Siamo andati sul campo. Raccontando i territori. Un termine che per noi significa la gente in carne ed ossa, le storie al limite. Ma anche i luoghi, quello che rappresentano, l’evoluzione e l’anima delle città. E dei paesi. Dalla frana di Cavallerizzo fino allo spirito di un capoluogo come Catanzaro. Senza dimenticare l’umanità e la sofferenza di chi vive in una tendopoli permanente. Sperando in una vita migliore.
Gli articoli che vi consigliamo di leggere. Clicca sul titolo:
Philip James Elmhirst, marinaio scelto della marina inglese, fatto prigioniero nel 1809 in seguito a un naufragio, nel suo diario annotava che non riusciva a comprendere perché i calabresi in prossimità del Natale allestivano ciò che chiamavano «presepe»: «All’avvicinarsi del Natale, in ogni chiesa si usa costruire una rappresentazione della nascita di Cristo chiamata presepe, con una piattaforma di tavole larga dai dodici ai sedici piedi quadrati, poggiata su cavalletti, sulla quale si mette una certa quantità di argilla per modellare montagne e altri elementi che ricordino Betlemme e la regione circostante. Il tutto viene coperto di erba, muschio e piante sempreverdi. Dappertutto si mettono casette di quelle che i bambini usano per i loro giochi. Attorno alla stalla e alla mangiatoia vengono disposte statuine di santi, pastori, buoi e pecore di terracotta».
A stupirlo era soprattutto quanto accadeva il 24 e il 25 dicembre. «Alla vigilia di Natale si depositano nella stalla le statuine della Vergine Maria e del bambino fatte di cera bianca e riccamente vestite di mussola e oro. Il giorno di Natale, durante la cerimonia religiosa, un sacerdote prende l’immagine del bambino e la porta in giro per la chiesa. I fedeli cantano inni di giubilo, con l’accompagnamento della musica sacra. La cerimonia si svolge nella massima devozione, anche se appare più ridicola che solenne, e più frivola che suggestiva».
I presepi di Cosenza
Qualche anno dopo Emily Lowe scriveva sui presepi di Cosenza: «Le altre chiese erano piene di gente in adorazione dei Magi, né c’è da meravigliarsi perché quei sovrani orientali erano magnificamente vestiti e sistemati. Nella zona più in vista dell’edificio sacro erano state innalzate colline che imitavano quelle naturali, coperte di alberi e attraversate da strade, e sulle quali si arrampicavano piccole figure di uomini, donne e bambini, tutti diretti in un punto dove c’erano vacche al pascolo. Lì, un bambino stava fra le braccia di una giovane donna piegata su una mangiatoia e incoronata da un diadema in miniatura, mentre riceveva gli omaggi di tre ricchi sovrani seguiti da servitori carichi di doni».
L’inglese ne era entusiasta, tanto quanto i cosentini. «L’effetto era tanto curioso quanto bello; i presepi, come sono chiamati questi dolci fatti dai preti per la vigilia dell’Epifania, erano uno più gustoso dell’altro. Uno era interamente composto di argille cristallizzate di vari colori e sormontato da un castello di fronte al quale zampillava una fontana circondata di fiori. Sullo sfondo si vedeva un’aia popolata da capre, galline e piccole anatre, mentre lungo la strada che scendeva verso la grotta della natività c’era una trattoria dove potevano rifocillarsi i pellegrini, fra cui compariva il re di Spagna in speroni e gorgiera assieme a graziose signore in vesti dorate. Questo complesso scenario, illuminato di notte da lampade di vari colori, mandava in visibilio il popolo».
Notti magiche
La tradizione del presepe è rimasta viva nella popolazione, ma altre ritualità e credenze non ci sono più. In passato la notte di Natale era considerata magica: gli animali parlavano, gli alberi davano frutti e dalle fonti scorreva miele. In alcuni paesi si credeva che l’acqua attinta a mezzanotte era efficace per arrecare ricchezza, felicità e salute. Le donne che andavano a prendere l’acqua muta in quell’ora misteriosa non dovevano riconoscersi e si coprivano con un panno nero camminando sole e in silenzio.
Molti lamentano che le tradizioni del Natale si sono perse e insieme a loro l’incanto che caratterizzava la festività. Affermano che ormai è diventata un evento consumistico e lanciano anatemi contro regali, sprechi e abbondanza dei pranzi natalizi. Hanno nostalgia del tempo andato, ma le feste cambiavano anche in passato. Il presepe, ad esempio, è una tradizione legata a san Francesco d’Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione della Natività dopo aver ottenuto l’autorizzazione da papa Onorio III.
È sbagliato confinare le tradizioni del mondo popolare nel campo di una storia immobile, considerarle come un semplice terreno di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura tradizionale si riproduca di generazione in generazione senza un disegno, che si acquisti senza sforzo sin dalla nascita. Spesso si pensa alla memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.
La Natività di Giotto proiettata sulla facciata della basilica di Assisi
Memoria e oblio
Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto: memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.
È opinione diffusa che nelle società tradizionali il ricordo fosse legato al mito e nella società moderna, invece, alla storia; che la memoria del passato fosse statica e quella dei giorni nostri sia dinamica. Si dà per scontato che nelle società premoderne la cultura fosse condivisa e immutabile e che nelle società moderne, invece, gli individui siano costretti a misurarsi con una realtà caratterizzata dall’avvicendarsi frenetico di eventi.
Le società tradizionali, al contrario, erano tutt’altro che semplici e unite. Fra gli individui esistevano diversità e ricchezza culturale. Nei paesi esisteva una pluralità di memorie pari alla pluralità dei ceti sociali che le avevano generate: ogni gruppo elaborava una propria immagine, aveva necessità di trovare continue conferme alla propria identità, operava una selezione di elementi per enfatizzare la propria diversità rispetto agli altri.
Tradizioni e miti cambiano
Le tradizioni popolari si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi storici credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro. La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente.
Le credenze si tramandano di generazione. Non sono una ripetizione statica del passato, ma un’interpretazione in cui è prevista la variazione. Adeguandosi alle diverse strutture economiche e sociali, assumono forme e contenuti in relazione alle ansie e ai bisogni ai quali gli uomini devono far fronte. Il carattere di un popolo è plasmato dalla tradizione che si è formata attraverso le passate generazioni e trasmessa alle nuove, ma le antiche stratificazioni tendono ad essere modificate o sostituite.
Le società sono sottoposte a nuovi condizionamenti culturali e materiali. Gli uomini creano un’immagine di sé e in essa si riflettono, ma lo fanno anche e soprattutto in relazione ai bisogni concreti. Quando i miti non rappresentano più un elemento vitale per la comunità cessano di esistere; alcuni si modificano, perdono di senso e riaffiorano in altri miti.
«Personaggio importante, aspettato e desideratissimo, quasi all’improvviso sbuca fuori dal suo nascondiglio, dove pel resto dell’anno si cela alla vista altrui». Così, nel 1886, il pratese Apollo Lumini scriveva dello zampognaro in uno studio sul Natale nei canti popolari calabresi. Nel romantico Ottocento questa figura di musico-girovago ha stimolato la penna di numerosi storici delle tradizioni popolari. Il collegamento col Natale è immediato: in molte culture è proprio la zampogna ad annunciare l’arrivo della festa per eccellenza, le cui note cominciano a udirsi per le strade dei paesi già dai primi giorni di dicembre. Non si può parlare però di una “economia della zampogna calabrese”. Spesso gli zampognari erano semplicemente pastori-contadini che nel periodo natalizio sfruttavano le proprie abilità musicali per rimpinguare i propri guadagni.
Una sequenza de “Dal tronco al suono. La zampogna di Andrea Pisilli”, documentario girato e montato da Gianfranco Donadio e Agostino Conforti e prodotto dal Centro Demoantropologico, in collaborazione col Laboratorio multimediale di Sociologia e Scienza politica dell’Unical
Accattoni e migranti
Con la celebre “zampogna a paro” calabrese sotto braccio questi pastori si spostavano dai paesi verso le grandi città. Tutto per guadagnare pochi spiccioli, in alcuni casi come accattoni ai bordi delle strade ad annunciare e allietare le festività imminenti. I “pifferari” calabresi partivano alla volta dell’allora capitale dello Stato Pontificio per far musica durante la novena di Natale. Le tante edicole votive incastonate nei muri di Roma erano i luoghi privilegiati verso cui si rivolgevano questi “concertini improvvisati”. Altre volte erano le famiglie più in vista a chiamare i pifferari a suonare nel proprio palazzo in ciascuno dei nove giorni che precedevano il Natale.
Zampognari del Regno di Napoli che a Roma suonano per la Novena di Natale. Stampa di Pinelli del 1815
Dai paesi più remoti dell’Aspromonte e del Pollino gli zampognari raggiungevano la Toscana, Napoli o la Puglia. I più ardimentosi si spingevano fino a Parigi. Con i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas.
Intorno al 1853 il fotografo André Adolphe-Eugène Disdéri (1819-1889) immortalò a Parigi – quasi fossero esemplari di una specie rara – due “nativi di Calabria” abbigliati con mantelli e cappelli e muniti, manco a dirlo, uno di zampogna, l’altro di ciaramella. La loro immagine è oggi patrimonio del Getty Museum, vivida testimonianza dell’epoca degli imperi, delle razze e degli “altri” messi in mostra alla stregua di animali nei recinti e nelle gabbie delle grandi Esposizioni universali.
Arrivano “i calabresi”
Nella Toscana ottocentesca “calabresi” era l’appellativo – pronunciato in tono evidentemente dispregiativo – che accomunava tutti i suonatori di zampogna. Non importava se «questi infelici in cerca di pane» provenissero da Abruzzo, Campania, Lucania, Puglia: erano tutti “Calabresi”! Il già citato Lumini ci lascia una testimonianza importantissima su quanto fossero forti e radicati i pregiudizi sugli zampognari, migranti dal Sud in cerca di fortuna: «I ragazzi accerchiano i calabresi (così li chiamano in Toscana, mettendo tutte in un mazzo le varie nazionalità meridionali) e li salutano con urli, fischi, e spesso, nella loro crudeltà fanciullesca, aizzata dall’ignoranza e malvagità dei grandi, usano contro quelli infelici, venuti di lontani paesi, trascinandosi dietro moglie e figlioli, laceri ed affamati, argomenti più materiali e non sempre inoffensivi».
Il motivo di tali invettive è presto detto: in Toscana troneggiava incontrastata la credenza popolare che gli zampognari portassero il maltempo. Gli si gridava dietro con tono sprezzante «e’ pioè, e’ pioè, e’ fanno pioère». Spesso, senza pietà alcuna, le guardie municipali li allontanavano dai paesi. Viene da chiedersi se, ed eventualmente quanto, la presenza degli zampognari calabresi abbia influito sul consolidarsi in molte regioni di una mentalità che porta a guardare al calabrese con sospetto, con stereotipi che resistono al comune sentire. Quel che è certo è che nelle stampe o nei resoconti di viaggio ottocenteschi il calabrese era soprattutto la sua zampogna.
Zampogne e rampogne
Suonatori di zampogna e di ciaramella a Samo (RC) nel 1924, fotografati da Gerhard Rohlfs
Portavano con sé la ceramella e la zampogna i due contadini che Gerhard Rohlfs, studioso tedesco innamorato delle tradizioni e dei dialetti della Calabria, fotografò nel 1924 a Samo, in provincia di Reggio Calabria nel 1924. Ma non c’è paternalismo né malizia. Lo studioso era consapevole che nella propria terra d’origine gli zampognari erano portatori di festa e allegria. Rappresentavano una presenza fissa nelle innumerevoli feste patronali, spesso in associazione con altri suonatori di strumenti tradizionali, su tutti tamburi e tamburelli. Un acquerello realizzato nel 1811 da Luigi Del Giudice e conservato al museo San Martino di Napoli rievoca un momento di festa a Serra San Bruno in Calabria Ultra (oggi in provincia di Vibo Valentia). E, ovviamente, non può mancare lo zampognaro ad accompagnare le danze popolari in onore di S. Bruno.
Festa di S. Bruno a Serra, in Calabria Ultra. L. Del Giudice, 1811. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino
Zampognari all’Opera
Anche il compositore e librettista Ruggero Leoncavallo li inserisce ne “I Pagliacci”, opera ispirata a un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo nel 1865. La stessa opera è ambientata a Montalto nei giorni della festa dell’Assunta, che si teneva e si tiene tuttora a ferragosto nella chiesa della Madonna della Serra, e Leoncavallo si mantenne fedele, per le scene e per i costumi, alle ambientazioni e al vestiario tipico del luogo: «Gli zampognari arrivano dalla sinistra in abito da festa, con nastri dai colori vivaci e fiori ai cappelli acuminati».
Il compositore folignate Vito Fedeli incontrò un gruppo di ciarammeddrari o zampognari che dai villaggi dell’Aspromonte «eran discesi in città per fare la Novena del Bambino». Nel suo saggio datato 1912 Fedeli nota come i musici si dividevano la città di Reggio in varie zone «per non farsi tra loro una nociva concorrenza» e forse «per rispetto alle tradizioni, o per spirito di carità verso i ciaramellari, o per sentimento religioso, o per passatempo dei fanciulli» tutti spalancavano la porta della propria abitazione.
Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi ‘900
Amore e odio
Era un rito atteso che nell’euforia collettiva si protraeva dal 16 al 24 dicembre. Ma non era così per tutti. Sul suo giornale politico-letterario Il Bruzio, Vincenzo Padula scriveva nel 1846 che «le zampogne e le cornamuse sono la sua disperazione» e che «il Bruzio inseguito dalla cornamusa scappò di casa». Dalla zampogna alla rampogna: «Il ministro Sella avrebbe fatto una bella cosa ed un grosso guadagno se avesse imposto una tassa ai panettieri, ai bottegai, ai pastaiuoli di Cosenza, ed all’infinita turba dei gonzi, che posseggono il barbaro gusto di farsi suonare la cornamusa sera e mattina avanti l’uscio di casa con grave disturbo dei vicini, che hanno orecchio delicato e sonno leggero».
Lo zampognaro tra altre figure con costumi calabresi in una stampa del 1864
Sandro e Giuseppe Sottile, zampognari di Cuti (Rogliano)
Statuine di zampognari nel presepe
Un pastore calabrese con la ciaramella. Stampa francese del XIX secolo.
Zampogna calabrese tra altri tipi di cornamusa, dal volume di Alfred J. Hipkins ‘Musical Instruments, Historic, Rare and Unique’ del 1888
I calabresi sono orgogliosi che in questi giorni le patate della Sila vengano pubblicizzate nelle grandi reti televisive. Alcuni esperti di cucina ritengono che gli abitanti della regione siano talmente attaccati alle proprie abitudini da aver mantenuto intatte per secoli le tradizioni culinarie. In un recente manuale sulla gastronomia regionale si legge che le pietanze, composte da pochi prodotti semplici, nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste sempre le stesse: in Calabria tutto quel che è antico è attuale. In realtà molti alimenti alla base della cucina calabrese fanno parte di una storia recente, frutto di un lento e difficile rapporto di assimilazione.
Le patate della Sila durante il tempo della raccolta
Un pericolo per corpo e anima
Resistenze e cautele vi furono nei confronti dei prodotti portati dagli spagnoli dopo la scoperta delle Americhe. Chierici come José de Acosta sostenevano che le piante introdotte dalle Indie in Spagna fossero poche e riuscissero male, mentre quelle che dalla Spagna erano state esportate in India fossero numerose e riuscissero bene. Consumati da popolazioni selvagge che non conoscevano la parola di Dio, quei cibi erano pericolosi per corpo e anima: soprattutto il peperoncinoa cornetto, per la natura «calda, fumosa e penetrativa», stimolava la sensualidad, pregiudicando la moralità dei giovani.
Cibo? No, piante ornamentali
I botanici erano ostili alle piante straniere perché pensavano che un alimento, salubre in alcuni climi e insalubre in altri, potesse provocare gravi malattie come la lebbra. Patate, mais, topinambur, pomodori e peperoncini erano buoni solo come piante ornamentali e, nei trattati sull’arte dell’ortolano, non erano presi neanche in considerazione. Gli studiosi, in realtà, conoscevano poco le nuove piante, di alcune ignoravano la provenienza e facevano una gran confusione persino sui nomi. Nel 1792, Gilli e Xuarez notavano che la descrizione del peperoncino era così scarsa e imprecisa che probabilmente molti, tra cui lo stesso Linneo, non avessero mai visto la pianta e «per mera notizia data da altrui l’avevano descritta».
La mela insana
Alcuni osservavano che i «pomi d’oro», una volta maturi, erano di un rosso intenso e che con tale nome erano conosciuti arance, cedri, limoni e altri agrumi che per il colore giallo somigliavano all’oro. Il pomodoro era chiamato anche «mela insana» e «mela aurea» e, in alcune zone, come ci informa un cuoco maceratese, «melanzana». Tozzetti, autore di un libro sulla storia delle piante forestiere introdotte nell’agricoltura, confermava che gli storici avevano pareri diversi sulla loro provenienza. Taluni, ad esempio, sostenevano che i peperoni fossero presenti già nell’Impero romano mentre altri affermavano che erano stati portati dalle Indie orientali in America e da qui introdotti in Europa.
Patata, il nemico numero uno
Tra i prodotti “americani” fu la patata a incontrare maggiore ostilità, probabilmente perché tra le molte specie esistenti se ne annoveravano alcune velenose. Nel 1767, Zanon lamentava che, quantunque da decenni in molte nazioni europee se ne facesse largo uso, in Italia i «pomi di terra» erano noti solo ai botanici. Fra gli agricoltori era diffusa la convinzione che le patate avvelenassero i terreni, facessero deperire le piante, contribuissero a far crollare il prezzo dei cereali e provocassero seri danni alla salute di uomini e animali.
Una inconcepibile stravaganza
Le patate più nocive erano quelle coltivate nei paesi caldi e nei trattati sui veleni si accenna a persone morte dopo averne mangiato un piatto. I pomi di terra erano diabolici perché cagionavano malattie gravi come la «lepra» e i proprietari si opponevano con «indicibile ostinazione» alla loro produzione. Uno studioso scriveva sconsolato che indifferenza, ostinatezza e ignoranza di molti possidenti facevano sì che la coltivazione del tubero fosse vista come una prova di «inconcepibile stravaganza e come un delirio dello spirito umano» e, dovunque, le patate erano «riguardate come un prodotto di giardinaggio».
Un cibo per ricchi
In molti, tuttavia, cominciarono ad apprezzare le qualità dei pomi di terra indicandoli come un dono del cielo: erano facili da coltivare, avevano un sapore squisito e si preparavano facilmente lessandoli in acqua o cuocendoli nella brace. A chi sosteneva che provocassero pericolose malattie, gli studiosi facevano notare che in diversi paesi europei le popolazioni che si nutrivano di tale tubero crescevano sane e robuste.
Sembrava ovvio che mangiarle ogni giorno le rendesse indigeste, ma ciò sarebbe accaduto con l’uso di qualsiasi altro alimento. Era falsa anche la diceria secondo cui le patate, cibo buono per i maiali, fossero utilizzate dai governi per sfamare i poveri. In realtà erano presenti sulle tavole dei ricchi e i cuochi le preparavano in vari modi: cotte sotto la cenere o in tegame con butirro fresco; stufate con formaggio, cipolla, aceto ed erbe odorose; bollite, pelate e condite con olio e aceto; tagliate a fette e fritte con il lardo nell’olio o nello strutto.
La Calabria scopre la patata
Alla fine del Settecento le patate in Calabria erano coltivate solo da alcuni curiosi. Galanti scriveva che a Cosenza erano sconosciute, a Castrovillari se ne ignorava persino il nome mentre nel Crotonese alcuni possidenti avevano cominciato a piantarle, ma non fu possibile dar loro «voga» per una certa avversione degli abitanti. Swinburne racconta che un giorno cucinò patate in vari modi per i frati minimi del convento di Monteleone, ma questi, dopo il primo boccone, le rifiutarono ritenendole insipide e disgustose e ne mangiarono un po’ ricoperte con burro misto a una salsa di aglio e pepe della Giamaica. Alcuni studiosi sostenevano che uno dei motivi della resistenza dei campagnoli nei confronti delle patate fosse legato alla convinzione che i governanti, «per difetto di migliore alimento», volessero imporre quei tuberi che si davano ai maiali.
La tijeddra di Napoleone
Furono i funzionari del governo napoleonico a incoraggiare la coltivazione delle patate in Sila. I soldati avevano contatti con gli abitanti e finivano per influenzarne i costumi. Gli ufficiali partecipavano alle feste organizzate dalle ricche famiglie cosentine e il valzer rimpiazzò i balli locali; nelle locande cittadine, gli osti preparavano vivande con ricette francesi e probabilmente la pasta e patate ara tijeddra, ancora oggi un piatto amato dai cosentini, fu introdotto dai soldati napoleonici.
Napoleone nel dipinto di Jacques Louis David
Un premio ai coltivatori
Nel 1812 la Società economica della Calabria Citeriore stabilì un premio per chi le seminava e Cosentini, grande proprietario terriero, le coltivò per circa tre anni con eccellenti risultati. Si trattava soprattutto di patate bianche dai bulbi tondeggianti, poiché quelle gialle, rosse e lunghe, anche se più «saporose», non vegetavano dappertutto e rendevano meno. In un opuscolo Silvagni incoraggiava i coloni a seguire l’esempio di Cosentini e consigliava di cuocerle mettendole sotto la brace, al forno o in acqua bollente, toglierle sino a che cedevano alla pressione di un dito e poi raffreddarle, levare la buccia, tagliarle a fette e insaporire con olio, sale e burro.
Il commercio della patata
Nel tempo, proprietari terrieri e contadini mutarono il proprio atteggiamento e gli studiosi notarono che le patate erano apprezzate soprattutto dai giovani, che le preferivano a fagioli e mais. Nel 1845, Grimaldi scriveva che in Calabria la coltivazione delle patate si andava «giornalmente estendendo» e che erano ormai nella maggior parte dei paesi si seminavano in maniera costante. Tre anni dopo, Raso annotava che da intingolo erano diventate oggetto di proficuo commercio e, cucinate in vari modi, erano sempre presenti sulle tavole dei contadini.
Le patate della Sila sfondano
Qualche anno dopo Pugliese scriveva che le patate, prima aborrite perché ritenute velenose e indigeste, si mangiavano con piacere ed erano particolarmente ricercate dai contadini che le acquistavano dai mulattieri di Bocchigliero e San Giovanni in Fiore dove erano coltivate in maniera intensiva. Nella seconda metà dell’Ottocento, le patate erano seminate non solo nei territori di montagna ma anche in quelli collinari e pianeggianti. Pur se prodotte in grandi quantità, non coprivano comunque il consumo interno e gli stessi agricoltori, spesso erano costretti ad acquistarle poiché facilmente deperibili. Come i cereali, si conservavano in grandi cisterne di muratura costruite in aperta campagna, coperte da strati di paglia e felci contro l’umidità, ma i risultati non erano incoraggianti.
Oggi è il giorno di Santa Lucia, il giorno del calendario che precede il trionfo dell’avvento, la luce del Natale cristiano, il giorno del sole che per la fede non conosce tramonto. È la giornata che coincide nella mappa del cielo col giorno del solstizio d’inverno. Dal buio alla luce. Santa Lucia segna infatti il passaggio tra la notte più lunga dell’anno e il giorno che per la prima volta accorcia le tenebre della notte invernale. È la giornata che vede mescolarsi la commemorazione cristiana della santa protettrice della vista e della luce con simboli e liturgie precristiane e ancestrali molto più antiche.
Demetra e Kore
La festa cristiana coincide infatti sincretisticamente con il mito pagano della vittoria della luce sulle tenebre. Demetra ritrova la figlia Kore sequestrata dalle tenebre e riemersa alla luce. Attraverso la notte più lunga e oscura dell’anno, la Dea Madre rigenera e riporta la vita dalla morte verso la Luce del Sole nuovo, in grado di riconfermare benessere, ricchezza e abbondanza per tutto l’anno a venire, nutrendo i semi delle piante primaverili nel suo grembo invernale.
A livello astrologico, la rappresentazione celeste della Grande Madre, e delle divinità femminili Demetra, Persefone, Artemide e Cerere (e Santa Lucia) si ritrova nella costellazione della Vergine (Virgo), dalla natura astrale femminile e associata alla fertilità e alla purezza. La stella più luminosa della costellazione della Vergine si chiama Spica, ovvero la “spiga”, la cui levata nel cielo era tradizionalmente connessa nel mondo contadino al periodo dei raccolti e della mietitura del frumento e degli altri cereali.
Il giorno della cuccìa
Questo in Calabria, e soprattutto nella provincia di Cosenza, è il giorno della cuccìa(dal greco koukkìa). È una preparazione alimentare tradizionale che ebbe origine nella Grecia antica, dove assumeva in origine i connotati di un cibo rituale per la commemorazione dei defunti. Da qui la cuccìa si diffuse nei paesi dell’Europa orientale e nelle regioni dell’Italia meridionale, dove venne associata alla ritualità della celebrazione della santa della luce, venerata anche dalla chiesa ortodossa. Nella tradizione popolare calabrese la cuccìa diviene quindi l’alimento rituale che assurge a simbolo gastronomico dell’assimilazione cristiana dei miti antichi e del mondo greco-bizantino.
Paese che vai, cuccìa che trovi
In alcuni paesi della Sila Greca, la cuccìa è un dolce realizzato con ingredienti di antica tradizione: grano, noci, miele di fichi (o di mosto) e, a piacere, cannella. A Mendicino, piccolo centro di origine medievale a pochi chilometri da Cosenza, la sua preparazione e consumazione sono parte integrante delle celebrazioni in onore di Santa Lucia, a cui la comunità è molto devota.
Cuccìa in preparazione a Mendicino
La cuccìa mendicinese è composta da 13 ingredienti (come il giorno del calendario cristiano in cui si commemora la santa della luce) tra cui molti legumi e cereali: ceci, cicerchie, fave, piselli, lenticchie, fagioli, orzo, grano, poi castagne, olio d’oliva, sale. Il composto si prepara dopo lunga cottura in un calderone che, nel dialetto locale, prende il nome di quadara. La tradizione degli antichi rituali di condivisione vuole che la pietanza sia consumata in piazza, nel pomeriggio del 13 dicembre, accompagnandola con del pane caldo e un bicchiere di vino.
Con la cioccolata a Paola
Sempre nel cosentino, a Paola, patria di San Francesco, patrono della Calabria, la cuccìa tradizionale è pure un dolce. La pietanza infatti assume le fattezze di una cioccolata calda arricchita dall’aggiunta di noci, scorza d’arancia, uva passa, grano bollito, cannella e chiodi di garofano. La sera del 12 dicembre, secondo la tradizione, ogni famiglia prepara la cuccìa, affinché durante la notte Santa Lucia possa imprimere il suo segno su di essa e da quella notte favorire la rinascita del sole per riportare luce e calore. Il giorno successivo il dolce viene scambiato tra amici e parenti.
Cuccìa al cioccolato – I Calabresi
La zuppa presilana
Vicino a Cosenza, nei comuni della cortina presilana, la cuccìa, che si mangia soprattutto lontano dal Natale, è invece ancora una volta una zuppa salata che si prepara con grano bollito e carne di capra o maiale, abbondantemente condita da spezie. La tradizione di questi luoghi vuole che il piatto venga preparato in tre lunghe giornate, passando per varie fasi: la pulizia del grano, la sua macerazione in ammollo, e poi la bollitura in un calderone e la cottura finale nel forno a legna, in un recipiente di terracotta che è detto tinìellu.
La versione presilana della cuccìa – I Calabresi
Il nome popolare della pietanza “cuccìa” deriverebbe dal processo di selezione del grano che veniva fatto a mano chicco per chicco per separarlo dalla veccia. Nell’area dei Casali cosentini il piatto è anche collegato a una tradizione devozionale che viene fatta risalire al XXVI sec. quando fu edificato il convento di San Francesco di Paola a Pedace, costruito sui resti del cenobio della confraternita di Santa Maria della Pietra.
Santa Lucia portava doni
Un tempo non molto lontano, ben prima dell’invenzione di Babbo Natale, Santa Lucia in Calabria era portatrice di doni e di abbondanza e visitava le case proprio nella notte tra il 12 e il 13 dicembre. Era la Santa della luce che viaggiando a dorso di un asino portava i doni ai bambini. Anche l’asino sul piano simbolico è un animale collegato prima che alle tradizioni cristiane dell’avvento, ai miti pagani del mondo saturnino, connesso alle forze della natura, alla terra, alla morte, ma è anche simbolo di regalità, di umiltà e di saggezza.
Un disegno che raffigura Santa Lucia e il suo asino mentre portano doni ai bambini – I Calabresi
Le offerte per la santa
La sera prima del 13 dicembre, i bimbi in attesa dei doni lasciavano delle piccole oblazioni alla santa e alla sua cavalcatura, vere e proprie offerte rituali. Arance e mandarini, noci, una fetta di pane, mezzo bicchiere di vino rosso per la santa attesa ospite per la notte; e anche l’asino, fedele compagno di lavoro di contadini e braccianti poveri, riceveva a sua volta un premio di doni particolari portati nelle stalle contadine in quella notte di incanti, come fieno, oppure farina gialla, acqua e sale per la sosta della notte. La notte più lunga dell’anno passava così, tra attese e incanti infantili. Poi il giorno tornava a risplendere.
Il dopo Occhiuto senza arredi e lustrini
Di passaggio sul corso Mazzini a Cosenza ho visto, mutatis mutandi, come oggi, si ricorda la festa di Santa Lucia da queste parti, il giorno della luce che risorge dall’inverno, la prima festa dell’avvento che precede il Natale. Non sono più gli incanti pasoliniani del vecchio mondo contadino a far luce, le povere cose della vecchia Calabria sono, piaccia o non piaccia, ricordi lontani o occasioni di ritrovo gastronomico. Il dopo-Occhiuto è decisamente più sobrio di arredi e lustrini, e in città c’è risparmio di quelle luminarie coloratissime e bizzarre che contraddistinsero lo scenario urbano delle festività e della Cosenza by night degli anni ruggenti.
Luminarie su corso Mazzini durante il decennio da sindaco di Mario Occhiuto
Ovunque, invece, occhieggiano le super offerte di Natale e le lusinghe dei negozi di telefonia. E soprattutto spiccano le proposte di molte storiche rivendite di ottica e occhialeria di Cosenza che propongono per santa Lucia grandi sconti per le griffe firmate di occhiali da sole, montature costose e modelli alla moda. Santa Lucia dei nostri giorni è la patrona degli occhiali da sole in versione fashion design alla Ferragnez. E, invece della palma del martirio degli occhi nel piatto, preferisce il “trattamento antiriflesso e le lenti fotocromatiche che sono in grado di proteggere gli occhi dalle radiazioni UV e dalla luce solare, dannosi per il cristallino e la retina”.
In tempi di rilancio dei consumi pop, in mezzo al Covid che in Calabria, proprio allo scoccare di Santa Lucia, coincide col giorno che dalla luce bianca declina invece pericolosamente verso l’allarme a luce gialla, la luce che sorge è questa. È pur sempre una tradizione che si rinnova. Forse.
Nel Cinquecento e nel Seicento il gioco degli scacchi era molto diffuso in Calabria e già nel Quattrocento alcuni alti prelati di Cosenza ne erano appassionati. Bartolomeo Florido, arcivescovo della città, accusato di avere falsificato alcuni brevi papali nel 1497, mentre languiva in prigione passava il tempo con gli scacchi.
L’intensa attività agonistica spiega perché dal Cinquecento al Settecento la Calabria abbia dato i natali a scacchisti ammirati e celebrati in tutte le corti europee. Qualche esempio? Michele di Mauro, Leonardo di Bona, Gioacchino Greco, Ludovico Lupinacci e Luigi Cigliarano.
Il buen retiro dopo aver spennato il principe
Salvio nel 1636 scriveva che uno dei più grandi giocatori del Viceregno era Michele di Mauro, detto «il Calabrese». Divenne famoso soprattutto in seguito alla sfida con Tommaso Caputi, scacchista napoletano emigrato in Spagna, dove lo conoscevano con lo pseudonimo di Rosces. Di Mauro giocava soprattutto a Napoli, dove incontrò i più grandi scacchisti italiani, ma soggiornò per diversi anni all’estero, specie a Madrid. Oltre che un maestro imbattibile, era considerato un «buon teorico» del gioco, su cui scrisse alcuni trattati che purtroppo andarono dispersi. Ormai stanco e avanti negli anni, dopo aver vinto al principe di Gesualdo tremila scudi, di Mauro si ritirò a Grotteria, accasandosi con una gentildonna da cui ebbe alcuni figli.
Il Puttino contro i corsari
Giovanni Leonardo di Bona, detto il Puttino, era nato a Cutro nel 1542. Salvio, suo biografo, racconta che studiava legge a Roma e, nonostante la giovane età, era uno scacchista capace di vincere «ciascheduno giocatore». Giunto nella capitale Rui López, il Clerico di Zafra, considerato il «primo giocator» di scacchi del tempo, il Puttino disputò con lui alcune partite. Nulla poté contro l’esperienza del grande campione. In seguito alla sconfitta decise di trasferirsi a Napoli, dove restò per due anni ospite del principe don Fabrizio Gesualdo, appassionato del gioco. La sua fama di scacchista talentuoso si sparse tra i maestri italiani.
Lo scacchista Ruy López Segura celebrato in un francobollo secoli dopo la sua morte
Paolo Boi, alias il Siracusano, mosso da «generosa invidia», volle sfidarlo e, al termine di alcune partite, i due «restarono di pari onore». Qualche tempo dopo Leonardo decise di tornare a Cutro e fu allora che i corsari saraceni attaccarono il paese e catturarono anche suo fratello. Si racconta che tornati a bordo delle galee «alzarono la bandiera di riscatto» e sembra che fu proprio il Puttino a negoziare col rais fissando un prezzo di duecento ducati per ogni prigioniero.
Secondo la leggenda, durante le trattative notò che a poppa del veliero era approntata una scacchiera. L’arabo si accorse che egli la guardava con interesse e lo invitò a giocare. Fu concordata una posta di cinquanta scudi e il Puttino vinse con facilità una partita dopo l’altra. Alla fine non solo riscattò il fratello, ma intascò altri duecento ducati. Il rais, riconoscendo e apprezzando il suo talento, lo invitò a Costantinopoli dove avrebbe potuto accumulare grandi ricchezze, ma egli non accettò.
Niente tasse per i cutresi
Consapevole di aver migliorato le tattiche di gioco, di Bona partì insieme con Giulio Cesare Polerio da Lanciano per la Spagna, nella speranza di incontrare il grande Lopez e ottenere la sospirata rivincita. Arrivati a Madrid, ospiti di donna Isabella, si recarono nel cenacolo dove solitamente si esibiva Ruy López. Leonardo, tra lo stupore dei presenti, chiese di giocare con lui proponendo una posta di cinquanta scudi a partita. Quella del primo giorno finì in pareggio, ma in quello seguente il Puttino vinse. La clamorosa notizia si diffuse velocemente nell’ambiente degli scacchisti spagnoli e tutti volevano battersi con lui.
Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (Luigi Mussini, 1883)
Correva l’anno 1575 e il re Filippo II chiese di assistere nel suo palazzo a una nuova sfida tra Lopez e il Puttino. Fu stabilito che i due avversari giocassero in piedi sopra un «buffetto» e furono messi in palio mille scudi. Leonardo batté l’avversario e il re, ammirato, gli consegnò i mille scudi, una salamandra d’oro ornata di pietre preziose e una pelliccia di zibellino. Gli domandò anche se avesse qualche desiderio particolare. Il giovane chiese e ottenne l’esenzione dalle tasse per gli abitanti di Cutro per vent’anni.
Omicidio a corte
Recatosi a Lisbona giocò col Moro, il più grande giocatore del Portogallo. La partita si concluse senza vinti e vincitori e alcuni giorni dopo re Sebastiano volle vedere i due sfidarsi a corte. Leonardo vinse molte partite con gran soddisfazione del sovrano che non provava simpatia per il Moro, la cui «superba natura lo portava a disprezzare tutti i giocatori stimandosi non aver pari». Re Sebastiano ricoprì Leonardo di doni e lo chiamò «cavaliere errante» perché, come gli antichi cavalieri, sconfiggeva i rivali e umiliava i superbi. Al termine della sua attività Leonardo di Bona decise di ritirarsi a Cutro. Ne1 597, all’età di quarantacinque anni, «morì avvelenato per invidia» nella corte del principe di Bisignano.
Da Celico alle Indie
Gioacchino Greco, conosciuto anche come «il Calabrese», secondo alcuni era nato nel 1590 a Celico, casale di Cosenza. Di umili condizioni, studiò in un convento dei Gesuiti dove apprese anche l’arte degli scacchi. Nel 1619, grazie alla protezione di alcuni monsignori della corte pontificia, Gioacchino ne fece la sua professione. In quegli anni scrisse anche un trattato sugli scacchi delle cui copie, fatte da esperti amanuensi, faceva dono a personaggi influenti. Nel 1621 Greco si trasferì a Nancy e dedicò al duca di Lorena, Enrico II il Buono, una raffinata copia del suo manoscritto, noto poi come «Codice di Lorena». Nel 1622, a Parigi, grazie al suo gioco vivace e combattivo, il «povero giovane» ebbe la meglio sui più grandi giocatori di Francia riuscendo a guadagnare cinquemila scudi.
Dopo questi successi, accompagnato da grande fama, Greco si recò a Londra. Anche lì vinse forti somme di denaro ma, derubato di tutto quel che possedeva, decise di tornare a Parigi. Nel 1626 andò a Madrid alla corte di Filippo IV e lì primeggiò su tutti i grandi campioni, che celebrarono pubblicamente il suo genio. Secondo quanto racconta Salvio, nel 1634 lasciò l’Europa per seguire un ricco signore spagnolo nelle Indie Occidentali. Non fece mai ritorno. Lasciò tutti i beni ai Gesuiti, che insegnandogli a giocare a scacchi erano stati artefici inconsapevoli del suo destino.
Un artista degli scacchi
Genoino osserva che il Calabrese col suo genio aveva messo in discussione le monotone regole del gioco, anticipando la vivacità che avrebbe avuto nei secoli seguenti. Egli fu un vero artista della scacchiera. Capace di infondere con i suoi attacchi dinamicità a un gioco che mostrava segni di stanchezza e staticità, inventò nuove mosse quale l’arrocco, detto alla «calabrista» o alla «calabrese». A Gioacchino viene riservato un posto tra gli immortali degli scacchi, poiché il suo talento, le sue mosse, i suoi successi e il suo codice hanno contribuito ad accrescere la popolarità del gioco.
Il prete e il freddo
Nel Settecento un campione di scacchi fu il prete cosentino Luigi Cigliarano. Secondo alcuni, per le sue memorabili partite che lo resero famoso in Italia e in Europa, addirittura avrebbe superato il «vanto» e la fama di Gioacchino Greco. A Napoli Cigliarano era seguito da decine di appassionati che scommettevano su di lui ogni volta che sfidava qualche noto giocatore giunto in città. Memorabili furono le partite col Casertano, uno dei più grandi scacchisti del secolo, che aveva una personalità e un gioco diverso dal cosentino.
Ludovico Lupinacci, gentiluomo cosentino, alla sua morte, avvenuta nel 1732, fu compianto anche dai suoi avversari, che riconoscevano in lui uno dei più grandi giocatori del tempo. L’abate Rocco lo descrive come uno freddo, «contro il costume de’ calabresi» parlava poco, si muoveva lentamente, «in somma parea il re dell’ozio». Quell’uomo calmo e schivo davanti alla scacchiera si trasformava in un aggressivo leone. La sua fama aumentò dopo aver battuto un «orgoglioso» campione francese.
Sei di fila
Questi, giunto a Napoli, lanciò una sfida al migliore scacchista del regno proponendo come posta una grossa somma di denaro a chi avesse vinto sei partite senza interruzione. I napoletani indicarono subito come avversario Lupinacci, ma «impallidirono» quando perse le prime cinque. Il solo a non scomporsi tra il numeroso pubblico fu il Casertano, che, conoscendo il valore del cosentino, aveva capito che aveva perso ad «arte». Il francese spaccone, mostrandosi annoiato per l’andamento dell’incontro, suggerì che a quel punto era inutile proseguire. Ma Lupinacci con la sua solita calma lo pregò di continuare. E si aggiudicò sei partite di fila «ordendo de’ tratti bellissimi, indicanti l’acume, e ‘l valore della nazione anche ne’ giuochi e negli scherzi».
Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
Altro che “non valere un fico secco”!
Ficu prene
La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!
Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
Influssi astrali
Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.
Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».
Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».
Dalla seta ai fichi
Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».
Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».
Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».
Trecentomila quintali
A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.
La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».
Siccaficu e leghe bianche
Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.
Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)
Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.
Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi
In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.
Un frutto, tante varietà
«Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.
“Ficu citrulare” – I Calabresi
Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:
il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
il calastruzzo, «piccolo e saporito»
i fichi biferi
i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
il messinese
il natalino nero
il troiano
Cosenza vs Smirne
Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.
Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».
Figues de Cosenza
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.
Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.
P. Barone&C., Bisignano, Marque Croix, Bisignano, 1932
Fratelli Maltese, fu Pietro, Spezzano Albanese,1907
Carlo Spada, Cosenza, 1919
Giuseppe Gallo, Cosenza, 1891
Catiello Florio, Cosenza, 1883
P. Barone&C., Marque Aiglon, Bisignano, 1932
Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».
Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”
Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.
La vecchia cremagliera
La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.
Passeggeri in attesa della littorina a Paola
La prima vaporiera
“Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.
Dai soldati agli emigrati
A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.
La morte corre sui binari
Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.
In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.
La vecchia stazione di San Lucido
Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.
Testimoni di un’altra epoca
La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».
Il lungo addio
Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».
Emigranti in attesa a Milano Centrale
Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.
Il treno per Ferramonti
Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.
L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».
Internati a Ferramonti
A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.
L’ultima cremagliera della notte
Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.
La scrittrice Elsa Morante
Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».
Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».
I binari a Falconara Albanese
Il progresso divenuto rudere
Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.
Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.
Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.
C’è un piccolo enigma che riguarda l’Archivio di Stato di Cosenza, dove è conservato l’archivio personale di Maria Pignatelli, moglie del principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Nelle carte della principessa c’è un faldone vuoto, che reca una scritta a dir poco bizzarra: Ok. Storia della resistenza fascista al Sud.
Questo faldone, stando anche alle memorie del marito di donna Maria, avrebbe dovuto contenere il diario di una missione speciale condotta dalla nobildonna calabrese nel territorio della Repubblica Sociale Italiana durante la primavera del ’44. Ma quel diario non si trova più.
Un’avventura particolare, quella vissuta dalla principessa, che fu protagonista di intrighi e doppi giochi, tra i fascisti – clandestini al Sud e ancora istituzionali al Nord – i servizi segreti di tutte le parti in causa e ciò che restava della monarchia in quell’ultimo, tragico scorcio della guerra.
L’epicentro di questa vicenda, emersa solo di recente grazie all’importante scavo dello storico Giuseppe Parlato, è calabrese. Perché calabresi sono i protagonisti principali e perché i fatti più salienti si sono svolti in Calabria.
Prima della fine
È calabrese d’origine Carlo Scorza (era nato a Paola, dove aveva vissuto fino a 15 anni, prima di trasferirsi a Lucca) l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. È calabrese di adozione Francesco Maria Barracu, nato in Sardegna ma diventato federale di Catanzaro dopo la guerra d’Etiopia e lì rimasto fino all’armistizio. Poi sarebbe andato a Roma e quindi avrebbe seguito Mussolini a Salò.
Nella tarda primavera del ’43 le truppe dell’Asse avevano perso l’Africa settentrionale e lo sbarco alleato al Sud era imminente.
Alfredo Cucco, il ras fascista della Sicilia, lanciò l’allarme, Sforza lo raccolse e formulò una proposta a Mussolini: organizzare una rete di resistenza fascista che ostacolasse l’avanzata delle truppe alleate. Il duce approvò e coniò il nome di quest’organizzazione: Guardia ai labari. E incaricò Barracu, suo uomo di fiducia, di darsi da fare.
Quest’ultimo, assieme a Scorza, individuò l’uomo adatto per creare e gestire la rete “nera”, che può essere considerata la prima organizzazione neofascista italiana: Valerio Pignatelli.
Una coppia pericolosa
Il principe Valerio Pignatelli è un personaggio inquieto, che sembra uscito da un romanzo di Dumas padre. Militare dalla carriera intensa ma irregolare, esordì nella guerra di Libia come tenente di cavalleria. Inoltre, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano degli Arditi. Poi, a ostilità finite, divenne addetto militare dell’Ambasciata italiana in Ungheria. Fu una piccola pausa, per il principe, che proprio non poteva fare a meno di menare le mani. Infatti, nel 1920 si arruolò nell’Armata bianca di Vrangel per combattere quella rossa di Trockij.
Raggiunse il massimo di questa bizzarra carriera in Messico, dove riuscì a farsi incoronare imperatore di una piccola regione del sud del Paese. Ma durò in carica solo dieci giorni: il tempo di scappare negli Usa e di sposare Patricia Hearst, una ricca ereditiera.
Anche il matrimonio durò poco: rientrato in Italia, il principe si iscrisse al Pnf. Ma l’adesione al fascismo non gli inculcò alcuna disciplina a Pignatelli, che riuscì a sfidare a duello (e a ferirlo) nientemeno che l’ex segretario Roberto Farinacci.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, l’indomito aristocratico partecipò alla guerra d’Etiopia come comandante di un reparto di eritrei e a quella di Spagna. In entrambe, collezionò medaglie e ferite.
Non era da meno Maria Elia, nobildonna toscana, che prima di conoscere Valerio aveva sposato il marchese Giuseppe de Seta, da cui aveva avuto quattro figli, ed era diventata esponente di primo piano della nobiltà meridionale. Rimasta vedova, convolò in seconde nozze col principe di Cerchiara nel 1942.
Renato Guttuso, Ritratto della marchesa Maria De Seta, olio su tavola, 1937
Bombe in Calabria, la storia degli ottantotto
Nel dare il via libera alla rete nera, Mussolini raccomandò prudenza estrema. I suoi fedelissimi non avrebbero dovuto scatenare una guerra civile, ma solo dar fastidio agli occupanti, fare propaganda e, ovviamente, fare le spie in accordo coi vertici del Sid, i servizi segreti di Salò e con la Gestapo.
Il regista dell’operazione era Barracu, nel frattempo diventato sottosegretario della Rsi. Valerio Pignatelli, intanto, si era trasferito a Napoli, in una villa di fronte alla Nunziatella, dove assieme alla moglie, intratteneva rapporti ambigui con gli alti gradi dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata nei territori del Sud, esponenti del fascismo e agenti del Sim, i servizi segreti del Regno d’Italia.
La rete calabrese è affidata a un altro personaggio importante nella storia del neofascismo: il cosentino Luigi Filosa, un fascista di ultrasinistra (oggi lo si direbbe un “fasciocomunista”), dal passato a dir poco burrascoso, dentro e fuori il regime.
L’organizzazione iniziò a darsi da fare a partire dall’autunno del ’43 con una serie di attentati dinamitardi (ben 18) nel Lametino, a danno di due tipografie, del Liceo di Nicastro, della casa del preside del Liceo, di una Caserma dei carabinieri e di altri obiettivi, più simbolici che sensibili.
Poi la Polizia arrestò due studenti di Catanzaro e ricostruì la rete. Filosa, vista la mala parata, andò a Bari per cercare di scappare al Nord. Ma venne arrestato il 14 maggio del ’44 e finì a processo con altri 87 imputati con l’accusa di associazione sovversiva. Fu il primo maxiprocesso del dopoguerra al Sud.
Poco prima di lui, il 27 aprile, erano finiti in manette i principi Pignatelli. Per loro, tuttavia, l’accusa era un’altra: spionaggio militare.
Lo strano viaggio della principessa
Facciamo un passo indietro e torniamo a Napoli. Mentre i fascisti calabresi si “esercitavano” con le bombe e raccoglievano armi con la complicità di non pochi militari, Pignatelli ricevette un ordine da Barracu: raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, per conferire con lui e con Mussolini.
Pignatelli, per ottenere il lasciapassare per attraversare il fronte, “cercò una pastetta” al principe Umberto e allo scopo giocò una carta importante: l’amicizia tra sua moglie e Maria José di Savoia. Nulla da fare: i servizi segreti del Regno d’Italia, che tenevano d’occhio Pignatelli, non concessero il nulla osta.
La regina d’Italia Maria José di Savoia
Al principe restò solo una fiche: sua moglie. E la puntò bene. Perché anche la principessa aveva le sue amicizie. Tra queste, c’era il tenente di vascello Paolo Poletti, che faceva un doppio gioco spregiudicato tra la X-Mas di Junio Valerio Borghese e l’Oss, i servizi segreti americani, guidati da James Jesus Angleton, il futuro capo della Cia. Angleton era animato da un anticomunismo estremo, che lo portava a diffidare più degli alleati antifascisti che dei nemici fascisti. Ciò lascia pensare che il doppio gioco di Poletti non fosse ignorato (né disapprovato) né da lui né dai vertici di Salò. Il tenente italiano sarebbe stato quindi quel che oggi si direbbe un agente doppio.
James Jesus Angleton
L’incontro col feldmaresciallo
Poletti accompagnò donna Maria una prima volta a fine marzo ’44, assieme al capitano Nuvolari, agente del Sim anche lui legato all’Oss. Incapparono in un check point gestito dagli inglesi che rispedirono indietro la comitiva.
Il secondo tentativo, invece, riuscì: la principessa, stavolta, varcò il confine nei pressi di Lanciano a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa e fu ricevuta sul monte Soratte dal feldmaresciallo Albert Kesserling per un colloquio, nel corso del quale la nobildonna avrebbe rivelato alcuni dati sensibili sulle strutture militari alleate del Sud.
Il feldmaresciallo Albert Kesserling
Poi, la principessa andò a Roma, per incontrare due persone care: la figlia primogenita Bona de Seta e Vittoria Odinzova, una profuga della rivoluzione russa che era stata fidanzata con suo figlio Francesco, tenente di aviazione caduto nel 1941.
Il ruolo della Odinzova è tutt’altro che secondario in questa vicenda: detestata dai restanti tre figli della principessa, la bella russa era diventata la pupilla della nobildonna. Ma, soprattutto, Poletti aveva perso la testa per lei e, pur di averla, accettò di aiutare la nobildonna.
Nobili, doppiogiochisti e servizi segreti
Le stranezze non finiscono qui: i Pignatelli erano senz’altro fascistissimi. Non altrettanto i figli della principessa. Non lo era Vittorio de Seta, prigioniero dei tedeschi a Salisburgo. E non lo era suo fratello Emanuele, che faceva parte di una rete antifascista clandestina ed aveva subito i rigori delle Ss nella famigerata prigione romana di via Tasso.
Quanto a Bona, c’è da dire che era ospite della residenza capitolina di un’altra famiglia aristocratica calabrese: i baroni Marincola di San Floro.
Gerarca di Catanzaro e amicissimo del principe Valerio, Filippo Marincola aveva sposato Josephine Pomeroy, cittadina americana, antifascista e legata ai servizi segreti alleati. Non era da meno il cognato di don Filippo, Livingstone Pomeroy, che addirittura faceva parte dell’Oss ed era molto legato a Bona.
In pratica, la principessa si era cacciata nella tana del lupo: tre figli antifascisti o quasi, più amici non del tutto affidabili.
Dopo alcuni giorni, la principessa raggiunge Gragnano, dove ebbe il colloquio con Barracu e col duce. Cosa si siano detti non è facile da ricostruire, perché dai verbali degli interrogatori subiti dai Pignatelli emerge di tutto e di più.
Infine, il ritorno, assieme a Vittoria Odinzova. Al confine le attendevano Poletti assieme a un altro collega dell’Oss, tale Mathieu, di cui resta ignota la reale identità.
Non appena rientrò a Napoli, la principessa fu arrestata dalla polizia militare dell’Amgot. Assieme a lei finirono in galera la giovane russa, il principe Valerio e il tenente Poletti.
Gli strani processi
I quattro subirono interrogatori pesantissimi. La prima a uscire, praticamente scagionata, fu Vittoria Odinzova, considerata un’ingenua pedina nelle mani della principessa.
Prima di lei, tuttavia, uscì dalla vicenda Poletti. Nella maniera peggiore possibile: torturato dalla polizia militare inglese nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, l’agente dell’Oss impazzì e fu rinchiuso in una cella da cui tentò di evadere.
Durante la fuga, Poletti, ancora ammanettato, aggredì due guardie, che lo uccisero.
Questa fu la versione ufficiale: in realtà, secondo alcuni storici lo sfortunato tenente fu liquidato dai suoi colleghi dell’Oss, i servizi segreti statunitensi che temevano le sue testimonianze nel processo. Già: britannici e americani giocavano due partite diverse. Antifascisti (e antiitaliani), i sudditi di Sua Maestà britannica avevano intenzioni “punitive” nei confronti dell’Italia. Anticomunisti e filoitaliani, gli statunitensi si preoccupavano di contenere l’avanzata del Pci al Sud nell’imminente dopoguerra.
Proprio su questa divergenza il principe Pignatelli giocò con grande abilità. Durante la sua deposizione rivelò che Barracu, Mussolini e Borghese stavano lavorando a una rete anticomunista che comprendeva i fascisti, alti gradi dell’Esercito rimasto fedele alla Corona e quella parte della resistenza (gli osovani, i monarchici della “Sogno” e parte di Giustizia e Libertà) che temeva l’egemonia dei partigiani “rossi” della divisione Garibaldi.
Il “principe nero”, Junio Valerio Borghese
Tenuta in poca considerazione durante il processo, la rivelazione del principe è stata rivalutata in sede storica dai documenti che provano i continui contatti tra la Marina del Sud e i Servizi della Rsi e gli abboccamenti tra i partigiani osovani e i militi della X-Mas in chiave anticomunista. Ed è confermata dal salvataggio di Borghese operato da Angleton in persona.
Lo spauracchio “rosso” fu giocato anche dalla difesa degli ottantotto fascisti processati a Catanzaro.
Fine della storia
Cosa curiosa, nessuno riuscì a provare il collegamento tra i dinamitardi calabresi e Pignatelli. Quindi l’accusa di associazione sovversiva cadde. Per fortuna degli imputati, che altrimenti sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione.
Ciò non evitò condanne piuttosto pesanti alla maggior parte degli arrestati. Tuttavia, il processo fu annullato dalla Cassazione per vizi di forma. E rinviato a un’altra Corte. Ma non si celebrò mai, perché nel frattempo Togliatti amnistiò i fascisti.
Discorso simile per i Pignatelli, condannati entrambi a dodici anni di carcere. Ne scontarono a malapena uno e qualcosa. Appena scarcerato, Valerio fondò il Movimento sociale italiano assieme agli ex camerati. Ma il suo carattere irrequieto ebbe il sopravvento per l’ennesima volta: litigò e si ritirò a vita privata. Scrisse romanzi e memorie e gestì i beni di famiglia fino al 1965, quando morì a Sellia Marina.
Maria lo raggiunse tre anni dopo, in seguito a un incidente stradale nei pressi di Cosenza.
Un beato con le ossa d’asino. A Cosenza erano attivi molti abili falsari pronti a produrre documenti per soddisfare le esigenze di gente senza scrupoli. Grazie ad essi si potevano accampare diritti di possesso di terre, ottenere privilegi fiscali, impossessarsi di eredità e attestare nobili origini. Anche preti e monaci erano specialisti nel fabbricare false prove, cosa che spinse Emily Lowe a scrivere che, avidi di denaro e pronti ad arricchirsi in tutti i modi, manipolavano persino testamenti! Tra il Cinquecento e il Settecento sono numerosi i cosentini sotto accusa per aver esibito documenti falsi che certificassero un’origine nobile o per avere redatto falsi testamenti. Ma la truffa che suscitò scandalo anche fuori dai confini cittadini e del regno fu, senza dubbio, quella attribuita a Ferdinando Stocchi.
La truffa di Stocchi
Stocchi, presbitero appartenente a una famiglia patrizia della città, era secondo alcuni un uomo curvo e obeso, con occhi piccoli, capigliatura rada e trasandato nel vestire, ma apprezzato studioso, autore di alcuni componimenti poetici e scientifici, eletto addirittura presidente dell’Accademia dei Negligenti. Secondo Misarti era nato a Scigliano nel 1611 e, dotato di «non ordinario ingegno», aveva studiato a Napoli, Roma e Bologna, per stabilirsi a Cosenza dove si aggregò al Sedile dei nobili e fu acclamato principe dell’Accademia de’ Costanti. Subì un processo per le accuse di un «frate zotico» ma fu prosciolto e riprese la sua attività di studioso pubblicando due opere.
L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina
Stocchi divenne amico di Carlo Calà, potentissimo e ricchissimo Presidente della Regia Camera della Sommaria. Approfittando del cruccio di questi, che non poteva ostentare nobili origini, gli confidò di essere a conoscenza di antiche memorie che attestavano la sua discendenza da una famiglia Calà imparentata nel XII secolo con i reali d’Inghilterra e di Svevia. Il Calà, scrive Paoli, entusiasta all’idea di poter vantare una genesi così gloriosa, diede a Stocchi ventiquattromila ducati per recuperare i documenti dei suoi illustri antenati.
L’abate cosentino, per «ingannare anche gli esperti», assoldò abili falsari. Fece stampare libri e riprodurre in pergamene lettere, memorie, codici, epigrammi, iscrizioni, inni, orazioni e altre carte ingiallite e sforacchiate che in tutto «passavano il centinaio». Secondo queste fonti, i fratelli Giovanni e Arrigo Calà, presunti avi di Carlo, avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria ricoprendosi di gloria e titoli nobiliari «di spada». Giovanni Calà, valoroso capitano, dopo avere incontrato a Corazzo Gioacchino da Fiore si ritirò in eremitaggio vivendo in santità per il resto della vita.
Il profeta e gli «infiniti miracoli»
Questi documenti “inediti” in cui si ricostruiva l’avventurosa storia dei fratelli Calà, fatti ritrovare in monasteri, archivi privati e biblioteche come la Vaticana e l’Angelica, suscitarono grande entusiasmo tra gli eruditi del regno. E molti li citarono nelle loro ricerche finendo «per impastare la stessa pessima farina».
Sulla base della ricca documentazione fornita da Stocchi, il presidente della Sommaria scrisse e pubblicò una storia degli Svevi nel regno di Napoli e in Sicilia. All’interno, ampio spazio per i suoi illustri capostipiti. Diverse pergamene e memorie di «antichissimo carattere», di cui molte parole «non si potiano leggere perché cancellate dall’antichità», attestavano «cose stupende e meravigliose» su Giovanni che già in vita era appellato «santissimo padre, specchio degli anacoreti e profeta del Signore».
Nel trattato Processus vitae Ioannis Calà, si leggeva che era nato nel 1167, aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli nel 1191 ed era trapassato a godere del cielo nel 1265, dopo sessantaquattro anni di vita santa. L’abate Gioacchino da Fiore, in una lettera all’imperatrice Costanza, scriveva che Calà aveva condotto vita eremitica morendo in santità, era un profeta e aveva fatto «infiniti miracoli». Egli stesso aveva visto, davanti all’uscio del suo romitaggio un gran mucchio di forcole e bastoni che «zoppi e stroppiati» avevano lasciato in segno della loro guarigione. Del beato Giovanni esisteva persino un ritratto dipinto da un pittore di Castrovillari a cui il Calà era comparso in sogno manifestando il proprio desiderio di tramandare ai posteri la sua figura.
Spuntano anche le reliquie
Grande meraviglia e commozione nella regione suscitò, nel 1654, il ritrovamento dei resti del «beato». Le reliquie, chiuse in una cassa preziosa con tre chiavi, divennero subito oggetto di culto. E, in quello stesso anno, furono solennemente portate in processione, secondo alcuni a Cosenza, secondo altri a Castrovillari, per dare loro degna sepoltura. Nel 1666, però, tra lo stupore generale, il Tribunale dell’Inquisizione di Roma privò del titolo di beato Giovanni Calà. Il cardinale Crescenzio, vescovo di Bitonto, incaricato dalla Congregazione dell’Indice di analizzare i documenti sulla vita del sant’uomo, al termine di una faticosa ricerca aveva stabilito che si trattava di carte false.
Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell’Inquisizione – I Calabersi
Negli ambienti napoletani la truffa era di dominio pubblico tanto che Fusidoro, pseudonimo di Vincenzo D’Onofrio, scriveva che il vanaglorioso Calà aveva pubblicato la storia degli Svevi per rivendicare alla sua stirpe origini reali e sante, costruendo l’opera con documenti e pergamene prodotte da esperti falsari, tra cui l’ingegnoso Farinello. Anche per Domenico Confuorto, alias Fortundio Erodoto Montecco, il libro sulla famiglia Calà era più zeppo di «bugie che di parole, più spropositi che righi», ove si leggevano «chimerazzi e favolosi personaggi» descritti nei romanzi e nei libri di cavalleria.
Il beato con le ossa d’asino
Erano state lettere anonime e ammissioni della truffa di alcuni falsari a spingere le autorità ecclesiastiche a intervenire sulla storia del beato Calà. Il gesuita Pietro Giustiniani aveva raccolto la confessione di un uomo che si era reso responsabile insieme a Stocchi della «tessuta ribalderia». Costui aveva dato licenza di rendere pubblica la propria confessione, ma chiedeva che non si rivelasse il suo nome per «timore di essere ammazzato». Secondo Paoli era stato invece lo stesso Stocchi, mosso da «crudel rimorso», a rivelare la truffa in punto di morte. Mentre per altri a svelare l’inganno era stato il gentiluomo cosentino Angelo di Matera, suo complice.
Questi, gravemente ammalato e assalito dal rimorso, confessò l’imbroglio in una scrittura consegnata a un notaio, pregandolo di recapitarla al vescovo di Martorano dopo la sua dipartita finale. Egli rivelava che, insieme al «solennissimo ciurmatore» Stocchi, aveva prodotto pergamene false e che le reliquie del beato erano in realtà ossi d’asino. Venuto a mancare il Di Matera, il presule mandò l’incartamento a Roma, dove la Congregazione Generale Romana istituì un processo condotto da padre Giustiniani. Questi appurò che le carte erano effettivamente false e che la storia del beato era un’invenzione. Il 27 giugno 1680, il culto del beato Giovanni Calà venne proibito. Il destino di libri, pergamene, codici, libretti e immagini che lo riguardavano? Prima il sequestro e poi le fiamme.
Una truffa che fece il giro d’Europa
Gli studiosi si interrogarono a lungo sul perché una truffa così audace di cui si parlò in tutta Europa non fosse stata subito smascherata. Paoli scriveva che la storia del beato Calà inventata da Stocchi era indubbiamente ben architettata, ma «conteneva cose più degne di un poema che di storia». Le ricostruzioni storiche erano piene di evidenti errori, contraddizioni e fatti assolutamente inverosimili, quali le virtù attribuite a Giovanni Calà.
Questi veniva presentato come un uomo dalla forza superiore all’«umana natura», non inferiore a quella di Sansone e pari solo a quella di Ercole. Paoli si stupiva che i contemporanei non avessero esaminato e contraddetto un tale «ammasso di contraddizioni» e fatti «degni di un poema d’Ariosto». Sarebbe stato facile capire che i testi citati dal Calà erano falsi: nessuno aveva mai sentito parlare degli autori e nessuno ne avrebbe trovato copie nelle biblioteche.
Troppo potente per sbugiardarlo
Il silenzio e l’omertà degli studiosi contemporanei probabilmente si doveva al fatto che Carlo Calà era un uomo molto temuto. Padre Russo lo descrive come arrogante e vendicativo nei confronti di coloro che osavano criticarlo: Giuseppe Campanile, che nel febbraio del 1674 aveva avanzato dubbi alla sua Istoria degli Svevi, finì subito in prigione! Calà era uno degli uomini più potenti del Viceregno e il processo che aveva dimostrato la non autenticità delle reliquie di Giovanni Calà e la non attendibilità delle fonti documentarie che lo riguardavano, sarebbe rimasto segreto. Se non avvenne, è solo per l’imprudenza del Vicario Generale di Cassano, Giacinto Miceli, che aveva autorizzato il culto del beato Giovanni.
La Historia de’ Svevi, con il racconto della vita del beato Calà
A quel punto il Tribunale dell’Inquisizione dovette comunicare a papa Innocenzo XI il verdetto del processo istruito da Giustiniani. Calà era così sicuro della sua impunità che, pur essendo a conoscenza delle critiche sul suo libro e dell’inchiesta in corso, nel 1665 dava alle stampe una versione dell’opera in latino. Del resto, come ricorda padre Russo, scattò il divieto peril culto del beato, ma il volume di Calà non finì all’Indice dei libri proibiti.
A Cosenza si festeggia
La truffa di Stocchi fu una tra le più ardite e celebri mai realizzate in Italia, capace di produrre il culto di un falso beato e di coinvolgere addirittura il potente Presidente della Sommaria. Se nessuno avesse svelato l’inganno, i fedeli avrebbero continuato a venerare e a ritenere reliquie di un santo dalle ossa d’asino. Il ricordo di questo beffardo episodio rimase vivo nella memoria dei cosentini dal momento che Pilati, giunto a Cosenza nel 1775, scrisse che un tale Stocco, gran letterato e nemico del clero, un giorno decise di far venerare pubblicamente gli ossi di un asino come reliquie di un santo. Aveva organizzato così bene la beffa che l’arcivescovo prima e lo stesso papa poi canonizzarono un fantomatico beato. I cosentini, entusiasti per quella proclamazione, istituirono una festa per la venerazione delle reliquie. E lo stesso Stocco compose l’inno da cantare per l’occasione.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.