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  • Isaia Sales: «La ‘ndrangheta? A lezione da potenti e massoni»

    Isaia Sales: «La ‘ndrangheta? A lezione da potenti e massoni»

    «In Italia il mondo criminale non si è mosso mai lontano dal mondo delle élite. Il suo successo sta soprattutto in questo aspetto: mai essere lontani e contrapposti alle élite. E, il mondo criminale, non ha mai avuto il monopolio dell’illegalità. In Italia l’illegalità è una cosa frequentata assiduamente dalle classi dirigenti, che hanno sempre pensato di poter ottenere dei risultati più al di fuori della legge che dentro la legge. Hanno ritenuto, cioè, che l’illegalità fosse un loro campo di appartenenza. E quando lo hanno dovuto, in qualche modo, dividere con altri hanno accettato questa condizione. Non hanno fatto neanche una battaglia per averne il monopolio».

    Isaia Sales continua ad essere tra i più attenti analisti dei fenomeni criminali nelle regioni meridionali. Dopo la laurea in Filosofia, ha iniziato la sua vita pubblica come collaboratore de l’Unità. È stato poi dirigente del PCI e, in seguito, dei DS, segnalandosi come uno dei politici più impegnati nella lotta alla camorra. A questo tema era dedicato il suo primo libro – La camorra, le camorre – nel 1988.

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    Isaia Sales, storico delle mafie

    Con lui analizziamo quali siano stati i rapporti delle mafie con le classi dirigenti, le massonerie, la società meridionale. E quali siano i mutamenti in corso e le ragioni che hanno reso ‘ndrangheta e camorra più pericolose di Cosa Nostra. Ne viene fuori un quadro dell’inquinamento civile e politico che sta alla base del potere criminale, ormai non più radicato solo nel Sud Italia ed avviato ad una crescente globalizzazione.

    Quali sono le origini della criminalità organizzata nel Mezzogiorno?

    «Penso che le mafie, così come le conosciamo, abbiano inizio nella prima parte dell’Ottocento, quando le sette segrete arrivano nel regno borbonico e negli altri stati pre-unitari dietro le truppe napoleoniche. È nelle carceri che si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli aristocratici borghesi, organizzati, oppositori del sistema politico. Dalla disorganizzazione della criminalità e dall’organizzazione dell’opposizione politica nascono le mafie. La massoneria e la carboneria forniscono il modello organizzativo alle mafie».

    Come si inserisce la violenza in questo scenario?

    «Le mafie nobilitano la violenza allo stesso modo delle sette segrete. La violenza è necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici. Le mafie ne fanno un modello, prendendosi tutto l’armamentario della massoneria, compreso l’uso della violenza come strategia di potere o di contrapposizione al potere costituito.

    Questa operazione è impressionante per come avviene e per le similitudini che hanno le sette segrete con i primi statuti che noi conosciamo delle mafie, in maniera particolare della Camorra napoletana. È in questa ritualizzazione delle violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie. Si può dire che tramite la massoneria l’onorabilità della violenza compie il suo tragitto: la violenza non è una cosa di cui vergognarsi, che ti isola o allontana, ma può avere tutti i presupposti dell’onore. Tra questi, l’obbedienza».

    Esistono radici sociali della criminalità meridionale?

    «Nell’Ottocento le “classi pericolose” avevano la stessa pervasività e pericolosità a Parigi, Londra, Napoli e Palermo. La differenza è che a Londra e Parigi la criminalità si organizzò attorno ai mendicanti, che non ritualizzarono la violenza. Lì ci fu una distanza netta tra le due classi. La storia delle mafie italiane e quella del Paese, invece, sono costellate da casi di intreccio tra classi dirigenti e classi pericolose».

    Perché l’omertà ha svolto da sempre una funzione centrale?

    «C’è stato anche un grande dibattito storico attorno al concetto di omertà, con una grandissima confusione operata in Sicilia. L’etnologo Pitrè la usò in un processo nei confronti di un personaggio importante dell’epoca, il parlamentare Palizzolo, accusato di essere il mandante del delitto Notarbartolo. Invitato a deporre in tribunale, alla domanda “cos’è la mafia?” rispose che era un comportamento e non un’organizzazione. “Mafioso è, in alcuni quartieri palermitani, essere di bell’aspetto”. E poi disse “vedete, la stessa parola omertà viene da “ominità”, viene dal considerarsi “uomo”. Uomo è colui che risolve le questioni di giustizia da solo, senza ricorrere alle autorità”.

    Ma Pitrè commise un errore gravissimo, perché omertà deriva da umiltà, che in napoletano diventa “umirtà”. E infatti la camorra si chiama bella società riformata o società dell’umirtà. Una delle regole delle società segrete è la totale obbedienza, ed è normale nelle società segrete richiedere l’obbedienza.
    Teniamo conto che nel concetto di onore che i mafiosi prendono dalle classi dirigenti c’è sia onore come guadagno senza fatica (che era tipico degli spagnoli), ovvero è onorato colui che può disporre di ricchezza senza averla prodotta con le sue mani, sia un’altra idea di onore: è onorato colui a cui si dà obbedienza, perché l’obbedienza è una forma, uno strumento dell’onore».

    I riti del giuramento della ‘ndrangheta assumono un’identità autonoma?

    «I riti di giuramento – e quelli della ‘ndrangheta meriterebbero libri e libri di approfondimenti – andrebbero studiati permanentemente dall’antropologia italiana. Attraverso essi si manifesta pienamente l’idea che l’obbedienza alla setta segreta è una delle massime espressioni dell’onorabilità. La camorra ha gli stessi riti di quella ottocentesca: nella camorra esiste la società maggiore e la società minore, cosa tipica della massoneria.

    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Nella ‘ndrangheta, invece, nel giuramento esiste il dialogo, chi vuole aderire deve rispondere ad alcune domande interlocutorie: lo stesso meccanismo di domanda e risposta che si fa nella massoneria. Aggiungiamoci i caratteri mutualistici e solidaristici che hanno le mafie, anche essi copiati dalla massoneria. All’inizio, per esempio, la mafia siciliana si articolava in “fratellanze”. Si pagava una quota per entrare che serviva nei momenti di necessità: un welfare criminale per soccorrersi nelle difficoltà. Le relazioni sono fondamenti per aiutarsi, sia nella visione massonica che in quella mafiosa.

    Come si articola la struttura del potere criminale nel Mezzogiorno?

    «Le mafie, all’inizio, sono “scimmie” delle classi dirigenti, copiandone il modello di successo. Il percorso di questi due poteri non è lineare, perché inizialmente copiano il modello, ma le relazioni non sono permanenti perché le mafie incontrano le classi dirigenti anche al di fuori della massoneria. Non hanno bisogno di questo rapporto particolare, ma ne copiano il metodo: stare insieme, ritualizzare la violenza, stabilire relazioni privilegiate. È proprio questo aspetto che cambia radicalmente le mafie italiane rispetto al tradizionale crimine organizzato urbano, che pure esisteva in altre città europee.

    Man mano che le mafie hanno contezza di un potere, e con l’inizio di una prima repressione dello Stato italiano, gli incontri di classi dirigenti e classi pericolose hanno avuto necessità della segretezza. Nella storia della ‘ndrangheta tutto ciò è importantissimo, perché siamo di fronte ad un caso unico: una delle criminalità più trascurate e fuori dall’obiettivo della pubblica opinione che, in pochi decenni, diventa una delle più potenti al mondo».

    Attraverso quali meccanismi si è determinato il successo della ‘ndrangheta?

    «A proposito della lunga presenza della ‘ndrangheta, non dimentichiamoci che nel 1869 il primo scioglimento di consiglio comunale in Italia per infiltrazione della criminalità avviene a Reggio Calabria. Nei primi lavori della ferrovia tirrenica la ‘ndrangheta c’entra. Qual è la confusione? La ‘ndrangheta aveva un altro nome: Camorra reggina o Camorra calabrese. Essa aveva preso più delle altre mafie le modalità di giuramento della camorra napoletana. Ma il termine specifico di criminalità autoctona si scopre, forse, nel secondo dopoguerra, perché prima il nome con cui sarà conosciuta la ‘ndrangheta è camorra».

    Qual è il primo punto di svolta nella storia recente della ‘ndrangheta?

    «La ‘ndrangheta si troverà negli anni ‘60 al di fuori della storia italiana sia per ragioni geografiche che geoeconomiche, per problemi di scarsa accumulazione e scarse relazioni. La classe dirigente calabrese conta meno di quella napoletana o di quella siciliana nelle dinamiche dello Stato italiano. Quindi gli affari che si possono fare in Calabria non sono equiparabili a quelli che si possono fare nelle altre regioni.

    La ‘ndrangheta inventa una forma di accumulazione del denaro che non è consona alle altre mafie. Si tratta dei sequestri di persona, dettati dalla necessità di una rapidissima accumulazione di denaro che possa permettere di partecipare agli affari. Poi ci sono due opportunità che riportano la Calabria nel circuito nazionale: la costruzione della Salerno-Reggio Calabria (e poi il suo ammodernamento) e quella del quinto centro siderurgico, che non si utilizzerà mai dopo la sua costruzione».

    Come è stato costruito il sistema delle relazioni della ‘ndrangheta?

    «Vengono cambiate le vecchie tradizioni. Per uno ‘ndranghetista una doppia affiliazione è fuori dal proprio orizzonte: la doppia fedeltà è inconcepibile per i vecchi capi della ‘ndrangheta. De Stefano fa fuori contemporaneamente tre capi: Macrì, Nirta e Tripodo. Con questo gesto ha possibilità di rompere con il vecchio mondo e di aprire strade nuove. E per farlo deve mantenere il massimo della segretezza possibile.

    Paolo De Stefano, boss dell’omonima famiglia, ucciso nel 1985

    Nasce una struttura inusuale dentro la storia della mafia: una terza organizzazione, in bilico tra mafia e massoneria, che si chiamerà la Santa. Ha relazioni così delicate che neanche tutti gli aderenti alla ‘ndrangheta vi possono partecipare ed esserne perfino a conoscenza. Inizialmente saranno solo 33 coloro che ne potranno far parte, poi inizierà un’inflazione di queste presenze».

    Quali funzioni svolge la Santa?

    «Nella storia d’Italia, dove si intrecciano reti illegali, criminali, politiche, affaristiche, sono fondamentali gli “incroci”. Ecco, la Santa è uno di questi crocevia. È un’organizzazione di relazioni, perché il circuito delle influenze e delle conoscenze, in Italia, è più efficace del talento individuale. Le conoscenze e le relazioni stabiliscono un capitale che nessun merito personale può sostituire».

    C’è qualche legame con il concetto di clientela?

    «In qualche modo potremmo spiegare così anche il fenomeno della clientela. Ma saremmo fuori strada se la riducessimo soltanto a qualcosa di spregiativo e non a qualcosa di utile. Dobbiamo invece parlare di traffico di relazioni, di commercio di relazioni, di capitale di relazioni: una persona non potrà mai essere influente se non è in possesso di un circuito di relazioni. Oggi chiameremmo la clientela “traffico di influenze”.

    Questo consente alla massoneria come alla ‘ndrangheta di avere tre tipi di relazioni: con il mondo politico, con quello imprenditoriale, con la magistratura e gli avvocati. Quest’ultimo tipo è fondamentale per l’onore mafioso, che consiste nel fatto di non essere sottoposto all’ingiuria della legge. Tutti sanno che sono un criminale, ma nessuno mi può mettere in galera; e se mi mettono in galera, sono in grado di uscirne».

    L’impunità è una chiave di rafforzamento del potere criminale?

    «È proprio l’impunità il massimo dell’onore mafioso, perché tutti devono sapere chi sono, la violenza che posso esercitare, ma nessuno mi può prendere e mettere dentro. Ed è l’impunità il grande capitale che i mafiosi contrattano nelle relazioni, allo stesso livello dei rapporti politici o imprenditoriali che servono per fare affari.
    Questo è un perno fondamentale: la massoneria è in grado di offrire tutte e tre queste relazioni.

    Non dimentichiamo mai che nella storia del successo delle mafie in Italia c’è il fatto che la magistratura è stata fino in fondo parte degli interessi delle classi dirigenti. Solo con la scuola di massa si è rotta questa continuità e contiguità storica, permettendo l’ingresso in magistratura di altri ceti. Questo ha consentito un ricambio fondamentale ai fini della repressione del fenomeno. Tutto questo si verifica tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento. È l’impunità la chiave del successo dei mafiosi a garantirla era, in gran parte, la magistratura.

    Può fare un esempio a riguardo?

    Ricordo il discorso funebre del capo dei magistrati italiani, primo presidente della Corte D’Appello, Giuseppe Lo Schiavo, in onore di Calogero Vizzini. Già che il capo dei magistrati italiani tributi onori al capo della mafia è incredibile. Ma se lo si fa poi sulla rivista giuridica Processi, nel 1955, risulta tutto ancora più incredibile. Lo Schiavo era colui che aveva scritto Un giorno in Pretura, da cui Pietro Germi aveva tratto poi In nome della legge, uno dei film più ambigui sulla mafia, in cui si vede che il capomafia consegna l’assassino nelle mani del giovane pretore.

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    Donne di VIllalba al funerale di Calogero Vizzini

    In quell’occasione dice: “È morto il capo della mafia Calogero Vizzini, si è sempre detto che la mafia è contro lo stato, contro le istituzioni e contro i rappresentanti della legge; io posso affermare che mai la mafia è stata contro lo stato, contro le istituzioni e men che mai contro i rappresentanti della legge, anzi in diversi momenti storici ha aiutato la legge a venire a capo di delitti che altrimenti non avremmo scoperto”. Aggiunge inoltre: “Già si conosce il nome del suo successore, mi auguro che possa continuare sulla strada del suo predecessore“».

    La violenza, l’omertà e le relazioni sono le chiavi interpretative del modello criminale?

    «Il potere dei mafiosi in Italia non è dovuto in modo esclusivo alla loro violenza, ma al fatto che questa violenza è stata riconosciuta e legittimata da altri poteri ed esercitata senza concreta repressione. La storia delle mafie, quindi, è una storia di integrazione della violenza popolare dentro le strategie delle classi dirigenti. E in questa storia di integrazione bisogna andare a leggere e analizzare tutti i crocevia di queste relazioni.

    La massoneria, non tutta, ha rappresentato uno di questi. Se non analizziamo questi crocevia non potremo mai comprendere la storia dell’Italia. Se esistono dei luoghi in cui si organizzano le influenze, o si riescono ad aumentarle attraverso un potere occulto, prima o poi questo meccanismo non potrà che portare sulla scena del potere anche le mafie, che hanno uno straordinario bisogno di relazioni.

    La storia del rapporto massoneria-mafia è la sintesi dell’opacità del potere in Italia. L’opacità del potere ha permesso tante forme illegali e la mafia è una di queste, ma le classi dirigenti non hanno mai consentito ai criminali di essere gli unici monopolisti dell’illegalità. Anzi, l’hanno condivisa, l’hanno accettata, hanno stabilito delle modalità per servirsene, non l’hanno mai combattuta né al tempo stesso hanno accettato che i mafiosi fossero gli unici a utilizzarla. In questo atteggiamento c’è continuità nella storia italiana».

    Conta più sfuggire alla legge?

    «È stato affermato dalle classi dirigenti, fino ad una diffusione di massa, questo assunto: la legge dà potere quando la eserciti, ma dà più potere quando la raggiri. Ecco, da questo punto di vista penso che i mafiosi abbiano imparato dalle classi dirigenti. E le classi dirigenti hanno accettato la mafia come parte di quel mondo oscuro, opaco, con cui hanno costruito grandi architetture».

    Quali crocevia abbiamo conosciuto nei recenti decenni?

    «Nel mondo delle mafie si sono manifestate alcune novità dirompenti nel corso degli ultimi decenni. La prima ha che fare con il cambio di gerarchie nel mondo mafioso. Dalla seconda metà degli anni Novanta le ‘ndrine calabresi e le camorre napoletane (e casertane) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina.

    Il boss dei Corleonesi, Totò Riina

    E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Tutte le previsioni in materia si sono rivelate, dunque, sbagliate. La camorra la si dava per finita alla fine degli anni sessanta quando tutta l’attenzione era catturata dalla mafia siciliana, la ‘ndrangheta non era neanche conosciuta con il nome attuale e la si riteneva una criminalità assolutamente secondaria».

    Perché la mafia siciliana è stata maggiormente oggetto di studio e di analisi?

    «Fino a qualche decennio fa gli esperti non concedevano “dignità” di studio né alla ‘ndrangheta e né alla camorra. Non corrispondevano ai canoni della “mafiosità” modellati sulle caratteristiche di Cosa nostra. Le Commissioni parlamentari antimafia cominciarono ad occuparsi delle altre “consorelle” mafiose solo a partire dagli anni ’90 con una organica relazione sulla camorra del presidente Luciano Violante nel 1993. Mentre bisognerà aspettare il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione.

    La prima Commissione parlamentare antimafia non si occupò affatto di camorra, né tantomeno di ‘ndrangheta. Riteneva che i fenomeni criminali di tipo mafioso coincidessero quasi esclusivamente con la mafia siciliana. Con difficoltà fu inserito il termine camorra nel testo che nel settembre 1982 introdusse il reato mafioso in base all’art. 416 bis del codice penale (dopo il delitto del generale dalla Chiesa, prefetto di Palermo);,
    Solo nel marzo 2010 la parola ‘ndrangheta viene espressamente introdotta nell’articolo 416 bis (Associazione di stampo mafioso). E solo nel 2016 la Cassazione ne ha riconosciuto l’unitarietà in una sentenza del 17 giugno. “La ’ndrangheta è una mafia cresciuta nel silenzio”, ha sintetizzato Nicola Gratteri».

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Possibile che solo pochi si siano occupati di ‘ndrangheta? Perché?

    «Il primo ampio studio sull’argomento è del 1992, scritto da Enzo Ciconte: ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi. Conteneva già tutti gli elementi di previsione della sua rapida ascesa tra le prime criminalità del mondo. Perché questa sottovalutazione della ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione storica, politica, culturale, non ancora risolta.

    Nel periodo 1970-1988, la ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E, infine, di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Era il periodo del terrorismo in Italia e le priorità repressive dello Stato erano concentrate su di esso».

    Insomma, la ‘ndrangheta operava in silenzio, ma si rafforzava…

    «Non è vero che fino a 30 anni fa la ndrangheta non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Né che fosse impossibile pronosticare il successo che poi ha avuto nel mondo criminale globale. Nelle migliori delle ipotesi si tratta di una imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro Paese.

    Camorre e ndrangheta non erano affatto silenti quando, a partire dagli inizi degli anni ’70, la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza. Non erano in una fase di scarsa attività criminale, solo che su di esse – per ragioni varie – non c’era l’attenzione degli investigatori e degli apparati istituzionali dello Stato.

    Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle. E le servono una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate “agevolazioni” da parte di chi doveva contrastarla e combatterla».

    L’Italia ha sottovalutato la pericolosità di ‘ndrangheta e camorra?

    «I fatti hanno capovolto il paradigma interpretativo delle mafie e la sottovalutazione da parte di studiosi e degli apparati di sicurezza italiani. La camorra, considerata una semplice forma di moderno banditismo urbano sembrava quella più fuori dai canoni mafiosi. Oggi invece è quella più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale.

    La ‘ndrangheta, che sembrava più secondaria ed era praticamente semisconosciuta, era considerata una forma di ancestrale banditismo rurale. Poi ha letteralmente colonizzato, dal punto di vista criminale, il Centro-Nord. Tutte le previsioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. I servizi di intelligence non hanno fatto una bella figura: la sottovalutazione di camorra e ‘ndrangheta fa parte dei grandi limiti e compromissioni dei servizi di sicurezza italiani di quegli anni».

    In tempi di globalizzazione, come si sono comportate le mafie meridionali?

    «Innanzitutto si è determinato un processo di “nazionalizzazione” delle mafie, cioè la formazione di una presenza stabile e duratura delle organizzazioni mafiose nelle strutture economiche delle regioni del Centro- Nord che rappresentano il cuore pulsante dell’apparato industriale, produttivo e commerciale dell’Italia. Un esito del genere era considerato assolutamente impossibile dagli studiosi, dagli apparati di sicurezza, dalle forze politiche e dalla pubblica opinione rappresentata dalla stampa e dalle Tv.

    Questa novità si era già percepita negli anni ’50 e ’60 del Novecento con la presenza al soggiorno obbligato di boss delle varie mafie meridionali, con investimenti nella piazza finanziaria di Milano. Ma si era trattato di incursioni, presenze sporadiche, finalizzate a qualche obiettivo limitato e non a una presenza stabile e duratura come quella odierna. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a previsioni sbagliate. Nessuno aveva ipotizzato che le mafie potessero insediarsi nel cuore produttivo italiano».

    Come mai tutti hanno sbagliato previsioni?

    «Si riteneva che il Centro-Nord, e soprattutto le regioni più ricche, fossero un ambiente ostile, inadatto allo sviluppo delle mafie o non in grado di ospitare fenomeni così arcaici. Insomma si pensava che essendo le mafie fenomeni di arretratezza economica e di primitività civile, mai e poi mai avrebbero sfondato in realtà ricche e di avanzata civilizzazione.

    Quello che non si era capito e non si vuole capire (nonostante tutte le smentite) è che le mafie non hanno a che fare solo con la mentalità dei territori dove si sono sviluppate prima e dopo l’Unità d’Italia, ma possono espandersi e superare tranquillamente le colonne d’Ercole – o la linea delle palme, come la chiamava Sciascia – se si mette in moto una “affinità elettiva” con l’economia di altri luoghi e con gli interessi imprenditoriali di territori ad alto tasso civico e di benessere».

    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg
    Quanto hanno contato i contesti nel Mezzogiorno e nel Nord del nostro Paese?

    «Se nel Sud sono state le condizioni economiche, sociali e politiche a dettare le ragioni del successo delle mafie, ora sembra essere la struttura produttiva ed economica del Nord a presentarsi come ospitale e invitante per le mafie. Per capire il radicamento al Nord delle mafie oltre ogni previsione e aspettativa, bisogna interrogare l’economia di questa parte dell’Italia e i comportamenti delle sue classi dirigenti, quelle politiche e quelle imprenditoriali».

    Qual è il vettore principale della globalizzazione delle mafie?

    «È il traffico di droga ancora oggi a determinarla. Una spinta ancora più significativa perché non è causata dal fatto che in Italia, o in Paesi vicini, si produca droga. È questo il caso di un ruolo internazionale non dettato da ragioni geo-politiche, ma da ragioni commerciali. Cioè dalla capacità di entrare in un mercato dove non si possiede la materia prima, ma la si procura in relazioni con i produttori di altri continenti».

    Stanno cambiando – per effetto della nuova dimensione geografica dei mercati – le gerarchie nel mondo delle organizzazioni criminali?

    «Il cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso ha avuto recentemente numerosi e ampi riscontri nelle relazioni degli organi di governo e del parlamento preposti al contrasto, negli atti della magistratura, nei dati sugli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, nelle statistiche sui beni sequestrati e confiscati, nel numero di omicidi commessi negli ultimi 25 anni, e perfino nel numero complessivo dei pentiti.

    Il Ministero dell’interno, in un recente studio, ha stimato le entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro e quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1,124. Camorra e ‘ndrangheta, dunque, cumulano ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. La Calabria risulta essere la regione italiana con la più elevata densità di reati in rapporto alla popolazione, Napoli invece ha il primato per omicidi ogni centomila abitanti (tra le città a presenza mafiosa) e il record assoluto nel numero di clan e di affiliati.

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    Se si analizzano le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis, si può verificare come la camorra tocchi la cifra di 3.219 arrestati (il numero più alto in assoluto) la ‘ndrangheta quella di 2,800 (il numero più alto in rapporto alla popolazione) Cosa nostra 2.193, mentre la criminalità mafiosa pugliese arriva a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale.

    Se poi si prendono in considerazione i delitti commessi dal 1983 al 2018, si può notare come la camorra abbia commesso 3,026 omicidi (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia) Cosa nostra 1.701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1.320 (il 19,85). Quest’ultimo dato, se rapportato alla popolazione, è di gran lunga il più alto».

    Quali dialetti si parlano oggi nel mondo criminale?

    «Sempre più il napoletano e il calabrese, non il siciliano. Questo cambiamento è stato in qualche modo registrato anche dall’industria culturale, in particolare da quella cinematografica. Dal 2006 al 2018 su 61 film prodotti sul tema delle mafie, ben il 50% di essi ha riguardato la camorra. E per segnalare le perifericità del tema ndrangheta nella opinione pubblica italiana, va ricordato che su 337 film girati dal 1948 al 2018, solo 16 hanno avuto come argomento la ‘ndrangheta, cioè il 4%, come ricorda Marcello Ravveduto nel libro Lo spettacolo della mafia».

    Come sta cambiando la struttura della ‘ndrangheta a seguito del suo processo di globalizzazione?

    «Così come la mafia siciliana ha assunto un ruolo centrale grazie al rapporto con Cosa Nostra americana che l’ha proiettata nel corso del Novecento tra le protagoniste del crimine mondiale, anche la ‘ndrangheta deve oggi il proprio ruolo nazionale e internazionale alla proiezione globale che le è stata fornita dai legami vasti con le ‘ndrine presenti fuori dai territori calabresi. Ancora una volta sono le relazioni internazionali a decidere del successo di una mafia rispetto a un’altra. Caso a parte è quello delle bande di camorra napoletana».

    E la camorra come si sta ristrutturando?

    «L’ascesa della ‘ndrangheta tra le principali criminalità del mondo va considerata come un successo di una colonizzazione avvenuta a ridosso delle aree storiche di emigrazione dei calabresi. Per la camorra, invece, il processo di “nazionalizzazione” e “internazionalizzazione” non sembra legato alla riproduzione di un proprio modello tra gli emigrati napoletani o campani in Italia e nel mondo.

    I calabresi riproducono all’estero o nel Nord dell’Italia il modello delle ‘ndrine. La camorra non esporta un suo modello organizzativo né un modello di vita, ma solo criminali in affari che si stanziano nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico o in ogni luogo dove è possibile fare investimenti, smerciare prodotti contraffatti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. La camorra, dunque, esporta camorristi, la ‘ndrangheta trapianta un suo modello criminale fuori dalla sua zona di origine».

    Cosa nostra assume oggi una posizione defilata?

    «Il ridimensionamento internazionale di Cosa nostra (ridimensionamento, si badi, non sconfitta) è stato confermato nel 2014 quando un’indagine della Procura di Reggio Calabria ha dimostrato che Cosa nostra americana, per un cinquantennio principale partner della mafia siciliana, preferiva avere rapporti con la ‘ndrangheta piuttosto che con la sua consorella sicula. E un’altra indagine ha accertato che la mafia siciliana è costretta a comprare la droga dalla ‘ndrangheta perché non è più in grado di approvvigionarsi da sola sui mercati di produzione».

    Possiamo definire una gerarchia criminale tra le tre grandi strutture meridionali?

    «Nel cambio di gerarchia all’interno della criminalità italiana hanno operato più fattori. Ma quello essenziale riguarda la perdita da parte di Cosa nostra del controllo del mercato delle sostanze stupefacenti. In particolare, quello dell’eroina. Questa caduta di ruolo comincia a manifestarsi a metà degli anni ’90 con l’aumento esponenziale della domanda di cocaina. Al contempo, a causa dell’alto numero di morti e del conseguente allarme della pubblica opinione, si registra la flessione di quella di eroina, droga in cui si era specializzata Cosa nostra grazie ai rapporti storici con la mafia negli USA.

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    Sempre in quel periodo, l’azione dello Stato si fa più dura in Sicilia dopo l’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino. È in questo momento storico che camorristi e ‘ndranghetisti vanno ad occupare il vuoto lasciato da Cosa nostra. Si propongono come interlocutori privilegiati di numerosi gruppi criminali internazionali, a partire dai narcotrafficanti del Sud America, area produttrice di tutta la cocaina del globo. Se la ‘ndrangheta godrà nel mondo criminale del prestigio di chi paga sulla parola e rispetta i patti grazie alle grandi disponibilità economiche e alla drastica punizione di chi sgarra, la camorra riesce a “democratizzare” il consumo della cocaina, mettendo a disposizione vaste aree di spaccio controllate militarmente, prezzi bassi, facilità di approvvigionamento e rifornimento di altre piazze di smercio in Italia».

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    […] Catanzaro è città complicatissima da raccontare in poche pagine, da fotografare in poche immagini. È impossibile tenerla ferma, costretta in posa. La sua dialettica è instabile, un’altalena di sensi opposti, oscillanti tra alto e basso, salite e discese. È un luogo sfuggente, molteplice, contrastante. L’intera fisionomia della città ha qualcosa di pericolante, sgangherato e diffratto. Sembra percorsa da una corrente alternata.

    Fuggito da Catanzaro per diventare Rotella

    Come la stessa ansia esaltata di una di quelle affiche cinematografiche fatue e sognanti sovrapposte alle vecchie pubblicità annonarie e alle belve circensi graffiate e strappate via in un gesto di sfregio carico di furiosa rabbia creativa, alla maniera iconoclasta di Mimmo Rotella. Mimmo Rotella, che fu il suo più grande e geniale artista-simbolo. Che da Catanzaro, per poter diventare Rotella, però, è fuggito, anche lui, prestissimo.

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    Un’opera dell’artista catanzarese Mimmo Rotella
    Il Marc Augé che non ti aspetti

    Qualche anno fa nel corso di un viaggio di studio in Calabria, a vedere Catanzaro c’ho portato in visita Marc Augé. Eravamo in macchina, guidavo io, lui guardava fuori: dopo un’ultima curva, sbucati dalla caverna buia del tunnel Sansinato, Catanzaro si parava improvvisamente davanti, alta fino al cielo: il suo skyline scosso da una specie di onda sismica di cemento e bastioni fatti di palazzoni in technicolor aggrappati a casaccio su una rupe a precipizio tra i due mari, in cima alla vertigine arcuata del ponte Morandi. E Marc Augé, l’antropologo inventore della nozione di “non luogo”, l’esegeta delle metropoli contemporanee e delle società post-tutto, davanti a questa sorprendente visione, ha esclamato, colmo di stupore: “et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!”.

    L’antropologo francesce Marc Augé

    Non si sbagliava l’antropologo dei non luoghi, già a prima vista Catanzaro è un posto è sorprendente. La visione di quello che ti viene addosso dall’auto prima di infilare la bretella che sale fino al Ponte Morandi è senza scampo. Sbuchi fuori ed è un muro di palazzi e palazzoni, di case vecchissime e nuovissime, screpolate e compatte, alte fino al cielo, nude e malinconiche come l’azzurro allucinato dello Ionio.

    Catanzaro è un inganno del tempo

    La città nuova si rovescia ben oltre l’argine di creta grigia dalle colline di Germaneto, l’antico granaio del suo contado. I cantieri fervono, a ritmi folli, incessanti. Questo terreno incerto su cui avanzano le ultime propaggini urbane sfrangiate dalle ruspe dei cantieri e spellate da un vento proverbiale, è il lembo più stretto d’Italia. Oggi è la trincea fluttuante di una terra di confine. Eppure all’alba, da lontano, Catanzaro, la città capitale della Calabria di oggi, potrebbe ancora apparire a un viaggiatore sonnolento e svagato un antico caravanserraglio chiuso tra le dune di un deserto orientale. Un inganno del tempo.
    Catanzaro ha le sue stranezze, un’astuzia delle forme apparenti fissate nel suo carattere paradossale, è il suo contrassegno, il distintivo perdurante.

    Un capoluogo con l’anima da strapaese

    È diventata città e capoluogo nonostante la sua ristrettezza da strapaese, l’isolamento e l’incredibile discontinuità spaziale. La fame insoddisfatta di spazio contrapposta all’abitudine atavica alla separatezza e all’abbarbicamento, qui ancora contano molto. Specie oggi che ogni cosa è cresciuta a dismisura. Catanzaro non ha mezze misure, qui tutto pare da un momento all’altro frenetico o stagnante. Dopo l’agitazione folle del mattino, c’è la gora languente della controra catanzarese. La città si svuota. Certi pomeriggi d’estate il Corso rovente è divorato dai soffi riarsi dello scirocco. Circolano solo i matti e qualche furtiva ombra umana risucchiata dal caldo, fantasmi che slittano via attaccati ai muri.

    Tra i cubicoli delle sua antica cittadella murata Catanzaro ridiventa provincia meridiana e orientale: i suoi cento caffè a tutte le ore (un rito: tu pijjhasti u’ ccafhhè?), i baretti sempre affollati, il sapido cibo di strada (c’è in città un’Accademia che celebra il culto interclassista del Morzello, la sua piccante zuppa di trippe e interiora), il discutere a crocchi, lo sfottò ferocissimo, il dialetto ostentato come lingua scettica e iniziatica, il lento passeggio sul corso.

    Il Paparazzo di Fellini era un oste di Catanzaro

    Catanzaro un tempo nota per la fiorente arte della seta e dei velluti ereditata dai fondatori bizantini e dagli ebrei della diaspora mediterranea, conserva uno spazio residuale per la storia e l’aneddotica. Qui vi sopravvivono le sue espressioni più ineffabili e vistose, i suoi linguaggi mischiati, le sue figure più umane paradossali. I “cathanzarisi”, con le loro posture sguincie, gli ammicchi teatrali, le sue stradine stravolte dal traffico che sale addosso ai pedoni. Questa città sta dentro il mondo contemporaneo con un suo certo particolarissimo stile. Come quel Coriolano Paparazzo, il “grumpy hotelier”, l’oste affettato e petulante proprietario dall’Albergo Centrale (sull’attuale Corso Mazzini), di Catanzaro, di cui lo scrittore vittoriano Georg Gissing, di passaggio da questa “cima ventosa” nel 1897, lascia una gustosa e memorabile descrizione nel suo diario di viaggio. Ritratto che non sfuggì a Fellini, che in crisi creativa, tra le more della sceneggiatura de “La dolce vita”, spostò il senso di quel cognome ruzzante così tipicamente catanzarese e ne fece il famoso nomignolo del suo reporter, fissando così l’appellativo che designa ancora oggi universalmente i fotografi d’assalto.

    I paparazzi della Dolce Vita di Federico Fellini

    Un altro risarcimento culturale che curiosamente, per l’eterogenesi dei fini così frequente nella vicenda catanzarese, la città del ponte e del vento ha regalato al mondo. Come ricorda anche una targa-memoriale apposta dal Comune nel 1999 sul luogo del fatidico incontro cittadino tra lo scrittore vittoriano e quel catanzarese doc.

    Dopo un po’ sei “amicu meu” ma non troppo

    Del resto a Catanzaro è facile sentirsi ospite. Fare amicizie e, pure, inimicizie durevoli. La gente ti vuole conoscere, ti annusa e accoglie, cordiale, manierosa, e circospetta e diffidente insieme. Non importa da dove vieni, dopo un poco sei “amicu meu”. Ma dopo anni qui non ti levi mai di dosso la sensazione che resterai comunque altro, separato da loro, come uno straniero tenuto sempre sotto osservazione, un avventizio in uno stato precario. È una città che dissimula e ti tiene in sospeso Catanzaro. Ti fa sentire di passaggio, in equilibrio sulla soglia, sempre un po’ indecisa sul da farsi.

    Città dove contano le superfamiglie e i segreti indicibili

    Catanzaro è resistente, fortemente identitaria. Basta a se stessa. Con poco meno di 89mila abitanti, Catanzaro è una città conservatrice, sfiancata dagli intrighi, da vizi strapaesani e da inossidabili e nostalgiche liturgie sociali. È chiusa in cerchie impermeabili, raccolta intorno a superfamiglie, consorterie sempiterne e a segreti non sempre dicibili.

    Piazza Matteotti e via Indipendenza a Catanzaro
    Cosa scrivono Strati e Alvaro

    Un romanzo (dimenticato) dello scrittore Saverio Strati, “È il nostro turno”, pubblicato da Mondadori nel 1975, rappresentava una Catanzaro post-bellica attardata negli anni 50’ in un’atmosfera da ancien régime, esasperata da povertà e disagi materiali e dalle sue angustie provinciali da nobiltà decaduta. Il realismo di Strati metteva a nudo il carattere ipocrita, pavido e valetudinario dei piccoli burocrati e della classe media catanzarese. Prima di lui Corrado Alvaro, che a Catanzaro si formò e fu allievo del Collegio Galluppi, degli ambienti culturali e della vita cittadina a sua volta aveva scritto in modo acre e penetrante in “Mastrangelina” (uscito postumo nel 1960).

    Città di burocrati bocciata da Pasolini

    Le chiusure e l’ostinato narcisismo, “l’esasperazione rituale” di certi tratti del costume cittadino non sono sfuggiti neppure a un reportage di viaggio di Pier Paolo Pasolini, che in visita in Calabria, era di passaggio per le vie di Catanzaro nell’aprile del 1964, in compagnia di Elsa Morante, alla ricerca di volti interessanti per il suo “Vangelo secondo Matteo”. «Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Ha un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità quella che caratterizza un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività, nascono solo dalle preoccupazioni individualistiche di una grigia classe impiegatizia».

    Una Metropolis da fumetto

    Oggi Catanzaro incombe e svetta sui valloni quasi come una Metropolis da fumetto futuribile disegnata a mano libera sul canyon della Fiumarella, il profondissimo dirupo naturale che un tempo la separava dal mondo. Migliaia di veicoli che arrancano sulle corsie intasate e verso i ponti, risalendo come una corrente inversa la cima della città. Sembra la vecchia fotografia di un luogo arcaico simile a un forte medievale, un nido d’aquile o l’acropoli antica di una polis sorta a guardia dei due mari. Le vecchie mura del forte di San Giovanni e il suo centro storico fitto di piccole case costruite da arabi e bizantini resistono disperatamente aggrappate sul filo del precipizio, simili a naufraghi abbracciati agli scogli di un’isola.

    Prova a trovare un parcheggio

    Il traffico è impressionante, non c’è mai un parcheggio. Si continua a costruire negli interstizi, tra un vuoto e l’altro si elevano le gru. A Catanzaro ogni cosa si presenta in salita, stretta, cabrata verso l’alto. Puntualmente, ogni volta che ci arrivo, il colpo d’occhio mi sfrena verso certe sensazioni profonde e incontrollabili. Catanzaro scatena irrequietezze. Ha inquietudini erotiche e languori, qualcosa che mi ricorda sempre l’inizio e la fine di certe oscure e intricate storie d’amore.

    Un emblema del Sud di adesso

    Vista più da vicino ti accorgi che la Catanzaro che oggi si affaccia dal suo ponte sequestrato e malsicuro (ma dal traffico sempre ininterrotto) che spicca su questo panorama ondeggiante tra svincoli e flying bridges da far invidia a Los Angeles, è davvero, forse più di altre, una città-emblema del Sud di adesso. Caotica e annoiata, avvolta come un ottovolante dal traffico delle ore di punta e orlata da una spessa e screziata cortina di grandi edifici e palazzoni nuovi che si superano in altezza e tracimano passando come un’onda di cemento da un vallone all’altro, da un ponte all’altro. Uno spettacolo sempre impressionante. In uscita, verso il tramonto, un altro punto di vista cade sulla crosta ininterrotta di case e palazzi cresciuti ex novo a catasta, in un enorme intrico di vani, svincoli e anelli di circonvallazione, cubature e prospettive fuori scala, quasi a formare un vasto ed esteso termitaio umano.

    C’erano una volta le aquile di Palanca

    Altro che Magna Graecia delle migliori annate, come proclamano di queste contrade sconvolte le guide di un turismo nostalgico. Ma anche la Catanzaro del XXI secolo a suo modo resta tributaria dei miti. Un mito suo, araldico, nobiliare, da primatista, molto auto-costruito, sempre preteso e mai conquistato, che risorge ogni giorno anche come tema politico e civico. Un leitmotiv rinfocolato e respirato dai catanzaresi come tema identitario che si impone assumendo spesso le forme di un delirio collettivo piuttosto sconnesso. Dopo la crisi della politica, si pensi al tifo e alla squadra delle aquile giallorosse, che è dai tempi dello storico gol segnato nel 1972 da Mammì alla Juve e dalle gesta funamboliche del mitico bomber–tascabile “Massimé-pari-‘na-molla-Palanca” (tripletta alla Roma nel 1978) non riesce più a rinverdire i suoi allori calcistici, galleggiando con frustrazione crescente dei tifosissimi locali nelle sabbie mobili di una serie C molto maldigerita per le pretese di pubblico e dirigenti cittadini.

    Un posto da antropologia del disordine

    Passano gli anni e Catanzaro la osservo, come faccio sempre ogni volta che ci ritorno; resta lì come un geroglifico disegnato tra il ponte e il cielo meridiano. Sono un irrequieto, e il mio è mestiere che si fa in movimento. Ma Catanzaro si è infilata dentro il mio lavoro, e dentro la mia vita come un ospite. Sono quasi una trentina d’anni ormai. È qui, nella città capitale di quelle che una volta erano le vecchie “Calabrie” degli scrittori del Grand Tour, che faccio quella che Marc Augé chiama “antropologia della prossimità”, l’antropologia di quello che vivo e vedo da vicino, di quel che siamo, piaccia o no. Col tempo dentro questi sguardi incrociati Catanzaro è diventata così anche il luogo di molte pagine della mia scrittura. Dovrei dire, dopo tutto questo via vai, che la città dei ponti e del vento si è presa un posto, un posto non da poco, anche nella mia vita. È un luogo interessante per uno come me. È un posto da antropologia del disordine sudista. Anzi, per me, è la già a modo suo la capitale post-moderna del gran bazar calabrese.

    LEGGI QUI LA PRIMA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

  • Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Oggi è un semplice monumento, utilizzato dal Comune di Scalea per mostre, manifestazioni e gli immancabili presepi viventi. Eppure Torre Talao, l’antico bastione costiero costruito in chiave antiturca dal viceré Pedro Afan de Ribera d’Alcalà, su ordine di Carlo V, ha una storia strana, misteriosa e importante, almeno per certi ambienti.
    Una storia ignorata da chi, invece, dovrebbe conoscerla per scelta “militante” (i tantissimi massoni di cui rigurgita la Calabria) o per semplice interesse culturale.

    Questa storia è in parte calabrese, perché è calabrese lo scenario e sono calabresi alcuni dei protagonisti. Ma in parte è glocal, perché le vicende particolari della Torre si incrociano con alcuni passaggi delicati della storia non solo italiana della prima metà del ’900 fino all’avvento del fascismo.
    Edificata su uno scoglio particolare, nel quale sfociano acque termali e in cui sono stati rinvenuti reperti preistorici, la Torre divenne un importante tempio esoterico a partire dal 1910, quando l’acquistò Amedeo Rocco Armentano.

    Il compasso sulla squadra, uno dei più noti simboli massonici
    Il mago calabrese

    Come molti esoteristi dalla vita intensa e in parte avventurosa, Armentano ha scritto poco: di lui restano un corposo epistolario, alcuni articoli su riviste specializzate (ad esempio Ur, in cui firmava con l’acronimo Ara) e le Massime di Scienza Iniziatica, una specie di catechismo pitagorico riedito nel 2004. Roba da supernicchia, insomma.
    Anche la sua biografia è piena di enigmi. Rampollo di una famiglia possidente e agiata originaria di Mormanno e poi trasferitasi a Scalea, Armentano fu un protagonista assoluto del filone più estremo della cultura esoterica italiana: il neopaganesimo, che nel suo caso si rifaceva alla scuola pitagorica.

    Questo indirizzo dottrinario ebbe una certa circolazione sia nella massoneria, che era il principale veicolo di diffusione della cultura esoterica, sia fuori dal mondo dei “grembiuli”, in particolare in alcuni ambienti legati al fascismo delle origini.
    Quelli come Armentano sognavano la restaurazione della romanità imperiale, in contrapposizione al cattolicesimo. Fin qui, nulla di nuovo per gli ambienti massonici italiani, che ereditavano l’anticlericalismo del Risorgimento.

    Ma il vero elemento di rottura di questo esoterismo duro è la polemica, a tratti pesantissima, contro il cristianesimo, che invece la massoneria comunque rispettava (e rispetta): non a caso le logge di tutto il mondo aprono i loro “lavori” con la lettura dei versi iniziali del Vangelo secondo Giovanni e si richiamano comunque ai simboli cristiani. Esperto esoterista, Armentano voleva portare questa sua “rivoluzione” all’interno della massoneria ufficiale. Lo fece attraverso un massone di rango: Arturo Reghini.

    L’esoterista col pallottoliere

    Sul fiorentino Arturo Reghini valgono le parole di Natale Mario Di Luca, uno dei suoi biografi: fu una figura angelica.
    Toscano ma non toscanaccio, Reghini si formò nelle avanguardie d’inizio ’900, particolarmente attive nei caffè e nei salotti della sua città. Giovane e brillante intellettuale, si laureò in matematica a Pisa nel 1912 e cercò da subito di conciliare il mondo dei numeri con quello esoterico. Per lui, l’incontro con il pitagorismo fu quasi obbligato. Ed ebbe un tramite: Amedeo Rocco Armentano, appunto.

    I due si conobbero nel 1907 e la loro amicizia si sviluppò nel segno della complementarietà: Armentano iniziò Reghini ai segreti del pitagorismo e quest’ultimo fece entrare l’amico calabrese in massoneria. Per la precisione, nella loggia fiorentina “Lucifero”, di cui Reghini era uno dei fondatori e dei principali animatori.
    A differenza del “mefistofelico” Armentano (a cui si attribuivano anche poteri paranormali), Reghini scrisse moltissimo e spaziò dall’alchimia alla matematica.
    Al riguardo, resta importante, non solo in ambito esoterico, il grosso lavoro sviluppato dall’intellettuale toscano sulla matematica pitagorica, tutto realizzato solo con l’aiuto di un pallottoliere.

    Ecco come si presenta oggi un tempio massonico

    Il progetto dei due era ambiziosissimo: eliminare ogni riferimento alla tradizione giudaico-cristiana dai riti e dai simboli massonici e trasformare le logge in centri di propulsione del “nuovo” paganesimo. Non a caso, Reghini e Armentano furono in prima fila nel Rito Filosofico Italiano, una “catena” massonica ispirata proprio al paganesimo e al pitagorismo. In tutto questo, Torre Talao aveva un ruolo importantissimo: doveva servire da ritrovo per i pitagorici e da punto di irradiazione del loro pensiero.

    La Torre dei misteri

    Per un decennio buono, Torre Talao fu al centro di un viavai discreto ma non proprio invisibile di personalità a dir poco particolari, che si ritrovavano lì.
    Tra gli habitué della Torre, c’erano senz’altro Reghini e l’esoterista romano Giulio Parise (famoso anche per essere stato il grande amore della scrittrice Sibilla Aleramo), ma anche alti gradi della massoneria internazionale.

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    Il discusso Aleister Crowley

    Al riguardo, emergono due nomi significativi, l’anglobritannico Theodor Reuss, fondatore e gran maestro dell’Ordo Templi Orientis (in acronimo Oto, scheggia impazzita e scissionista della Gran Loggia Unita d’Inghilterra) e l’inglese Aleister Crowley, che tra l’altro ebbe rapporti con Reghini, anche lui iniziato nell’Oto. Inevitabile che questo andirivieni di personalità strane desse nell’occhio alle autorità, regie prima e fasciste poi. E difatti i guai arrivarono puntuali per Armentano.

    Massone, mago e spia?

    C’è un aspetto poco valutato della Grande Guerra: il combattimento sottomarino, a cui la Kriegsmarine germanica fece fare un grandissimo salto di qualità.
    Le coste calabresi tirreniche, piene di relitti riscoperti di recente in occasione della vicenda delle navi dei veleni, ne offrono un esempio lampante e micidiale.
    Torniamo alle vicende massoniche. Nel 1914 il Rito Massonico Italiano collassò per un vistoso ammanco di fondi, di cui fu responsabile Guido Bolaffi, avvocato romano e avversario di Armentano e Reghini, che lo misero alla porta senza troppi complimenti.

    Sottomarino U-boot in forza alla Marina tedesca durante la Prima guerra mondiale

    La vendetta di Bolaffi scattò durante la Guerra, a cui il calabrese e il toscano parteciparono come volontari, rispettivamente come sottotenente degli Alpini e tenente dell’Artiglieria.
    Bolaffi accusò Armentano di essere una spia, proprio grazie ai suoi rapporti con gli esponenti tedeschi dell’Oto (che, a dirla tutta, pullulava di agenti segreti di tutte le nazionalità ed estrazioni) e di usare Torre Talao come “faro” e “pompa del carburante” per i sommergibili tedeschi, particolarmente scatenati nel Tirreno.

    Per quanto bizzarra, l’accusa fu efficace, grazie anche al clima di paranoia collettiva esploso nel Paese dopo la disfatta di Caporetto: a febbraio 1918 la Torre fu perquisita da cima a fondo, a marzo Armentano – che si trovava in Calabria perché il suo reparto era stato smobilitato – fu arrestato e finì sotto inchiesta nel Tribunale militare di Monteleone (l’odierna Vibo Valentia). Vi restò fino al 18 luglio successivo, praticamente isolato e col rischio di finire al patibolo.
    L’accusa cadde il 19 luglio, con una sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto.

    Fine della storia

    Armentano e Reghini mollarono il Grande Oriente d’Italia per aderire alla Gran Loggia d’Italia, che offriva più garanzie, anche nei confronti del fascismo.
    Infatti, a differenza del Goi, che pagò carissimo il proprio antifascismo, le logge di Piazza del Gesù erano filofasciste. Giusto per fare alcuni esempi, erano massoni di Piazza del Gesù due big del movimento mussoliniano: Italo Balbo e Michele Bianchi.

    Tuttavia, la caccia al massone iniziata dal fascismo era nel pieno e nessuno poteva dirsi al sicuro. Certo, i “pagani” Reghini e Armentano non erano visti malissimo, dato che i loro richiami a Roma imperiale collimavano con un certo immaginario fascista. E non a caso Mussolini in persona protesse Reghini da alcune accuse mossegli dagli ambienti cattolici vicini al regime, che lavoravano per preparare il Concordato.

    Ma il destino dell’esoterismo italiano era segnato: Armentano mollò l’Italia nel 1924 per trasferirsi a San Paolo del Brasile, dove avrebbe fatto fortuna nel commercio del caffè e dove sarebbe morto nel 1966. Reghini firmò l’autoscioglimento della Gran Loggia d’Italia (che, a differenza del Goi, fu soppressa in maniera soft) e si ritirò a vita privata a Budrio, dove insegnò matematica fino al 1946, quando morì di tumore.

    E la Torre? Letteralmente abbandonata, fu saccheggiata e vandalizzata finché non passò al Comune di Scalea.
    Il tratto di mare che la separava dalla costa non esiste più, perché nel frattempo si è interrato. Come i tanti misteri della Torre, che aspettano ancora di essere ricostruiti e raccontati a dovere.

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    Povera Catanzaro. Il suo destino sembra giocarsi di continuo tra le pretese di grandeur provinciale e suoi sogni di egemonia regionale, e i pesanti risvegli che puntualmente gettano la città capoluogo nel fango delle cronache. Molto spesso quelle giudiziarie. Come la recente inchiesta della DDA catanzarese, che dopo la tragedia del ponte di Genova ha fatto in tempo a far luce sugli appalti truccati del ponte di Catanzaro, inquinati da affaristi senza scrupoli e funzionari corrotti in combutta per lucrare sui finti lavori di messa in sicurezza del Ponte Morandi.

    Ponte Morandi totem identitario di Catanzaro

    Già, dici Catanzaro e ti figuri il ponte. L’opera pubblica-simbolo che di Catanzaro è diventata il totem identitario. La sua più grande celebrità. Era il 1963, appena pochi mesi dopo il taglio del nastro, e lo scorcio iconico di modernità raggiunta con il ponte, arditissima opera di ingegneria ammirata in tutto il mondo, entra eloquentemente in campo e conquista la scena in “La ballata dei mariti”, pellicola diretta da Fabrizio Taglioni, e interpretata da Memmo Carotenuto, Marisa Del Frate e da un calabrese di successo come Aroldo Tieri, protagonista di questa non indimenticabile commedia all’italiana, tutta di ambientazione calabro-catanzarese – anche molti interni furono girati in centro a Catanzaro, in quello che allora era l’elegante Albergo Moderno, altro vanto cittadino dell’epoca.

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    Il Grande Albergo Moderno di Catanzaro in una foto d’epoca
    Vista dal ponte, bella o brutta che sia

    Il viadotto sulla Fiumarella come fosse il suo ponte di Brooklyn, disegna ancora oggi il punto più alto e scenografico dell’inconfondibile skyline catanzarese. Vista da lì sopra, così com’è adesso, l’intera città, bella o brutta che sia (guai a sminuirla, Catanzaro per i catanzaresi è Parigi), è un museo all’aperto, il paradossale santuario di se stessa. Tutta la città trae identità proprio da questo suo simbolo identificativo, il brand sacrilego e universale del Ponte Morandi. Ancora oggi porta principale e unica via d’accesso alla città dal versante occidentale.

    Questa è la più vera scultura concreta di Catanzaro, coessenziale alla città edificata in verticale dal calcestruzzo vertiginosamente innalzato come una ininterrotta torre di Babele dagli anni del boom fino a oggi. Il ponte che ancora oggi svetta sulla piccola Catanzaro storica è un’opera formato king size degna dell’enfasi impacchettatrice di un Christo, il monumento al presente in cui Catanzaro si celebra al suo meglio (e ora, stando alle cronache giudiziarie, anche al suo peggio).

    L’unico ponte rimasto in piedi dei tre gemelli

    Ogni volta che ci passo sfidando in auto il traffico delle ore di punta – qualche volta anche a piedi, esperienza, assicuro, da escursionismo no limits -, mi vengono i brividi pensando all’incredibile e inavvertita sottigliezza di quel lungo arcone in calcestruzzo armato, opera capolavoro degli anni del boom, universalmente conosciuta e celebrata. Costruito tra il 1959 e il 1962 su progetto dell’architetto Riccardo Morandi, quello di Catanzaro fu a lungo il primo ponte ad arco al mondo per ampiezza tra quelli a campata unica (l’unico rimasto in piedi di tre che gemelli che furono costruiti).

    Il vento di Catanzaro

    Il viadotto di Catanzaro, che un tempo sorgeva dal nulla tra i valloni coperti di ulivi e fichi d’india, si apre sulla città che oggi si disegna ininterrottamente da un capo all’altro dell’orrido spalancato sotto i palazzoni aggrappati all’orlo dei burroni in secca che scivolano verso le rive dello Ionio. È come una vertiginosa passerella tibetana, spaventosamente oblunga e tesa su una sola gettata di calcestruzzo che copre una luce di quasi mezzo chilometro.

    Uno scenario astruso e indimenticabile che diventa ancora più impressionante in una giornata d’inverno. Quando una formidabile tramontana (il famoso vento di Catanzaro) soffia feroce come una bora e scuote le tre corsie automobilistiche e le due sottili fettucce pedonali che corrono ai lati del ponte infinito. Un vento così forte che imperversando sulla città cupa e infreddolita, culla il ponte e chi ci passa sopra per tutta la sua luce, accompagnando il transito con un sinistro dondolio.

    I nuovi quartieri lungo la Statale 106

    Sotto e intorno al ponte Morandi (poi ribattezzato “viadotto Bisantis”) la città dei due mari continua a riprodursi a soverchio più giù, avvampata dai rivoli di una colata di cemento che parte in alto dai colli della vecchia “Catanzaru”. Il centro antico raggomitolato intorno all’intrico di vicoli e vecchie case strette sulle mura del forte di origine araba e bizantina. Un riflusso ardente che si spegne solo quando il fiume di cemento tocca il doppio confine sull’orlo dei due mari dell’istmo, fino al lato della valle del Corace chiusa dalla grande borgata marina di Lido. Quasi 10 km più giù del ponte in riva allo Ionio, tra la Cittadella Regionale, l’Università Magna Graecia e la teoria dei quartieri nuovi cresciuti lungo la 106 ionica.

    Cittadella_Catanzaro
    La Cittadella regionale

    Sono i luoghi dispersi in cui tra grandi centri commerciali, raccordi trafficati e lungomari affollati, fermenta la vita dei “marinoti” catanzaresi. Qui vivono i nuovi abitanti di quella grande periferia che forma la Catanzaro del XXI secolo, che a quella vecchia sembra aver voltato definitivamente le spalle. Un vero e proprio centro sdoppiato che del corpo smembrato della città tra i due mari rappresenta già magna pars.

    Capitale della Calabria

    Ripassando a memoria molte delle vicende recenti di Catanzaro, capoluogo che ciclicamente reclama per sé il ruolo di “Capitale della Calabria”, anche invocando – accade proprio in questi giorni – una “legge speciale” che ne sancisca lo status, da antropologo e scrittore sono tornato ad interrogarmi, quasi in forma di apologo, sulla sua condizione sempre oscillante tra avvilimento ed esaltazione. A partire da una serie di storie e di circostanze rappresentative della sua avventura recente, ed esemplari anche della sua contrastata e contraddittoria immagine di città.

    La felpa di Beppe Grillo

    In una campagna pubblicitaria di molti anni fa, Beppe Grillo, allora in versione “solo comico”, si era prestato a fare da testimonial tv per una insolita serie di spot dello yogurt Yomo. Mentre gesticola e motteggia al suo solito modo, in questa buffa situazione (immortalata in sei o sette spot prodotti e andati in onda all’epoca), spicca un dettaglio dell’abbigliamento del comico. Grillo indossa una tipica felpa sportiva da college USA, che porta scritto, ben visibile e in un inglese a lettere cubitali, il logo “University of Catanzaro”.

    Non ricordo se a quei tempi l’università a Catanzaro ci fosse già. Credo di no. Comunque la felpa “americana” indossata da Grillo era come se dicesse che nessuno in Italia poteva sognarsi che esistesse un ateneo con quel nome, in una città improbabile come Catanzaro. Il solo pensiero che all’epoca qualcosa come un’università potesse spuntare in un posto sgarrupato e arcaico come Catanzaro (questo era il sentiment di quel sottotesto) creava da solo un calembour così illogico e comico che quella felpa bastava a far ridere il pubblico di tutta Italia.

    University of Catanzaro

    In realtà anni dopo a Catanzaro la prima facoltà universitaria, distaccata da Napoli, fu quella di Medicina, mentre di sicuro c’era già l’Accademia di Belle Arti, anche quella popolata in origine da una colonia di docenti e artisti napoletani. L’Università di Catanzaro, quella vera, nel frattempo è nata ed è cresciuta assai. Nel 2012 finì nel mirino della Procura della Repubblica per un’inchiesta con 97 indagati, tra docenti, impiegati e studenti della facoltà di Giurisprudenza – eh, sono tradizioni -, per esami, lauree e carriere farlocche. Vicenda passata, che peraltro consolida l’immagine, non proprio amichevole, già fissata a futura memoria nell’immaginario proprio da quella prima agnizione comica di Grillo.

    Lo spot è ancora lì su Youtube, che raccoglie sghignazzi per quella citazione politically uncorrect che motteggia e schernisce ferocemente la città del Ponte (Morandi) e delle tre V (Velluto, Vento, san Vitaliano), poi sede del chimerico ateneo catanzarese. «Ammè me piace! Troppo bella la felpa University of Catanzaro!». «Sì, troppo bella la felpa University of Catanzaro», scrive nel blog filogrilliano “lostinthesky”, un anonimo commentatore. Seguono numerosi cazzeggi e altrettante promesse di feroci vendette pronunciate da incazzatissimi utenti catanzaresi, ancora oggi feriti a morte dalla trovata comica di quella felpa derisoria di Grillo.

    La Catanzaro sovversiva va a Cosenza

    Fu invece l’Unical, sorta alla periferia di Cosenza, che divenne negli anni ‘80 il rifugio dell’intellighentzia protestataria e sovversiva di mezza Italia, guidata dal fisico Franco Piperno, nato catanzarese, come i filosofi Giacomo Marramao e il compianto Mario Alcaro, quest’ultimo, anche lui docente all’Unical, teorico che fu tra i fondatori del “Pensiero Meridiano”. Poi c’è, tra i testimoni di quella stessa generazione, il regista Gianni Amelio, che alla Catanzaro della sua non agevole formazione giovanile trascorsa al liceo Galluppi, e alla decisione della sua salvifica fuga dalle angustie e dai moralismi catanzaresi dei primi anni ’60, ha dedicato pagine intrise di nostalgica cattiveria nel suo romanzo “Politeama”

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    Il teatro Politeama di Catanzaro (foto Antonio Cilurzo)

    Intitolato proprio come il vecchio e un po’ equivoco cinema-teatro cittadino. Politeama riesumato nelle linee eclettiche e zuccherose del nuovo monumentale teatro cittadino catanzarese, le cui forme ricordano per sovrabbondanza e discrezione gli strati di una sorta di enorme torta “gateau mariage”, opera pubblica firmata negli anni ’90 dall’archistar Paolo Portoghesi, divenuta in breve celebratissima gloria e vanto della Catanzaro dal look rifatto dei giorni nostri.

    Il Tribunale controverso

    Per secoli Catanzaro è rimasta, prima di quel fatidico ponte, una lontana città di provincia delle Calabrie, sepolta quasi in fondo a Sud. Un capoluogo minuscolo, scosso da un vento proverbiale, arroccato nella sua tradizione bizantina fatta di legulei, di prelati e massoni intriganti, di funzionari di governo e sottogoverno, di caserme, ospedali e distaccamenti militari.

     

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    La sede della Procura di Catanzaro

    Il tribunale della città, ben prima degli scossoni prodotti dalle ultime inchieste di Gratteri, era noto per investigazioni fumose e processi nebbiosi, lentissimi e spesso controversi. Vi transitarono, per insabbiarvisi definitivamente, alcuni dei più scottanti processi politici, stranamente scivolati fin qui dal lontano Nord. Misteri italiani che vanno da Piazza Fontana ai tentativi di golpe destrorsi, dalle trame mafiose alle lobby politico-massoniche.

    Tradizione durevole all’intorbidamento giudiziario, se scendendo per i rami si arriva fino al più recente affare “Why not” e alle indagini di Luigi De Magistris, che qui come magistrato inquirente finì defenestrato e dovette darsi alla politica. A Catanzaro, è risaputo, la giustizia aveva, e ha, secondo i gusti, vita facile o difficile, amministrata com’è tradizione da punti di vista e interessi piuttosto fungibili.

    Effetti collaterali desiderabili

    Ma la fitta cronaca giudiziaria e la lunga tradizione legulea catanzarese annoverano pure qualche risvolto diversamente utile e narrano anche di qualche effetto collaterale molto più fortunato. Fu infatti qui a Catanzaro che nel 1969 capitò per sbarazzare più agevolmente la pratica dei suoi esami di procuratore legale, a repentina chiusura di una svogliata vocazione di avvocato dalla carriera subitamente abortita, il non ancora cantautore Paolo Conte.

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    Il cantautore Paolo Conte ha fatto gli esami d’avvocato a Catanzaro prima di dedicarsi alla musica

    Conte era uno di Asti che aveva fatto il militare come aviere a Cosenza. Seppe così che per diventare avvocato Catanzaro era la miglior piazza d’Italia, con ottime facilitazioni “ambientali” (lo sa pure la ex ministra Gelmini, anche lei generosamente transitata dagli esami di procuratore legale tra queste aule felpate). Mentre veniva giù in interminabili tradotte in treno da Asti, sapendo cosa lo aspettava a Catanzaro, città provinciale che ancora oggi non offre grandi distrazioni, aiutato dalla trance esotica del jazz e dalla noia di un alberghetto del centro, l’avvocato di Asti componeva da queste parti le sue prime stralunate canzoni.

    Per l’eterogenesi dei fini così comune nelle faccende della Calabria e di Catanzaro, la città dei tribunali e delle caserme, dei ponti e del vento, può in fondo vantare questo suo accidentale e fortuito primato: aver causato un transito vocazionale, trasformando un procuratore legale di Asti scarso e frustrato in un immortale poeta della canzone d’autore. [CONTINUA…]

    LEGGI QUI LA SECONDA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

  • Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    L’immagine della Calabria è legata ai briganti. Alberghi, ostelli, ristoranti, pizzerie, cooperative, aziende agricole, circoli culturali, gruppi musicali, compagnie teatrali, gruppi folkloristici ne prendono con orgoglio il nome. L’artigianato tipico della terracotta ha come prodotto di punta nell’uomo col cappello a cono e lo schioppo in mano e riproduzioni del brigante dall’aspetto fiero e tetro campeggiano sulle etichette di bottiglie di vino, olio, salumi e formaggi.

    Come Robin Hood

    Nell’Ottocento, Vincenzo Dorsa scriveva che le madri calabresi, trastullavano i loro bambini, chiamandoli brigantiellu miu, brigantiellu di mamma, così come altrove si sarebbe sentito mio cavaliere, mio principino: un figlio capo brigante avrebbe dato gloria e ricchezza a famiglia e parentato! Negli stessi anni, il noto romanziere Misasi descriveva i briganti come poveri giovani costretti a darsi alla macchia per sfuggire alle angherie e per vendicare ingiustizie. In vent’anni di latitanza, il celebre capobanda Tallarico aveva rubato ai ricchi per dare ai poveri, difeso i deboli da avidi sfruttatori, aiutato fanciulle a coronare il sogno d’amore.

    Alcuni storici ancora oggi sostengono che il brigantaggio era la reazione delle masse rurali a ingiustizia e miseria: angariati dai padroni interessati e crudeli, si davano alla macchia e attaccavano le proprietà. Dipingono i briganti come patrioti disposti a dare la vita per difendere la loro terra dall’odiato invasore. Combatterono i giacobini per difendere le tradizioni, la famiglia e la religione dei loro avi; i francesi per impedire loro che depredassero la regione; i piemontesi per aver scacciato il legittimo re di Napoli e occupato il Sud.

    Una presenza costante

    In realtà il brigantaggio è stato sempre presente in Calabria e gli stessi Borboni furono costretti più volte a mettere in stato d’assedio alcuni territori della regione. Era un fenomeno endemico e, come avevano ben compreso i viaggiatori stranieri, le bande diventavano più attive e numerose in occasione di rivolgimenti politici. Nel Cinquecento e Seicento le montagne della Calabria pullulavano di banditi dai nomi tristemente famosi in tutta Europa e nel Settecento il governo ammetteva che vasti territori della regione erano sotto il controllo di bande criminali.

    I briganti non erano umili e pacifici contadini che, presa coscienza della condizione di sfruttati, combattevano una lotta di classe. Per il generale borbonico Nunziante il brigantaggio dell’Altopiano Silano non nasceva dalla povertà, ma dall’indole violenta e rapace di uomini abituati all’uso delle armi: la maggior parte degli «scorridori di campagna», infatti, non erano contadini, ma guardiani.

    Nessuna matrice politica

    Vincenzo Maria Greco, storico locale convinto sostenitore di Re Ferdinando, aggiungeva che i briganti non erano patrioti in quanto, cacciati i Francesi, furono più attivi che mai e, soprattutto nel biennio 1844-1845, aumentarono così tanto di numero e di ardire che nel 1847 il re diede ordine ad un Maresciallo di campo di sterminarli. L’anno seguente, lo «stendardo» del brigantaggio riapparve ancora più terrificante: le bande si mostrarono numerose e minacciose come non mai e dovunque si verificavano rapimenti, saccheggi e assassinii. Il brigantaggio secondo l’autore, dunque, non aveva matrice politica o sociale, ma stava nell’indole rapace e sanguinaria di alcune famiglie abituate a delinquere.

    Spiriti, nel Settecento, sosteneva che i calabresi non diventavano briganti per le prepotenze subite o per amor di patria, ma perché allettati dai vantaggi che offriva l’attività delittuosa. Organizzati in piccole bande, giovani senza scrupoli e con precedenti penali si davano alla macchia per aggredire viandanti e mercanti, razziare greggi e mandrie, saccheggiare magazzini, rapire proprietari, taglieggiare chiunque minacciando ritorsioni.

    Economia e briganti

    Fare il brigante era un mestiere e intorno al brigantaggio si sviluppava una proficua attività economica che vedeva coinvolti manutengoli, soldati, medici, giudici e procuratori. Un bandito in prigione confessò a Misasi che, in soli due anni di attività, aveva guadagnato 80.000 ducati d’oro e d’argento, ma la maggior parte del denaro era servito per pagare manutengoli, giudici, squadriglieri e avvocati; la moglie era stata costretta a vendere la casa e andare a servizio e i figli, nudi e scalzi, conducevano una vita misera.
    Spiriti raccontava che il guadagno annuale di un altro celebre capobanda era stato di 12.000 ducati così ripartiti: 6.000 per la paga di legali e impiegati dei tribunali, 3.000 per protettori e sbirri, 3.000 divisi tra lui e i compagni.

    Al servizio dei ricchi

    Il brigantaggio era funzionale alla società tradizionale, le comitive di scorridori erano spesso tollerate, incoraggiate o protette da nobili, presidi e galantuomini per controllare il territorio ed eliminare potenziali nemici. Il Procuratore generale presso la Commissione feudale Winspeare annotava che i baroni coprivano i briganti in ogni modo e spesso li arruolavano nelle loro milizie private.
    Salis Marschlins affermava che i nobili calabresi si comportavano come tiranni senza alcuna legge morale e, per terrorizzare la popolazione, si servivano dei briganti che non esitavano a tirare fuori dai guai usando potere, denaro e intrighi quando questi erano arrestati. Lenormant, Bartels, Galanti, de Rivarol e tanti altri confermavano che nobili e galantuomini usavano i briganti per intimorire la gente di campagna.

    De Tavel annotava che a Cosenza, un gran numero di avvocati e giudici incoraggiava il brigantaggio nei casali intorno alla città, poiché proprio dagli scorridori di campagna proveniva la fonte principale dei loro guadagni. Rilliet, ufficiale medico della colonna mobile di scorta a Ferdinando II durante la visita in Calabria del 1852, annotava che squadriglieri, guardie urbane, gendarmeria e soldati mangiavano insieme ai briganti che avrebbero dovuto catturare.

    Diavolo e acqua santa

    I briganti, dunque, avevano rapporti con grandi proprietari, medici, avvocati, giudici e guardie che pagavano profumatamente. Durante la loro attività criminale, davano grosse somme in denaro persino a preti e monaci i quali, in segno di riconoscenza, offrivano protezione e ospitalità. Gli scorridori di campagna si mostravano profondamente religiosi, nutrivano una grande devozione per la Vergine, santi e arcangeli; parte del ricavato delle estorsioni era sempre destinato alla chiesa o al santuario dove si riunivano ogni anno per ringraziare della protezione ricevuta. Anche il bandito più sanguinario portava appese al collo reliquie e immagini dei santi o della Madonna che invocava prima di commettere ruberie e assassinii.

    Si racconta che in alcune sparatorie con la forza pubblica sollevavano in alto le sante reliquie convinti che queste potessero renderli invulnerabili alle pallottole. Il capobanda Palma di sera riuniva i suoi uomini, si metteva al centro con un crocifisso in mano e tutti recitavano il rosario e pregavano i santi protettori le cui immagini erano appuntate sui loro cappelli.

    Dai briganti ai mafiosi

    Oggi i briganti non ci sono più ma la regione è piena di mafiosi che usano il terrore come forma di controllo e di consenso e si qualificavano per gli atti di inaudita crudeltà nei confronti delle vittime. Molti intellettuali negli ultimi decenni hanno sostenuto che la mafia è figlia del sottosviluppo, conseguenza della povertà e della completa assenza dello Stato; i mafiosi non sono mossi da deliberata cattiveria o da disposizione psicologica a delinquere, ma da ribellione, sia pure sbagliata, contro l’ineguaglianza sociale. La ‘ndrangheta sarebbe dunque il riflesso di una società ingiusta, la reazione alla decadenza economica, alla disoccupazione e alle crescenti disuguaglianze.

    Alcuni sostengono, addirittura, che originariamente fosse composta da uomini che aiutavano i deboli e che la stessa parola deriverebbe da andragathìa, che significa coraggio, valore, virtù e rettitudine. Pur prendendo le distanze dal fenomeno mafioso, sono in molti ad alimentare lo stereotipo dello ‘ndranghetista costretto dalla dura vita a scegliere la via del crimine senza tuttavia abbandonare il senso dell’onore, della famiglia, dell’amicizia e della religione.

    I tempi cambiano, ma non troppo

    Ogni organizzazione criminale va collocata nel contesto storico in cui si sviluppa. La stessa ‘ndrangheta ha subito un’evoluzione: se in passato i suoi capi erano guardiani dei latifondisti, oggi sono persone che hanno accumulato immensi patrimoni; se un tempo l’ambiente privilegiato era quello rurale, oggi è quello delle grandi metropoli; se in passato l’attività era volta ai sequestri di persona, oggi gli affari si fanno con narcotraffico, grandi appalti e riciclaggio di denaro sporco.

    Le organizzazioni criminali si evolvono, ma alcune costanti rimangono. Sarebbe ingenuo pensare a una filiazione diretta dal brigantaggio alla ‘ndrangheta, ma è innegabile che molti elementi accomunano l’esperienza dei briganti calabresi e quella degli ‘ndranghetisti. Nel corso del processo contro la famigerata banda di Pietro Bianchi celebrato a Catanzaro nel 1867, un procuratore disse che il brigantaggio avrebbe ricevuto un colpo mortale allorquando la locomotiva avesse percorso maestosa la bella costiera calabrese dallo Jonio al Tirreno; ma si affrettò ad aggiungere, che neanche le ferrovie sarebbero bastate a distruggere le bande criminali senza il cambiamento di una mentalità diffusa che giustificava furto, sopraffazione e violenza.

  • BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    Sono due i ricordi che la maggior parte dei cosentini di una certa età collega alla parola tanninu”. Il primo è la grande vasca d’acqua nella quale venivano raccolti gli scarti di lavorazione, ma che i ragazzi dei quartieri di Casali, Massa, Garruba, Spirito Santo utilizzavano per fare il bagno e fronteggiare la calura estiva. C’è persino chi in quella vasca imparò a nuotare.

    Cosenza, 1949. In basso a destra gli scivoli tra la stazione e la fabbrica (foto Stenio Vuono)

    Il secondo ricordo riguarda il suono deciso della sirena che scandiva i turni di lavoro dello stabilimento. Inevitabilmente, finiva per segnare i ritmi della vita quotidiana nei quartieri al di qua e al di là del fiume Crati. La sirena prima di andare a scuola, la sirena di mezzogiorno per “calare la pasta” e così via.

    La parola “tannino” si ricollega invece con una certa difficoltà al disastro ambientale connesso alla ex Legnochimica di Rende. Lì dove “u tanninu” si era spostato negli anni ’70 seguendo l’espansione a nord della città.

    “U tanninu”, ieri fiore all’occhiello oggi solo degrado

    Ma cos’era “u tanninu”? Oggi esempio eccezionale di archeologia industriale – da decenni nel degrado più totale – con i suoi capannoni che ricordano una cattedrale in rovina e la sua alta ciminiera in mattoni che reca ancora la data 1906. Rappresentò fino al 1970 circa una delle punte di diamante dell’industria locale, sia per quanto concerne i livelli di produzione sia per il numero di operai impiegati.

    L’interno del tannino trasformato in segheria (foto Mario Magnelli)

     

    Il liquido utilizzato per conciare le pelli

    Il nome richiama l’acido tannico che vi veniva prodotto attraverso un procedimento di estrazione dal legno di castagno, che ne contiene in natura una quantità significativa. Il legno veniva essiccato e, dopo diversi passaggi, era possibile estrarne il tannino. Poi veniva commercializzato inizialmente allo stato liquido all’interno di botti in legno e, successivamente, in polvere dentro appositi sacchi. Il tannino estratto veniva usato soprattutto nell’attività di concia delle pelli per la realizzazione di oggetti in cuoio e restò un elemento essenziale per il settore artigianale finché non si riuscì a sintetizzarlo chimicamente. 

    La vecchia fornace (foto Dalena Mmasciata 2016)
    Le cataste dei tronchi e la ferrovia

    A dispetto della marginalità odierna la posizione della fabbrica di Casali era fortemente strategica. Proprio a monte dello stabilimento era posta la stazione delle ferrovie Calabro-Lucane di Cosenza-Casali e questo garantiva l’approvvigionamento quasi sul posto della materia prima. I tronchi di castagno venivano trasportati tramite treni-merci e scaricati alla stazione di Casali. Da qui, attraverso un apposito sistema di scivoli, era possibile indirizzarli direttamente nel piazzale della vicina fabbrica.

    Per chi arrivava in zona, insomma, le alte cataste di tronchi di castagno disposte nei pressi della struttura erano, al pari della ciminiera, parte integrante del paesaggio. Ma non solo. Attorno alla fabbrica del tannino ruotava un significativo indotto. Col tempo sorsero nelle vicinanze anche delle case per gli operai e, tramite la ferrovia, la manodopera affluiva da numerose località del circondario. Tutto ciò era affidato alle cure della famiglia Merola, di origini francesi, giunta a Cosenza appositamente per gestire il tanninificio. 

    “U tanninu” diventa Legnochimica

    La società “TANCAL, Tannini di Calabria”, derivata dalla società francese “Rej et Fils” e che diede avvio alla produzione nel 1906, restò attiva fino agli anni ’50 con una significativa capacità produttiva raggiungendo le 2000 tonnellate annue di estratto. Nel 1954 venne ceduta alla società “LEDOGA” e così continuò a lavorare fino alla fine degli anni ’60, quando intervenne la chiusura dello stabilimento.

    La vecchia ciminiera con la data di costruzione della fabbrica

    La società ambiva ormai a realizzare una moderna struttura a Rende, che impiegasse moderni metodi di produzione e radunasse in essa più strutture in un nuovo assetto societario. Nasceva così la Legnochimica. Dopo il trasferimento dello stabilimento nella zona industriale di Rende, l’enorme struttura posta tra Casali e il fiume Crati venne utilizzata in parte come sede di una azienda di comunicazioni, e in parte come segheria e deposito di materiali di vario genere ancora per alcuni decenni. Oggi versa in uno stato di più completo abbandono.

    Le segherie in Sila

    All’alba del Novecento l’industria forestale era tra le più floride nella provincia di Cosenza, potendo contare su una serie di segherie in Sila che sorgevano in baracconi posti lungo le rotabili e che dalla primavera all’autunno lavoravano a pieno regime. I boscaioli o “mannesi” – forse per via della “mannaia” adoperata – erano addetti all’abbattimento e alla squadratura del legname che veniva accatastato e – prima dell’avvento della ferrovia – trasportato a Cosenza con traini tirati da muli. All’epoca circa il 25% dell’intero territorio provinciale (oltre 660mila ettari) era coperto da boschi. Il castagno faceva da padrone con oltre 14mila ettari che assicuravano una resa di circa 15quintali per ettaro e facevano balzare la provincia di Cosenza al secondo posto in Italia dopo quella di Genova. Ma dal 1906 buona parte del legno di castagno proveniente dal versante cosentino della Sila cominciò a essere assorbita dalla nascente industria estrattiva.

    Tannins di Cosenza

    Tannino si chiamava l’acida molecola che strappava il legname alle foreste silane dando il nome a una fabbrica, lavoro alle genti e pane alli Casali. Il 23 novembre 1906 Agostino Imard le directeur della pregiata Société Nouvelle de Tannins della “Rej et Fils” con sede a Marsiglia presentò alla Prefettura di Cosenza l’incartamento per la registrazione del marchio. Il fondo “Marchi e Modelli” dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma ci permette di conoscere la descrizione del logo originale. Un logo che campeggiava sulle prime etichette appiccicate sulle confezioni di estratti di materie tannanti e coloranti: «Impronta costituita da due triangoli equilateri incrociati in modo da formare una stella a sei punte, nel cui mezzo spiccano le iniziali S. N. T. Completa il marchio l’iscrizione intorno Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza».

    Registrazione marchio Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza_1906 (Foto @Archivio Centrale dello Stato)

     

    Il secondo opificio a San Vincenzo La Costa

    Nei primi anni di attività l’opificio francese di Casali si dimostrò capace di lavorare oltre 15mila metri cubi di legname all’anno. Le grandi potenzialità del legno di castagno a fini estrattivi furono sfruttate dalla Società Italiana per l’Acido Tannico. Nel 1907 decise d’impiantare a Gesuiti di San Vincenzo La Costa un secondo grande opificio, capace di trasformare 5mila metri cubi di legname all’anno.

    Brucia la fabbrica

    «Violentissimo incendio a Cosenza» titolava L’Avanti il 9 settembre 1914. Nel grande opificio francese il rischio d’incendi era all’ordine del giorno. A causa della disattenzione di qualche operaio il giorno prima era andata a fuoco l’intera officina per la fabbricazione delle botti nelle quali veniva conservato l’acido tannico destinato all’esportazione. Le fiamme divamparono inghiottendo buona parte della struttura e i vigili del fuoco e la truppa impiegarono diverse ore prima di estinguerle. L’episodio provocò la chiusura dello stabilimento per alcune settimane, la mobilitazione e il ritorno in patria di tutti gli operai di nazionalità francese.

    Gli stessi che per mezzo di una propria rappresentanza si dissero preoccupati per le condizioni di lavoro nell’opificio cosentino. A stretto contatto con estratti e coloranti nocivi per la salute, e quasi sempre senza alcuna forma di cautela e tutela, presto la maggior parte degli operai francesi chiese il trasferimento a Marsiglia anche se una rappresentanza transalpina continuò a esistere fra gli estrattori almeno fino a tutti gli anni ’30. 

    Le zanzare killer del Crati

    Ma i veri nemici degli operai del tannino, come di quelli che sulla sponda opposta del Crati erano addetti alla colorazione chimica delle “cementine” sfornate nella Mancuso&Ferro, erano le zanzare. Il rione Casali, con l’opificio francese che sorgeva a pochi passi dalla ferrovia, si trovava in piena “zona malarica”. Spinti dal vento e dalla necessità di trovare nutrimento, gli anofeli portatori della “dea febbre” infestavano le numerose pozze d’acqua stagnante e lurida, prodotto delle lavorazioni industriali.

    I lavoratori contraevano il “mal d’aere” e spesso ne morivano. Per effetto della legge del 19 maggio 1904 ogni titolare di opificio era stato obbligato alla somministrazione del chinino di Stato all’interno della propria fabbrica. A fine epidemia ciascun imprenditore sarebbe stato indennizzato dal Comune – e quest’ultimo dallo Stato – della cifra investita nell’acquisto di dosi del prezioso farmaco. A gestire per molto tempo la chinizzazione per bocca degli operai a scopo preventivo fu il dottor Antonio Rodi, direttore del dispensario di Caricchio. 

    L’operaio francese che giocava bene a calcio

    Tra gli operai impiegati nella catena estrattiva dell’acido tannico dal legno di castagno nell’opificio di Casali c’era un francesino che giocava bene al calcio e che di lì a poco avrebbe fatto parlare di sé. Si chiamava Ettore Chenet e proveniva da Prato. Incerte le sue origini, introvabile la fotografia. Francesco Magnini in Bandiera biancazzurra scrive: «Determinante alle spalle delle punte la tecnica di Ettore Chenet, un nome da opera pucciniana. Di questo centrocampista non è rimasta certa la provenienza e nemmeno il destino. Pare fosse di passaporto francese ma di lui raccontano fosse rimasto in città come meccanico dopo aver svolto il servizio militare a Prato (alquanto strano per un francese)». Chenet giunse a Cosenza nella seconda metà degli anni ’20 e, forse con un contatto già in tasca, trovò subito impiego nell’opificio francese.

    Di mattina al Tanninu, nel pomeriggio in campo

    Di mattina in fabbrica e di pomeriggio a sciorinare dribbling su uno di quegli sterrati ai margini della città di allora, quando l’“Emilio Morrone” era ancora un sogno. Crepas, Recanatini, Fresia, Solbaro, Chenet… erano i “pilastri” della formazione del Cosenza Football Club che il 27 novembre 1927 pareggiò con il risultato di 1-1 con il Dopolavoro di Taranto. Pur non entrando nell’azione del momentaneo vantaggio bruzio siglato da «Recanatini su passaggio di Fresia che fece riposare la palla nell’angolo sinistro» il ragazzo, che partita dopo partita si era guadagnato i gradi di capitano, si distinse per «piedi buoni e intelletto da vendere».

    La fabbrica dove si produceva il tannino come si presenta oggi
    Il crollo delle commesse e la fine del Tanninu

    Proprio al tempo in cui l’operaio Chenet custodiva le chiavi del centrocampo bruzio il tanninificio di Casali realizzò il proprio record di produzione: 5 mila metri cubi al mese! Ma nel 1932 a causa del crollo delle commesse e delle mancate esportazioni negli Stati Uniti d’America dovute alla sostituzione del tannino con altri preparati chimici, la produzione si era già drasticamente ridotta segnando praticamente l’inizio della fine del glorioso opificio bruzio. 

  • Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, la discussa maschera teatrale “del” calabrese, non ha origini calabresi ma nasce e racchiude l’arco della sua esistenza in scena nel secondo periodo della Commedia dell’Arte napoletana, dal 1615 al 1770. Fino a quando, nel ricostruito Teatro San Carlino, furono bandite le commedie non scritte.

    Giangurgolo falso Masaniello di quaggiù

    Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sulla scorta di errate sovrapposizioni interpretative si riscopre Giangurgolo come emblema della tradizione teatrale della nostra regione. E si continua a creare intorno a questo feticcio tutta una letteratura romanzata con la sola regola del “verosimile”, che vorrebbe regalarci un novello Masaniello che si ergeva contro l’arroganza della società spagnoleggiante del ‘700.

    Colmare una mancanza

    La quasi mancanza di tradizioni teatrali di spessore pare si volesse a tutti i costi colmare con identificazioni incontrollate di maschere e personaggi nati inconfutabilmente in altri ambiti. Un vezzo che mortifica le poche, ma vere, tradizioni nate nelle nostre contrade, spesso reticenti e distratte nell’autoanalisi delle proprie origini.

    Anche l’Accademia Cosentina sbaglia

    Persino la nobilissima Accademia Cosentina registra una relazione dello stimato scrittore e storico Coriolano Martirano, secondo la quale la maschera di Giangurgolo sarebbe nata a Reggio Calabria nel primo Settecento. Martirano, riconoscendo una sua interpretazione verosimilmente logica di una sibillina affermazione del Bragaglia, il noto critico teatrale incaricato nel 1960 dall’allora Ente Provinciale del Turismo di Cosenza a redigere un trattato sul Teatro Dialettale Calabrese, individuava la maschera come nata dall’esigenza di contrastare con l’arma della satira la pseudo nobiltà spagnoleggiante. Una nobiltà che, cacciata dalla Sicilia dopo la firma del trattato di Utrech del 1713, dilagava e spadroneggiava pomposamente nella città dello Stretto facendo spagnare la popolazione.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca Civica di Cosenza in piazza XV marzo, sede dell’Accademia Cosentina
    Il verosimile di Martirano su Giangurgolo

    Bello, se fosse vero. Ma non è così. Martirano ammetteva lealmente e con colta onestà intellettuale di utilizzare il metodo del verosimile nei suoi romanzi. Al contrario di altri che nei loro scritti individuano persino il domicilio di Giangurgolo, come il catanzarese Vittorio Sorrenti che nel suo “Giangurgolo – Maschera di Calabria” lo fa nascere addirittura a Catanzaro.

    Il senso giusto dell’affermazione del Bragaglia è che il tipo del calabrese ha dato lo spunto agli autori napoletani dei canovacci del Seicento per creare una maschera grottesca, variante di quella del Capitano sbruffone e vanaglorioso, dal nome composito altrettanto sinistro derivante dai maleauguranti uccelli notturni (gurgolo=gufo, civetta) quindi Gianni, lo Zanni nella Commedia dell’Improvviso, Gian-gurgolo.

    Il parere del glottologo John Trumper

    Come ha specificato nella sua dotta dissertazione etimologica il glottologo John Trumper intervenendo, tra gli altri, nel secondo convegno da me organizzato nel 1998 sul tema “Giangurgolo, maschera del Calabrese nella Commedia dell’Arte”, sottolineando l’evidente scostamento del gergo usato nei canovacci dal vero dialetto calabrese, e catanzarese nello specifico.

    John_Trumper
    Il professor John Bassett Trumper

    Registrazioni e documenti inconfutabili del mondo del Teatro nelle più prestigiose biblioteche di Napoli e di Roma datano la nascita di questa maschera molti decenni prima. Si conoscono persino i nomi dei primi attori napoletani, come Natale Consalvo e Ottavio Sacco, che la vestirono a partire dal 1618.

    La goffaggine del calabrese

    Andrea Perrucci asseriva già nel Seicento: «La diversità delle lingue suole dare gran diletto nelle comedie». L’accento calabrese, denominato catanzese, è utilizzato ancor più per irridere la goffaggine del provinciale inurbato, come appariva appunto il calabrese del tempo, abbagliato dal luccichio delle corti reali della “capitale” Napoli. La stessa tipizzazione dialettale dà infatti carattere ad omologhe maschere, quindi a personaggi, come Don Nicola Pacchesicche, un mimo primitivo, cioè chillo malaureio de lo stodente calavrese, piuttosto che il paglietta calavrese, deriso nel suo provincialismo.

    Giangurgolo capitano in commedia

    La maschera di Giangurgolo, variante di capitano in commedia, ha caratteristiche assolutamente negative, ubriacone, traditore, bugiardo, ladro, spione e infido, e ci sorprenderemmo di tanto masochismo se fosse nata nelle nostre contrade che, al contrario, non ne registrano nessuna traccia, nessuna memoria storica.  Questo già nell’800 il Lumini, e dopo anche Benedetto Croce, lo facevano rilevare inconfutabilmente.

    Ancor più evidenze documentali appaiono negli esaurienti due volumi “Giangurgolo e la Commedia dell’Arte” del calabrese Alfredo Barbina, direttore dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano Contemporaneo in Roma, editi da Rubbettino.  Non meno esauriente è la “Storia del Teatro calabrese” del cosentino Giulio Palange. Le ricerche di questi intellettuali dovrebbero finalmente spronarci alla riscoperta di autori e maschere autoctone che, seppur minori, possono ambire alla rinascita di un vero teatro regionale.

    Gli autori locali in ombra

    Esistono tanti autori calabresi del Seicento come il Rossi da Cosenza, il Pugliese ed il Quintana da Castrovillari e tanti altri la cui opera è espressa in commedie e satire carnascialesche. Tutti meriterebbero una più ampia diffusione letteraria e rappresentativa. Anziché offuscarli col clamore di una maschera assolutamente minore, e assolutamente non calabrese, come quella del povero Giangurgolo.

    Malgrado questo scritto, si imporrebbe di non portarla più agli onori della cronaca con questa o quella tesi circa la sua provenienza. Da operatore teatrale non potrei comunque negarne l’utilizzo che, in quanto maschera, è facoltà e diritto dell’attore indossarla. Ed è facoltà del regista caratterizzarla, augurandoci che non se ne stravolga eccessivamente la tipizzazione originaria.

    Rino Amato

    scrittore e regista teatrale

  • Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Coadiuvato da un’equipe, Ancel Keys, fisiologo americano e inventore della “razione k”, il rancio dei soldati americani durante la Seconda guerra mondiale, nel 1957 studiò la dieta alimentare degli abitanti di Nicotera, paese calabrese lungo la costa del Tirreno. Su un campione di trentacinque famiglie riscontrò che vi era un basso tasso di malattie cardiovascolari dovuto allo stile di vita e alla nutrizione. La ricerca, estesa ad altre regioni, confermò che le popolazioni del Mediterraneo erano accomunate da un’alimentazione che, per gli effetti benefici sulla salute poteva considerarsi una delle migliori del mondo.

    La dieta mediterranea

    La “dieta mediterranea” ebbe il consenso di medici e consumatori, fino a essere riconosciuta dalla stessa Unesco quale patrimonio dell’umanità. Nelle motivazioni si legge che essa rappresenta un modello alimentare rimasto costante nel tempo e nello spazio, un sistema nutrizionale che favorisce l’interazione sociale, rappresenta i costumi delle comunità, promuove il rispetto per il territorio e garantisce la conservazione di antichi mestieri.

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    Ancel Keys a Nicotera

    Per i popoli del Mediterraneo l’atto del mangiare non è solo una questione di sostentamento. È anche un modo per condividere e socializzare, rafforzare rapporti di parentela e vicinato, incoraggiare incontri e ospitalità, creare convivialità e allegria.
    Oggi molti lamentano che la dieta mediterranea, per via del forsennato processo di globalizzazione, stia scomparendo a vantaggio della diffusione di fast food, luoghi amati soprattutto dai giovani, in cui mangiano frettolosamente pietanze a base di grassi animali.

    Si assumono più calorie e se ne bruciano di meno, sono ridotti i consumi di cereali, legumi, verdure e ortaggi e sono aumentati quelli di carne, uova, salumi, formaggi e dolci. Le tradizioni gastronomiche, strumento fondamentale di protezione identitaria e di coesione sociale delle comunità, sono sempre più trascurate. I cibi semplici e poco elaborati, alla base di un sistema dietetico secolare, sono sostituiti da alimenti di cui s’ignora provenienza e storia.

    Cibo e salute in Calabria

    Non abbiamo una documentazione sufficiente per stabilire quanto in passato l’alimentazione incidesse sulla salute dei calabresi. Alcuni sindaci nelle inchieste governative affermavano che la popolazione, nonostante un regime alimentare povero e monotono, cresceva sana e vigorosa. Le cifre sulla salute dei giovani in occasione della visita di leva, però, erano drammatiche: circa la metà era riformata e rivedibile per bassa statura, deficienza di sviluppo toracico e debole costituzione.

    I medici sostenevano che la gente di campagna era consapevole che mangiare sobriamente fosse un bene per la salute ma la loro dieta vegetariana non era una libera scelta, né una conseguenza di considerazioni mediche o religiose. La predominanza di pietanze a base vegetale non era frutto di un comportamento virtuoso dettato dall’esperienza ma conseguenza del bisogno, della costrizione e della miseria. «O ti mangi sa minestra o te jietti da finestra», o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra, «è miegliu nivuru pane ca nivura fame», è meglio pane nero che nera fame, sottolineavano due proverbi calabresi.

    Abitudini e desideri

    Non sempre le abitudini alimentari corrispondono al gusto degli individui: diverso è mangiare un cibo abitualmente, altro è apprezzarlo. I contadini consumavano verdura, legumi, ortaggi e cereali ma desideravano carne, pesce, formaggi e dolci. In alcune zone si diceva «carne de puorcu e cavuli all’uortu, chini nun si mangia si trova muortu, pa salute ci vò puru ‘u salatu e cu mangia erba, pecora diventa», per sottolineare quanto fosse necessaria la carne per una buona alimentazione.

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    La carne era cibo destinato ai più abbienti, i contadini calabresi la mangiavano di rado

    Occupati nei duri lavori campestri, i campagnoli preferivano la carne poiché meglio soddisfaceva il bisogno di proteine e, non a caso, dicevano carne fa carne. La gran parte della popolazione non era soddisfatta di quello che mangiava e immaginava l’esistenza di paesi della cuccagna, luoghi in cui consumare carne e pesce in abbondanza, mondi difficili da raggiungere, al pari di quegli alberi della cuccagna a cui, durante le feste, erano appesi polli, capretti, salumi e formaggi.

    Altro che triade

    Molti studiosi affermano che la dieta dei calabresi, come quella di altri popoli del Mediterraneo, si basava sulla “triade” grano, vino e olio. In realtà, gran parte della popolazione non consumava mai pane di grano, per condire usava soprattutto la sugna e beveva il vino solo durante le feste. I contadini seguivano una dieta poco variegata: a colazione, pranzo e cena utilizzavano sempre gli stessi alimenti, con piccole variazioni durante le solennità.

    Per amor di patria, alcuni autori hanno inventato una gastronomia calabrese che con le sue pietanze originali avrebbe rappresentato un fattore centrale per la costruzione di una solida appartenenza culturale. Genuina, semplice ed essenziale, a parte alcune contaminazioni, la cucina regionale sarebbe rimasta sostanzialmente fedele a degli ingredienti e a un’arte culinaria risalente ai tempi della Magna Grecia.

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    Il peperoncino, oggi simbolo della cucina locale, per millenni non ha fatto parte del menu dei calabresi

    In realtà, gran parte degli alimenti considerati tipici della cucina calabrese non esistevano. Sono stati introdotti lentamente nel corso dei secoli dopo resistenze, scontri e patteggiamenti. Il processo di globalizzazione che oggi sconvolge le diete alimentari si è verificato più volte in passato: non si può pensare ad una gastronomia regionale senza i prodotti giunti da Africa, Medio Oriente, India e Asia. Patate, pomodori, mais, fagioli, zucche, peperoncini e altri cibi introdotti dalle Americhe hanno letteralmente sconvolto l’alimentazione dei calabresi, come era successo secoli prima, con la dominazione araba.

    Nostalgia, l’altra faccia della medaglia

    Nei libri di cucina regionale si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. I sapienti contadini sapevano come utilizzare ciò che la terra offriva e pianificavano le produzioni in modo da avere ciò che era necessario durante l’anno. Molti rimpiangono quel mondo in cui si rispettava la stagionalità delle coltivazioni, i prodotti si acquistavano nei campi vicini, i cibi non erano viziati da conservanti o coloranti, le verdure non trattate con pesticidi, il grano non geneticamente modificato, gli animali non imbottiti di antibiotici, l’acqua, la terra e l’aria non inquinati.

    In realtà nelle terre situate lungo le fertili pianure in estate si respirava un’aria putrida e malsana che costringeva la popolazione a vivere sulle aspre e inospitali montagne. Lì i contadini avevano la necessità di far durare le riserve di cibo il più a lungo possibile per affrontare gli inverni. E se legumi e cereali duravano nel tempo, a febbraio molti altri prodotti germogliavano, ammuffivano, diventavano rancidi e infracidivano. Gli alimenti da conservare erano essiccati, affumicati, salati o posti in luoghi elevati o sotterranei, con risultati spesso deludenti, mentre quelli immersi in olio, aceto, grasso o miele producevano muffe e perdevano le qualità nutritive.

    Molti pensano ingenuamente che i contadini, poco avvezzi alle novità e utilizzando sempre gli alimenti prodotti nei campi, abbiano creato quella che noi chiamiamo cucina tradizionale. In realtà, gran parte dei piatti proposti nei recenti trattati di gastronomia regionale non esisteva e le fonti storiche che dovrebbero dimostrarne la presenza affermano esattamente il contrario. La “cucina calabrese” è un concetto recente. Affermatesi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, le cucine regionali, figlie della crescita e del benessere, si sono sviluppate per contrastare l’egemonia dell’industria agro alimentare.

    Resistenza, ma non solo

    La scoperta e la difesa dei cibi perduti, accompagnate spesso da ricordi nostalgici e ricerche storiche discutibili, non sono tuttavia solo un atto di resistenza contro il dispotismo del mercato globale. Ricettari di cucina, guide gastronomiche e sagre paesane sono aumentati anche e soprattutto per conquistare uno spazio nel mercato locale e, allo stesso tempo, attrarre turisti con la promessa di una cucina sana e dimenticata.

    I pochi piatti della povera dieta dei contadini col passare del tempo si sono moltiplicati come il miracolo dei pesci e la Calabria è celebrata come terra dalle grandi tradizioni culinarie. I piatti del passato vengono abilmente confusi con quelli inventati dai nuovi ristoratori. E così nella regione sono considerati piatti tipici codine di aragosta alla crema di cedro, cernia con funghi e patate, filetti di pesce castagna al vino, orate al cartoccio con olive, pesce spada all’acqua pazza, razza in tegame e, come si legge in un recente libro a cura di Slow Food, frittelle di lattuga di mare e lagane con i murici.

    Aragosta o stoccafisso?

    Leggendo alcuni libri sulla gastronomia calabrese si rimane stupiti dalla ricchezza e dalla varietà delle ricette. In un volume dedicato alla cucina di mare, tra antipasti, focacce, zuppe, fritture e grigliate si presentano ben 226 piatti, tra cui aragosta alla griglia, cernia al forno con olive e capperi, murena alla brace, ricciola con pomodoro e capperi, orata al cartoccio con patate e olive, sarago in crosta di sale e gamberoni.

    Nei ricettari di cucina si legge che si preparavano sarde, alici, sardelle, anguille, lampughe, palamiti, pettini, dentici, mormore, saraghi, orate, sauri, occhiate, spatole, spigole, triglie, cernie, seppie, calamari, polpi, totani, tonni, pescatrici, razze e altre specie di pesci pregiati che i contadini calabresi non avevano mai visto e di cui non conoscevano il nome.
    Il pesce fresco era una rarità e, persino nei pochi villaggi delle coste, gli abitanti mangiavano “baccalame”, pesci secchi, affumicati e salati provenienti dall’estero. Nella stessa Nicotera, come si evince dall’inchiesta condotta da Keys, si faceva largo uso di stoccafisso e baccalà, cucinati fritti, lessi o cotti in padella con cipolla, peperoncino e olive.

  • I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    «Alza gli occhi verso il mare, che s’è fatto tenero. Come il cielo, come il Vesuvio Grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente il resto di niente».
    È il passaggio finale di Il resto di niente, romanzo in cui Nicola Striano racconta la vita di Eleonora Fonseca Pimentel e la parabola tragica della Repubblica Napoletana.
    È il 20 agosto 1799: la nobildonna italo-portoghese sta per salire il patibolo a piazza del Mercato assieme ad altri sette condannati. Per lei “il resto di niente” è solo un modo di dire, perché nel giro di un’ora riceverà degna sepoltura.

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    Un murale a Napoli dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel

    Per Nicola Fiani, ex ufficiale pugliese dell’esercito borbonico convertitosi alla causa rivoluzionaria, l’espressione è da intendersi alla lettera: di lui non resterà davvero il resto di niente. A differenza della pasionaria della rivoluzione, Fiani non ha la cittadinanza napoletana, quindi non può essere seppellito subito. Occorre aspettare che i suoi parenti reclamino il corpo, dopodiché finirà in una fossa comune, se non si trova chi è disposto a seppellirlo a sue spese.
    Il popolo radunato sotto le forche risolve il problema a modo suo: i più facinorosi tirano giù il corpo, lo spogliano, lo fanno a pezzi e, secondo alcune fonti credibili, ne espiantano il fegato che piastrano e divorano.

    L’orrore e la pietà

    Questa vicenda macabra ha dei testimoni d’eccezione: il medico Diomede Marinelli, che la ricostruisce nei suoi diari, e l’avvocato Carlo De Nicola, tra l’altro un fedelissimo dei Borbone, che hanno riconquistato Napoli da poco più di due mesi, grazie all’Armata Cristiana e Reale del cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, poi rinominata (e così passata alla storia) Esercito della Santa Fede.

    La testimonianza definitiva su questa vicenda, è tuttavia contenuta in una relazione della Confraternita dei Bianchi, un gruppo religioso incaricato di confortare i condannati a morte: loro sì, avevano davvero visto e sentito tutto, perché erano lì. E ne scrissero in segno di protesta. Già, una cosa è la giustizia, anche sommaria, un’altra le efferatezze, compiute dai lazzari (cioè i popolani) in combutta coi “calabresi”.

    Un esercito made in Calabria

    Ma chi sono i “calabresi”? Senz’altro gli abitanti della Calabria. Ma nel gergo dell’epoca “calabrese” era anche sinonimo di “provinciale”, cioè di non napoletano, perché il Regno di Napoli funzionava a due velocità: in “serie A” Napoli e i suoi abitanti, in “serie B” (esclusa la Sicilia che era uno Stato a parte sebbene sempre sotto corona borbonica) tutto il resto. Infine, calabresi erano chiamati anche i seguaci del cardinale Fabrizio Ruffo, che iniziò la riconquista del Regno a fine gennaio 1799, circa un mese dopo che Ferdinando IV di Borbone e la regina Carolina d’Asburgo erano fuggiti dalla capitale che stava per essere conquistata dai francesi e per diventare repubblica.

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    Un ritratto del cardinale Fabrizio Ruffo

    Nato a San Lucido, sul Tirreno cosentino, Fabrizio Ruffo era discendente dei Ruffo di Bagnara Calabra, i più potenti feudatari calabresi dell’epoca.
    Trasferitosi a Roma in giovanissima età fece una carriera eccezionale nell’amministrazione papale, grazie al blasone, alle parentele (in particolare, coi Firrao di Luzzi) e all’amicizia con Giovanni Angelo Braschi, che sarebbe diventato papa col nome di Pio VI.
    Politico fine e lungimirante, Ruffo introdusse importanti riforme nello Stato Pontificio, che tuttavia gli attirarono antipatie e rancori. Nominato cardinale e rientrato a Napoli, il nobile calabrese entrò nell’entourage di Ferdinando IV, che seguì nella fuga a Palermo.

    Proprio su incarico del re, il cardinale Ruffo sbarcò in Calabria e iniziò a reclutare miliziani nei feudi di famiglia e attraverso le parrocchie. Era lo zoccolo duro della sua armata, che avrebbe iniziato la sua terribile risalita verso la capitale mettendo a sacco le città finite in mano ai rivoluzionari, seminando disordine e terrore ovunque.
    Ma il peggio doveva ancora arrivare.

    Orrori e “lacreme napuletane”

    Abbandonata dalle truppe francesi, che lasciano solo un debole presidio, Napoli cadde il 13 giugno del 1799, dopo una giornata di combattimenti feroci. Anziché arrendersi, un drappello di patrioti giacobini asserragliato nel fortino di Vigliena, preferì lasciarsi esplodere.
    Tra le rovine del forte giacevano i corpi di tre donne, che indossavano l’uniforme della guardia civica. Inferociti dai combattimenti violenti, gli assedianti “calabresi”, a cui si erano uniti i lazzari, spogliarono le tre poverette e ne violentarono i cadaveri.
    Per la capitale era l’inizio di mesi di orrori e atrocità.

    Le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno. Così i saccheggi e le violenze più estreme. I testimoni dell’epoca raccontano di strade piene di cadaveri mutilati e fatti a pezzi. In città era esplosa la “caccia al giacobino”. E per passare da rivoluzionari, in quella terribile follia collettiva, bastava essere benvestiti e non popolani. In pratica, erano al riparo solo i nobili fedeli alla dinastia.

    L’escalation

    Tutte queste vicende sono raccontate dallo storico cosentino Luca Addante nel suo I cannibali dei Borbone, uscito da poco per Laterza. Addante, professore di Storia moderna all’Università di Torino, è un profondo conoscitore delle vicende della Repubblica Napoletana.
    Non a caso, circa quindici anni fa fu protagonista di uno scoop storico non indifferente: il ritrovamento, a Parigi, delle ossa del rivoluzionario cosentino Francesco Saverio Salfi.

    Torniamo alla Napoli della seconda, terribile metà del 1799, dove, di violenza in violenza si era arrivati all’indicibile.
    La situazione era sfuggita di mano a Ruffo, che pure aveva tentato di mantenere l’ordine e si era appellato al re e al primo ministro John Acton. Ma invano, perché le efferatezze erano all’ordine del giorno: teste mozzate usate come palloni da calcio, corpi fatti a pezzi e bruciati. In tutto questo i cannibali non potevano mancare.

    Il festino cannibalico

    Le fonti utilizzate da Addante (tra cui i citati Marinelli e De Nicola) concordano nel riportare almeno cinque vittime, massacrate e cannibalizzate. Due di loro erano patrioti, rimasti anonimi, fatti a pezzi, in parte “piastrati” (il “solito” fegato e il cuore) e quindi divorati. Tre, paradossalmente ma non troppo, erano ufficiali borbonici, accusati di essere spie dei “jacubbini”. Ma tutto lascia pensare che gli episodi con cannibali come protagonisti fossero di più.

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    La rua Calana a Napoli

    Lo testimonia una macabra galleria di dipinti allestiti nella rua Catalana: nature “morte” che ritraevano piatti contenenti membra umane. La misura era colma, anche per Ruffo, che ordinò al capo della polizia di intervenire e sequestrare le “opere”.
    Ma questi orrori non capitarono solo a Napoli. I cronisti riferiscono due episodi.
    Il primo avvenne a Teramo, dove fu squartato e vittima dei cannibali un soldato francese (e parrebbe che i sanfedisti non si fermarono al fegato), il secondo a Montesano sulla Marcellana, nel Salento, dove la folla sbranò Nicola Cesari, il presidente della municipalità.

    Lo spuntino del brigante Spaccapitta

    Secondo Addante queste forme di cannibalismo sono un residuo atavico della cultura popolare, che riemerge nelle grandi crisi, quando la violenza esplode incontrollata.
    A sostegno di questa tesi, lo studioso espone nel suo libro un’enorme casistica, che va dal XIV secolo alle soglie dell’età contemporanea.

    Anche il brigantaggio calabrese ebbe i suoi bravi cannibali. Fu il caso di Spaccapitta, un bandito di Acri che lottava contro i francesi durante il decennio napoleonico. La sua attitudine era meno feroce e più gourmet, à la Hannibal Lecter: bruciava i cadaveri dei nemici e ne faceva colare il grasso su fette di pane, che assaporava annaffiandole con un buon vino locale.
    Ma da questa vicenda Ruffo si era chiamato fuori. Scioccato dagli orrori del ’99, il cardinale aveva rifiutato l’invito del re a ricostituire l’Armata. «Certe follie si fanno una volta sola», disse. Come dargli torto?

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

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    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

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    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

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    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

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    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».