Tag: storia

  • Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Il tentativo dell’amministrazione Occhiuto di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli un museo virtuale non ha funzionato, come ribadiscono anche alcune disavventure amministrative non proprio leggere. L’attuale sindaco Franz Caruso, ha dichiarato di preferire Telesio al re barbaro, mettendo probabilmente una pietra tombale su tutta la vicenda.

    In Alarico la storia universale si mescola a quella locale, com’è avvenuto a Cosenza, dove il re goto sarebbe morto di malaria e quindi, sarebbe stato sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione, come tramanda la bella poesia di August von Platen.
    Ma il dibattito, anche acceso, esploso sui social prova anche che Alarico continua a “fare immaginario”. Abbiamo chiesto al famoso storico del Medioevo, Franco Cardini, cosa ne pensa della questione Alarico.

    Quanto c’è di vero o di verosimile in questa leggenda?

    «Quanto ci sia di vero non è mai stato accertato. La verosimiglianza è valutabile in relazione a usanze funebri variamente attestate in ambito tanto celtogermanico quanto uraloaltaico (specie le sepolture equestri)».

    Assieme ad Alarico e al suo cavallo sarebbe stato seppellito il tesoro razziato dai visigoti a Roma. Esiste davvero questo tesoro?

    «Sepolture principesche caratterizzate da ricchi e preziosi corredi sono attestate. Per quanto Alarico fosse cristiano ariano, è probabile che, dato il suo rango principesco, le antiche tradizioni folkloriche gote fossero in qualche modo rispettate. Quella del “tesoro” razziato a Roma e sepolto nell’alveo del Busento sembra avere tutti i caratteri della leggenda folklorica».

    A Cosenza si è tentato di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli, addirittura, un museo virtuale. Queste operazioni “simboliche” possono avere un senso? E, se sì, quale?

    «Credo che, più che “simbolica”, l’iniziativa in questione dipenda in parte dalla prospettiva di costruirvi sopra un business e in parte dalla speranza che tutto ciò costituisca uno scoop. Ora, business e scoop hanno senza dubbio entrambi un senso e uno scopo nella società attuale. In questo caso, tuttavia, parliamo di un problema “simbolico”: simbolico di che? Simbolico a che scopo? L’Alarico-“barbaro” e l’Alarico-“eroe” sono entrambe dimensioni scarsamente spendibili oggi a livello mediatico, a meno d’introdurvi al riguardo criteri di “radicamento” e di “identità” oppure, al contrario, di cancel culture, che mi parrebbero entrambi sciocchi e inopportuni».

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    La gaffe sul tesoro di Alarico diventato di “Talarico” nel totem della Regione Calabria
    Veniamo al punto centrale: barbaro distruttore per molti, figura eroica per altri. A quale di questi schemi corrisponde Alarico?

    «Si tratta, appunto, di schemi valutativi: per giunta di carattere etico-retorico, soggetti ai cambiamenti di interpretazione delle vicende storiche e alle corrispondenti tavole di valori».

    Non parliamo di un problema storico, insomma. Il sacco visigotico dell’Urbe fu un evento traumatico, considerato da tanti come il colpo letale all’impero e alla civiltà romane. Tuttavia, Alarico è considerato quasi un papà della patria da tedeschi e spagnoli. Come mai questa ambivalenza?

    «Anche la valutazione da dare dell’evento del 410 deve essere spogliata da qualunque valore retorico o simbologico se si vuol darne una lettura storica. In realtà, ai primi del V secolo Roma aveva largamente perduto il suo carattere di centro politico e militare, mentre anche sul piano religioso il suo vescovo non aveva ancora la funzione che avrebbe avuto più tardi. Peraltro quella di Alarico fu più un’occupazione transitoria che un vero e proprio sistematico saccheggio (ben più grave sarebbe stato l’evento del 1527). La “paternità patria” di Alarico per tedeschi e spagnoli, a sua volta molto relativa, riguarda i secoli XVIII-XIX, quando questi valori venivano più densamente espressi».

    Sempre a proposito di mito: i nazisti subirono la fascinazione di Alarico. Al punto che Himmler inviò degli agenti in Calabria per trovare le tracce della leggenda. 

    «Tutto va naturalmente riferito alla mitologia politica filobarbarica e postromantica che alcuni ambienti del governo e delle organizzazioni culturali nazionalsocialiste favorivano, con una buona dose di medievalismo wagneriano. Come in altri casi (l’interesse per il buddhismo-induismo che condusse a spedizioni antropologiche tra India e Himalaya, e quello per il catarismo, che comportò indagini nell’area pirenaica di Montségur), l’interesse nazista per il germanesimo – e quindi la rivendicazione di tutto quel che apparisse “germanico” – non condusse a esiti specifici sotto il profilo scientifico: nulla di paragonabile, ad esempio, rispetto al rapporto tra fascismo e romanità in tutti i loro aspetti. Tuttavia, nell’àmbito dell’organizzazione di ricerche archeologico-antropologiche della società Ahnenerbe (“Eredità degli avi”), sostenuta con forza dagli alti comandi delle SS, alcuni studi furono seri e interessanti: basti al riguardo il nome del grande Franz Altheim, che vi collaborò».

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    La brochure del Comune di Cosenza destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
    Il tardo antico è un periodo storico suggestivo, carico di contraddizioni, come tutte le fasi di passaggio. È possibile esprimere un giudizio equilibrato sui capi barbari, più o meno romanizzati, che ne furono protagonisti?

    «Tutte le fasi storiche sono, per un verso, “di passaggio”; e, per un altro, sono “convenzionali”, appartengono cioè più ai dibattiti storiografici che non alle realtà storiche effettive. I “capi barbari” in contatto con l’impero romano vanno pertanto considerati anzitutto appunto nel loro rapporto con una realtà dinamica caratterizzata però da grande flessibilità (basta pensare all’intelligenza, all’apertura e alla sensibilità con la quale l’impero guardava ai culti religiosi: se e quando in tale àmbito vi furono scontri, ciò va fatto risalire al rigore inflessibile di alcuni di quei culti, non all’incomprensione o al fanatismo romani che in genere non c’erano).

    I capi barbari in contatto con l’impero furono molto spesso personaggi eccezionali, di grande intelligenza, in grado di mantenere la loro identità e di adattarla alle esigenze di un dialogo portatore di nuove sintesi. Casi come quelli di Ezio, di Stilicone, di Ataulfo, di Odoacre, di Teodorico, di Clodoveo, di Rotari, di Liutprando, sono per intelligenza, per lungimiranza, per cultura, la regola anziché l’eccezione. All’estremità di questo percorso c’è Carlomagno».

    Dovrebbe essere sfatata l’idea dei barbari come “distruttori”?

    «Dovrebbe senza dubbio: se tale idea esistesse o fosse mai esistita sul serio. In realtà, la “tesi” incolta e patriottarda dei “barbari germanici” quali distruttori dell’impero (che non a caso fa il paio con l’altra altrettanto ridicola e assurda, quella anticlericale del cristianesimo e dei cristiani come causa della decadenza e della caduta dell’impero romano) non è mai stata sostenuta sul serio da nessuno studioso valido, a parte qualche boutade spinta da esponenti dell’illuminismo più screditato e scadente: appartiene al sottobosco delle idee veicolate da dilettanti semicolti nell’ambito di una sottocultura-pseudocultura che è dura a morire proprio perché è troppo labile per uscire allo scoperto e confrontarsi in modo qualificato con la critica scientifica seria».

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    Particolare della statua di Alarico a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perciò, non avendo mai prodotto nulla di serio e d’interessante, questa pseudocultura non è mai stata neppure degnata di una confutazione approfondita e sistematica. Ma, dal momento che non ha mai influito su nulla di scientificamente apprezzabile, riemerge di continuo a livelli di sostanziale ignoranza. Purtroppo la frana progressiva – e quindi la caduta a picco del tono culturale medio della società occidentale in genere, italiana in particolare, tipico degli ultimi decenni – ha finito col fornire un’autorevolezza specie mediatica del tutto fittizia e gratuita a solenni sciocchezze o addirittura a ridicole idiozie che hanno purtroppo libertà di diffondersi liberamente nei vari canali dei social. La falsa cultura acriticamente presa sul serio è una delle funzioni principali dell’analfabetizzazione della società in corso».

  • Enodotti, sbornie killer e tanto aceto: il vino calabrese tra mito e storia

    Enodotti, sbornie killer e tanto aceto: il vino calabrese tra mito e storia

    Il vino che si produce oggi in Calabria è di ottima qualità e non paragonabile a quello del passato. In un saggio sull’economia campestre del 1770, poiché l’industria enologica locale produceva vino cattivo, Grimaldi auspicava che i proprietari introducessero nelle loro terre fattoj alla francese e assoldassero vignaioli forestieri.

    Questi esperti avrebbero dovuto insegnare come impiantare le vigne, scegliere i vitigni, il tempo per vendemmiare, il modo per raccogliere, spicciolare e spremere le uve, la durata per la fermentazione del mosto nei tini, le modalità d’imbottare il vino, colarlo, trasmutarlo, governarlo e conservarlo. Tutte queste cose in Calabria si facevano arcaicamente e al «rovescio». E così i vini erano fumosi, torbidi, malsani, perniciosi, spiacevoli, di poca durata e inadatti al trasporto.

    Aceto un po’ ovunque

    Nell’Inchiesta Murattiana si legge che alcuni vini della regione erano buoni e rispondevano «ai gusti della digestione» ma la maggior parte erano scadenti perché prodotti senza nessuna arte. Le varie specie di uve che avevano diversa maturazione si raccoglievano insieme e si pigiavano nei palmenti a piedi nudi senza togliere raspi e acini corrotti. In un saggio sull’agricoltura calabrese del 1848, Tucci scriveva che la produzione vinicola era condotta con metodi allo «stato dell’infanzia».

    La piantagione dei vitigni si eseguiva barbaramente. Non si concimava il terreno, non si effettuava la potatura. Le uve erano sostenute da pali che cadevano al primo soffio di vento. Le varie uve erano raccolte insieme e messe alla «rinfusa» nei tini, cosicché una parte era guasta e un’altra acerba. Non si effettuava una selezione dei grappoli «viziati», gli strettoi erano arcaici, le botti inadatte e il vino diventava aceto.

    Nostalgia canaglia

    In alcuni libri di cucina si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. Il fatto che un tempo i prodotti agricoli fossero meno soggetti a trattamenti, però, non implica che il cibo fosse più buono, sano o genuino. Il pane era così duro che per consumarlo bisognava bagnarlo, il vino così aspro e torbido da provocare vomiti e mal di testa, l’olio così rancido e puzzolente da essere buono solo come combustibile.

    Le autorità intervenivano senza sosta per impedire la vendita nelle fiere e nei mercati di frutti acerbi, grani marci, pani trattati con sostanze dannose, pesci putrefatti, carni di animali morti per malattie e vini adulterati con sostanze velenose. Anche in passato erano diffuse pratiche di sofisticazione degli alimenti e alcuni di questi, come il vino, erano talmente adulterati da provocare gravi malattie o condurre alla morte.

    Il vino taroccato

    Nel Settecento il vino subiva tali livelli di sofisticazione che, per i frequentatori delle cantine, da «balsamo della vita» diventava «bevanda di morte». Grossisti, negozianti e tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità aggiungevano acqua e, per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti, introducevano nelle botti «droghe malefiche». I vini prodotti a volte erano manipolati con vari ingredienti «per farli somigliare a quelli forestieri»; quelli di scarsa qualità, trattati con varie sostanze chimiche, diventavano forti, frizzanti, dolci e dal colore intenso.

    Nel 1849 uno studioso di Cirò annotava che, per soddisfare i clienti che da qualche anno ricercavano un vino rosso cupo, brillante e spiritoso, i produttori non esitavano a mettere nelle botti scorze di quercia, sugo di more e altre materie coloranti. Si utilizzavano zolfo, arsenico e gesso per rendere i vini durevoli; acquavite, sidro e alcool per aumentarne gradazione e sapore; allume, colla di pesce, chiare d’uova e gelatine animali per farli diventare meno torbidi; cenere, calce, potassio, rame e piombo per correggerne l’acidità; vetriolo, allume e ferro per mutarne il sapore; sandalo rosso, zucchero abbrustolito, bacche di sambuco, more e mirtilli per dare colore.

    Annate da evitare

    Negli anni in cui i vitigni erano colpiti da malattie o distrutti dalle intemperie, per soddisfare la forte richiesta, sul mercato circolavano clandestinamente vini completamente artificiali prodotti mischiando acqua, alcool, cremore di tartaro e coloranti vari. I vini adulterati provocavano «avvelenamenti saturnini», violenti dolori intestinali, palpitazioni di cuore, soffocazioni, ansia, tremori, vertigini, vomito, debolezza, perdita d’appetito, ubriachezza, malattie nervose. A volte, persino paralisi degli arti e morte. Le autorità difficilmente riuscivano ad individuare i vini contraffatti e i consigli degli esperti per accertare la presenza di sostanze tossiche erano inutili perché richiedevano l’uso di gabinetti scientifici.

    Mito e storia

    L’amore per la propria terra spinge spesso a scambiare il mito per storia. In alcuni opuscoli pubblicitari si legge che il vino prodotto a Cirò è l’antico Krimisa che si offriva agli atleti di ritorno dalle Olimpiadi 2.500 anni fa. Si sostiene che lo stesso Milone, vincitore di sei gare nella lotta, fosse un gran bevitore di Krimisa e, citando Teodoro di Ierapoli, riuscisse a ingurgitare dieci chili di carne, dieci di pane e tre boccali di vino. I Greci approdati sulle coste dello Jonio chiamarono la Calabria Enotria, terra del vino, e si racconta che se ne producesse così tanto che a Sibari, per facilitarne il trasporto, furono costruiti “enodotti” che dalle colline arrivavano al porto.

    Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi
    Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

    È difficile credere che Milone mangiasse venti chili tra carne e pane ad ogni pasto. Così com’è difficile credere che i Sibariti trasportassero il vino dalle colline al mare come si fa per metano e petrolio. È difficile anche credere che nel territorio di Cirò per oltre venticinque secoli gli abitanti abbiano coltivato lo stesso vitigno e bevuto lo stesso vino. Nel 1792 Luigi Grimaldi scriveva che la concorrenza dei viticoltori forestieri aveva sconvolto l’industria vinicola nei territori di Cirò, Crucoli e Melissa. La necessità di aumentare la produzione aveva spinto i proprietari a piantare vitigni stranieri, con il risultato che il vino nuovo, pur adattandosi al gusto «grossolano» delle persone che ne facevano «stravizzo», era particolarmente cattivo e andava facilmente a male.

    Addio agli antichi vitigni

    La maggior parte degli antichi vitigni calabresi che davano un vino «squisitissimo», erano stati sradicati per piantare una specie importata, detta castiglione che, pur producendo uva in abbondanza, dava un vino di sapore «ordinario» e di «poco durabile qualità». Nel 1849, Pugliese annotava che, verso la fine del Settecento, le uve nere di Cirò erano aglianica, santa severina, lagrima, canina e piede longa e le bianche greca e pizzutella. Lo studioso, tuttavia, precisava che nel giro di cinquant’anni i proprietari avevano introdotto decine di uve straniere da mosto e da tavola.

    Le bianche da tavola erano:

    • moscarella
    • malvasia
    • agostarica
    • vesparula
    • zibbibbo
    • sanginella
    • duraca
    • nocellarica
    • uva pietra
    • corniola
    • zinna di vacca
    • zuccaro
    • cannella
    • catalanesca
    Vigneti a Cirò Marina
    Vigneti nella Cirò Marina dei giorni nostri

    Le bianche da mosto erano invece:

    • donna laura
    • greca
    • sprumentino
    • scilibritto
    • guarnaccia
    • pizzutella
    • scricciaruola
    • mantonico

    Le uve nere da tavola e da «stipa» erano damascena, duracina, pruna, cerasuola, testa di gallo, corniola, zinna di vacca, greco, ruggia o roja.
    Infine, quelle nere da mosto erano gaglioppo, piede longa, infarinata, lagrima, tenerella, sanseverina, canina e norella.

    “Patrune e sutta”

    Nella metà dell’Ottocento, secondo una statistica governativa, in 72 paesi della Calabria Citeriore il consumo di vino era discreto, in 76 era scarso e in 3 nullo. In genere si beveva in occasione delle feste o nelle 2.212 cantine sparse nella provincia e, non a caso, il redattore dell’inchiesta scriveva eloquentemente: «o niente o sbornia». Si consumava vino giocando soprattutto nelle taverne a patrune e sutta, padrone e sottopadrone. Colui che vinceva al tocco si chiamava padrone e poteva bere tutto il vino che voleva. Il sottopadrone, invece, poteva impedire di bere alla persona invitata dal padrone. Il meccanismo del passatempo era perverso e creava tra i partecipanti forte tensione, aumentata dagli effetti dell’alcol.

    In una prammatica della Gran Corte della Vicaria del 26 giugno 1756 si legge: «Il giuoco di Padrone e Sottopadrone è dell’istessa maniera, ma queste due sono le persone, che dispongono del chi deve bere. Onde coloro, che in tal gioco, anche vincendo, son privati per altrui strano capriccio del bere, resi corrivi, dando in escandescenza tale, che privati del vero lume della ragione promuovono delle risse, per cui sortiscono ferite, ed anche omicidj; anzi col tenersi dette bettole, e casini aperti quasi che le notti intere, maggiormente nella continuazione delle crapule si fomentano le occasioni a’ disordini, all’offesa del Sommo Iddio, e a tutte le altre discolezze, che possano immaginarsi, specialmente allorché sienvi donne che in tal luoghi per lo più si conducono o vi fan dimora». Visto l’andazzo, il gioco fu severamente proibito. Ma, a quanto pare, i provvedimenti non sortirono alcun effetto.

  • La domus c’è, il degrado pure: adesso che si fa?

    La domus c’è, il degrado pure: adesso che si fa?

    Ringrazio l’architetto Guido per la replica che condivido nelle parti in cui segnala le responsabilità legate alla mancanza di manutenzione dell’area archeologica scavata nel cuore di Cosenza nel corso degli anni ‘90. Lo stato di abbandono di piazzetta Toscano, a ridosso della Cattedrale, è palesemente il sintomo di un disinteresse e di una mancanza di cura che mi addolorano per il semplice fatto che, da “forestiero”, amo questa città.

    Le opinioni da me espresse nell’articolo, che il giornale I Calabresi ha avuto la bontà di ospitare, sono maturate a seguito di una esperienza vissuta sul campo qualche mese fa e riflettono il mio stato d’animo allorquando mi sono trovato di fronte al degrado in cui versano non solo le antiche rovine, ma anche l’opera di architettura che avrebbe dovuto valorizzarle. Evidentemente qualcosa non ha funzionato.

    Cercare colpe e colpevoli è un esercizio sterile a cui mi sottraggo. Dico solo, e propongo come tema di dibattito (non di polemica), che forse fra le cause del degrado -oltre all’incuria, e ripeto, alla evidente mancanza di manutenzione – vi è anche il riflesso di una visione assoluta dell’opera d’architettura come “oggetto autoreferenziale”. Un punto di vista che mette in secondo piano il contesto per affermare l’urgenza di un gesto di rottura in nome di una “Creatività Contemporanea” che, a mio avviso, ha fatto il suo tempo. Il concetto di manutenzione possibile e di accessibilità per tutti dovrebbe essere parte integrante del progetto di un’opera pubblica.

    La domus romana

    Quanto poi alla affermazione che «nessuna domus romana» è presente in loco, ma soltanto eterogenei lacerti di epoche diverse, rimando al saggio Le indagini archeologiche a piazzetta Toscano di S. Luppino e A. Tosti, contenuto nel Catalogo del Museo dei Brettii e degli Enotri, p.503 e seguenti. Confortato dalla letteratura specialistica segnalo quindi che l’architetto quando indossa il camice del chirurgo dovrebbe premurarsi di avere una conoscenza approfondita del corpo su cui interviene e dei suoi resti. Egli è stato chiamato allo scopo di proteggerli, valorizzarli e custodirli, perché quelle pietre ci parlano di Cosenza e della sua storia.
    Spero con tutto il cuore che questo scambio di opinioni possa servire a sensibilizzare la cittadinanza e i suoi rappresentanti sull’urgenza di riprendere le fila di un’azione di rilancio del centro storico che purtroppo è caduta nell’oblio.

    Giuliano Corti

  • Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    I soldi per il Parco archeologico di Sibari c’erano, ma nessuno li ha usati. E così il progetto di rendere fruibili i suoi tesori dopo il tramonto ha fatto un buco nell’acqua, che in zona di problemi continua a darne parecchi. «È una storia tristissima», commenta l’economista Fabrizio Barca. Durante l’allagamento del 2013 da ministro della Coesione territoriale si era speso per salvare il sito e il Comune di Cassano Jonio di recente gli ha conferito la cittadinanza onoraria proprio per questo. Nell’occasione si è tornati a parlare del fallimento del progetto Sibari di notte, promosso proprio da Barca.

    Fabrizio Barca riceva dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    Fabrizio Barca riceve dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    I soldi restituiti

    L’idea era di valorizzare il parco del Cavallo, l’unica area visitabile del sito archeologico di Cassano Jonio. Il Ministero dei Beni culturali (che lo gestisce) siglò un accordo con la fondazione Con il Sud, presieduta da Carlo Borgomeo. Il progetto prevedeva la ricostruzione virtuale – attraverso fondi privati e mediante l’ausilio di strumenti multimediali – di particolari delle strutture dell’antica polis della Magna Grecia. Barca e Borgomeo hanno criticato aspramente il Governo sostenendo che ormai i soldi sono stati riconsegnati agli investitori. Non è possibile visionare il progetto, ma abbiamo contattato l’ex ministro per avere un suo commento.

    «La valorizzazione notturna di Sibari – dice – è fallita negli anni passati. L’idea nasce nel 2013 sull’onda del disastro, per rilanciare il parco e non per tamponare. Si concretizza con una disponibilità straordinaria dell’imprenditoria locale e l’apertura del ministero. Sei mesi fa, però, abbiamo preso atto del fallimento e durante il conferimento della cittadinanza il consiglio comunale di Cassano, dalla maggioranza all’opposizione, con grande unità è tornato in quella sede a esprimere la speranza che si possa riprendere l’itinerario. Insieme a Patrizia Piergentili, membro attivo nel progetto, abbiamo retrocesso con enormi difficoltà le donazioni che un gruppo di imprenditori del territorio aveva fatto ed erano rimaste lì in attesa del via. Le difficoltà precedono l’autonomia data dal ministero a Sibari – conclude Barca – e la domanda da farsi è: ora ci sono le condizioni per superare queste criticità?».

    L’autonomia

    L’autonomia a cui fa riferimento l’economista riguarda la scelta del ministero della Cultura di inserire nel 2019 anche il Parco archeologico della Sibaritide – comprensivo del vicino museo e di Amendolara – tra gli enti autonomi. Significa affidargli la gestione degli incassi e l’opportunità di appaltare lavori e servizi, a differenza degli altri musei statali. Per rendere operativo il parco archeologico, inoltre, il ministero ha inserito Sibari nell’elenco dei “Grandi progetti beni culturali” stanziando tre milioni di euro nel bilancio preventivo di quest’anno. Altri importanti finanziamenti sarebbero in arrivo.

    È approdato un nuovo direttore, Filippo Demma, e il museo della Sibaritide ha aperto nuove sale multimediali in edifici mai entrati in funzione. È in corso la riorganizzazione degli spazi espositivi e, prima di sbarcare per la prima volta alla Borsa del turismo a Paestum, è stato il turno di darsi una più moderna identità visiva con logo e sito web. Lo scorso aprile i carabinieri del nucleo Tpc agli ordini di Bartolo Taglietti hanno consegnato qui oltre 600 monete recuperate con attività investigative per restituirle alla collettività in un allestimento museale. Secondo il sindaco di Cassano, Gianni Papasso, questi sono «passi in avanti rispetto all’immobilismo degli ultimi anni».

    Gli allagamenti continuano

    Ma se è fallito così miseramente Sibari di notte, è invece visitabile il parco archeologico di giorno? L’acqua minaccia lo spazio aperto al pubblico – tanto da renderlo pericoloso – e le altre zone non accessibili ai visitatori, fino a lambire lo stesso museo che è fornito di pompe per risucchiarla. «Nonostante sia fallito prima del mio arrivo qui – afferma Demma sul progetto di Barca – lo considero importantissimo per la valorizzazione e per il coinvolgimento di artisti internazionali. Ho anche intenzione di riprendere questo piano e ne ho parlato proprio con lui qui a Cassano. Il punto è questo: come faccio ad autorizzare investimenti privati se ora abbiamo il sito completamente allagato perché le pompe per l’aspirazione dell’acqua sono di 50 anni fa e le trincee drenanti non sono mai state fatte?».

    I vigili del fuoco in azione dopo l’alluvione del 2013
    La golena e la falda

    Nel report presentato dopo l’alluvione del 2013 al Senato il sindaco Papasso parlava della presenza di coltivazioni non autorizzate nella golena del fiume che hanno ostacolato il deflusso dell’onda di piena. E il Comune, infatti, ha ordinato l’eradicazione di un agrumeto di un privato. Poi ricorso al Tar e la palla passa nel 2014 per competenza al Tribunale superiore delle acque pubbliche. Barca ricorda che nel 2013, quando era a Cassano per l’allagamento del sito, era palese una situazione di utilizzo non appropriato dei terreni in quell’area. «Da quanto ne so, il decreto di rimozione del famoso agrumeto è diventato efficace solo ora».

    Gli scavi allagati
    Gli scavi sommersi dall’acqua del Crati nel 2013

    «Il problema ora non è il Crati – sostiene Demma – ma riguarda la falda acquifera tra il fiume e il canale degli Stombi. Bisogna canalizzare quest’acqua prima che arrivi sotto il parco. Vuole sapere cosa sto facendo intanto? È in atto un intervento per sostituire il sistema di pompe well-point per l’aspirazione dell’acqua nel parco del Cavallo in modo da tenerlo asciutto e in sicurezza. Poi, grazie al Pnrr, si vuole mettere in sicurezza anche il museo, che pure soffre questi problemi di allagamento, e il resto dell’area archeologica: Casa Bianca e il cosiddetto “prolungamento”». «È necessario notare – afferma l’archeologa Maria Teresa Iannelli – che i livelli più antichi dell’arcaica Sybaris e della più recente Thurii, tranne poche eccezioni non sono visibili. L’area fruibile al pubblico è relativa all’ultima e più recente fase di occupazione del sito, cioè quella della città romana di Copia».

    Non solo acqua

    In autunno perlomeno la golena del Crati non ha dato preoccupazioni, ma problemi di altro genere non sembrano mancare. Una struttura ricettiva a Casa Bianca è stata spogliata di infissi e quadri elettrici e quest’estate un deposito (non utilizzato) è andato a fuoco. «Intimidazioni inaccettabili», secondo le deputate del Movimento 5 stelle Anna Laura Orrico ed Elisa Scutellà. E lo stesso Demma raccontava soltanto qualche mese fa a Maurizio Molinari sulle pagine di Repubblica che «la polizia ha documentato come si pratichi prostituzione anche in casotti e ricoveri di fortuna all’interno di zone archeologiche»

    Il deposito incendiato nell'estate 2021
    Il deposito a fuoco nell’estate 2021
    Orario ridotto

    La pianta organica del parco archeologico di Sibari, poi, prevede 48 tra vigilanti, amministrativi e archeologi. In servizio però ce ne sarebbe solo un terzo. E anche i tirocinanti della Regione non hanno rassicurazioni per un eventuale rinnovo di contratto nel 2022. «I 23 tirocinanti, impegnati diverse ore a settimana, ci consentono di tenere aperti il parco e i musei. Senza di loro da gennaio dovrò contrarre l’orario di visita», lamentava Demma quando lo abbiamo sentito. Passato il weekend di Capodanno, la conferma con un lungo e sconsolato post su Facebook: niente proroga ai contratti da parte della Regione, ora tocca a Roma rimediare. Nel frattempo, orari ridotti per carenza di personale. «Siamo sicuri – scrive Demma – che il Ministero della Funzione Pubblica porterà rapidamente a termine le procedure e potremo festeggiare anche il rientro degli ex-tirocinanti insieme al nuovo ampliamento delle aperture. Ma purtroppo non è questo il momento».

    I dati sugli ingressi del 2019 nei musei statali in Calabria

     

    Già prima della pandemia, in base ai dati ufficiali, non si rischiavano assembramenti di turisti. Il flusso in entrata nel 2019, in attesa dei numeri sul 2021, parla di 13 mila ingressi. Corrispondono al 3,4% del totale delle persone che nello stesso anno hanno visitato musei, castelli e siti archeologici gestiti dallo Stato in Calabria.
    Per crescere come merita al parco archeologico servono maggiore attenzione e un interesse concreto delle istituzioni. Il grande progetto per Cassano Jonio prenderà vita grazie all’autonomia o sarà il bis di “Sibari di notte”?

  • Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.

    Sostegno a intermittenza

    Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.

    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Una pista da battere

    Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.

    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo
    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo

    «Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.

    Insieme per la verità

    Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.

    Il clima a Cetraro

    Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».

    In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.

    Il fascino del male

    Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».

    Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.

    Un processo da spostare

    «La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».

    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ombre sul tribunale

    Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.

    Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Venturapadre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.

    Gli amici

    Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.

    Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.

  • Piazza Toscano: dalla parte dell’architettura o della spazzatura?

    Piazza Toscano: dalla parte dell’architettura o della spazzatura?

    Fin dalla prima uscita de I Calabresi su queste pagine si è parlato del degrado del centro storico di Cosenza, l’ultima volta ospitando una riflessione di Giuliano Corti sullo stato in cui versa piazza Toscano. A quell’articolo diamo seguito ospitando le considerazioni del progettista della malridotta copertura che riveste l’area archeologica, l’architetto Marcello Guido. Una replica, quella di Guido, che pubblichiamo nella speranza che un dibattito allargato sia da stimolo per il recupero reale di un tesoro che appartiene a tutti.

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    Gentile Direttore,
    premetto che seguo la sua rivista e ne condivido le finalità culturali e di inchiesta volte ad una Calabria che tutti noi amiamo e vorremmo diversa rispetto alle criticità, purtroppo tante, che attanagliano la nostra regione.
    Le scrivo dopo aver letto l’articolo dedicato a Piazza Toscano a firma di Giuliano Corti pubblicato sulla rivista che lei dirige e vorrei, in qualità di progettista dell’opera, fare alcune considerazioni su quanto scritto.

    Puntuali, ogni due o tre anni, arrivano critiche e polemiche riguardanti Piazza Antonio Toscano, un’area del centro storico di Cosenza che, come architetto, ho avuto il compito di riprogettare alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso. Sono abituato alla furia distruttiva di qualcuno che di volta in volta si scaglia contro questa opera. Alcuni anni fa, apparve finanche un cartello che invitava ad impiccarmi.

    Il recente articolo intitolato “L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano” solleva un’interpretazione nuova a cui risulta doveroso rispondere. L’articolo lascia intendere che sia stato il mio progetto di architettura a generare il degrado del luogo: opera demoniaca, poiché caratterizzata da un “furore compositivo che ha generato un mostro” si può leggere tra le numerose frasi di condanna. Chi conosce le cronache cosentine, sa bene che l’area retrostante il Duomo, nei decenni che hanno preceduto il mio intervento di ristrutturazione urbana, era caratterizzata da povertà, randagismo, spaccio e prostituzione, nonostante l’attivismo di associazioni e residenti che si sono mossi per denunciarne i problemi.

    Bellezza e paure

    Tra gli addetti ai lavori, sono molti quelli che ritengono Piazza Toscano un significativo esempio di architettura contemporanea. Le opere contemporanee suscitano sempre dibattito, soprattutto quando mettono in crisi dei valori precostituiti, sollevano dubbi, interrogano le coscienze. Tuttavia pensavo fossero finiti i tempi in cui si additassero le colpe del disagio sociale -e dell’inefficienza politica- ad opere d’arte o d’architettura giudicate degenerate.

    L’autore del sopracitato articolo, riferendosi al mio progetto, ne riconosce lo status di “opera di ingegno” e lo descrive come una “macchinosa copertura in vetro [in] calcestruzzo e/o ferrame”, sentenziando che “laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione, l’orrore”. Ma le opinioni riflettono spesso paure subconsce, tanto che il brutto è solo ciò che non si uniforma ad astratti quanto personali standard estetici e morali. Per questo motivo, l’articolo non si limita ad una critica circostanziata al mio progetto, ma probabilmente esprime timori più profondi e radicati nei confronti di una società che non è in grado di offrire un’opera d’arte astrattamente bella e stabilizzante.

    Nessuna manutenzione

    In realtà, uno dei principali problemi che attanaglia Piazza Toscano e con essa anche gli altri beni storico-architettonici del centro storico di Cosenza, riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria. Purtroppo gli interventi sono stati troppo rari nel corso degli ultimi due decenni. L’erba è cresciuta indisturbata per anni nell’area archeologica e si sono accumulate buste di spazzatura e montagne di rifiuti in ogni angolo. Bande di teppisti hanno agito indisturbate, frantumando i vetri delle coperture e delle pavimentazioni, mentre altri malfattori hanno trafugato scossaline e pluviali indispensabili per la raccolta e il deflusso delle acque piovane. Inoltre diverse persone hanno utilizzato porzioni dell’area archeologica come spazio ricreativo dei propri animali domestici, preparandola a diventare un ricovero di randagi.

    Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano
    Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano

    Adesso con furia iconoclasta ci si scaglia contro l’opera architettonica e non contro il degrado che pervade quest’area al pari delle tante periferie urbane delle nostre città. Chiunque si sia mai dedicato ad un orto o un giardino, sa che la pulizia e l’estirpazione delle erbe infestanti richiedono un impegno continuo. In fondo, se si lasciasse la propria casa nell’incuria generale, senza pulire, buttare l’immondizia, scaricare l’acqua del bagno, senza raccogliere le deiezioni dei propri animali domestici, senza aggiustare un qualche vetro che si rompe, insomma senza fare le azioni quotidiane necessarie, la casa collasserebbe nel giro di pochi mesi. Perché ci si stupisce che Piazza Toscano, dopo anni di abbandono, abbia bisogno di interventi di manutenzione?

    La funzione sociale

    Sarebbe intelligente chiedere che venga svolto l’ordinario servizio di pulizia ed attivare dei tavoli di discussione tra i vari enti coinvolti nella gestione dell’area, promuovere delle campagne di educazione nelle scuole, sensibilizzare i cittadini organizzando visite guidate, dibattiti e attivando gli assistenti sociali quando necessario. Gridare allo sfascio, senza individuare responsabili e senza fare proposte concrete, invocando un’astratta quanto mitica “bella” architettura, rischia invece di assecondare il degrado.

    Per comprendere la situazione attuale è necessario conoscere la storia dell’intervento. Il progetto di quella che veniva chiamata Piazzetta Toscano, dopo cinquant’anni di disinteresse e controversie, fu definito all’interno di un programma di rigenerazione urbana attuato da Giacomo Mancini alla fine degli anni ’90. È con l’amministrazione di allora che concordammo di realizzare uno spazio che svolgesse una funzione sociale, all’interno di un progetto molto più ampio di sistemazione complessiva della spina dorsale del centro storico della città, rappresentata dal Corso Telesio.

    Duemila anni di storia

    Si trattava di uno dei primi interventi intesi a rivitalizzare la città storica, e si scelse appositamente una delle aree più problematiche del centro storico di Cosenza. La necessità di una campagna di scavi archeologici intervenne in seguito al ritrovamento di reperti antichi, di cui si era ipotizzata la presenza sin dal progetto preliminare. Dopo un anno di lavori, si portò alla luce un’area archeologica molto complessa e di difficile lettura, fatta di stratificazioni diversissime che si incrociano tra loro, con giacenze su diversi piani e con presenza di murature che impediscono il deflusso naturale delle acque.

    Tuttavia, quando si conosce poco la storia dei luoghi, si finisce per evocarla continuamente. Nessuna “domus romana” come è stato scritto, ma lacerti in cui sono visibili i traumi subiti da più di duemila anni di storia: tra i tanti reperti vi sono un enigmatico cilindro in muratura costruito in epoca rinascimentale, frammenti di epoca Bruzia, porzioni di mosaici e cocciopesti romani, un pozzo utilizzato nei secoli più recenti per conservare la neve, tronconi di murature di epoca medievale e contemporanea. Tracce di tumultuosi terremoti, distruzioni, assedi, incendi, sono presenti nell’articolata stratigrafia in cui si sono riscontrate sepolture frettolose fatte a seguito dei medesimi eventi.

    Chirurgia e puzzle

    Piazza Toscano rappresenta concettualmente una ferita causata da un’incisione chirurgica. Non a caso l’intervento di ristrutturazione urbana nasceva dalla suggestione di un corpo umano disteso sul tavolo operatorio. Il chirurgo e il suo team di collaboratori hanno la straordinaria possibilità di osservare gli organi interni prima di passare all’azione. Si voleva offrire ai cittadini l’opportunità rara di penetrare virtualmente nelle viscere della città, per offrire uno spettacolo unico ed educativo.

    Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano
    Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano

    Si può osservare così un tessuto urbano frastagliato e stratificato, fatto di piccoli episodi e frammenti architettonici, spesso non correlati tra loro. Un puzzle scomposto, di difficile interpretazione anche per gli addetti ai lavori. Da qui l’esigenza della Soprintendenza di realizzare delle coperture di protezione dell’area archeologica.
    Sarebbe bello e utile che Comune e Soprintendenza si mettessero d’accordo sulla manutenzione ordinaria dell’area archeologica e affidassero a qualcuno la predisposizione di alcuni pannelli illustrativi per spiegare ai visitatori la complessità e la ricchezza rappresentata da quelle tracce storiche.

    Il tema è dunque quello del difficile rapporto tra antico e nuovo, un rapporto da sempre conflittuale che vede contrapposte diverse linee di pensiero, sulle quali non mi soffermo per non ricadere in discorsi di natura accademica. Voglio solo sottolineare che la genesi del progetto nasce dal sottostante tessuto edilizio, scomposto e frastagliato, e ne ha assecondato lo schema. Il progetto fin dalla nascita ha suscitato in egual misura scandalo e consensi. Il fatto che sia stato approvato, a seguito di un articolato iter burocratico, con parere positivo del Comitato tecnico-scientifico del Ministero dei beni culturali, fa capire la complessità della questione.

    Un riconoscimento per pochi

    Recentemente il Ministero della Cultura, attraverso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea, ha incluso il progetto di sistemazione archeologica di Piazza Toscano in una lista di opere ritenute tra le più significative realizzazioni italiane del secondo Novecento. Piazza Toscano è uno dei pochi interventi realizzati da architetti ancora in vita, in quanto la maggior parte delle opere selezionate riguardano i maestri dell’architettura italiana del dopoguerra. Tra i progetti di architettura e di ingegneria calabresi realizzati negli ultimi vent’anni ce ne sono ben pochi che possono contare su questo riconoscimento. Un riconoscimento che a ben guardare non va a me, ma alla città di Cosenza, ai cittadini che dispongono di questo bene pubblico e alle maestranze calabresi che l’hanno costruito.

    Un particolare di piazza Toscano
    Gli interventi su piazza Toscano hanno riguardato anche gli edifici intorno ai ruderi romani

    Ho avuto il piacere di illustrare il progetto in diverse università, di vederlo in mostra in Italia e all’estero, di vederlo pubblicato in riviste nazionali e internazionali, ma a volte mi chiedo che reazioni avrebbe suscitato una copertura in tubi innocenti, come se ne vedono tante nelle aree archeologiche. Oppure cosa sarebbe successo se avessi proposto delle semplici coperture a forma di capanna, magari con coppi di cotto (una sorta di presepe)?
    Credo che avrei commesso una violenza inaudita nei confronti del tessuto storico e temo che sarebbe passato tutto nell’indifferenza generale, poiché avrei offerto una soluzione consolatoria o effimera, a seconda dei casi.

    Il degrado del centro storico

    Personalmente, nel mio fare professionale, affido particolare rilevanza alla qualità del progetto di architettura ed affido ad esso un ruolo “sociale”, nella consapevolezza che questo si debba configurare come una componente fondamentale del benessere e della qualità della vita. Ciò che fa discutere è il segno moderno nel contesto storico, ma qui si aprirebbe una discussione che va bel oltre queste poche righe.
    Su una cosa sono d’accordo con l’articolo che mi ha sollecitato a scrivere: oggi l’area è completamente vandalizzata e ruderizzata, sia il giacimento archeologico che le strutture architettoniche, ma lo è anche l’intero centro storico che cade a pezzi. Gli abitanti e le attività economiche sono sempre meno e tutti insieme lanciano un grido di aiuto, ma anche un monito per l’intera comunità.

    Marcello Guido

  • IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    Ogni città con la sua storia, con i suoi simboli, con le sue architetture, con il suo via vai, ci parla di sé come luogo sociale, perché è la casa di molti. Ma ogni città, e in Calabria non sono parecchie, nello stesso tempo è un luogo dell’immaginazione e della costruzione dell’avvenire. Le città più dei paesi ci mostrano un tempo in movimento. Dove comincia Cosenza? Per me Cosenza, e tutto quello che rappresenta, comincia da Paola. Il posto in cui sono nato. E da cui sono sempre fuggito.

    A portarmi via era, da ragazzino, la vecchia littorina della cremagliera, poi il bus di Preite, poi l’autostop, anche due volte al giorno. Cosenza per me era come una calamita di irrequietezza pura. Era Cosenza in my mind. Eppure i mei primi ricordi di Cosenza non sono affatto simpatici, anzi.
    La prima volta che ci sbarcai, in treno, avevo al massimo otto anni, dopo la metà degli anni ’60. Era per passare una visita oculistica all’Enpas, negli ambulatori tetri di Via Miceli. Ero un bambino miope e i primi occhiali li misi proprio a Cosenza. Comprati dopo la visita con la ricetta dell’oculista dell’Enpas che si chiamava Cozza. E che mi mandò a prendere montatura e lenti da un ottico che si chiamava Cozza-Le Pera, su Corso Mazzini.

    Corso Mazzini negli anni '60
    Una cartolina degli anni ’60

    Ma il ricordo di quelle prime volte a Cosenza era anche scendere dalla littorina che sbuffava lenta e vedere ancora davanti alla stazione in centro le carrozzelle con i cavalli alla stanga e i cocchieri di piazza che davano la biada e le carrube da secchi di latta e sacchi di iuta alle bestie ferme coi paraocchi di cuoio in mezzo al traffico del primo mattino, già fumoso e strombazzante di 600 e vecchie Fiat Millecento. Si faceva sempre con mio padre una passeggiata e io mi incantavo davanti alle vetrine fornite di tutto dei negozi di Corso Mazzini. Era la cosa più vicina al cinema che avessi mai visto. Ma l’incanto più grande era quando si entrava nei “grandi magazzini”, i primi templi provinciali del consumo nati negli anni del Boom.

    Delizie di Cosenza

    Sul corso c’erano Bertucci e, soprattutto, la Standa. Quando si entrava alla Standa non era solo per comprare qualcosa che a Paola non c’era. Alla Standa c’erano le “Signorine”. Le mitiche commesse, giovani e belle, con le divise color pastello all’ultima moda e una specie di crestina o foulard in fronte. Erano tutte ben pettinate, con le unghie laccate di rosso e un bel rossetto vivace sulle labbra che sembravano attrici. Le voci e gli accenti flautati risuonavano ai microfoni per le chiamate alla cassa. Era un paradiso di delizie la Standa.

    Clienti in fila all'ingresso della Standa
    Clienti osservano le vetrine della Standa di Cosenza negli anni del Boom

    Fuori si passava davanti a un chiosco di cravatte fornitissimo e poi ad un altro dove c’era una specie di pasticcere-acrobata, Ciccillo u caramellaro, che dietro un bancone fabbricava al momento caramelle. Stendeva la pasta di zucchero bollente e colorata manovrando spatole e attrezzi con l’abilità di un funambolo, poi quel serpente coloratissimo si trasformava in bastoncini di zucchero. Il resto lo tagliava con una forbice e spezzava in tocchetti grossi le caramelle che si vendevano a dozzine. Io prendevo sempre quelle frizzanti al limone, colorate a strisce di verde e di giallo. Poi c’era la fermata all’edicola vicino al Comune, dove per consolazione dei pianti che mi facevo per gli occhiali che non volevo mettere, papà mi comprava gli albi a fumetti del grande Blek e di Capitan Miki e pure le bustine delle figurine Panini. Prima o dopo il passaggio dall’ottico, che nel frattempo era diventato Ambrosio.

    Enzo Giudice, noto a tutti i cosentini come "Cicciu 'u cravattaro"
    Enzo Giudice, “Cicciu ‘u cravattaru”, nel suo chiosco
    Due personaggi da cinema

    A quei tempi si incontravano per strada altre due strane attrazioni cosentine, personaggi eccentrici che ricordo nitidamente, come fossero usciti da un film. Il primo era un tizio dal fare dimesso con una cassetta di legno e dei santini in mano che chiedeva con molliccia e querula insistenza un’offerta per Sant’Antonio. Erano dieci lire, dieci lire: «Picciri’. mi ci metti dieci lire pe’ piaciri?». La richiesta mi metteva sempre a disagio.
    Poco più avanti si parava una donna grassa con i capelli giallissimi, vestita con stoffe colorate, collane vistose e grandi orecchini. Aveva sul marciapiede del corso una specie di banchetto per le riffe dietro cui stava seduta come una matrona, e un pappagallo sulla spalla che se compravi un numero l’uccello a un suo comando tirava via col becco da una specie di rastrelliera di carta il biglietto corrispondente.

    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu Sant’Antonio i l’uartu“
    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu i Sant’Antonio i l’uartu“, pochi anni fa su corso Mazzini

    Poi c’era l’immancabile visita di devozione (mia madre ci teneva che lo facessimo) alla chiesa di San Francesco di Paola, appena sopra il ponte Garibaldi. E prima di tornare a piedi alla stazione a riprendere la cremagliera per Paola, papà comprava un pane caldo e fragrante insieme a una guantierina di paste da riportare a casa. Era tutto buonissimo. Così, da quei primi viaggi, presi da ragazzo l’abitudine, anzi il vizio, di Cosenza.

     Il richiamo della città

    Era un posto pieno di richiamo: aveva l’aria della città, Corso Mazzini, il Rendano, i palazzi grandi, i bar sempre pieni e i negozi con le vetrine e le commesse eleganti, le automobili nuove. Una delle scuse per salire a Cosenza erano i traffici con gli zingari accampati tra le baracche di Gergeri e via Popilia. Io e una banda di lucignoli del quartiere ferroviario nei giorni di filone salivamo sul trenino per Cosenza e passavamo da loro a vendere il rame raccattato lungo i binari della stazione e dai resti avanzati dai lavori sulla ferrovia sotto casa.

    Ne ottenevamo in cambio un po’ di soldi e meglio ancora: fibbioni di ottone molto beat (quelli erano gli anni dei Beatles e dei teddy boys). Oggetti bellissimi di artigianato che in realtà erano per loro solo finimenti per cavalli, o anche le bellissime zingarole, gli scacciapensieri, forgiate da un fabbro al momento, con la linguetta di ferro che se non la sapevi suonare bene ti tagliava la lingua come una lama di rasoio.

    Pane e rose

    Poi quando divenni ancora un po’ più grande Cosenza la frequentai per la vecchia libreria Feltrinelli di Corso Telesio. Qualche volta, complice un vecchio funzionario del Psi messo lì a fare da libraio che chiudeva un occhio, rubavo i libri di letteratura e filosofia che non potevo comprarmi.
    Dopo il pane, le rose. Le rose erano le scorribande a Piazza Kennedy e quel formicaio di ragazzine vocianti che si aggrappavano sotto le ali del monumento di Baccelli. Poi venne il tempo del Teatro dell’Acquario e il Centro RAT, gli spettacoli di prosa impegnati di Antonante, i seminari del Living di Julian Beck e Judith Malina, di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Mario Martone e Memé Perlini, la musica e le parole colte del teatro al buio, e quell’aria da off-Broadway di provincia che si respirava lì intorno.

    La vecchia piazza Kennedy
    La vecchia piazza Kennedy a Cosenza col monumento di Baccelli trasferito poi su viale Mancini

    E poi lì, accanto alla sala dell’Acquario, c’erano le ballerine della scuola di danza della Sisca. Giravo sempre lì intorno. Le ragazze della scuola erano belle, sottili, diafane, eleganti, allegre e garrule come rondini di primavera. Poi per me venne il tempo serio e pensoso dell’Università di Arcavacata, Arca, la nostra Macondo. L’Arca di Noè del nostro diluvio generazionale. Arca fu l’incubatore della mia metamorfosi da figlio di ferroviere scapestrato e sognatore a studente modello di sinistra-incazzato-impegnato e, infine, professore.

    Tempi moderni

    E intanto mi accorgevo che anche Cosenza un anno dopo l’altro dilatava i suoi confini, cambiava di fisionomia. Diventava grande, sempre più grande e piena di palazzoni di cemento, nuovi, grigi e colorati, attraversati da strade piene di auto. Tutti segni che si vedevano già dai finestrini della Littorina prima di scendere alla stazioncina-capolinea di Cosenza-Piazza Bruzi. Di mezzo c’era passata altra storia e gli effetti della politica, i grandi cambiamenti, la “modernizzazione”. La fame di terra e la crescita del cemento in alto e in basso, dopo l’ininterrotta spinta urbanistica e speculativa iniziata negli anni del Boom, giunge al suo apice a Cosenza dopo che una richiesta di “depennamento dall’elenco delle zone sismiche di secondo grado” trova accoglimento alla fine degli anni ‘60.

    Il limite di prudenza che aveva stabilito sino ad allora la sopraelevazione dei nuovi edifici in città “sino ad un massimo di cinque piani” fu innalzato con un provvedimento ad hoc approvato dai governi di centrosinistra dell’epoca. Decisivo l’accordo dei due massimi dioscuri della politica cosentina, Giacomo Mancini e Riccardo Misasi. Sono entrambi alfieri della modernizzazione calabrese al cemento e dell’espansione clientelare del terziario assistito, settori che infoltiranno le fila della pubblica amministrazione e della piccola borghesia urbana che in quel momento rappresentano il contingente più significativo della nuova popolazione inurbata che affollerà la Cosenza in espansione di quegli anni.

    Quali sono stati i ministri calabresi nella storia repubblicana
    Giacomo Mancini al tavolo delle trattative per la formazione del primo governo Andreotti
    Il sacco di Cosenza

    L’elevazione delle nuove costruzioni oltre il limite del quinto piano, svecchiando l’aspetto urbanistico della città, “avrebbe inoltre reso accessibile alle classi meno abbienti l’acquisto dell’alloggio”. Gli amministratori cosentini dell’epoca salutarono la rimozione del fastidioso vincolo sismico come “uno strumento idoneo per il ribasso dei prezzi delle aree fabbricabili”. In realtà risulterà presto chiaro che quell’abolizione, determinando “una sensibile riduzione per i costi dell’edilizia”, avrebbe favorito le crescita delle rendite immobiliari. S’intensificò l’attività di speculazione edilizia nelle aree in piano, un tempo agricole, ai piedi del centro storico. E si diede così la stura all’abbandono dei vecchi quartieri del centro storico e delle prime addizioni urbanistiche tardo ottocentesche e novecentesche.

    Fu l’inizio del sacco edilizio della città. Da quel tempo dura ancora oggi in modo inarrestabile. Cosenza fu tutto un fiorire di gru e di cantieri. Quella poderosa spinta alla speculazione partita negli anni ’60 e non ancora arrestata dalla crisi si è rivelata una manna per cementisti, costruttori e palazzinari. Già nel 1971 Cosenza raggiunge di gran carriera la quota di quasi 118.000 abitanti residenti nel circuito della città nuova che si dilaterà ben oltre il limite del Campagnano. Un record che neanche la ricorrente retorica della “Grande Cosenza” di oggi sfiora, se non raccogliendo i cocci sparsi della cosiddetta area vasta formati dai comuni limitrofi, oramai conurbati.

    Una zuppa di città

    Nel frattempo sono cresciuti quartieroni sempre più nuovi e più grandi, nuove zone residenziali, periferie e suburbi, svincoli, rotatorie, semafori e incroci, bretelle, viali attrezzati, aree commerciali e dirigenziali. Tutto tenuto insieme solo dal traffico e da strade che spesso si perdono nel vuoto. Un groviglio più o meno fitto e disunito, che forma tutt’al più una zuppa di città. Per ora c’è solo il simulacro, il fantasma scheletrico del cemento armato, a disegnare le linee interrotte della Grande Cosenza. Ma non gli abitanti, i cosentini. Anzi i cusendini. Gli abitanti degli avamposti della nuova Cosengeles, sono invece sempre di meno: oggi assommano poco più di 65mila, da 118 mila che erano cinquant’anni prima. Cosenza però, pur se gonfia di ormoni consumistici e cemento da metropoli post moderna, non è ancora diventata una vera città metropolitana, nonostante le sue ambizioni provinciali.

    I palazzi cresciuti a Cosenza intorno all'imbocco dell'ex Salerno-Reggio Calabria
    I palazzi cresciuti intorno all’imbocco dell’ex Salerno-Reggio Calabria

    Dove comincia e dove finisce Cosenza adesso? Non è mica davvero Cosengeles. Eppure non si capisce che geografia abbia, che volto voglia mostrare, che postura voglia tenere. Strade, e Cosenza in mezzo a un groviglio di strade: la 107 Silana-Crotonese, che valicando l’Appennino congiunge Paola all’autostrada del Mediterraneo (che una volta era semplicemente la Salerno-Reggio Calabria) e poi risale verso la Sila fino a toccare lo Ionio a Crotone; il lungo stradone che conduce ai Cubi Gregotti dell’università di Rende e a quella striscia slineata e disarmonica di grigi quartieri dormitorio che scende dalle colline presilane e dai suoi antichi casali e si salda come una frana che un chilometro dopo l’altro inghiotte tutto il fondovalle costeggiando le due sponde del Crati, fino alla soglie di Montalto, Taverna, Rose.

    I quartieri sul Tirreno

    È la Cosenza capitale del cemento facile che vorrebbe intitolarsi “area urbana”, dove l’urbano altro non è che il prolungamento isolato e zeppo di casermoni in cui la vita scorre ai lati della 107, della vecchia e nuova 19 delle Calabrie, prima di confluire nel traffico che si dirama ininterrotto sull’asse nord-sud, fino a scendere di nuovo verso Paola, sulla traccia tortuosa della statale 18, la prima Salerno-Reggio Calabria della storia. Per spegnersi poi a rivoli di sudore, polvere e catrame diuturni sulle spiagge del Tirreno.

    In mezzo, quel vasto e sfrangiato compound delle vacanze pendolari e low cost che è fatto di fitti di fortuna e delle seconde e terze e quarte case dei dannati dei bagni con famiglia al seguito. Vacanze al mare che sono i cubicoli all’implacabile calura d’agosto e le scatole da imballaggio delle due settimane con le famiglie al mare, in fila sotto i cavalcavia e i binari della ferrovia tra Torremezzo, San Lucido, la marina di Paola, Fuscaldo, Acquappesa, Sangineto: i quartieri d’estate dei cosentini.

    (le immagini d’epoca all’interno dell’articolo sono pubblicate sul gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

  • Peperoncino e Calabria, storia di un grande amore (nato male)

    Peperoncino e Calabria, storia di un grande amore (nato male)

    Il peperoncino oggi è considerato centrale nella tradizione culinaria calabrese e addirittura riconosciuto come simbolo dell’identità regionale. Nei dépliant delle pro loco si legge che è utilizzato fresco, sott’olio o in polvere in zuppe, salse, verdure, insalate e nei piatti a base di carne e pesce. Cuochi e pasticceri hanno inventato marmellate, liquori, cioccolata e caramelle a base di peperoncino. In ogni negozio campeggia la «bomba calabrese», un barattolo di pipariddi sott’olio corredato da involucro e miccia di cartoncino. In un trattato di cucina si legge che il frutto è così radicato nella regione da far pensare che la  sua prima patria sia stata la Calabria e non il Messico.

    Il festival del peroncino che si tiene ogni anno a Diamante
    Il festival del peroncino che si tiene ogni anno a Diamante

    A Diamante è nata un’Accademia nazionale che mira a diffondere la cultura del piccante calabrese nel mondo e che organizza il Campionato italiano mangiatori di peperoncino. Concorrenti provenienti da ogni regione, dopo aver superato le eliminatorie nelle varie delegazioni, seduti intorno a un tavolo dinanzi a un numeroso pubblico e un’attenta giuria, in trenta minuti si sfidano mangiando peperoncino, servito crudo e tagliuzzato in portate di cinquanta grammi.

    Da un’icona nasce l’altra

    Al peperoncino è legata anche la ’nduja, un insaccato morbido e cremoso prodotto a Spilinga e nell’altopiano del Poro con le carni più grasse del maiale. Alcuni sostengono che somiglia alla sobrassada degli spagnoli e per altri al salam dla duja piemontese, un salume di carni suine immerso nello strutto che lo rende a lungo morbido. Altri, infine, ritengono che la ‘nduja, simile all’andouille, realizzata con la carne di maiale, sia stata introdotta dai francesi durante l’occupazione della regione agli inizi dell’Ottocento.

    La ‘nduja ricorda anche la nnuglia o nnoglia, una sorta di salsicciotto bislungo da bollire nella minestra, diffuso nelle regioni meridionali. In un trattato del Settecento si legge che era composta essenzialmente di «carni nervose, ventri ed altri interiori tritati», conditi con sale, finocchio, pepe, aglio e altri ingredienti. Tale salame era chiamato anche il pezzente ed essendo un cibo di «vil prezzo», ad un «balordo» si soleva dire «si no piezzo de nnoglia».

    'Nduja di Spilinga
    ‘Nduja di Spilinga

    Grimaldi nel 1770 scriveva che, nonostante i maiali calabresi vivendo allo stato brado e cibandosi di ghiande avessero una carne pregiata, «per l’ignoranza e la negligenza» della popolazione lardi, prosciutti, mortadelle e salsicciotti «marcivano, erano tristi e di poca durata». Negli anni seguenti, grazie alle proprietà conservanti del peperoncino, si diffusero nella regione insaccati come la ‘nduja, prodotto che da qualche tempo è diventato una sorta di icona della cucina regionale.

    Un inizio difficile

    Sembra che calabresi e peperoncino siano stati sempre uniti da un profondo legame, ma in realtà nei suoi confronti vi sono state resistenze e cautele.
    Come tutti gli altri prodotti «americani», il peperoncino si affermò in maniera lenta e tormentata. Campanella accennava alle proprietà medicinali del piper rubrum indicum ma, nei trattati di agricoltura, nelle inchieste agrarie e nelle monografie sulla Calabria non si fa menzione della sua coltivazione. Il peperoncino era ritenuto un frutto «ulcerativo» e alcuni esperti del Cinquecento avvisavano i lettori che si trattava di un cibo dannoso e «volgare». Soprattutto i semi, simili a lenticchie, «abrusciavano valorosamente lingua, bocca e palato».

    Un secolo dopo, pur raccomandando di non mangiarlo spesso perché «noceva molto», Benzo e altri riconoscevano che il peperoncino avrebbe avuto un notevole successo perché sostituiva bene il pepe nero, correggeva la frigidità dei cibi e, scaldando lo stomaco, favoriva la digestione. In un trattato del 1792 su alcune piante straniere introdotte in Italia, si legge che il capsicum frutescens o peperoncino fruticoso era rarissimo e presente nei giardini botanici da pochi anni.

    Peperoncino contro il mal di denti

    La pianta aveva un gusto acre e il frutto e i semi erano piccanti più di qualsiasi altro vegetale: un piccolo peperoncino, o anche una sua porzione, causava pizzicori, starnuti e un tremendo bruciore in tutta la cavità della bocca e del naso. Mangiandolo, specie per chi non vi era assuefatto, provocava forti irritazioni all’intestino e infiammazioni «parziali e universali». Utilizzato per lenire il mal di denti e curare le febbri terzane e quartane, il peperoncino era così mordace che, ridotto in polvere, lo si metteva tra i panni per uccidere le tarme.

    In cucina se ne doveva fare un uso moderatissimo e servirsene «non per nutrimento ma per condimento», aggiungendovi preferibilmente un «acido» per correggerne la troppa acrimonia. Gli stessi «indiani» lo utilizzavano con parsimonia per condire carne e pesce e ne facevano una salsa, mil-tomatl, per stimolare l’appetito e facilitare la digestione.

    Al posto del pepe nero

    Verso la fine del Settecento, per il suo colore rosso brillante, nelle regioni settentrionali il peperoncino si piantava nei giardini. In quelle meridionali, invece, si usava in luogo del costoso pepe nero e i contadini, per colazione, preferivano un pepajolo alla cipolla e all’aglio. Particolarmente apprezzato era quello dall’estremità ricurva a «guisa di becco di corvo». Pur «abbruciando la gola e provocando starnuti» se ne faceva grandissimo uso nelle pietanze perché favoriva l’appetito, «dissipava il vento» e fortificava lo stomaco.

    Nel 1804, Columella annotava che i peparuoli delle province napoletane erano dolci o forti. Tra i primi quelli spagnoli rossi e gialli, tra i secondi i verdastri, a torno e a ciliegia. Raccolti acerbi, si usava farli appassire, metterli nell’aceto e utilizzarli durante l’anno per aguzzare l’appetito e rendere saporose le minestre. I peperoncini a becco di corvo, «di cui abusavano anche i ricchi», una volta seccati e «stritolati» erano adoperati in gran quantità in ragù, frittate, zuppe e salumi «per cui le malattie emorroidali erano frequentissime».

    “I pipi di Riggiu”

    Secondo un’inchiesta sull’alimentazione del popolino napoletano, i peparuoli erano di quattro varietà: chiochiaro, lungo, spagna e cerasuolo. Quest’ultimo, detto anche «pepe cornuto», piccolo e amarissimo, si disseccava per essere utilizzato in inverno come condimento nelle minestre di verdure e legumi.
    Giuseppe Pasquale scriveva che piraparoli a ceraso, pipi infernali e pipi a cuornu si coltivavano in gran quantità nei distretti di Rosarno e Reggio e che i contadini «non mangiavano vivanda senza i peperoni arzentissimi». Erano sempre alla ricerca di quelli più piccanti e ne facevano tale abuso da pregiudicare la sanità dell’intestino.

    Nel 1848, Pugliese osservava che quattro o cinque peperoni verdi conservati in aceto, conditi con olio e serviti in un piattello con un pane, costituivano il pranzo dei contadini. Padula racconta che nei villaggi del Tirreno cosentino il lardo della povera gente era una scorta di peparuoli: il bracciante ne buttava un «pugnello» nel piatto, li condiva con olio e sale e li mangiava con il pane. Gli orti lungo la costa erano pieni di peperoni e peperoncini e, una volta seccati, i padroni li usavano per pagare la fatica dei giornalieri. Grazie al clima favorevole le piante crescevano bene e, particolarmente apprezzati, erano i pipi di Riggiu, esportati freschi o essiccati in grandi quantità nella vicina Sicilia.

  • L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano

    L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano

    È un pregiudizio che ogni opera dell’ingegno sia intoccabile e debba godere di un rispetto aprioristico e incondizionato. A Cosenza basta imboccare l’angusta postierla che conduce da Lungo Crati Miceli a piazza Toscano  per trovarsi, una volta giunti all’aperto, al cospetto di una singolare architettura caduta dall’empireo dei concetti astratti nel corpo vivo di una città ferita. Guardando con sorpresa la macchinosa copertura in vetro, calcestruzzo eo ferrame che sormonta l’area archeologica si viene colti da una sensazione di orrore che lascia senza parole. Un effetto straniante, di stupore e disagio, costringe a interrogarsi sul senso di tanta sciatteria.

    Una rovina contemporanea su quelle antiche

    L’opera avrebbe dovuto nobilitare la piazza e valorizzare i resti di una grande domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti dell’ultima guerra. Sorprendentemente però, in breve tempo, il manufatto è divenuto esso stesso una rovina. Con tutta evidenza, a partire dal giorno della sua inaugurazione, l’opera è stata abbandonata a se stessa e all’incuria, nel chiasso delle polemiche fra addetti ai lavori e nel disinteresse della città intera.

    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall'attuale struttura
    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall’attuale struttura

    L’orrore, al di là delle pur lodevoli intenzioni del progetto, assume qui le forme di un furore compositivo che ha generato un mostro di cui nessuno in concreto si sta occupando. Se ne parla, si promettono interventi risanatori, ma poi, nei fatti, nessuno se la sente di investire risorse in una missione impossibile. Ora si attendono le risorse del CIS, 90 milioni di euro deliberati per la realizzazione di alcuni significativi interventi nel Centro storico, piazza Toscano compresa.

    Piazzetta Toscano è bella o brutta? Non importa

    Le brutture urbane sono spesso un sintomo preoccupante della decadenza delle città. Laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione., l’orrore. Alcuni si chiederanno: – chi stabilisce cosa sia il bello e cosa il brutto? Non è questo il punto. Non si tratta di ridurre il problema ad una questione estetica che aprirebbe all’istante una tediosa, quanto inconcludente, polemica fra innovatori e conservatori. E non si tratta neppure di giudicare la bontà delle congetture progettuali, né di sindacare il valore delle costruzioni che deludono rispetto alle pur nobili aspettative degli autori. Lasciamo perdere le questioni teoriche e stilistiche. Lasciamo riposare in pace i maestri futuristi e gli accademici dell’architettura.

    Le domande sono altre
    Sigilli a piazza Toscano
    Sigilli a piazza Toscano

    Chiediamoci invece: – cosa ne facciamo delle impraticabili passerelle in calcestruzzo e dei pilastri arrugginiti che sorreggono una pletora di costosissime vetrate per lo più rotte o ammalorate? Perché un’area archeologica a ridosso della Cattedrale è di fatto sequestrata e negata? Perché significativi resti d’epoca romana e medievale sono tagliati fuori da un tessuto urbano di grande interesse? Quale senso ha che le rovine siano abitate stabilmente dalle erbacce, dai ratti e dai rifiuti? Le polemiche datano ormai da quasi un ventennio e nel frattempo la situazione è totalmente degenerata. Si ha la sensazione d’essere arrivati sulla scena di un film apocalittico. I resti archeologici sono soffocati dalle rovine di una modernità enfatica e sbilenca che celebra se stessa come “rottura dei codici linguistici” e non si confronta minimamente con il contesto se non per negarlo.

    La via d’uscita

    Il celebre slogan «Fuck the contest» coniato dalla archistar Rem Kolhaas (che potremmo garbatamente tradurre con «chi se ne frega del contesto») raggiunge qui la sua apoteosi. Siamo al cospetto di un gesto virtuosistico di composizione architettonica voluto, teorizzato e rivendicato dal suo autore, ma evidentemente non amato dalla città, rifiutato e degradato fino all’inverosimile. L’unica via d’uscita dall’orrore della situazione di fatto sarebbe la presa d’atto che è stata commessa una serie di errori. Senza cercare capri espiatori si dovrebbe avere il coraggio di mettere mano all’opera e decidere se restaurarla, adattarla, rigenerarla oppure smantellarla.

    Un nuovo inizio

    Non si tratta di sostituire un pregiudizio modernista con una fissazione vernacolare. Non si tratta di allestire un presepe di antichi ruderi, si tratta di prendere coscienza del fatto che i resti archeologici sono “sacri” perché parlano della città e della nostra storia. Prendersi cura del loro decoro è quindi un dovere civico per il bene di tutta la collettività. In quel luogo pulsava il cuore antico di Cosenza e dimenticarlo sarebbe un vulnus fatale alla sua identità. In definitiva il recupero di piazza Toscano potrebbe essere la prima pietra di un nuovo inizio. Un gesto simbolico e lungimirante.

    Giuliano Corti

  • Curiosità e meraviglia, la Calabria tra storia e leggenda

    Curiosità e meraviglia, la Calabria tra storia e leggenda

    Di cose strane in questa regione ne sono accadute nel corso dei secoli. Esistono storie così straordinarie che suscitano ancora meraviglia e curiosità. Personaggi al limite tra la storia e la leggenda come il principe Pignatelli. Tra le sue tante peripezie è riuscito persino a diventare imperatore di un piccolo stato a Sud del Messico. E nei nostri paesi le leggende sono così radicate nel tessuto sociale da diventare quasi vere. Quel giusto equilibrio tra razionale e irrazionale. Tra avvistamenti di animali misteriosi, maghi e quella truffa ai danni del Papa.

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