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  • Anche i Lupi piangono: Cosenza perde Di Marzio

    Anche i Lupi piangono: Cosenza perde Di Marzio

    Gianni Di Marzio conosceva bene il paradosso di Achille e della tartaruga. E lo applicava. Su un muro di Città 2000, il quartiere dove abitò da allenatore e lavorò da dirigente – la società si era trasferita lì tra un’esperienza e l’altra – del Cosenza, nell’anno culminato con la promozione c’era un adesivo che celebrava l’amore del mister per l’andatura lenta ma costante di quell’animale. Sarebbero stati i piccoli passi a permettere alla squadra di arrivare al traguardo lasciandosi alle spalle le rivali in classifica. Lo diceva spesso Di Marzio e i risultati gli diedero ragione.

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    Il Cosenza di Gianni Di Marzio, primo in Serie C1 al termine del campionato 1987-88

    “Occh’i vitro”

    Lo chiamavano occh’i vitro già all’epoca, quando il politically correct era più lontano della regola dei tre punti a vittoria. Ma sembrava uno di quei soprannomi un po’ cattivi che si affibbiano a un amico ironico, convinti che il primo a riderne sarà lui. Diventò occhio stuartu, con tanto di coro in facile rima col più classico degli insulti locali, poco tempo dopo. Il tentativo dei tifosi rossoblù di ostentare indifferenza nei suoi confronti non riuscì granché bene. Si era ripresentato in città da allenatore del Catanzaro, che pure aveva già guidato fino alla serie A ben prima di approdare a Cosenza. E il calcio in quei giorni era passione viscerale e identitaria, certi tradimenti era difficile mandarli giù in fretta.

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    Il Catanzaro di Gianni DI Marzio promosso in serie A: nella stagione 1975 – ’76.

    L’uomo che aveva scoperto Maradona

    Ma Di Marzio, oltre che di calcio, era uomo di mondo e sulla panchina dei Lupi ci tornò in breve tempo. Una salvezza insperata non bastò per una vera riconciliazione con la città. Quella arrivò quando portò in riva al Crati da direttore generale la sua esperienza di talent scout pochi anni dopo. E che talent scout: era l’uomo che aveva “scoperto” Maradona quando era solo un ragazzino in Argentina. Quel calcio di stadi pieni a mezzogiorno, partite la domenica, numeri da 1 a 11 ed entusiasmo popolare, però, era già al crepuscolo. Rimanevano brandelli di sogno, sepolti sotto il fuoco della passione che per fortuna ancora oggi la tv non ha spento del tutto.

    Prigionieri di un sogno

    Sogno pieno, e più reale che mai, era stato quello della promozione di pochi anni prima e Di Marzio tornò presto ad esserne l’iconico protagonista nella memoria collettiva. Un eroe, come un simpatico Achille dal tallone giallorosso. E come i giocatori della sua squadra tartaruga che i tifosi ripetono ancora oggi in sequenza, quasi fossero versi di una filastrocca. “Mai più prigionieri di un sogno”, quello del ritorno in B atteso dagli anni ’60, avevano scritto d’altronde in uno striscione in curva gli ultrà quando il trionfo era ormai cosa fatta. E di striscioni ne erano spuntati un po’ ovunque nei quartieri durante i giorni della festa. Perché la città festeggiò per giorni, non una sera soltanto come si fa adesso.

    Le scritte sui muri diventano cult cittadino

    I ragazzini facevano collette per comprare la vernice e lasciare il loro segno sui muri e nei cortili, fosse anche una semplice lettera B. Pubblicità e proverbi ispiravano le scritte dei più grandi. Alla Massa erano più tecnologici, col telefunkeniano “Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi non siamo fantascienza: siamo i tifosi del Cosenza”. A via degli Stadi il mitico “L’uomo del monte ha detto Bi”. Il migliore? “Il lupo perde il pelo ma non il B…izio”, probabilmente. Di Marzio, quando glielo ricordavano, sorrideva. A ripensarci, ora che non c’è più, viene da piangere.

     

  • Piano telematico, lo spartiacque su cui si è infranto il sogno del Cud

    Piano telematico, lo spartiacque su cui si è infranto il sogno del Cud

    Nel gran discutere di Dad in conseguenza del virus, ha fatto bene Giacomantonio, su queste colonne, a riaprire il dossier Cud, Consorzio Università a Distanza, iniziativa degli anni Ottanta del secolo scorso varata in Calabria ad opera di Sergio De Julio.
    Un Consorzio fra vari soggetti, nazionali e internazionali, a carattere culturale e imprenditoriale, che si calava – così sembrava, così era progettato – nella realtà di quegli anni, carichi di tensione verso l’innovazione, la formazione, la modernità condivisa, in un contesto qual è quello calabrese bisognoso di interventi radicali.

    Il Cud e gli orticelli

    Ci fu fin da subito chi non fece salti di gioia nell’apprendere del progetto, così come fece storcere il muso la precedente nascita del Cisam, Centro interdipertimentale studi aree montane, anche questo grazie a Sergio De Julio.
    Che cos’è che disturbava in questi consorzi e centri interdipartimentali, se non l’idea stessa del consorzio e dell’inter fra i dipartimenti, l’azione fra più attori, cioè, il coordinamento tra più istanze, il superamento dell’atomismo e dell’orticello da recintare e difendere. Una prassi, cioè, consolidata e che proprio nell’università, che era nata anche per scardinare questo retaggio, vedeva il centro propulsore perché ciò si inverasse.

    Solo che, per porsi su un altro versante, certe azioni abbisognano di tempi e di modi altrimenti si ricade nel cosiddetto “teorema Andreatta” secondo cui la shocking wave di importare sulle colline di Arcavacata cervelli culturalmente “eversivi” (non solo culturalmente e anche senza virgolette) poteva essere l’arma giusta per svegliare i calabresi. E invece la melassa calabrese assorbì e in buona misura depotenziò il teorema, così come il passo in avanti del Cud fu visto come troppo divaricante, indipendente e libero da padrinaggi politici di vario genere e colore.

    Erano quelli, in aggiunta, tempi in cui per davvero si poteva prescindere dal rapporto diretto, in presenza, fra docente e discente, si poteva d’emblée, superare il gap della riottosità e della scarsa empatia calabrese ponendo giovani e meno giovani davanti un computer, oppure aveva ragione Negroponte individuando proprio nelle caratteristiche geografiche e orografiche, di collegamento, quelle che Placanica individua come ostacoli strutturali nella comunicazione e nella stessa indole calabrese, i migliori e più potenti atout per fare uscire i calabresi dall’isolamento?

    Padri padroni e padrini

    Fatto sta che fu gioco facile da parte di chi voleva continuare ad esercitare il suo ruolo di padre padrone incontrastato liquidare baracca e burattini avvalendosi di fatto di uno strumento forte qual era il nascente Piano Telematico, un “contenitore” ampio e ricco che ebbe nei padrinaggi politici un partner attento quanto dominante.
    E il depotenziamento del Cud risultò, ahimè, vincente grazie a un argomento sottile e insidioso che fu palesemente esposto: quello che addebitava al Cud stesso l’incapacità di attrarre e di vivere di investimenti e commesse che non fossero solo quelle statali o comunque pubblici: un’accusa, come si vede, di assistenzialismo, quell’assistenzialismo che il Cud era nato per combattere.
    Ciò che avvenne all’interno delle politiche del Piano telematico, delle sue azioni, costituisce una sorta di banco di prova per le classi dirigenti calabresi, non solo politiche, un vero e proprio spartiacque fra il prima e il dopo: lì, sarebbe quanto mai opportuno accendere i riflettori.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    C’è stata una stagione, ormai lontana e inesorabilmente perduta, in cui la Calabria sembrava avere avuto lo sguardo proiettato verso il futuro. Era la prima metà degli anni Ottanta e qui nasceva un’idea che sarebbe stata potentemente pionieristica nel panorama nazionale, quella di dare vita ad una università a distanza. Si chiamava Cud. Una sfida straordinaria per una regione con lo stigma di una terra perennemente in ritardo sulla modernità, ancorata all’immagine di una arretratezza endemica.

    La prima università a distanza d’Italia

    Mentre il modello di sviluppo classico fondato sulla fabbrica andava in frantumi ovunque senza essere mai stato davvero applicato nel meridione, con straordinaria lungimiranza in Calabria c’era chi pensava di fare un salto in un futuro che era stato esplorato in alcuni paesi, come l’Inghilterra e l’Australia, ma era sconosciuto in Italia. La prima università a distanza del Paese nasceva sulle colline di Arcavacata.

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    L’Università della Calabria

    C’erano pure la Sapienza, Olivetti, Ibm e Telecom

    Tutto ha origine dal Dpr 382 del 1980, che autorizzava “le università italiane ad unirsi in consorzi ed a sperimentare forme alternative a quelle tradizionali per erogare i propri corsi.” E nell’84 arrivò il Cud, consorzio università a distanza. Ad aderire all’idea, e dunque al consorzio, sono Università della Calabria, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, Politecnico di Milano, Università di Bari, quella di Padova, di Siena e di Trento. Ma anche realtà private come il Consorzio per la ricerca e l’applicazione dell’informatica (Crai) e poi Olivetti, Confindustria, Ibm, Telecom Italia (ex Sip), Rai, Telespazio.

    Con questi soci il Cud doveva essere una corazzata imbattibile, invece affondò come il Titanic. Le risorse economiche, ingenti, per far partire la corazzata vennero dall’Intervento straordinario per il Mezzogiorno. Alcuni docenti Unical, come Sergio De Julio (che divenne successivamente deputato dell’allora Pci), Ivar Massabò e Franco Lata (tutti provenienti dall’esperienza Crai) presentarono il progetto.

    Il guru australiano

    Era una idea dell’altro mondo. E, infatti, a guidare i primi passi di quell’avventura chiamarono uno che stava dall’altra parte del mondo: si chiamava Desmond Keegan ed era australiano. Era il massimo pioniere dell’educazione a distanza, impegnato nello studio dell’uso delle tecnologie applicate all’insegnamento e sulle strategie necessarie per aumentare l’equità di accesso. L’australiano venne in Calabria, ma tornò presto nella terra dei canguri, forse perché aveva capito che quell’idea bellissima qui aveva una cattiva sorte.

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    “Principi di istruzione a distanza” è il titolo italiano del libro di Keegan

    Cud, dieci anni finiti male

    Il Cud resistette poco più di dieci anni ma gli ultimi furono parecchio travagliati, tra mobilità e cassa integrazione del personale. Una fine annunciata causata dalla ferocia predatoria della classe politica, ma non solo. Eppure la vocazione all’educazione a distanza era nei geni dell’Unical, che era posta fisicamente sulle colline di Rende, ma aveva l’ambizione di essere università regionale e di raggiungere quindi tutti gli studenti calabresi, anche quelli che non avrebbero trovato posto nel campus.

    Timidi inizi di multimedialità

    Una idea di decentramento educativo in un tempo in cui ancora il web non esisteva, si basava sulla costruzione di programmi didattici veicolati su videocassette. «C’erano centri di studio, luoghi posti in aree urbane strategiche nella regione, dove gli studenti avrebbero potuto accedere al materiale e studiare le lezioni confezionate nella sede del Cud», racconta Massimo Celani, uno dei primissimi protagonisti di quella storia. Proveniva da una esperienza di programmista Rai e dunque con altri padroneggiava le tecniche del linguaggio video, indispensabili per costruire le lezioni multimediali. Celani, assieme ai primi professionisti formati in quella fase iniziale, costituiva la schiera di “redattori”, o “metodologi dell’insegnamento”. Così venivano chiamate le prime professionalità impiegate nel Cud. «Non si trattava di video lezioni frontali – prosegue Celani – ma di programmi strutturati, con un senso narrativo, al cui interno già emergeva una qualche forma di multimedialità».

    Adesso sembra preistoria: una videocassetta degli anni Ottanta

    La Calabria che voleva modernizzarsi

    L’idea ambiziosa è quella di far diventare la formazione a distanza una forma concreta di alternativa all’università tradizionale. Il Cud cresce dentro un contesto in cui i fermenti intellettuali e imprenditoriali sono molto vivaci. È una delle aziende più innovative, assieme al Crai e a Intersiel. La Calabria con queste aziende partecipa come protagonista alla partita della modernità, immaginando un diverso modello di sviluppo che non è basato sull’industria o sull’agricoltura, ma sui saperi e sulla diffusione delle tecnologie. Nasceva quella che poi avremmo chiamato “lavoro cognitivo”, ma allora non lo sapevamo. I settori di intervento didattico del Cud furono all’inizio i corsi di Informatica e di Lingue. Si estesero poi alla Formazione professionale e alla formazione dei docenti delle scuole superiori di tutta Italia all’interno nel nascente Piano nazionale informatico.

    Gli appetiti della politica

    Il punto debole di quella avventura si rivelò presto la sua natura societaria. «L’essere un consorzio sembrava diluire le responsabilità, sbiadire la guida», ricorda Marina Simonetti, che nel Cud fu prima borsista, e poi progettista di formazione. Una fragilità che rendeva il Cud facile preda di conquista degli appetiti politici, che praticarono indiscriminatamente l’arte della clientela. In breve tempo, da poche decine di professionisti accuratamente selezionati, il personale si estese a più di cento impiegati, molti dei quali autisti. Inoltre un management molto esteso e assai costoso fece la sua parte nell’indebolire la vitalità del Cud.

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    Marina Simonetti, prima borsista del Cud

    L’immancabile sede romana per il Cud

    Come nelle migliori avventure calabresi, fu subito acquistata una costosa e bellissima sede romana di rappresentanza, in Corso Vittorio, mentre intanto sorgevano in Italia altre esperienze di università a distanza, come per esempio Nettuno, che avevano meno pretese sul piano metodologico, ma con maggiore pragmatismo conquistavano quote di mercato. Poco per volta i vari soci si sfilarono e nel maggio del ’98 si presentò il curatore fallimentare per chiudere la baracca. Per quanti vi lavoravano cominciava la diaspora, tra università e aziende private.

    Finisce tutto con il Piano telematico

    Con la chiusura del Cud non moriva solo una opportunità, ma si consumava lo spreco di un sapere collettivo. La fine del Cud però è anche altro. È la fine di una stagione in cui complessivamente la Calabria aveva conosciuto stimoli plurali. «C’era una società vivace, capace di pensare più in là, di puntare ad un risveglio tecno scientifico», dice Emilio Viafora, sindacalista della Cgil e allora segretario del sindacato. Per lui la presenza di quella società civile, sensibile ed accogliente verso gli stimoli che venivano dall’Unical, fu l’alchimia necessaria per far nascere l’ambizione di aprire nuove frontiere.

    A condannare il Cud e tutta quella stagione furono molte cose. Viafora ricorda una scarsa attenzione verso nuovi modi di vedere gli interventi europei, facendo prevalere una logica «conservativa e assistenziale», ma anche l’inadeguatezza della classe politica del tempo. La fine giunse quasi di colpo, con l’avvio del Piano telematico e le sue immense risorse. Era stato annunciato come il più grande investimento per la modernizzazione della Calabria, sul quale si avventarono i partiti del tempo.

    Oggi si parla molto della detestata Dad, eppure nella prima metà degli anni Ottanta la Calabria aveva visto più lontano di tutti, aveva capito che le tecnologie possono costruire e diffondere saperi sofisticati. Il Cud è stato, per questa regione, un breve ed emozionante viaggio in un futuro che abbiamo fatto morire.

  • STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    STRADE PERDUTE| La banalità del mare: la Sangineto tutta “pippibaudi” e cotillons

    Sangineto è ciò che non si vede. E, di conseguenza, non è ciò che vedete. Tanto per cominciare non è un “posto di mare”, piaccia o non piaccia, ma semmai è un territorio pedemontano “prestato” al mare. Prestato e mai restituito, o restituito malamente e in parte, con gravi segni dell’uso. Il mare, insomma, non è nelle sue corde e per convincersene basterebbe osservare la brevità della costa sanginetese (meno di 2 km) rispetto a quelle dei Comuni immediatamente confinanti (i 5,5 km di Bonifati – per intenderci: Cittadella – o i ben 10 km di Belvedere Marittimo): una costa che sembra più il residuato di una servitù di passaggio dal paese antico verso il mare, alla foce del torrente omonimo. Ancor più se si tiene presente quella strozzatura della mappa comunale a metà tra il mare e il paese, dove la larghezza massima è di appena 500m in linea d’aria.

    Prova del nove del carattere poco balneare di Sangineto? Dal paese, in genere, il mare nemmeno si vede, se non da un paio di angoli panoramici o da qualche balcone fortunato. Non basta? Parte del territorio comunale ricade nel Parco Nazionale del Pollino. Anzi, ha il primato di esserne la punta più meridionale. Come a dire: a Sangineto crescono i pini loricati, bisogna farsene una ragione. Anzi, i loricati più meridionali d’Italia, e quindi – superando addirittura i colleghi greci – i più meridionali d’Europa (e quindi del mondo, visto che fuori d’Europa non ve ne sono). Ancora non basta? Il confine comunale orientale, quello con il Comune di Sant’Agata d’Esaro, è una linea in mezzo ai boschi lunga ben 8 km. Altro che spiagge.

    Dal re agli amici degli amici

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    Schema del sistema viario del Comune di Sangineto (1901).

    Una mappa del 1901 segnala su Sangineto un sistema viario degno di una metropoli, e pertanto difficile – ma non del tutto impossibile – da riconoscere nell’attuale teoria di strade rurali secondarie. Una cartolina degli anni ’40 mostra ben 6 vedutine del luogo: ce ne fosse una del mare, o delle spiagge… niente di niente, non se ne raffigura neppure il castello, benché in quegli anni venisse visitato finanche dal prossimo Re di maggio, con tanto di foto d’ordinanza (ben prima di diventare discoteca in libero crollo per il pubblico pagante).
    La Sangineto conosciuta è invece un’altra: è quella chiassosa – anche metaforicamente – che nacque all’indomani delle speculazioni edilizie della prima metà degli anni ’60, quando per particolari congiunture vi confluirono interessi di investitori, appaltatori e amici degli amici.

    Sangineto, fase n. 1:

    Ne nacquero prima un grande albergo con i suoi improbabili bungalow (ora smantellati, dopo anni d’abbandono) e tutto un complesso residenziale più pretenzioso che realmente elegante, chiuso tra la ferrovia, l’albergo, il torrente e il mare. E poi altre ville più su, verso la statale, su quel pianoro che la toponomastica inopportuna ha pomposamente intitolato a un antico popolo (come ad altro popolo una sua traversa) e che io continuo a chiamare così come era sempre stato indicato sulle mappe: Renga. Lì dove spuntava un piccolo casino gentilizio e ancora spunta, sebbene oggi soffocata, l’antica Torre della Finanza (in cima alla rupe sopra al vecchio mulino) diventata poi per qualche tempo una discoteca dal nome fatato. Altro che Finanza.

    Sangineto, fase n. 2:

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    Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant di un albergo del posto

    Dove già esisteva qualche sparuta casa di contadini nasce, a nord del suddetto albergo, tutta una teoria scriteriata di edifici privati, villini bi e quadrifamiliari, villette a schiera e residence di gusto non proprio eccellente che, lasciando incredibilmente sopravvivere qualche ulivo secolare, si arrampicano dalle spiagge (allora sconfinate e punteggiate di bunker bellici, ora ridotte all’osso le prime, ingoiati dal mare i secondi) fin sulla strada statale. Terreno buono per ex bambine, mie coetanee, che diventeranno mogli di comici napoletani e, oggi, per padri di calciatori in vista o finanche per il fu Coriolano, mosca bianca stufa di posarsi sulla solita cosentinità a vocali sguaiate per lui poco renzelliane.

    Di case vecchie, qui, ne resta una in particolare, nel bel mezzo della piazzetta: da almeno 30 anni imbavagliata e incatenata a un sequestro giudiziario. Fa la sua Resistenza.
    Un’altra stava sotto al curvone alla fine del lungomare: se la mangiò in pochi bocconi una mareggiata, dopo il ’66. Come tante cose qui, era dei nobili Spinelli di Belvedere, che ancora in quegli anni venivano a cavallo, spiaggia spiaggia, a riscuoterne pigione.

     

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    Sangineto Lido, danni di una mareggiata. 30 agosto 1991 (foto L.I. Fragale).

    Le mareggiate, ho detto: ammesso che Sangineto e i suoi ‘utilizzatori’ abbiano abusato del mare, è altrettanto vero che il mare, qui violentissimo, s’è vendicato a piene mani, negli ultimi decenni, distruggendo più volte case e lungomare (fotografai una mareggiata, a fine agosto di trent’anni fa che, per quanto esistessero già le massicciate a T, creò una voragine in pieno lungomare, a due passi da quella casa ora in totale abbandono ma che già allora meritava il soprannome di “casa di Beirut”, per quanto oggi sembri sul serio bombardata).

    Sangineto, fase n. 3 (abbastanza coeva alla seconda):

    Nasce Pietrabianca, straordinario esempio di quartiere-dormitorio balneare, che usurpa il nome della collina alle sue spalle. Solo villini, a due passi dalla Torre omonima, oggi abitazione privata, immersa nel bosco lungo il fiume. Per anni, ricordo, l’unico modo per raggiungere questo gruppo di case evitando la statale era una passerella di legno sul torrente, in mezzo al canneto. Al buio più totale (quel torrente che, leggenda vuole, un politico villeggiante negli immediatissimi paraggi avrebbe fatto addirittura deviare, novello proconsole imperiale).

    Mancini, pippibaudi e cotillons

    Fu così, insomma, che a Sangineto mise radici, anzi, fondamenta, prima di tutto la Cosenza manciniana: amici, collaboratori, parenti, e chi più ne ha più ne metta, si trovarono muro a muro, siepe a siepe tra di loro. Medici, farmacisti, imprenditori, avvocati, professionisti d’ogni risma acquistarono nella seconda metà degli anni ’60 quei primi cubi bianchi vagamente merlati alla moresca. Convenienza economica e sociale: spirito di gruppo, per non dire forse tribale. Perché comprare una villa molto più bella in un luogo molto più bello (per dire, in tratti di costa certamente più scenografici; in località con centri storici gradevoli), quando c’è la possibilità di essere vicini d’ombrellone di chi, alla fine dei conti, appunto “conta”? Perché andare in ferie quando in spiaggia si può parlare di affari mentre le mogli spettegolano in perfetto stile “Donna Pupetta”?

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    Lina Wertmüller con Giancarlo GIannini sul set di “Pasqualino Settebellezze”

    Si aggiunsero, sulla collina, quelli che preferivano maggiore privacy o il nido più alto (la saga dei Gullo o Mario Misasi che qui morì), mentre Mancini restava nella sua villa defilata ma crocevia di personaggi dello spettacolo (tra cui la recentemente scomparsa Wertmüller, ma giusto per dirne una). Perché – panem et circenses – tra Mancini e l’altro villeggiante storico, Covello, la Sangineto dei tempi d’oro era anche passerella non irrilevante per il cinema, con tanto di festival, pippibaudi e cotillons.

    E forse funzionava ancora la stazione ferroviaria, che di sicuro nel ’55 c’era già (sebbene in ritardo rispetto ai caselli di cinquant’anni prima) ma personalmente ho sempre visto abbandonata e semmai utile a due cose: posizionare gli spiccioli sulle rotaie e sottoscrivere l’isolamento di Sangineto (benché qualcuno di mia conoscenza abbia talvolta preferito addirittura scendere a Capo Bonifati e raggiungere Sangineto via spiaggia o scendere a Belvedere e farsela in bici).

    Napoletani e cosentini

    A Sangineto si arriva in tre modi (escludendo dal mare e dal cielo e, volendo, dal sottosuolo). E già questo indica i tre diversi approcci caratteriali, per non dire “sentimentali”. I napoletani vi arrivano da Nord, a 200 all’ora, con vano spirito di conquista (parentesi: esistono molti, dico molti napoletani che vengono qui da quarant’anni e ritengono ancora Cosenza un paesino di montagna. Senza esservi ovviamente mai stati). I cosentini vi arrivano da Sud, pigramente comodi, con spirito domenicale o, peggio, dominicale. Chi, come me, non è né l’uno né più si sente l’altro, arriva dall’interno, già in polemica col resto, per spirito di contraddizione. Ovvero da una strada che è già un punto d’osservazione elevato e panoramico sul tutto. Quella strada-balconata che taglia con una riga netta l’ultimo fianco del Parco del Pollino.

    La si prende da Sant’Agata, per esser chiari, e porta fino ai piedi di Belvedere. Su questa strada interna si scollina al Passo dello Scalone e poi è tutta discesa con vista sul mare. Strada antica, senza ponti o gallerie. Una di quelle strade che definisco “a misura d’uomo”. Una volta vi si poteva deviare direttamente per Sangineto paese, qualche tornante più giù del Passo, a patto di non soffrire di vertigini. E vi sareste trovati nel bel mezzo di un paesaggio marziano, sulle rupi della zona archeologica di Timpa di Civita. Oggi quella strada è chiusa per motivi di sicurezza, addirittura da una cancellata, non essendo stato forse sufficiente il divieto di accesso che già da qualche anno campeggiava all’incrocio incustodito. Al sito suddetto si può arrivare da un’altra parte, ma il bello delle cose è soprattutto scoprirle da sé. Detto diplomaticamente.

    Verso Sangineto tra panorami e cartomanti

    C’è poi, più su, un altro bivio tutto sanginetese e conosciuto a pochi forestieri: quello che volta a Sud per l’impenetrabilissimo bosco lungo la stradina per il Lago La Penna. A continuarlo, dopo il lago, vi porterebbe sull’antica dorsale che corre da Torrevecchia di Bonifati fino a Fagnano Castello. Non roba per chi ama l’ombrellone, va detto. O c’è quello che gira a Nord per i panorami mozzafiato della Contrada Pantana, luoghi dove l’antropizzazione arriva piuttosto ad ogni tornante sotto le sembianze degli immancabili manifestini colorati di quei noti cartomanti monopolisti di un buon quarto di Tirreno (bravo Brunori ad averlo osservato, pur se omettendo – forse per metrica – la fu Madame Fifì, mica inferiore in fatto di marketing capillare).

    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).
    Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).

    E sempre sulla strada-balconata incrociai, tempo fa, una coppia di sconosciuti motociclisti. S’erano fermati nel punto più panoramico. Felicemente d’accordo, lui fotografava lei – graziosa bionda vestita di un romper in denim – gioiosamente a braccia aperte e seno al vento. Sarà stata la strada? Sarà stato il primitivo e totale senso di libertà che quel panorama riesce a restituire?

    La Banalità del mare

    E anche questa è una metafora, appunto, dell’approccio: Sangineto è stato un ottimo punto d’osservazione, suo malgrado. Già da bambino, in spiaggia, sedevo con le spalle al mare, a guardare quant’era strano il profilo di quelle montagne, oppure a indovinare dal solo modo di gesticolare dei lontani passanti sul lungomare se erano cosentini o napoletani (facilissimo). Gli altri mi parevano tutti rimbambiti a guardare l’orizzonte, la piattezza dell’acqua. La Banalità del Mare. (CONTINUA…)

  • Donne calabresi, una Storia ancora tutta da scrivere

    Donne calabresi, una Storia ancora tutta da scrivere

    L’intensa e appassionante storia delle donne calabresi è stata ignorata o tenuta ai margini nelle ricerche degli storici tradizionali. Le donne sono state protagoniste della storia quanto gli uomini, ma ancora oggi le comunità scientifiche ignorano il loro ruolo. Bisogna rimediare a tale mancanza anche se il lavoro per le giovani ricercatrici sarà faticoso e complesso. Le fonti d’archivio spesso forniscono scarse notizie sulla vita delle donne calabresi e quelle poche sono spesso pervase da pregiudizi e stereotipi. Ma, come scriveva Lucien Febvre, lo storico non deve rassegnarsi mai. E, in mancanza dei fiori normalmente usati, deve utilizzare tutta la sua ingegnosità per fabbricare il suo miele. Bisogna attingere materiale negli archivi e nelle biblioteche, ma anche nei campi più disparati come le fonti folkloriche, fiabe, miti, leggende e reperti archeologici.

    E gli uomini stanno a guardare

    Le annotazioni dei viaggiatori stranieri che giunsero in Calabria nel Settecento e nell’Ottocento, anche se a volte viziate da atteggiamenti etnocentrici, sono di grande interesse. De Rivarol scriveva che i mariti lasciavano le mogli a casa e passeggiavano per la piazza del paese con oziosa indolenza. Le famiglie calabresi si rassomigliavano tutte ed erano composte da un marito despota e freddo e una moglie triste e timorosa che faceva i lavori più pesanti. Didier osservava che le contadine salivano e scendevano dai paesi portando grandi pesi sulla testa e i maschi le guardavano passare e ripassare senza aiutarle.

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    Donne calabresi lavano i panni in un corso d’acqua (foto Gerhald Rohlfs)

    Vom Rath annotava che a Siderno le donne andavano e venivano dal villaggio portando acqua nelle grandi brocche a due manici e col collo stretto. Per raggiungere la fontana impiegavano un quarto d’ora, poi tornavano con i recipienti pieni in testa. Gli uomini, intanto, se ne stavano silenziosi avvolti nelle cappe e col capo coperto dal berretto di lana azzurra. Rebuschini, vedendo le donne di Oppido portare i pesanti fardelli sul capo, scriveva che esse sostituivano le bestie da soma. Camminavano per viottoli ripidissimi con cesti di agrumi che pesavano fino a mezzo quintale, tenendo le mani sulle anche e l’occhio fisso al suolo.

    Le ginocchia come tavola

    Didier raccontava che nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato a donne e bambini era vietato sedersi a tavola, così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Rilliet osservava che anche nei paesi albanesi quando arrivava uno straniero erano padri, mariti e fratelli a fare gli onori di casa. Le donne non stavano mai a tavola con gli uomini. Per Griois le donne calabresi, anche quelle benestanti, avevano poca libertà. Se a pranzo c’erano ospiti, la moglie mangiava quello che restava su una tavola tutta speciale: le ginocchia! Dopo aver abbracciato gli uomini della famiglia Cefalì che lo avevano ospitato, nel congedarsi dalla padrona di casa e dalle figlie, Strutt dovette fare a meno di essere galante. Il bacio non era permesso e anche una stretta di mano sarebbe stata considerata troppo spinta.

    Le donne oggetto

    Lombroso denunciava che la donna calabrese era considerata alla stregua di un oggetto. In diverse comunità chi chiedeva la mano di una fanciulla poneva un tronco d’albero davanti alla sua porta. Se il ceppo era portato in casa, voleva dire che la famiglia era d’accordo. Nei villaggi albanesi il rito del matrimonio rammentava il Ratto delle Sabine. Mentre la giovane camminava insieme ai suoi familiari, il futuro sposo, facendosi teatralmente largo con pugni e schiaffi, la rapiva e la portava in casa. In altri paesi lo sposo, insieme a parenti e amici, sparava in aria colpi di fucile, poi faceva irruzione in casa della fidanzata, la sottraeva alla sua famiglia e la portava via. De Rivarol affermava che il matrimonio liberava la donna dall’oppressione del padre-padrone e la incatenava alla volontà tirannica di un marito-padrone, che vedeva in lei un acquisto utile.

    Escluse dalla società e addette ai lavori domestici, le mogli si abbrutivano, diventavano goffe e prive di buone maniere. De Tavel sosteneva che le calabresi non avevano fascino e grazia perché venivano maritate molto giovani e sfiorivano presto. Anche le donne che appartenevano alle classi agiate erano infelici per l’estrema gelosia degli uomini che le tenevano sempre chiuse in casa e le trattavano senza alcun riguardo. Bartels confermava che a Cosenza le donne erano completamente segregate e i maschi non perdevano occasione per sottolinearne l’inferiorità: non pranzavano mai con gli uomini e il loro compito era unicamente quello di attendere alle faccende domestiche.

    Una madre e la sua bambina nella Calabria di inizio '900 (foto Gerhald Rohlfs)
    Una madre a casa con la sua bambina nella Calabria di inizio ‘900 (foto Gerhald Rohlfs)

    Quando tornava dai campi, la contadina, carica come un asino e sempre a debita distanza, seguiva il marito che la precedeva trotterellando tutto tronfio in groppa all’animale. Gissing annotava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne una benestante per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione». Per vom Rath in città non esistevano occasioni sociali in cui uomini e donne s’incontravano perché i primi erano estremamente gelosi e possessivi.

    La Margherita, un giornale per le donne calabresi

    Il 10 maggio 1877 alcune cosentine diedero alle stampe La Margherita. Il giornale si proponeva l’istruzione delle donne ma ancora prima di uscire suscitò apprensione e preoccupazione. Al punto che il suo responsabile nell’editoriale del primo numero dal titolo Ai babbi e alle mamme dovette tranquillizzare i genitori precisando che il giornale non voleva offuscare il candore delle loro fanciulle.

    «Un giornale per le nostre figliole redatto da giovani! Ma se n’è vista mai una simile a Cosenza?… Piano, babbi e mamme carissime, non vi spaventate, non aggrottate il sopracciglio; e permettete prima che vi accigliate a farci una romanzina, qualche spiegazione. Vero, in Cosenza non era mai surta e nessuno l’idea di pubblicare una efferide educativa e istruttiva, consacrata esclusivammente alle Donne; e in verità è stato un grave torto che s’è fatto loro: quasi che in questo povero angolo di Calabria, non fossero degli ingegni eletti, che comprendono e sentono eminentemente. E se fin’oggi le nostre donne giacquero dimenticate, oscure, neglette, è tempo oramai che si sveglino, che si muovano, e ci aiutino a innaffiare questo, nascente fiore che si chiama Margherita».

    La vita in uno sguardo

    Vincenzo Padula in un articolo del 1876 annotava che le donne del cosentino avevano fianchi vigorosi, occhi arditi, polsi robusti, gote floride, ricca capigliatura e l’accento minaccioso perché «nate nel paese dei tremuoti e dei vini forti». Maneggiavano la conocchia e il pugnale, la spola e la scure e il loro sguardo era infallibile come il fucile: se fissavano con gli occhi raddoppiavano la vita e se fissavano con l’arma la toglievano.

    Donne calabresi impegnate nei campi a Melissa (foto Gerhald Rohlfs)
    Donne calabresi impegnate nei campi a Melissa (foto Gerhald Rohlfs)

    Nel 1602, lo storico Marafioti aveva sottolineato invece la loro sobrietà, onestà e laboriosità: «Le donne di Calabria sono destrissime & ingegnosissime ne’ loro mastaritij perché non attendono ‘l giorno ad acconciarsi la faccia e farsi biondi i capelli, ma attendono a lavorare tele, tovaglie di varie sorti & altri suppellettili di casa, non sono ubbriache, ma pare che dalla natura habbino questo dono particolare, che niuna beva vino, e si mantenga sana e bella. Sono tutte virtuose, honeste, affabili, piacevoli e cortesi, tanto nelle parole che nell’opre; e sono tanto prudenti, accorte, & industriose, che mai si lasciano trovare in fallo da loro parenti, ò mariti, ma più tosto per sospitione si puubblica l’errore».

    Madri operaie

    Le donne calabresi nei secoli hanno contribuito in maniera decisiva al mantenimento della famiglia. Le braccianti lavoravano duramente e neanche nel periodo della maternità avevano riposo. In un’inchiesta ministeriale di fine Ottocento si legge che le gestanti del cosentino faticavano sino al giorno del parto. Non era raro che fossero colte dalle doglie sui campi per riprendere il lavoro una settimana dopo la nascita del figlio.

    Manodopera femminile era impiegata nelle manifatture ma anche nei cantieri stradali, concerie, segherie, frantoi, mulini e fabbriche di laterizi e liquirizia. La maggior parte lavorava nelle industrie tessili: nel 1861 erano occupate 59.911 donne contro i 18.641 maschi e dieci anni dopo il loro numero scese a 50.298 unità di cui 47.398 lavoratrici tessili e 2.141 impiegate nelle sartorie.

    Una donna calabrese lavora al telaio (foto Gerhald Rohlfs)
    Una donna calabrese lavora al telaio (foto Gerhald Rohlfs)

    Sono state le donne calabresi a sostenere le famiglie nel periodo della grande emigrazione nelle Americhe. Nella provincia di Cosenza le mogli rimaste sole a provvedere al mantenimento dei figli erano migliaia, nel 1901 se ne contavano 19.260. Un ufficiale sanitario del litorale tirrenico comunicava ai superiori che da quando gli uomini erano espatriati le femmine erano sfiancate dalla fatica. Descrivendo la pietosa condizione delle «vedove bianche» informava che «il maggior lavoro incombeva alle povere donne, moglie e figlie di emigrati le quali per bisogno di campare la vita lavoravano oltre le loro forze».

    Le donne calabresi in Africa

    Seppure avvezze a sopportare stenti e sacrifici le donne non esitavano a lasciare la loro terra quando intravedevano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Intorno alla metà dell’Ottocento, centinaia di donne della provincia di Cosenza partivano per l’Algeria e la Tunisia; quelle della provincia di Catanzaro, imbarcandosi a Pizzo, si recavano al Cairo o ad Alessandria d’Egitto. In Africa facevano soprattutto le balie ma lavoravano anche come domestiche, cameriere e stiratrici in case private e alberghi. Gli studiosi del tempo si mostravano scandalizzati da questo flusso migratorio che abbatteva la credenza secondo la quale le donne vivevano in condizioni di totale reclusione.

    Scalise scrive che si trattava di un ingente esodo di donne che, appena dopo il parto, lasciavano i figli e, col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i nati delle anemiche inglesi che abitavano nel paese dei faraoni. Lo studioso rileva che, fatto insolito e quasi unico, nel 1881 in provincia di Catanzaro il numero dei coniugati presenti al momento del censimento era superiore a quello delle coniugate. E aggiunge il suo malizioso commento personale: le donne lontane, svolgendo un lavoro ozioso e gentile, belle e ben nutrite, arrotondavano i fianchi e non erano restie a concedere le labbra coralline al bacio spesso doppiamente adultero! Resta il fatto che il coraggio di queste donne lo colpisce persuadendolo che il sesso debole si dimostra forte quando ha la libertà di affermarsi. Scalise non è tra coloro i quali si scandalizzano per questa originale emigrazione, come aveva fatto l’economista francese Ovou in un suo articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes.

    Le due Guerre mondiali

    Le donne calabresi erano coraggiose e spesso si ribellavano ai soprusi. Nella prima e seconda Guerra mondiale migliaia di popolane scesero in piazza per chiedere il rientro dei mariti dal fronte e per denunciare la penuria di generi di prima necessità, l’aumento indiscriminato dei prezzi, l’inadeguatezza dei sussidi e la mancanza di assistenza alle famiglie.

    Sventolando bandiere tricolori giravano per le vie e con loro portavano i figli per rendere la manifestazione più rumorosa e scoraggiare l’uso delle armi da parte dei soldati. A volte queste rimostranze sfociavano in episodi violenti, come occupazioni di municipi, saccheggi di negozi, aggressioni agli amministratori e ai «milionari» che non davano un centesimo per i bisognosi e ingrassavano speculando sulla guerra.

  • Please don’t go piazza Kennedy: la Cosenza degli anni Novanta

    Please don’t go piazza Kennedy: la Cosenza degli anni Novanta

    È sabato pomeriggio. Ci sono due ragazze abbracciate davanti all’obiettivo, sedute su un Sì Piaggio di colore blu. Fanno con le dita il segno della vittoria e profumano di Lulù de Cacharel. Sullo sfondo s’intravede Cosenza. Palazzo degli Uffici circondato dal traffico, le insegne verticali di negozi e agenzie di viaggi, gli autobus arancioni dell’Atac che fanno la gimcana tra le auto in doppia fila. Micidiale, questo è un tuffo negli anni ’90. È l’alfabeto minimo di una ragazza cresciuta negli anni Novanta.

    A come aquile

    Sono le “A” della scultura di Baccelli (che in realtà sono colombe nelle intenzioni dell’artista), simbolo di piazza Kennedy, la piazza di due generazioni di giovani cosentini. Il sabato sera era una bolgia, si parlava ininterrottamente, un brusio senza sosta, la vita che pulsava, seduti sui motorini parcheggiati, sui gradini, a terra, sul muretto. Uno scenario che i ragazzi di oggi non riuscirebbero neanche ad immaginare, senza schermi accesi e teste chinate, notifiche e storie.

    Solo chiacchiere, ennesime sigarette, accendini Zippo che passavano da una mano all’altra. Qualcuno, il solito, che faceva la colletta: «Oh, ma soldi spicci?». Ognuno al suo posto perché ogni pezzetto della piazza segnava l’appartenenza a una tribù: il gruppo della farmacia Chetry, a via Mario Mari gli ultrà fuori e dentro le sale giochi (Matriarca, Number One e Romano), poi quelli della concessionaria e – i più grandi – sotto il monumento.

    C’era addirittura chi aveva come riferimento una scritta sul muro, mentre per qualche tempo la piazza ebbe anche un bar eponimo. La piazza si divideva tra “borghesi” col Fay o col Barbour comprato da Mazzocca e “proletari”, quelli del centro sociale, con le borse colorate di Shiva Shop e gli anfibi militari (così originali che leggenda vuole che fossero stati sfilati ai soldati morti in guerra) presi ai mercatini di Lungo Crati.

    B come bar

    Non c’erano gli apericena, c’era la pizzetta doppia della pizzeria Romana con i suoi sgabelli altissimi e il rumore delle lame sulle teglie di alluminio. Il sabato era obbligatoria una puntatina al bar Mazzini o al Carbone (dietro il bancone c’era il mitico “zio Tonino”) per un cicchetto, una nuvoletta o un Angelo azzurro. La domenica mattina invece il bar era simbolo del vassoio di paste, ad esempio i cannoli alla crema di Cribari a piazza Loreto o lo zuccotto, poco più avanti, da Pedatella.

    C come corso Mazzini

    A Cosenza i ragazzi degli anni ’90 il sabato pomeriggio si davano appuntamento a piazza Fera, «sotto la E di farmacia Serra», alla fermata del Costabile. Hip hop e swatch al polso sincronizzati con il grande orologio sul display digitale della Cassa di Risparmio. Si ritrovavano e sciamavano verso corso Mazzini intasato dalle auto, altro che isola pedonale e museo all’aperto. Lungo il marciapiedi si respirava l’odore dei tubi di scappamento e le moquette dei negozi erano impregnate di fumo di sigarette.

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    La cantante cosentina Flavia Fortunato

    Davanti alla Banca Nazionale del Lavoro si sentiva sempre la musica melodica calabrese di un cantante di strada che si esibiva al microfono in cambio di qualche moneta. E Cintuzzo, con la sua cassetta di legno per l’elemosina, andava a rimorchio: «Mintaci ancuna cosa per Sant’Antonio». La scala mobile dei grandi Magazzini Bertucci (dove ora c’è H&M) scendeva e saliva. Sopra tra giacche e maglioni a collo alto, fattura tutta italiana, e sotto tra i mille profumi e le sfumature rosa delle ciprie di Guerlaine. In filodiffusione il jingle cantato dalla cosentina (fresca di Sanremo) Flavia Fortunato: «Bertucci, è tutta un’altra co-sa».

    D come domenica

    anni-novanta-akropolis-cosenza-i-calabresiLa domenica mattina l’appuntamento era fuori o dentro le chiese, poi il pranzo con i nonni, naturalmente lo stadio quando il Cosenza giocava in casa (era il decennio della ritrovata serie B), infine per digerire si andava a ballare all’Akropolis. La discoteca apriva di pomeriggio e fuori c’era la fila di avventori con in una mano i tagliandi for lady. Nell’altra – occultata sotto i giubbotti – la bottiglia di Gin. Mentre il remix di “Please don’t go” faceva ballare mezza Italia, il 20 febbraio del 1993 i Double You arrivavano scortati all’Akropolis: fu il delirio.

    E come epoche

    La toponomastica racconta anche la storia di una città e negli anni Novanta se qualcuno vi avesse chiesto di via Misasi o piazza Bilotti, rispondere sarebbe stato impossibile. Ma siccome ci si affeziona al suono delle parole, per noi ragazzi degli anni ’90 piazza Fera, corso d’Italia e via Roma non hanno mai cambiato nome.

    F come filone

    Quando si “tirava filone” si prendeva l’autobus numero 1, Campagnano-Prefettura-Campagnano, per poi infilarsi furtivamente nel Parco Robinson. Nei recinti c’erano ancora i pavoni e i cavalli. L’alternativa era la Villa vecchia, con i cornetti di pasta sfoglia tra i più buoni della città, a guardare le partite dei “filonari” del Telesio. Gli studenti del liceo classico, dentro, erano invece segregati, la ricreazione la facevano chiusi nel cortile sorvegliati dai bidelli. Che invidia per quelli del Fermi. Essendo nel centro città, a ricreazione avevano un quarto d’ora di libera uscita e – si narrava – potevano andare dove volevano.

    G come giri

    Non c’erano monopattini elettrici ma si potevano noleggiare gli scooter da Ottorino Gualtieri: un’ora di adrenalina e di trasgressione per tutti quelli a cui i genitori non compravano il motorino, magari alla Piaggio, la concessionaria si trovava dietro piazza Europa.

    H come hamburger

    I cugini dei cugini ci facevano sognare raccontandoci della vita degli universitari a Roma o Bologna, di Mc Donald e concertoni. Noi gustavamo il nostro panino “America” al Free Pub (hamburger, pomodoro, ketchup e senape) e ballavamo sotto il palco dell’Auditorium del Telesio con i 99 Posse (dicembre ‘93) e Casino Royale (giugno ‘95). A metà anni 90, in piena renaissance del centro storico, la movida si sposta su corso Telesio tra Irish Pub e Beat. Una parte della città fino a quel momento off limit diventa luogo di aggregazione e nasce il mito della città europea.

    I come Incontri

    Uno squillo: richiamami. Due squilli: sto uscendo di casa. I ragazzi degli anni ’90 facevano la fila alla cabina telefonica. Per le chiamate più lunghe c’era la Sip in zona Autostazione dove – la parola privacy non esisteva – si garantiva più intimità e con una tessera da 5mila lire la telefonata, se urbana, era interminabile. S’incontravano alla fermata dell’autobus o nelle villette. Quella di via Roma dove adesso c’è il parco inclusivo della Terra di Piero era un rettangolo di terra ed erba, non illuminato e mal frequentato, con un enorme serpente in cui ci si poteva nascondere per fumare di nascosto una sigaretta o scambiarsi baci furtivi.

    L come Luna Park

    Quando i costruttori non avevano ancora colto le sue potenzialità, via Panebianco era il posto giusto per il luna park, così grande (si installava nell’area che oggi ospita un hotel) che c’erano persino le montagne russe. Il massimo era riuscire ad avere i biglietti gratuiti che il negozio di scarpe Big Ben, tra gli sponsor, faceva avere ai clienti più fedeli.

    Il tagadà, un must per i frequentatori dei luna park degli anni Ottanta e Novanta

    M come mercatini

    I più famosi erano quelli di Lungo Crati, dove potevi trovare di tutto. Per la bigiotteria e gli orologi c’erano le bancarelle intorno alla fontana di Giugno. Il leader indiscusso per fama e anzianità, fino alla fine degli anni ’90, è stato Ciccio u cravattaru. La novità arrivò a bordo di grandi pullman fatiscenti provenienti da lontano, con quello che veniva definito “il mercatino dei polacchi”, itinerante, ricco di oggetti giunti clandestinamente con la caduta dei regimi: preziosi memorabilia del Partito Comunista, orologi da tasca, binocoli, stampe e tagliacarte di ottone.

    N come negozi

    Dove adesso impera Scintille c’era Hit Shop, all’interno l’iconica scalinata con la fontana e tutte le griffe del momento, da Best Company a Versace. I jeans, rigorosamente Levi’s, si acquistavano da Corallino, con l’orlo che negli anni si accorciava sempre di più fino a lasciare il posto al risvoltino.

    In un’epoca in cui i vestiti erano sempre di buona qualità abbondavano le mercerie: Pinto, Tagarelli, la Carmagnola, luoghi sovrabbondanti di bottoni e nastri, colori e profumi, in cui le nonne facevano scorta di aghi, rocchetti, uncinetti e toppe. Alla libreria Il Seme di piazza Loreto compravamo le biografie dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, spartiti e plettri, i libri di scuola da Percacciuolo a corso d’Italia. Ma la “libreria” era solo la Domus, con il suo labirinto di scaffali di legno e all’ingresso il raccoglitore dei poster più ambiti, da sfogliare.

    I regali di compleanno si sceglievano da Cose Così, con il lettering bubble nella mitica nuvoletta bianca. Non c’era coppia di innamorati che non si fosse scambiato un cuore o un peluche preso qui. Due piani di gioia pura, tra lampade, specchi e le delicate fantasie Naj-Oleari replicate su borse, portafogli, cerchietti, portachiavi.

    Le camerette poi, erano piene di oggetti acquistati da Famele, Chiappetta, Chiarello, Ianni: le cartolerie, luoghi del cuore di chi ha vissuto i ‘90. Felponi, accessori sportivi e attrezzatura per sciare erano da KamaSport, Alfieri e Montalto. I giocattoli più belli al Fagiolo magico su via Alimena. Le scarpe le compravamo da Spadafora, Forgione Rosso e Forgione Blu (a cui si è aggiunto Forgione Più per l’abbigliamento) ma i più arditi volevano le Cult, quelle con la punta di ferro. Il franchising Energie, a piazza Kennedy, fu tra i primi a mettere la musica a palla e a tenere le porte sempre aperte, bastava poco per ricreare, vagamente, l’atmosfera londinese.

    Le immancabili
    Cult con la punta di ferro

    O come offese

    “Dietro le poste” era la perifrasi utilizzata per offendere o prendersi in giro, facendo riferimento alle prostitute in attesa di clienti a piazza Crispi. E da lì partiva il puttan tour dei giovani cosentini quando per strada non c’era più niente da fare. Passava dalla Villa Nuova davanti alle macchine parcheggiate con i fari accesi e si spingeva – superate le forche caudine del ponticello a S all’inizio di via XXIV Maggio – fino a via Popilia, dalla mitica “Felicetta” nella casupola che oggi ha lasciato il posto alla rotatoria a favore di discount, all’ombra del ponte di Calatrava. A quel punto i più intrepidi osavano varcare ogni confine lecito. Arrivavano a Gergeri, fino a vedere i fuochi accesi nei bidoni davanti alle baracche dove vivevano le famiglie rom in seguito trasferite nel Villaggio di via degli Stadi.

    P come pizze e panini

    Quando piazza Kennedy si svuotava, il sabato più classico delle comitive era al Free Pub (vai alla lettera H), con birra, panino e VideoMusic. In alternativa c’era la pizza della Luna Rossa in zona Tribunale o della Sfinge per chi si muoveva a piedi e si impossessava della città. Stella e Black Orchid su via Molinella si contendevano il popolo della notte.

    Da Stella, Maurizio e i suoi fratelli sfornavano panini multistrato farcitissimi e il mitico “primavera” (mozzarella pomodoro e insalata) e si finiva a parlare per ore e ore. Il rito del sabato sera prevedeva un’altra tappa, per i più piccoli l’ultima prima di tornare a casa. La Casa del Gelato e del Frullato, «Ciao raga’», ad accoglierli il sorriso buono del titolare e il suo vocione, era un amico dei ragazzi.

    Storico adesivo del Free Pub

    Seduti ai tavolini si ordinava Banana split o un frullato che oggi chiameremmo frappè, ma c’era la frutta vera esposta al banco, niente polverine. Chi non era qui era alla Cornetteria di piazza dei Bruzi a scegliere tra tanti gusti la novità black and white. La pizza con i genitori o per le feste di famiglia era da Frank a Saporito, Quelli della pizza a Mendicino e Blade Runner a Castrolibero. Fuori dal centro la tappa più gettonata – magari dopo una sosta all’Ipanema per un Barone Rosso o un Angelo Azzurro – era all’Apocalisse, con le interminabili partite con le torri di legno innaffiate da pinte di birra alla spina.

    Marco “Bamba” versione Punk

    Tornando a Cosenza, da menzionare è la breve ma felice stagione della “Bamba” di Marco e Sonia, erano giovani e innamorati e il loro era il locale più originale del centro (via Galliano). Nei pomeriggi lenti di una città che offriva pochissimo ai ragazzi, c’erano il juke box e i giochi da tavolo e si potevano gustare tisane e piadine in stile romagnolo.

    Nuovi gusti per una generazione pronta a sperimentare anche nel cibo e che ha poi scoperto l’esistenza della soia solo quando su via Alimena è comparsa l’insegna rossa del ristorante cinese, con le sue tavole rotonde su cui, portata dopo portata, ci si ritrovava a fine cena satolli e solo un fondino di grappa alla rosa salvava.

    Q come quaglie

    Il soggetto della scultura commissionata a Baccelli agli inizi degli anni ’70 per piazza Kennedy (il luogo rievocava l’impegno pacifista del leader americano) sono le colombe, da cui il nome dell’opera. Ma nella vulgata gli uccelli sono sempre stati indicati come quaglie, forse a causa dell’eccessiva stilizzazione operata dall’artista. O per sminuirne il valore.

    R come radio

    Il decennio 1990-2000 si è aperto con l’occupazione del cinema Italia e con la fondazione di Radio Ciroma e poi del centro sociale Gramna. Tutto in pochi mesi. La radio era la colonna sonora dei pomeriggi degli adolescenti. Lo stereo sintonizzato sulle stazioni locali: Radio Cosenza Nord, Radio Sound, Radio Queen, in attesa del momento juke-box, quello in cui si poteva richiedere un brano. Il numero di telefono? Quello di Radio Sound, grazie a un fortunato jingle. L’avevamo sempre in testa: «La musica che vuoi ascoltala con noi…7-3-0-8-4, uh!» (il prefisso divenne obbligatorio in seguito). Iguana Disco Shop, Orfeo e Piro Dischi erano le tappe irrinunciabili in un’epoca in cui la musica si comprava e vinili, cd e musicassette erano pane quotidiano.

    Francesco “u dutture” Febbraio a Radio Ciroma con Oreste Scalzone

    S come stampe

    Le foto si stampavano, si attaccavano sul diario, sui muri della camera, si raccoglievano nei portafotografie. Raf Caputo, Centro foto meridionale, Restivo erano alcuni dei punti in cui consegnare i rullini da 12, 24 e 36 foto. Dopo qualche giorno la busta Kodak era pronta, con il suo carico di emozione e curiosità e l’odore inconfondibile dei negativi.

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    Lo storico fotografo cosentino Raf Caputo, scomparso pochi anni fa

    T come Totonno lo squalo

    “A Juventus è morta!” gridava spalancando la bocca. La giacca lisa, la mano tesa per chiedere i soldi spicci per un panino. È morto a Corigliano nel 2006 ma è stato per tanti anni una maschera (sdentata) della città. E oggi continua a vivere nella memoria dei cosentini: il suo volto, qualche anno fa, è stato impresso su un murales – purtroppo danneggiato dal tempo – realizzato dal Collettivo Fx sulle pareti del centro sociale Rialzo.

    Insieme a lui restano nei nostri cuori anche il Generale (il soprannome dovuto alla sua giacca militare costellata di medaglie) col suo braccio destro alzato nel saluto (solo immaginato) al Duce e Alberto, presenza fissa su corso Mazzini, la sigaretta accesa sempre incollata alle labbra e la voglia di lasciarsi andare e ballare, ballare.

    U come The Usual Suspect

    I Soliti sospetti (1995), il film amatissimo – è ancora un cult – eppure in quel decennio oscurato da almeno altri due titoli forse più generazionali come Pulp fiction (1994) e Trainspotting (1996) poteva regalare emozioni nelle case dei ragazzi dei Novanta: una volta visti al cinema (niente multisale) si andava di Vhs. Dopo scelte che potevano durare ore davanti alle pareti piene di custodie da consultare per la lettura delle trame, le videocassette si noleggiavano da Only One a corso d’Italia (vedi lettera E). O, più tardi, da Blockbuster a via Panebianco, antro magico che ebbe tra i meriti quello di farci scoprire i gelati Haagen-Dasz.

    V come veglioni

    Le feste più “in” erano al Garden Club e allo Sporting Club. Luoghi eletti anche per i veglioni di Capodanno insieme al Cinema Garden e al Timer, la sala ricevimenti che si trovava sulla strada per Sant’Agostino e aveva imbroccato la strada fruttuosa delle feste a inviti. Boccoli, molto velluto, calze velatissime, le ragazze degli anni ’90 arrivavano all’appuntamento solo dopo essere state dal parrucchiere e con un outfit impeccabile. Peccato, erano i tempi in cui si poteva fumare anche nei locali e si arrivava alla fine della festa senza scarpe e completamente sfatte. Sì, esattamente come succede oggi.

    Z come Zorro

    Il gelato? Almeno tre opzioni tutte da provare: lo storico Zorro, bar Mary e Dante Gelo a Rende. Quanto di più distante dalle mousse pannose e burrose dei nostri giorni, che forse hanno bisogno di dolcezze surrogate.

  • IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    […] Un altro dei simboli popolari della crisi d’identità che affligge oggi la Grande Cosenza è il calcio cittadino. Precipitato nelle polemiche della gestione Guarascio e ben al di sotto dei fasti del passato. Un adagio ben noto tra gli appassionati di pallone dice che la piazza calcistica di Cosenza ha un tifo da serie A, una storia da serie B e una dirigenza di quarta serie. Oggi la squadra che fu arena consacrata da atleti simbolo come Bergamini e Marulla, è rimasta orfana di calciatori-bandiera. Quelli che segnano un’epoca e diventano leggenda, anche lontano dai campi di calcio.

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    Un bar semideserto

    Una serata fredda di dicembre di anni molti fa, un po’ prima di Natale ero in un bar di Roges, periferia urbana di Cosenza, e mi capitò di incontrare forse l’ultimo dei grandi pedatori passati dal prato declassato del San Vito-Marulla di Cosenza. C’era un’aria ferma, i vetri appannati. Fuori quasi si gelava per la gala di ghiaccio che scende dalla Sila. Dentro solo pochi avventori. Un paio seduti a un tavolino. Poi io e una mia amica bionda che rivedevo dopo molto tempo. Un po’ di chiacchiere lontano dagli affanni.

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    L’attuale San Vito-Marulla visto dall’alto

    Solo, in piedi, affacciato sui gomiti davanti al banco, c’era un ragazzo magro e dinoccolato. Un tipo sopra la trentina, i capelli lunghi tirati indietro a coda, fermati da un elastico. Qualche filo di grigio già a inargentare le tempie. Un orecchino gli dava invece un’aria un po’ truce. La ragazza che serviva dietro al bancone con lui fa la gatta. Si mostra, si affaccia col petto sul bancone. Gli fa smorfie per invogliarlo. Lui sembra il più annoiato e taciturno dei presenti. Addosso ha una tuta sportiva e un marsupio, calza scarpe da ginnastica. Ha la faccia stanca e un’aria persa e stralunata. I suoi gesti sono lenti, come rappresi nell’aria. Poche parole scambiate con la barista gli escono di bocca come spezzate dalla noia dell’abitudine.

    «Un lattuccio»

    Potrebbe essere uno dei tiratardi, borgatari del posto. Però parla troppo basso, senza la voga strascicata di questi rioni di periferia. Un buon italiano corretto e senza accenti, che gli esce di bocca con un rintocco gentile e malinconico. A un certo punto è lui che si rivolge alla ragazza del banco, dopo che lei gli aveva chiesto con smorfie più insistenti cosa poteva preparargli. Lascia cadere l’invito in una pausa che dura quasi un minuto, l’aria assente. Poi le dice piano piano: «Per favore puoi scaldarmi un lattuccio?». Dice proprio: «un lattuccio».

    Uno così mi sembra d’averlo già visto, lontano da questo bar di periferia. Certe cose non sono mai come te le immagini. Quella sera nel freddo di quel bar di Roges mi sono chiesto cosa stava a farci a Cosenza in una squadretta da campetti parrocchiali scivolata nell’inferno della D uno bravo come lui. Prima di ricominciare dalla quarta serie del pallone, gli avevano offerto di nuovo soldi buoni e ingaggi di prestigio la Fiorentina in B e pure la Sampdoria in A. Ma quel ragazzo triste aveva preferito il Cosenza in D ed era pronto a dare una mano alla squadra che aveva lasciato in B prima del fallimento.

    Capitani impolverati

    E invece era stato messo fuori squadra da allenatori da oratorio. Si era allenato, ma è chiaro che in D non erano i suoi soliti ritmi. Non si gioca di fino sui campetti spelacchiati dei semiprofessionisti. Sono ring da zuffa, rettangoli sconnessi dove si suda e si sgomita senza complimenti. Dicevano che ormai era spompato, che gli mancava la partita vera. Ma aveva lavorato con gli altri per fare il capitano, per presentarsi bene. Non giocava, ma non se l’era sentita lo stesso di lasciare Cosenza.

    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza
    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza

    Chissà se c’è un vero perché in storie così. Forse era rimasto per un amore che voleva resuscitare, forse per la speranza di ricominciare in provincia una vita normale dopo le mille illusioni ruffiane del grande calcio. Forse a 35 anni Gianlugi Lentini era solo un uomo che non aveva più voglia di rientrare nel tritacarne del sistema-calcio. Uno che viene solo per tirare calci alla palla, che gioca solo per giocare e non per caricarsi di responsabilità che ti schiantano, di nuove delusioni. Pensai che forse era rimasto perché ancora, non importa su quale campo, davvero gli piaceva correre così come sapeva fare lui. Scartando e caracollando dietro a una palla persa per inventare un cross che non ti immagini, per cercare lo spazio più imprevisto, come un acrobata che rimane in bilico sul filo bianco teso a bordocampo.

    Campioni malinconici

    Forse a Cosenza ci si poteva stare senza farsi male, perché in un bar di periferia, da solo in una serata fredda di dicembre, uno come lui, un campione vero, può chiedere «un lattuccio» alla ragazza che serve al bancone senza vergognarsi, senza sentirsi addosso tutta la nostalgia e il peso del declino. Un artista malinconico del football, Lentini. La sua era una storia di passione luminosa, di grandezza vera. Di quelle rare nel calcio già ridotto a un Barnum per televisioni e affaristi magliari.

    Sarà sempre così. In questo sport contano gli incanti della fantasia, le ascese degli uomini quanto le cadute. Senza la passione il football è una cosa morta. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Sono solo la passione e la fantasia che ci mettono certi giocatori di genio a farlo diventare una cosa importante, una cosa estetica. Un istante di bellezza adolescente, un’acrobazia figurata che somiglia all’arte.

    Tre generi di giocatori

    Sono passati molti anni da quella sera, ma ricordo bene. Il Cosenza di adesso se la batte malissimo in B, una squadra raccogliticcia, senza capitani veri e uomini simbolo come fu Lentini. Raccolgo a mente i ricordi e gli ultimi istanti di quello strano incontro in una notte d’inverno al bar di Roges. Non c’erano stelle in cielo, e nemmeno la luna. Tirava il vento della Sila, quella tramontana che taglia la faccia. Io e la mia amica ci avviamo senza parlare. Poi mi torna in mente un grande racconto all’interno di Fútbol di Osvaldo Soriano.

    «Lo conosci?», chiedo alla mia amica distrattamente, prima di accompagnarla fuori nelle strade senza nome di quella periferia. Ad un certo punto, le dico che c’è una pagina in cui Soriano scrive che “ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna, e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono giocatori che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dentro un rettangolo di gioco, dove non avrebbe più dovuto esserci nessuno spazio, nessun pallone”.

    Quello lì, quello che alla barista lì dentro chiedeva di scaldargli «un lattuccio», è uno di loro. Uno di questi profeti dell’innocenza che inventa figure impossibili, uno che aveva nei nervi quel tremore che spinge gli uomini a giocare su un prato dietro a una palla di cuoio. È un poeta sconfitto, era un astro tramontato del gioco del pallone. Tu non lo conosci. Si chiama Gianluigi, Gigi Lentini, era un campione.

    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993
    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993

    Prima di andare via dal bar con la mia amica, mi sono avvicinato. Ho chiesto un autografo a quel ragazzo dalla faccia triste. Sorrise, sorpreso che qualcuno lo avesse riconosciuto in quel posto, a quell’ora, in quella situazione. Qualcuno che si ricordava di lui come calciatore, quando fino a qualche anno prima calcava i palcoscenici del calcio vero. Lentini scrisse su un pezzetto di carta, con una biro che le passò la ragazza dietro al bancone, calmo e gentile. Poi quasi sottovoce mi chiese per chi era l’autografo. «È per mio figlio», rispondo io. Non è vero. L’ho tenuto per me.

    Cosenza oggi

    Oggi Cosenza per me è questo: l’aria di periferia di certi bar e negozietti fuori moda, certi angoli svisti tra i palazzoni di periferia, l’odore delle cucine che la domenica preparano il pranzo di buon’ora tra le case popolari. Rumore di stoviglie, i balconi spalancati sul mattino, i panni stesi, le stanze che si affrettano al riordino. Un vecchio in pigiama che è sceso nel cortiletto di una vecchia casa colonica assediata dal cemento ad annaffiare del basilico che cresce in una grossa lattina di conserva arrugginita. Una imprecazione che sembra un proverbio antico, qualche risata di gola che arriva da lontano, una donna che rimprovera un bambino in un dialetto che sa ancora di cantilena.

    Sullo stradone il camioncino del venditore viaggiante di patate della Sila che chiama a raccolta donne col suo verso da muezzin, la macchina con gli scarichi truccati che passa correndo via e lo stereo acceso forte sulle canzoni di un cantante neomelodico. Il buongiorno di una domenica qualsiasi in un posto senza grilli per la testa, le officine e i gommisti che armeggiano tra i marciapiedi e le strade piene di buche, il mercato degli ambulanti, i saluti e la festa del mattino nel quartiere popolare in cui sono venuto ad abitare da un paio d’anni.

    La città-chimera

    Da qui, da questo margine, si dileguano come in una nebbia opalescente le sagome tristi della teoria infinita di casermoni, strade e circonvallazioni, luci al neon, semafori intermittenti e file d’auto incolonnate nel traffico del rientro pomeridiano. La vita che ristagna tra le siepi di palazzoni multipiano degli attici in vetrocemento che riflettono il profilo scialbo della Grande Cosenza. La città-chimera, che non c’è mai stata e che non si farà. E con lei eclissa forse per sempre da queste sponde antiche anche il mito della città ribelle, socialista, colta, libertaria.

    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio
    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio

    Restano solo le spoglie del suo centro storico svuotato di senso e popolato solo da invisibili e clandestini. La ridotta sbriciolata dei palazzi patrizi di Cosenza Vecchia, nobile e decaduta, e fuori da quella cerchia vetusta, a far perno nel vuoto del cielo invernale solo il lungo traliccio strallato del ponte di Calatrava. Poi le orbite involute del traffico e i pilastri di cemento armato di quella foresta di cubature sfuse che occupa lo spazio sfilacciato come una bandiera al vento che si prolunga per miglia e miglia oltre i ponti nella valle del Crati.

    Una periferia senza centro

    Il fiume di cemento si arresterà mai prima di sboccare la sua corsa finale verso lo Ionio? Fin lì Cosengeles per ora è solo un groviglio di centri commerciali, strade che si perdono nella campagna scassata dagli abusi, tra gli avamposti delle burocrazie e del terziario rigonfiato. Cosenza è oggi un organismo aspira-tutto che prospera risucchiando il vuoto intorno a sé e assommando intorno ad un’enorme periferia senza centro tutta la popolazione di giovani che si raccoglie nei paraggi dell’Università.

    Studenti in attesa dei bus ai piedi dell'Unical
    Studenti in attesa dei bus all’ingresso dell’Unical

    Qui si radunano nel posatoio provvisorio degli studi, delle lauree tecnologiche e delle specializzazioni da Silicon Valley in riva al Crati, i pochi giovani rimasti a vivere in tutta la Regione. Ma anche loro restano giusto il tempo di ripartire. Prima che volino via altrove, come uccelli di passo. Un flusso provvisorio che ancora per un po’ terrà viva Cosenza e tutta la sua cosiddetta area urbana.

    Mito e apparenze

    È questa in fondo l’unica forza viva che alimenta da quarant’anni il mito della Grande Cosenza. Un mito provvisorio che sembra di tanto in tanto risorgere senza mai diventare vero oltre le apparenze. Ma solo perché è la Calabria intera che si squaglia intorno a Cosenza, che ogni giorno rimpicciolisce e diventa sempre più scarsa, più scolorita e spaesata.

  • BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    Trappeto a sangue. Si chiamava così il frantoio per la molitura delle olive azionato da uomini e animali, e ciò basta a dare un’idea di quanta fatica costasse la produzione di olio fino all’impiego dei moderni macchinari. Poi vennero i frantoi meccanici, più rari e in genere mossi dalla forza idraulica, ma fino al XVIII secolo la lavorazione delle olive in Calabria seguiva tecniche arcaiche.

    Olio-calabria-i-calabresi
    Trappeto a sangue all’uso genovese. Dal volume di Grimaldi del 1773
    Trappeto alla calabrese e alla genovese

    Decisamente arcaico era il cosiddetto “trappeto alla calabrese”: due grandi viti incastrate nella pietra pressavano le olive già lavorate dalla macina. Il sistema consentiva però una scarsa resa e la necessità di scaldare i frutti prima della lavorazione ne inficiava la qualità. La svolta arrivò nella seconda metà del XVIII secolo grazie all’introduzione del trappeto “alla genovese”.

    Costituito da un torchio a unica vite, tale sistema giunse in Calabria nel 1773 sponsorizzato dal marchese genovese Domenico Grimaldi proprio per la regione in grado di produrre «più di centocinquantamila macinature di ulive, ciascheduna di nove tomola». La reclame del marchese sortì gli effetti sperati giacché il frantoio “alla genovese” resse fino alla comparsa delle prime macchine novecentesche. Il trappeto era sinonimo di prosperità, oltre che di esibizione dello stato sociale.

    Macina di frantoio in rovina nelle campagne di Santa Sofia d’Epiro nel 2017
    Le braccia e le bestie

    Lo spiega bene il solito Vincenzo Padula: «Nessun nostro galantuomo si crede proprietario davvero quando non abbia un trappeto». Le figure chiave nel sistema di lavoro del trappeto erano essenzialmente tre: l’oliandolo o agliere, l’attizzatore o tizzuni, e il saccardo o vetturino. Quest’ultimo si occupava di condurre l’animale, in genere un mulo o un bue, che faceva andare le macchine e versava la pasta d’olive macinate sui fischiuli per essere pressata al torchio.

    Una paga misera

    Toccava poi all’attizzatore il compito di spingere le olive con una pala sotto la macina a ogni giro della stessa. Infine l’oliandolo faceva funzionare il torchio e, dopo la spremitura, raccoglieva l’olio dal pozzo. Nonostante le enormi fatiche, il lavoro nel frantoio permetteva ai fattoiani (quanti lavoravano in un “fattoio”) di mettere da parte una riserva d’olio per uso familiare. Per ogni macina di olive infatti, essi avevano diritto a poco più di due litri d’olio, da spartirsi però con l’oliandolo, l’attizzatore, il saccardo oltre che col proprietario del frantoio.

    Coloro i quali portavano le olive a macinare avevano il buon cuore di offrire agli operai anche «la minestra di fave, o fagiuoli, e pane, formaggio e salame per spesare i fattoiani». Insieme al pasto trangugiavano grandi quantità d’olio, tanto che «la favata, che dalla popolana viene apparecchiata per essi, deve nuotare nell’olio».

    “Più pende, più rende”

    L’olivicoltura calabrese ottocentesca dalla coltivazione alla potatura e dalla raccolta alla molitura era praticata con scarsa cura e nulla razionalità. Ciò portava a raccolti esigui e a oli di scarsa qualità. Il proverbio secondo cui l’olivo “più pende più rende” conduceva infatti alla raccolta in periodi in cui il prodotto aveva già perso di qualità. In una relazione del 1863 il professore Giuseppe Antonio Pasquale scriveva che «le olive cascano da sé a poco alla volta, s’imbrattano di terra e si feriscono, poi s’ammonticchiano ed incamminano, e fermentano, e rancidiscono, e talora saponificano».

    Olive nella tradizionale rete utilizzata per la raccolta

    Un tale spreco era inconcepibile. Secondo lo scrivente era necessario dunque «raccogliere le olive colle mani da sopra l’albero, e spremerle tosto in apparecchio tersissimo, ed ecco l’olio più puro che la natura e l’arte possa dare». Da questo punto di vista, le olive della Piana di Gioia Tauro erano da preferire perché da un uliveto di venticinque piante si poteva ricavare un totale di 200 tomoli, e di conseguenza 4 botti d’olio per un totale di 16 quintali.

    Il nettare verde amato dagli italiani

    Nonostante i metodi arcaici e gli esigui raccolti all’alba del ventesimo secolo le olive, e in misura maggiore l’olio prodotto nelle province calabresi, deliziavano i palati di tutta Italia e a volte superavano i confini nazionali. Il rapporto intitolato “Sul commercio oleario delle Calabrie nel 1902”, firmato dal direttore del regio oleificio sperimentale di Cosenza, Flaminio Braccis, ripercorre le strade imboccate da questa “pregevole derrata” il cui traffico complessivo, specie via mare, «raggiunse la rispettabile cifra di 153.373 quintali, peso netto».

    “Il vaiuolo dell’olivo”

    Si tratta di numeri che, a detta di Braccis, andavano quasi ad eguagliare «il livello normale dei tempi migliori, dopo un periodo abbastanza prolungato d’insolita depressione, causata dalla fallanza continuata dei raccolti». Il migliore di quell’anno si registrò in provincia di Catanzaro, mentre Cosenza e Reggio furono penalizzate da fattori ambientali. Per gli oliveti «dell’ampia zona Rossanese che si stende fin sulla spiaggia del mare» fu un’annata inclemente a causa del cycloconium o più semplicemente “vaiuolo dell’olivo” che causò gravi danni. Allo stesso modo nella zona tra Gioia Tauro, Rizziconi, Radicena, Cittanova e Polistena la nemica si rivelò essere la mosca tardiva specie nelle zone pedemontane. Nonostante ciò i produttori calabresi non si persero d’animo, motivati a esportare la loro eccellenza a migliaia di chilometri di distanza.

    Raccolta delle olive in Italia. Stampa francese del 1862
    L’olio esportato in Francia

    Le commesse, seppur in calo, non mancavano. Gli oli provenienti da Rossano e Gioia Tauro raggiungevano la Francia, mentre la stessa località della Piana fu penalizzata dal venir meno della commessa record di 10milia quintali di olio da ardere proveniente dalla Russia. Anche per questo motivo i coltivatori reggini si convinsero a puntare sull’impianto di qualità di olive “mangiabili o fini”, più redditizie, dirette principalmente in Liguria (Genova, Porto Maurizio, Oneglia e Sanremo), Toscana (Livorno) e nel Barese. Mentre gli oli industriali prendevano soprattutto la strada di Sicilia, Sardegna e del Napoletano. Gli “scali” dell’allora versante tirrenico catanzarese (Pizzo, Nicotera, Sant’Eufemia) brillavano sia per esportazioni di oli da tavola sia per quelli industriali, diretti anche in questo caso in Campania, Toscana ma anche a Venezia.

    L’olio al solfuro

    Ma dal punto di vista logistico i più organizzati erano gli scali ionici di Rossano e Corigliano e quello tirrenico di Amantea, da dove «si effettuarono spedizioni a vagoni completi per la Liguria, il Barese e Napoli». Lo stesso rapporto annovera tra le eccellenze calabresi in ascesa un nuovo protagonista: l’olio al solfuro. Prodotto negli stabilimenti di Rossano, Cariati, Catanzaro, Siderno e Gioia Tauro, veniva utilizzato e apprezzato dalle industrie cosmetiche di Catania, Genova e Bari per la produzione di saponi verdi che cominciavano a far la loro comparsa nelle toilette dell’epoca bella.

    La “buona scuola” tra gli uliveti

    Ai sistemi arcaici utilizzati nei secoli precedenti fece da contraltare, nel senso del progresso, l’esperienza vissuta da alcuni allievi della Scuola pratica d’agricoltura di Cosenza (oggi Istituto agrario “G. Tommasi”). Ciò che recentemente chiameremmo entusiasticamente “buona scuola”, “alternanza scuola-lavoro” o “a scuola d’azienda” si praticava tra gli oliveti della provincia di Cosenza già 120 anni fa. Nell’anno scolastico 1902-1903 il Ministero dell’agricoltura pensò di promuovere un corso teorico-pratico d’oleificio su esplicita iniziativa dell’Oleificio sperimentale di Cosenza diretto da Flaminio Braccis. Al corso, indirizzato oltre che agli studenti anche a operai e agenti di campagna, parteciparono due classi della locale Real scuola pratica d’agricoltura diretta dal cavalier Tommasi (che oggi dà il nome all’Istituto agrario).

    A lezione dai latifondisti

    Per venti giorni venti allievi di due classi frequentarono lezioni specifiche ed approfondite tra Cosenza (Campagnano e Rovello), Montalto Uffugo, Rossano, Amantea, Scalea. Qui, sui terreni di ex latifondisti incuranti ora apertisi alle diavolerie della modernità, ebbero luogo conferenze, visite e dimostrazioni pratiche in campagna: dalla constatazione dello stato del frutto e delle piante alla scelta delle parcelle di terreno da sottoporre a concimazione chimica, dallo studio delle malattie dell’ulivo ai rimedi possibili e ai sistemi di piantamento dell’olivo.

    Il fine, esplicitato nel documento finale, fu quello di convincere e formare al «vantaggio degli ordegni moderni e delle pratiche razionali di oleificazione che hanno sostituito e vanno sostituendo in quest’ultimo quinquennio ai preadamitici frantoi ed ai torchi di legno». Ma c’è di più. A una scuola che, secondo gli indirizzi ministeriali, veicolava un’agricoltura finalmente razionale e non più arcaica si aggiungeva un aspetto non secondario. Il corso era non solo gratuito, ma ciascun partecipante fu rimborsato delle spese di viaggio (andata e ritorno) mentre ai più bisognosi venne riconosciuto addirittura un compenso giornaliero. Naturalmente tutti gli studenti erano maschi.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina facebook: Calabria Fotografia Sociale)
    Le insidie sessuali del padrone

    E le donne? Le raccoglitrici di olive condividevano i medesimi patimenti e condizioni di lavoro disumane delle gelsominaie. Più o meno giovani, le donne lasciavano i propri paesi per recarsi negli uliveti dei grandi proprietari nei diversi giorni della campagna di raccolta e condividevano locali angusti e poco igienici. Inoltre erano soggette alle insidie sessuali del padrone o dei suoi fattori. Scalze e curve sul terreno per la raccolta lungo tutta la durata della giornata, dovevano poi sobbarcarsi il peso dei sacchi colmi di olive fino ai depositi. La paga era quasi sempre misera, incerta e molto spesso corrisposta in natura. Alle raccoglitrici era concesso infatti di mangiare solo le olive già cadute al suolo ma non potevano portarne a casa. La condizione delle “montanine” che si riversavano nelle zone marittime nei mesi di maggior produzione è esposta nei minimi particolari da Vincenzo Padula.

    Giovinette sotto l’ombra degli ulivi

    Il letterato di Acri non manca di annotare che «il più vago spettacolo è d’inverno nella marina del Jonio: giovinette di tutti i tipi, che vestono di tutti i colori, che cantano in tutti i tuoni, ora sole, ora a gruppi, ora ritte, ora piegate sotto l’ombra degli ulivi». Non riuscivano però a racimolare «più di 34 centesimi al giorno», mentre erano sorvegliate da un misaruolu che nella giornata guadagnava una lira. Padula denuncia una realtà fatta di angherie, maltrattamenti e violenze commesse dai padroni che amavano «godere della voce, e delle grazie di quelle poverelle, alle quali danno 34 centesimi al giorno per disonorarle».

    Al momento della partenza per i luoghi di lavoro i genitori le mettevano in guardia ma «molte ed assai molte immemori dell’avvertimento paterno vi perdono l’onore; molte sono più avventurate, e prima divengono concubine, poi mogli di alcuno dei loro padroni». Non mancavano componimenti in versi e canzoni sull’argomento, tra cui una che Padula ebbe modo di sentire da una donna e che diceva in modo ironico: «Mi susu la matina/ Mi mindu lu jippuni/ U pulici d’u Baruni/ M’è venutu a muzzicà».

  • IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.

    Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.

    L’Arca di Cosenza
    Studenti sul ponte Bucci all'Unical prima della pandemia
    Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia

    L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.

    Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.

    Vecchie e nuove diarchie

    E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.

    Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei bruzi
    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.

    Il tramonto della cultura

    Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.

    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra pop degli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.

    La città tra resistenza e retorica

    Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).

    Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza

    Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizione locale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.

    Un patto civico

    Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.

    Dario Antoniozzi
    Dario Antoniozzi

    Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.

    Ritratto di un califfo

    Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».

    La classe dirigente dei galoppini

    Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.

    A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.

    Princìpi condivisi

    Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.

    C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.

    Lo stile smarrito

    Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.

    Auto sul ponte di Calatrava
    Auto sul ponte di Calatrava

    Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.

    Il fantasma della città

    Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.

    Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.

    Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.

    L'autostazione a Cosenza
    L’autostazione a Cosenza

    I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.

    Hinterland, traffico e casermoni

    Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.

    Il Tirreno visto dal valico della Crocetta, tra Cosenza e Paola
    Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola

    Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]

  • Il diplomatico di Amantea che impedì la guerra Italia-Usa

    Il diplomatico di Amantea che impedì la guerra Italia-Usa

    Quella di Francesco Saverio Fava è una memoria in bilico. Innanzitutto, tra due città: Salerno, dove nacque, e Amantea, dove la sua famiglia affondava le radici ed è legata a una vicenda forte, in cui la storia locale finisce nella grande storia: la resistenza antinapoleonica della cittadina tirrenica, rimasta fedele ai Borbone fino all’ultimo.

    Inoltre, il barone Fava fu in bilico tra due sistemi politici: la monarchia amministrativa del Regno delle Due Sicilie, dove iniziò la sua carriera di diplomatico come console, e quella costituzionale del Regno d’Italia, in cui fu “ripescato” dalla nuova élite e destinato a sedi diplomatiche allora secondarie: tra queste, gli Usa, all’epoca considerati una potenza non “di rango”.

    Eppure, grazie a questo incarico, il nobile calabrese diventò un personaggio di primo piano nella scena internazionale di fine ’800. Non solo creò quasi da zero l’ambasciata italiana negli Usa, ma fu protagonista di una vicenda terribile, che portò i due Paesi sull’orlo della guerra. Parliamo del pogrom di italiani compiuto a New Orleans nel 1891.

    Amantea-Fava-i-calabresi
    Il diplomatico italiano originario di Amantea, Francesco Saverio Fava
    Antefatto: gli eroi dei Borbone

    Difficile capire se gli antenati di Fava  si misero alla testa della resistenza di Amantea per fedeltà ai Borbone o per difendere i privilegi che i re di Napoli avevano assicurato alla città e quindi a loro stessi. A questo interrogativo non fornisce risposta neppure Il barone persistente, l’unica biografia del diplomatico calabrese, scritta da Alberto Fava (“Il barone persistente”, Amantea, Carratelli 2019), un suo discendente.

    Fatto sta che il barone Giulio Cesare Andrea, lo zio di Francesco Saverio, e sua moglie Laura Stocchi Procida, si misero alla testa della difesa del piccolo comune costiero di Amantea, assediato dalle truppe napoleoniche nel 1806. Particolarissimo fu il ruolo della baronessa, che più volte guidò i suoi contadini all’assalto delle truppe francesi: una specie di amazzone, che caricava a cavallo alla testa dei suoi seguaci.
    Amantea capitolò nel 1807 e i Fava furono espropriati.

    Ferdinando IV di Borbone

    Al ritorno di Ferdinando IV, ’o Re Nasone, i Fava ricevettero in premio l’ingresso nell’alta burocrazia del Regno. In particolare, Francesco Fava, il papà del futuro diplomatico, ottenne la nomina di direttore del Fondaco dei Sali del Principato di Salerno. E, in seguito, quella di direttore generale delle Finanze della Calabria Citra (l’odierna provincia di Cosenza).
    Facciamo un salto in avanti, nel tempo e nello spazio, e spostiamoci negli Usa.

    Amerikan pogrom

    È il 14 marzo 1891. A New Orleans si raduna una folla di 12mila persone, aizzata dall’avvocato Parkenson, assistente del sindaco Joseph Shakespeare, e si dirige verso la prigione. Lì sono in attesa di essere scarcerati 11 italiani, prosciolti dall’accusa di aver assassinato il capo della polizia, il discusso David C. Hennessy.

    L’assalto contro gli italiani a New Orleans in una stampa d’epoca

    La “marmaglia”, come l’avrebbe definita il console italiano della capitale della Louisiana, sfonda il portone posteriore del penitenziario e lincia gli undici “dagos”, che è il nomignolo spregiativo affibbiato dagli americani wasp ai migranti “latini”, soprattutto agli italiani del Sud. Il massacro di New Orleans è il più grave dei 22 casi di linciaggio subiti dai migranti italiani nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Ma stavolta il massacro non resta senza risposte, politiche e diplomatiche. Di cui si incarica il barone Fava.

    Un diplomatico in prima linea

    Fava era arrivato negli States come ministro plenipotenziario, dopo aver fatto una gavetta molto dura. A differenza dei colleghi settentrionali, lui aveva scontato sulla propria pelle il pregiudizio dell’élite del nuovo Regno nei confronti dei funzionari ex borbonici.
    Tuttavia, questo “trattamento” non proprio di favore aveva consentito all’aristocratico di Amantea di farsi onore con la gestione di situazioni difficili e di essere testimone oculare di avvenimenti importanti, tra cui la nascita della Romania.

    Il primo contatto del barone col nuovo mondo fu l’Argentina. Lì il diplomatico toccò con mano le difficoltà in cui versavano i migranti italiani, oggetto di pregiudizi e spesso vittime di violenze e massacri, a cui le autorità quasi non si opponevano. In questo caso, Fava escogitò una soluzione: l’uso di corvette italiane sulle grandi tratte rurali, ad esempio il rio Paranà, senz’altro per tutelare le comunità italiane in occasione delle troppe rivolte antigovernative che tormentavano il Paese sudamericano. Ma anche come suasion nei confronti di malintenzionati…
    Negli States la situazione era in parte simile a quella sudamericana. Ma solo in parte, perché il vero ostacolo a una tutela efficace dei migranti era nella Costituzione.

    Il linciaggio degli italiani a New Orleans
    Un cavillo coi crismi

    Gli Usa, a livello formale, si erano impegnati con l’Italia alla tutela dei migranti nel 1871 con un importante trattato internazionale. Ma questo trattato impegnava solo lo Stato federale, che, secondo la Costituzione americana, non poteva intervenire negli affari giudiziari e nella normativa penale degli Stati membri. Morale: lo Stato della Louisiana poteva insabbiare, come in effetti stava facendo. E la Federazione, che pure si era impegnata a tutelare gli italiani, non poteva farci nulla. Né forse voleva del tutto. Il meccanismo dei “grandi elettori” e il sistema elettorale del Senato, entrambi basati sui singoli Stati, condizionavano non poco le dinamiche politiche dell’amministrazione centrale.

    La situazione era avvitata: le autorità giudiziarie della Louisiana affermavano di non riuscire a identificare con precisione i colpevoli e la Federazione non poteva svolgere inchieste autonome perché non poteva violare la Costituzione. L’unica offerta americana fu il risarcimento di 2mila dollari a ciascuna famiglia delle vittime.
    Un “prezzo del sangue” giudicato irricevibile sia dal barone di Amantea e diplomatico sia dal marchese Antonio Starabba di Rudinì, il presidente del Consiglio dell’epoca. E così si arrivò alla rottura diplomatica.

    Antonio Starabba di Rudinì è stato presidente del Consiglio alla fine dell’Ottocento
    Venti di guerra

    Fava fu richiamato a Roma il 14 aprile 1891. Il ritiro dell’ambasciatore, nel vecchio diritto internazionale, anticipava spesso qualcosa di peggio: la dichiarazione di guerra. E in effetti in Italia la stampa vicina a Francesco Crispi – ex presidente del Consiglio e quindi avversario di Rudinì – propose atti di forza militare, attraverso l’invio della Regia Flotta per cannoneggiare le coste della Louisiana.

    Oggi l’ipotesi fa sorridere, ma all’epoca era tutt’altro che campata in aria. Gli Usa, usciti da una sanguinosa guerra civile, erano praticamente disarmati: il loro esercito era costituito da 128mila soldati regolari, la loro flotta da 3 navi da battaglia, tra l’altro obsolete. L’Italia, al contrario, era armata fino ai denti, con un esercito di 2 milioni e 400mila unità e una flotta di 11 navi da guerra completamente messe a nuovo. I presupposti per la “guasconata” c’erano.

    Né l’Italia né gli States volevano arrivare a tanto. Infatti, fu attivato subito un canale diplomatico informale, gestito con grande abilità proprio da Fava, per trovare una via d’uscita accettabile per entrambe le parti. Harrison risarcì i parenti delle vittime, ma a titolo “personale” (cioè pescando dall’appannaggio della Casa Bianca), chiese scusa all’Italia e alle comunità italoamericane e impegnò formalmente gli Usa ad approvare una legislazione speciale per la tutela dei migranti. L’Italia, a sua volta, ottenne un potenziamento della propria rete consolare negli States.

    Benjamin Harrison è stato il 23esimo presidente degli Stati Uniti
    Il ritorno in Patria

    Fava rientrò in Italia nel 1901 e lasciò la diplomazia dopo aver tentato invano di ottenere una sede in Europa. In compenso, entrò in Senato per nomina regia. Inutile dire che i problemi degli italiani all’estero furono il suo pallino. Morì nel 1913.
    Gli Usa non approvarono alcuna modifica della Costituzione per intervenire nelle giurisdizioni locali fino agli anni ’60, quando i problemi dell’apartheid erano diventati ineludibili. Ma la questione dell’immigrazione fu sbrigata in parte attraverso leggi speciali e in parte si risolse da sé, grazie all’integrazione spontanea dei “dagos”.