli, 1571;
La Civica custodisce secoli di cultura
Alcuni corali di proprietà della Civica, restaurati di recente dal Mibact
Fanno ancora parte del tesoro della Civica corali miniati del XVI-XVII secolo; testi manoscritti filosofici autografi del 1500, 1600 e 1700; carteggi privati; pergamene di epoche dal Rinascimento all’Illuminismo; incunaboli (tra cui un San Tommaso); una raccolta imponente della produzione tipografica italiana e straniera del Seicento.
Al suo interno si trovano fondi monastici, opere antiche e rare a stampa di diversi ordini religiosi, sia cittadini che dei dintorni, oggi ormai soppressi.
Tra i fondi religiosi anche uno liturgico, costituito da trenta codici musicali membranacei del ‘500 arricchiti da artistiche miniature fatte a mano.
Presente anche un fondo diplomatico costituito da 54 pergamene, un insieme di bolle, atti privati, testamenti, costituzioni di date e censi, tutti di epoche comprese tra la fine del ‘200 e la metà del ‘700. Costituiscono per lo studioso un unicum nel loro genere.
Le donazioni dei privati alla Civica
Diversi i fondi privati, tra i più importanti quelli Salfi, Muzzillo, Conflenti e De Chiara. Il primo comprende circa 12.000 pezzi fra volumi anche di edizioni del ‘500 e del ‘600, opuscoli, riviste e giornali. Riguardano prevalentemente letteratura, storia, arti, viaggi, teatro. E contengono collezioni di classici antichi e moderni, grandi enciclopedie e trattati generali. Il fondo Muzzillo comprende oltre 5.000 volumi di letteratura, archeologia e storia dell’arte. Al suo interno, diverse edizioni di classici antichi e moderni, più numerose pubblicazioni periodiche e una ricca dotazione di opuscoli, in gran parte sulla Calabria.
Il fondo De Chiara, ereditato sin dal 1929, consta all’incirca di 2.500 esemplari. Tra di essi, testi di letteratura italiana, di storia, di arte e di critica letteraria. Di grande rilevanza è anche una raccolta di opuscoli della critica dantesca. Si aggiungono le dotazioni dei fondi Guarasci e Muti e di quelli, più recenti, Rendano e Campagna, con molti libri e lettere autografe di pregio. È andato distrutto invece, durante la seconda guerra mondiale, il fondo Zumbini di circa tremila testi tra volumi e opuscoli. Tra i fondi speciali detenuti dalla Civica di fondamentale importanza è la sezione dedicata alla Calabria, ricca di libri, giornali e altri materiali riguardanti la storia, la cultura e la civiltà calabrese nelle sue diverse sfaccettature.
Non ci sono solo opere antiche, però. Ai fondi di ricerca e conservazione si affianca infatti anche una dotazione libraria moderna di cultura generale di grande spessore bibliografico costantemente aggiornata, con una larga presenza di libri sulle scienze umane e sociali. La Biblioteca Civica dispone di una vasta emeroteca. Comprende oltre 2000 testate fra riviste e giornali, che spaziano tra storia, letteratura, filosofia, arte, scienze dell’educazione, teatro, cinema, diritto, economia, informazione.
I cinque milioni per il Comune
Alcuni dettagli del progetto per la Civica presentato al Governo da Palazzo dei Bruzi
Le porte della Civica sono chiuse però da oltre un anno e mezzo, prima per la pandemia e ora per evidenti deficit strutturali. Per salvare quel che ne resta e renderlo finalmente fruibile si attendono i 10 milioni del CIS (Contratto Istituzionale di Sviluppo), parte dei 90 destinati al centro storico. Si prevedono due progetti di recupero e valorizzazione della biblioteca. Il primo, in capo al Comune di Cosenza, promette adeguamento sismico, efficientamento energetico e rifunzionalizzazione della Civica. Prospetta la riorganizzazione e il rinnovamento dell’intero sistema bibliotecario attraverso l’uso di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Il progetto contempla inoltre la realizzazione di spazi di allestimento espositivi e di percorsi di visita accessibili a tutti. Parla di modalità innovative di fruizione e di realizzazione dei servizi per la gestione e cura del bene, integrati da un opificio di digitalizzazione, restauro e conservazione del libro e della pergamena. Il finanziamento complessivo ammonta a quasi 5,1 milioni di euro.
Il polo pensato dal Mic
Il secondo progetto, proposto dal Mic, implica restauro, conservazione e rifunzionalizzazione del complesso di Santa Chiara. Al suo interno si pensa di creare un polo orientato alla promozione della lettura e alla comunicazione culturale mediante la conservazione e valorizzazione del patrimonio cartaceo della Civica. Il polo in questione sarebbe destinato a interfacciarsi con quelli delle altre città beneficiarie di un Cis: Napoli, Taranto e Palermo. Il finanziamento, anche in questo caso, è di circa 5 milioni.
Anna Laura Orrico, all’epoca sottosegretario ai Beni culturali, sigla il Cis a settembre del 2020
La politica litiga
Al ministero sono pronti a nominare il Ruc, responsabile unico del contratto istituzionale di sviluppo. Manca solo il via libera da Invitalia, che però per procedere attende parte della documentazione da Comune, Provincia e Segretariato regionale del Mic. Il più in ritardo pare essere Palazzo dei Bruzi, che non ha brillato per celerità nemmeno nella fase propedeutica alla firma del Cis. Un film già visto, dunque, col consueto corredo di polemiche politiche a riguardo. Le vecchie diatribe sui soldi in arrivo per il centro storico tra Morra e Occhiuto hanno lasciato il posto a quelle sull’iter burocratico tra Anna LauraOrrico e il vice sindaco Francesco Caruso. Quest’ultimo già l’anno scorso si era scontrato a lungo sui presunti ritardi del Comune con il democrat Carlo Guccione. Cambiano i nomi, non la sostanza. E mentre i partiti litigano, i dubbi sull’arrivo dei dieci milioni aumentano.
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