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  • BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    BOTTEGHE OSCURE | Cementine di Calabria, il bello del mattone

    Nel dicembre del 1906, dopo un un’estate e un autunno inclementi di pioggia, una spaventosa tempesta di grandine provocò le ire del fiume Crati che si abbatté sulle tane dei cosentini. Ma, ieri come oggi, la natura è responsabile solo in parte della furia distruttiva. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, una vera e propria “febbre edilizia”, con abitazioni tirate senza alcun criterio estetico ed edilizio affiancate a eleganti palazzotti, aveva gonfiato a dismisura i quartieri bassi della città di Cosenza.

    L’epopea di Mancuso e Ferro

    Alla “Castagna” aveva sede l’opificio Luigi Mancuso e C. (poi “Ditta Mancuso e Ferro”) che con i suoi innumerevoli manufatti in cemento contribuì per decenni alla grande espansione della città verso Nord. E fu anche uno dei siti maggiormente danneggiati dalla tempesta del 1906. Insieme al Tannino, collocato sulla sponda opposta del Crati, la fabbrica di laterizi che aveva aperto i battenti nel 1903 contribuì a dare alla città di Cosenza un primo germe di sviluppo industriale.

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    Un campionario di cementine che si producevano alla Mancuso e Ferro

    Cementine

    Più di mezzo secolo dopo, alla fine di novembre del 1959, la furia degli elementi si abbatté sulla fabbrica. Le acque raggiunsero i due metri di altezza, inghiottendo materiali e attrezzature – si apprende dalla documentazione del Genio Civile. All’epoca la Mancuso e Ferro era la fabbrica più importante della città, dava lavoro a circa 150 operai e da soli tre anni aveva aperto dei saloni di rappresentanza in piazza Fera. In poco più di mezzo secolo di vita i suoi manufatti in cemento erano apprezzati soprattutto fuori regione, oltre a ornare gli edifici borghesi della città dei bruzi. Il fiore all’occhiello del campionario era rappresentato dalle cosiddette “cementine” in pasta colorata, dette anche “pastine”. Si trattava di mattonelle dai motivi delicati ed eleganti utilizzate anche oltre gli anni ’30 del Novecento in sostituzione dei vetusti pavimenti in argilla pressata.

    Fabbrica, amianto e musei mancati

    Delle pregevoli cementine della Mancuso&Ferro dai motivi geometrici o floreali restano solo alcuni esemplari che ornano il muro di cinta del vecchio stabilimento alla Castagna. Beffarda memoria di un’eccellenza che fu. Nonostante da alcuni anni siano stati rimosse le tettoie in amianto, causa di patologie tumorali per gli abitanti di via Carducci e dintorni, la vecchia fabbrica-zombie è ormai l’ombra di se stessa. «In questo quartiere in passato trascurato, e in particolare sul sito dove sorge l’ex fabbrica, il Comune ha in programma di realizzare il Museo di arte contemporanea nell’ambito di un percorso culturale che inizia dal Museo all’Aperto Bilotti e termina proprio nella città antica» scriveva nell’aprile del 2015 l’Ufficio del portavoce dell’allora sindaco Mario Occhiuto. Una reinterpretazione visionaria rimasta carta morta per un glorioso reperto di archeologia industriale che (forse) è più facile dimenticare che recuperare.

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    Il rendering del museo che aveva in mente Occhiuto sul sito della Mancuso&Ferro

    La ciminiera e il pompiere

    Tra le prime fotografie pubblicate dai giornali calabresi troviamo, nel 1905 sulla prima pagina della Cronaca di Calabria, quella della grande ciminiera della fabbrica di laterizi “Aletti” a Rende. Il terremoto dell’8 settembre di quell’anno aveva provocato ingenti danni alla struttura. La ciminiera doveva essere demolita, ma nessuno ovviamente aveva intenzione di arrampicarsi fino all’altezza di 45 metri. «Si era in sul forse se demolirlo a colpi di cannone – scrive il periodico cosentino – o se far venire da Bologna un’apposita scala per raggiungere l’altezza del fumajuolo», quando un coraggioso alla fine spuntò fuori: il caporale dei pompieri Estro Menabue.

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    La ciminiera Aletti sulla Domenica del Corriere del 26-10-1905

    Il bolognese Menabue, insieme al tenente Barattini e al pompiere Finelli che rimasero sulla tettoia, si arrampicò per iniziare il lavoro e riuscì, dopo sei ore, a demolirne una parte consistente. Le foto dell’evento rimbalzarono sugli organi di informazione, passando dalla Cronaca di Calabria ai giornali nazionali. Perfino sul diffusissimo La Domenica del Corriere si diede spazio all’evento con tanto di foto della ciminiera ancora intera, compreso il pompiere arrampicato in lontananza, e foto della ciminiera ormai dimezzata.

    Imprenditori del Nord

    La fabbrica di laterizi della famiglia Aletti rappresentò una realtà industriale di importanza notevole per il territorio, sia per la portata della produzione e per la mole dello stabilimento, sia perché la famiglia non si limitò alla produzione di mattoni ma estese la sua azione in molti settori, dalle ferrovie alle piccole miniere, dalle segherie agli impianti idroelettrici. Ne ricostruisce le vicende, attraverso i fondi superstiti dell’archivio della famiglia, una pubblicazione edita nel 1989 da Editoriale Progetto 2000 e curata da Roberto Guarasci e Silvia Carrera. Uno spaccato interessantissimo della vita economica calabrese tra fine ‘800 e inizi ‘900, quando questa famiglia di imprenditori giunti dal Nord, da Varese per la precisione, incrociò la propria storia con quella di molti “simboli del progresso” di una Calabria che con un po’ di ritardo si affacciava nell’età contemporanea.

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    La fabbrica di Laterizi ‘Aletti’ di Rende alcuni anni fa

    L’acquedotto dello Zumbo, ad esempio, quello del Merone, e soprattutto vari tronchi ferroviari tra cui la tratta Cosenza-Pietrafitta, e ancora ponti, strade, palazzi. In molte di queste opere si possono ancora vedere grandi porzioni realizzate proprio con i mattoni prodotti nella mattoneria di Rende e marchiati con il caratteristico simbolo della “A” stilizzata in un triangolo inscritto in un cerchio. A Rende, nella zona di Surdo, la presenza della fabbrica di laterizi fu una svolta. Lavoro sul posto e materiale a portata di mano possono spiegare il gran numero di edifici a mattoni a faccia vista che sorsero nella zona attorno alla vasta fabbrica, caratterizzando quella porzione del territorio di Rende. Nel 1906 gli Aletti costituirono una società per aprire una nuova fabbrica a Trebisacce, sullo Ionio, un’altra realtà vivace in cui la fabbrica Aletti impiegò un gran numero di operai.

    I mattoni rendesi

    Rende, in verità, ha una “storia di mattoni” molto più antica, che getta le radici nella presenza di argilla utilizzabile per la realizzazione di diversi manufatti in terracotta. Gli oggetti da cucina in terracotta, “terraglie”, erano da secoli una delle produzioni tipiche della zona, evolutisi poi nella produzione su più larga scala di laterizi tanto che a metà Ottocento, come scrive Giovanni Sole, vi operavano ben sette fabbriche di vasi, tegole e mattoni che impiegavano sessanta dipendenti, tra cui ventuno donne. Si trattava comunque di opifici artigianali e a conduzione familiare e per trovare esempi di dimensione più “industriale” ci volle il nuovo secolo, quando oltre a quella di Aletti operavano anche le fabbriche di laterizi Magdalone e Zagarese.

    Dodici ore di lavoro al giorno

    Nella metà dell’Ottocento quella dei laterizi era, comunque, una delle industrie più importanti della Calabria Citra, con opifici sparsi oltre che a Rende anche a Fiumefreddo, Lago, Longobardi, Carolei, Roggiano, Paola e Cosenza. Il lavoro era duro, le fornaci e le calcare richiedevano tanta fatica, sudore e legna da ardere. Le fabbriche di mattoni di Fiumefreddo, riporta ancora Sole, occupavano otto uomini e due donne per 12 ore al giorno, con una produzione di tegole e mattoni concentrata nei mesi estivi, quando si lavorava di continuo giorno e notte, mentre per gli altri oggetti di terracotta la produzione continuava tutto l’anno.

    Operai nella fabbrica di Trebisacce nel 1931 (foto tratta dal volume di Guarascio e Carreri, Editoriale Progetto 2000)

    Archeologia industriale

    I ruderi di molte di queste fabbriche sono ancora oggi i testimoni muti ma eloquenti di quell’epoca. Delle fabbriche rendesi i ruderi della Aletti, sulla strada che da Saporito va a Marano Marchesato, sono i più imponenti. Un complesso di archeologia industriale che riflette ancora la cura con cui venne realizzato, utilizzando quegli stessi mattoni che vi si producevano sia per le parti strutturali che per le parti decorative. Nel corso degli ultimi anni le proposte di riutilizzo sono state tante, perfino la creazione di un Museo della civiltà industriale, ma allo stato attuale tutto sembra ancora fermo.

    Migliore sorte è toccata allo stabilimento di Trebisacce, che conserva ancora l’alta ciminiera in mattoni, dove la ex fornace Aletti-Palermo è al centro di un consistente progetto di recupero. Molto altro è andato invece perduto irrimediabilmente sotto i moderni picconi dello sviluppo edilizio a tutti i costi. A Cosenza, ad esempio, la ciminiera e ciò che restava della Mattoneria Pupo, posta proprio accanto allo stadio San Vito-Marulla, è stato demolito intorno al 2010 per fare posto a moderni edifici. È il progresso, bellezza.

     

  • Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    La Storia incrocia la Statale 106 a Kaulon, oggi Monasterace. «Il Mosaico del Drago compie 10 anni – sostiene Francesco Cuteri, archeologo e professore all’Accademia dei Beni culturali di Catanzaro – e mi auguro che, per ricordare questo simbolo del sito di Kaulon, quest’estate ci sia una serie di eventi specifica e articolata per far conoscere la sua storia. È un luogo che ha bisogno di cura e attenzioni e con una protezione sarà sicuramente al riparo dal maltempo».
    Era il settembre 2012 quando a Monasterace Marina un team di archeologi, tra cui proprio Cuteri, realizzò una scoperta unica. Si trattava di un grande mosaico policromo figurato con animali marini che si affrontano. Oggi il solito immobilismo tutto calabrese rischia di pregiudicare una meraviglia tornata da un passato lungo due millenni.

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    Museo archeologico “Casa del Drago”, soglia della camera da pranzo con il mosaico del drago marino

    Le terme nella vecchia polis

    «L’edificio termale – ci spiega la ex direttrice del museo, Maria Teresa Iannelli – di cui il mosaico costituisce il pavimento dell’ambiente con piscina per bagni riservati agli uomini, è particolarmente monumentale ed articolato. Mostra analogie con quelli identificati a Velia, Locri, Gela e Megara Hyblea e, soprattutto, Morgantina». La struttura è denominata «le “terme di Nannon” – continua la Iannelli – per la presenza di un’iscrizione rinvenuta sul bordo di un bacile in terracotta. Potrebbe identificare in Nannon l’architetto delle terme. Nella sua prima fase è stata datata alla seconda metà del IV sec a.C. e rientra nella nuova organizzazione urbanistica di cui si era dotata la polis achea in seguito alla distruzione operata dai Siracusani nel 389 a.C. La trasformazione in edificio termale è successiva al primo impianto ed è stata datata nel corso della prima metà del III secolo a.C».

    Il calcare ha protetto il mosaico

    Il mosaico dei Draghi e dei Delfini, spiega ancora Iannelli, «era coperto dal monumentale crollo della volta a botte dell’ambiente H, le cui componenti, in corso di rilievo e di studio da parte degli archeologi che hanno condotto lo scavo, hanno permesso di delineare interessanti analogie con il sistema di copertura proposto per il calidarium delle terme di Fregellae (II secolo a.C.). Così come di far ipotizzare che la struttura di Kaulon, vista la più alta cronologia, ne rappresenti in un certo senso l’archetipo. Proprio la presenza dei tanti elementi in calcare ed in laterizio all’interno del vano ha permesso di sigillare il mosaico garantendone, anche per lo strato di calcare che vi si è depositato, una perfetta conservazione».

    Il drago sotto la sabbia

    Coperto ancora con sabbia fin dalla scoperta per tutelarlo, il mosaico è visitabile dal 2018 con aperture straordinarie e tour guidati nei mesi estivi. Nel 2020 l’incertezza dovuta alla pandemia costrinse a mettere in dubbio le visite. Cuteri, che è anche una delle guide al mosaico, per protestare si era sfogato su Fb: «Perché interrompere un ciclo? Non è mia abitudine andare allo scontro, qualcuno dice che voglio mettermi in mostra. Tra l’altro scoprendo dalla sabbia il mosaico si verificano anche le sue condizioni».

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    Cuteri circondato da turisti in occasione della riapertura straordinaria del 2018

    Un laboratorio di ricerca per gli studiosi

    Secondo le più recenti ricostruzioni scientifiche a fondare l’antica Kaulon addirittura nel VII secolo a.C. sarebbero stati coloni provenienti dalla regione greca dell’Acaia. I resti della polis, identificata dall’archeologo Paolo Orsi con la località Punta Stilo a Monasterace Marina, in provincia di Reggio Calabria, sono più in generale un laboratorio di ricerca straordinario in cui più atenei si sono confrontati sotto l’egida della Soprintendenza. Dalla Normale di Pisa alla tedesca “Johannes Gutenberg” di Mainz, fino alle università calabresi. Sono arrivati risultati importanti che hanno parzialmente riscritto la storia della colonia. Qui gli archeologi hanno portato tanto altro alla luce e ora lo si può conoscere visitando il Museo dei Bronzi di Reggio Calabria e l’Antiquarium a Monasterace Marina.

    Il parco archeologico dell’antica Kaulon

    Le terme con il mosaico dei draghi e dei delfini e tutta l’area archeologica con i resti di Kaulon erano parte di una piccola città magnogreca che si affacciava sul mare. Si estendeva sulle pendici delle colline retrostanti, dove correva la cinta muraria della città. Il tempio dorico fu ben presto acquisito al demanio dello Stato, mentre la fascia di abitato antico lungo il litorale è stata acquisita dopo il 2000 dal Comune di Monasterace. L’area statale e l’area comunale costituiscono il parco archeologico dell’antica Kaulon, insieme al museo archeologico nazionale, ospitato in una sede di proprietà comunale, ubicati sul lato sud del moderno paese, nelle immediate vicinanze del faro di Punta Stilo.

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    Un particolare del tempio nel museo di Kaulon

    Un parcheggio nella Storia

    Avvolta da mare, 106 e ferrovia jonica, l’area tutelata non è stata ancora recintata completamente e il sistema di videosorveglianza è in attesa solo di essere montato. La collocazione del sito ne rende difficile la gestione. Serve un piano più ampio per consentire una visita integrata al museo e renderlo accessibile a tutti. Occorre anche mettere in sicurezza un passaggio diretto sui binari ferroviari. I pannelli didattici che dovrebbero informare i turisti sui resti della polis sono vecchi e rovinati. In estate parte del sito è utilizzato come parcheggio da qualche bagnante in cerca di un posto più vicino alla battigia.

    Auto in sosta nel parco ad agosto 2021

    Non c’è chi stacca i biglietti del museo

    Dopo un sopralluogo a novembre il museo è anche stato serrato al pubblico. In senso più ampio la Direzione regionale Musei, affidata pro tempore a Filippo Demma, ha segnalato criticità ai piani alti per il venire meno di alcuni servizi esternalizzati – tra cui la gestione della biglietteria – che riguardano anche Kaulon. Comunque, per avviare i lavori di “risanamento” del museo, finanziati dall’Ue con 300mila euro, il Comune ha già approvato la progettazione finale.

    Alcuni inverni fa, purtroppo, a causa della erosione costiera il mare ha fatto gravissimi danni al sito. Un’interrogazione parlamentare ha aperto un faro sulla reale condizione di Kaulon. Sono visibili oggi alcuni passaggi realizzati negli ultimi tempi per dare maggiore decoro alla Storia. Il museo è stato dotato di un bookshop e di una biglietteria (in attesa della riapertura e dell’affidamento della gestione), in estate – come spiegato – è visibile il celebre mosaico. L’area marina antistante il sito è stata preclusa alle barche dagli enti competenti e il sito è stato in parte protetto dal mare con opere di difesa costiera.

    Quasi 5 milioni di euro per Kaulon

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    Monasterace, complesso archeologico subacqueo

    Se i soldi non mancano per il museo, ce ne sono altri comunitari per il Parco in attesa di essere spesi. In una più ampia strategia specifica per la Calabria, che prevede importanti stanziamenti, il Pon Cultura e sviluppo 2014/20 ha stanziato, infatti, 1 milione e mezzo di euro per “valorizzare gli attrattori culturali di Kaulon”. È in cantiere poi un intervento da oltre 3 milioni di euro. Con questi soldi dovranno essere messe in rete aree archeologiche sommerse e musei che conservano reperti di provenienza subacquea. Si tratta di un programma, chiamato Musei di Archeologia Subacquea. La misura prevede l’adozione di soluzioni tecnologiche innovative tra Monasterace, Crotone, Bacoli in Campania, Manfredonia e Fasano in Puglia.

  • IN FONDO A SUD| Crotone, l’ex polis costruita sui veleni

    IN FONDO A SUD| Crotone, l’ex polis costruita sui veleni

    Qualche mattina fa ho percorso in macchina la statale 106 ionica, da Catanzaro Lido verso nord. È una strada trafficatissima e sinistramente famosa, infiorettata di edicolette, di cippi e di altarini di plastica ai lati delle carreggiate. Volevo arrivare a Crotone. L’auto è l’unico mezzo per farlo in tempi ragionevoli. Trasporti pubblici assenti e isolamento sono uno dei problemi che fanno della antica città ionica una sorta di enclave: la ferrovia costiera è ancora quella di fine Ottocento, a binario unico, non elettrificata, e con i vecchi treni spinti dalle automotrici. La stazione sembra uno scalo in mezzo al deserto.

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    La stazione ferroviaria di Crotone

    Il porto invece è diviso in due: il bacino più antico è ancora quello che fu costruito con i blocchi divelti nel corso del Settecento dal tempio di Hera Lacinia; quello “nuovo” si limita al cabotaggio di naviglio piccolo, per via dei bassi fondali sabbiosi. L’aeroporto Sant’Anna funziona a singhiozzo e lì vicino c’è un grosso centro Sprar. Soppressi da anni i treni notturni e quelli a lunga percorrenza. Per qualsiasi altrove lontano da qui ormai si salpa in bus, di notte.

    In mezzo alle pale

    Crotone è un posto della Calabria che ha qualcosa di magnetico e fascinoso, di allucinato e di incongruo allo stesso tempo. La strada verso Crotone, già dopo Botricello, non riesce più a staccarsi dal collo i morsi degli abusi al vasto panorama dell’antico Marchesato del grande latifondo, il serbatoio del Mediterraneo preindustriale, quello delle terre del grano, delle pecore e del formaggio di cui scrive anche Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo.

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    La curva di orizzonte delle dolci colline ioniche oggi è tutta trafitta dalle mostruose torri eoliche costruite nei terreni degli Arena, cosca intoccabile del pantheon mafioso locale. Ce ne sono centinaia sparpagliate per chilometri. Se guardi meglio ti accorgi che ne girano pochissime, inutili come enormi segni di interrogazione. Il Marchesato di Crotone è uno dei luoghi più aridi del continente, a imminente rischio desertificazione. In più c’è il rischio mafia. Qui più che il vento servirebbe l’acqua. Ma gli interessi sull’eolico sono molti, scottano, sono poco illuminati dal sole e difficili da arginare. Intanto i mulini a pale continuano a crescere e a roteare indisturbati nei posti più improbabili.

    La nuova Crotone

    Circa un’ora di tragitto sulla 106 e mi sono ritrovato nel dedalo di giravolte, incroci e cavalcavia che porta a Crotone. La città nuova è questa colata di macerie alte e basse, scolorite e tetre, un teatro di quartieroni popolari come Vescovatello (dove il grande mercato coperto in abbandono, col tetto in lastre di amianto, sparge al vento i suoi veleni), Lampanaro e Fondo Gesù. Si ergono dai sabbioni di una costa un tempo malarica. Sono luoghi pericolanti di noia e di sciagure umane, che crescono tra stecche di casermoni disadorni.

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    Case popolari nel quartiere crotonese Fondo Gesù

    Sul paesaggio della Crotone di oggi campeggia l’enorme accozzaglia di ferraglia industriale abbandonata tra gli sterpi e le discariche supertossiche. Poi abituri indistinti, ristoranti per matrimoni, sfasciacarrozze, stazioni di servizio sgangherate, grandi ipermercati, nuove speculazioni e gru che crescono come steli di fiori maligni non lontano dalle lusinghe eterne del mare odisseo. Crotone staccata dal mare appare come una spessa piastra di cemento fratturata da un groviglio di strade sconnesse che sembrano smarrirsi nell’inerzia sul bordo esausto, sopraffatto e guasto del litorale.

    La Stalingrado del Sud avvelenata

    Si sapeva già dalle inchieste dei magistrati che a Crotone i carichi di rifiuti tossici, una volta finiti nelle mani delle mafie, sulla terraferma diventavano materiali per costruire case e asfaltare strade. Come già è accaduto per le ferriti di zinco e le altre scorie contaminate smaltite liberamente nell’ambiente dopo la chiusura del polo chimico della Pertusola, proprio davanti alle periferie arrugginite del vecchio stabilimento. Poi i veleni industriali sono finiti dentro la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale. Era la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del Sud, a cui qualche mediocre cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”.

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    Una mappa degli ex stabilimenti Montedison di Crotone (foto Archivio storico Crotone)

    Adesso si sa che per anni nessuno ha saputo opporsi al paradosso criminale della costruzione di scuole, marciapiedi, strade, uffici pubblici e abitazioni civili impastate di un amalgama micidiale di veleni e scorie tossiche provenienti dalla bomba chimica sotterrata nei piazzali della Pertusola. A Crotone adesso si contano i morti per cancro, regalati come buonuscita agli operai e alle famiglie cresciute nei quartieri popolari vicini agli stabilimenti o all’ex Montecatini-Edison. Mentre ancora si aspetta di arrivare alla bonifica delle scorie tombate per decenni. Cumuli di scarti tossici movimentati nel porto e diretti alle lavorazioni nello stabilimento della Pertusola, appena più a nord di quello della Montecatini. Lì sotto giace, ed è un paradosso, un pezzo della antica Crotone dei greci. Insieme alle bonifiche ci si aspetta un processo che accerti finalmente i danni e le responsabilità. Qualcosa che rimetta ordine e dia pace, e un qualche risarcimento, a queste contrade.

    La Storia è sempre più giù

    Neanche il calcio offre più consolazione. Il tesoro sommerso dell’antica Crotone, più che una risorsa per il futuro della città, sembra un ingombro di cui disfarsi. Anche lo stadio Ezio Scida, abusivo come quasi tutto quello che sorge da queste parti, ampliato di recente tra polemiche e sequestri, convive, si fa per dire, con l’area archeologica che rientra nel programma di riqualificazione dell’antica Kroton. Si fa fatica a crederlo, ma nonostante dal 1981 la Soprintendenza archeologica abbia dichiarato inedificabile l’area su cui l’impianto sorge, il prato e gli spalti rinnovati negli anni della serie A sono stati allargati sopra i resti dell’agorà di una delle più importanti polis della Magna Grecia.

    A parte pensare alla meraviglia seppellita sotto il rettangolo verde, c’è una cosa che ogni volta che vado a vedere una partita del Crotone allo Scida mi mette i brividi addosso. Quando la curva Sud, prima del calcio d’avvio o in un momento difficile della gara, all’improvviso fa salire al cielo l’incitamento ai rossoblù. Migliaia di tifosi cantano all’unisono e a gola spiegata Ma il cielo è sempre più blu o A mano a mano di Rino Gaetano, omaggio al ragazzo di Crotone che ha iscritto il proprio nome nel pantheon della canzone popolare italiana. La squadra ha adottato entrambi i motivi come inni ufficiali. Non so se ne esista al mondo una che possa vantarne di più belli.

    Da Cutrone a Crotone

    L’addizione urbanistica novecentesca che forma il nucleo della Crotone nuova scivola dai piedi del castello di Carlo V e dal piccolo centro medievale murato poco oltre gli alti bastioni, dilagando fino alle campagne dell’antico latifondo del Marchesato. La città nuova è un labirinto ansimante di cemento impolverato e caotico, sparpagliato per chilometri sul litorale e costellato da ammassi di spazzature e rottami non rimossi. Resta ben poco delle memorie classiche della antica città magnogreca, tutta sepolta e divelta sotto i cascami e gli ingombri di cemento della nuova.

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    Crotone, Il Gladio

    Crotone si chiamava Cotrone fino al 1928 e la gente del posto con inflessione dialettale la chiama ancora così: Cutrone. Poi il fascismo in vena di grandezze restaurò il nome classico della polis, la colonia achea di Kroton, di cui non restava più traccia. Sarà forse per questo che su una delle colline argillose che guardano verso la città un sindaco fascista non molti anni fa ha issato il totem ideale per la Crotone di oggi: un enorme gladio romano che campeggia sul panorama cittadino come una croce blasfema su un regno di tormentati.

    La città della bellezza

    E pensare che qui Zeus, secondo il mito, pare abbia incontrato le donne più belle del mondo dei greci (cinque diverse fanciulle di Crotone, ognuna per un dettaglio del sembiante, formavano il composito ideale estetico della più desiderabile bellezza). Un canone di bellezza eterno che fu ripreso da Shakespeare nei Sonetti – sino a precipitare poi nel famoso motivetto di Mambo number five di Perez Prado e nella hit di Lou Bega.

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    Affidato (a destra) con Amadeus a Sanremo

    La bellezza trascorsa, per quanto rattristata dalle corrosioni del moderno, qui è però una suggestione che ancora fa scuola. A Crotone cesellano ancora la loro arte antica, divenuta nel frattempo brand griffato per dive e grandi firme della moda, gli orafi Gerardo Sacco e Michele Affidato (suoi i premi di Sanremo). Realizzano i loro gioielli ispirandosi alle tradizioni popolari. Rifanno citando  – e molto aggiornando alla voga modaiola – i modelli classici indossati un tempo da aristocratiche, vestali e dee greche. Preziosità venute alla luce con il diadema d’oro e gli altri magnifici reperti affiorati dal tesoro di Capo Colonna.

    Gissing a Crotone

    Lusso e prosperità erano di casa a Crotone ancora in tempi non lontani. George Gissing, scrittore e viaggiatore vittoriano in Calabria nel 1897, si rammaricava di non aver potuto portare con sé «nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case e, mi è stato detto che con il bel tempo, almeno una mezza dozzina di carrozze private si possono vedere fare il giro alla moda sulla Strada Regina Margherita. Quasi come a Napoli». Della città ricca di un tempo resta qualche vestigia concreta. Come la bella piazza Pitagora, in pieno centro, incorniciata dai portici, caso unico in Calabria. Sotto i portici c’è lo storico Bar Moka, dove si può ancora gustare un dolce belle époque come l’Iris. In piazza Pitagora, dormire ancora oggi all’Hotel Concordia come fece Gissing, vuol dire ritrovarsi nel bel mezzo di atmosfere del Grand Tour.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    In prossimità della riva jonica c’è un altro luogo gissinghiano: il vecchio cimitero dalle alte murate di cocci diroccati che sembrano cotti in un crematorio del tempo. Un tempo l’elegante recinto dei morti di Crotone era ai margini assolati della città, circondato di mura e adornato da piante solenni e palme svettanti come preghiere. Era un’oasi di pace «simile a un bel giardino fiorito». Oggi il camposanto è circondato dalle auto e dal movimento caotico che va verso la periferia. Lo salva ancora quell’alto recinto di mura sbeccate, quasi fosse una rotonda spartitraffico dimenticata ai margini della waste land alla fine del lungomare.

    Malattie e sanità

    Nella periferia sconciata dagli abusi spicca anche lo stato di abbandono degli ex Villini Pertusola. Da lì in avanti la città non ha più profumi, avvizzita tra i veleni e il catrame infetto. Sembra che di fiori a Crotone non ne crescano più, neanche fuori dal recinto dei morti, con la città che ha le apparenze di un reclusorio di malattie micidiali. Crotone è immersa in una mortale quarantena per i vivi, malata fino al midollo. La città di oggi è mostrificata, inquinata dai resti mefitici della Montedison, di cui restano le spoglie spente e rugginose di un enorme compound degli orrori che continua ad alitare veleni sopra e sotto terra sulla vita di tutti.

    L’Ospedale San Giovanni di Dio è l’unico presidio sanitario pubblico rimasto in città. Affollato, dolente e sempre in affanno sembra un lazzaretto per i poveri. Il sistema sanitario nazionale qui come altrove in Calabria è in crisi. Invece quello delle cliniche private, che ha fondato vere e proprie dinastie della sanità a pagamento, è fiorente. È uno dei punti di preminenza per l’intero settore, ma solo per quelli che possono curarsi senza passare da intralci e guasti del servizio pubblico.

    Calcutta, Tirana… Crotone

    A dispetto del bellissimo mare, Crotone ha un aspetto grigio spento. È piena di pozzanghere, di detriti e cascami decomposti che fermentano vicino a cliniche di lusso per ricchi che sembrano hotel. Una carcassa smembrata dagli abusi infiniti e dagli orrori spesso rimessi all’aria dai segni delle periodiche alluvioni che atterrano la città. La comunità cittadina sembra ormai afflitta dalla noia strisciante o dalla rassegnazione di vivere senza più speranze, nonostante i recenti cambi di poltrona nei palazzi del comune. Una dimissione civile che leggi anche nelle facce della gente per strada.

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    Crotone allagata nel novembre del 2020

    Ai ragazzi di Crotone restano la carta dell’emigrazione o i mestieri provvisori del precariato a vita. Come riparo di fortuna ci sono solo i call center dei grandi gruppi di gestori di telefonia. Qui hanno fatto man bassa, con paghe inferiori a quelle dei pària tecnologici che rispondono dalle postazioni di Calcutta o Tirana. Servizi di recalling e customer care interconnessi agli utenti di cellulari e smartphone urbi et orbi, che rispondono nella lingua globalizzata del business da qui, da Crotone. E invece stiamo con i piedi sopra le tombe degli eroi, nella Magna Grecia delle migliori annate.

    Cultura, legami e resistenza

    Ogni volta che passo da Crotone faccio un salto alla Libreria Cerrelli, in via Vittorio Emanuele, di fronte al vecchio Municipio e di fianco alla Chiesa dell’Immacolata. Fondata nel 1900, è la più antica libreria della provincia. Ed è una delle ultime rimaste vive in Calabria senza passare dalla servitù delle catene editoriali. In più di 120 anni di storia, visitata anche da Corrado Alvaro e da molti altri scrittori, è oggi uno dei pochi punti caldi rimasti come riferimento per la vita culturale cittadina. È un presidio che resiste nonostante la crisi. Merito di Paolo Cerrelli, che la gestisce come un luogo di grande vivacità, con numerosi appuntamenti.

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    La Rari Nantes in un’immagine d’epoca

    Oltre che libraio, è un attivista e agitatore culturale, difensore delle librerie indipendenti e del valore della cultura crotonese, antica e moderna, che anima anche attraverso festival di musica e letteratura. Ha un passato da militante di sinistra e da atleta nella mitica pallanuoto “Rari Nantes Auditore”, settant’anni di storia sportiva di cui oggi restano solo gli avanzi desolati di una piscina olimpica scassata, ricettacolo di rifiuti. Cerrelli ha chiesto di recente all’amico Sergio Cammariere di poter utilizzare un brano tratto dal suo ultimo disco “Piano nudo” per sviluppare sul tema una poesia o un breve racconto, massimo di 20 parole. Il cantautore è un altro dei crotonesi da ricordare per il suo legame con la città. Nel suo libro autobiografico Libero nell’aria la ricorda così: «Volevo vivere di musica e ci sono riuscito, ma lontano da Crotone, a Roma», dove lo aveva preceduto Rino Gaetano, che di Cammariere era appunto lo zio.

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    Sergio Cammariere

    Invece Giacinto de Rosario, esperto alimurgico e cuoco raffinatissimo, impegnato in azioni pubbliche per la sovranità alimentare, sulle sorti di Crotone, da crotonese di ritorno dopo una vita da antiquario di successo a Firenze, sottolinea il dovere di andare oltre le dichiarazioni d’amore per la città: «Occorre l’impegno di scoprire, salvare, avere cura della memoria e non farla più seppellire, per quel che resta di sopra e soprattutto di sotto. Non occorre stilare luoghi e storie da primato, ancor meno mi aspetto aiuti dagli eletti in parlamento, dagli ordini professionali ed altre categorie. È giunto il momento di farsi sentire e vedere tutti insieme, altrimenti è bene rassegnarsi al nulla». A proposito di impegno, il Gruppo Archeologico Crotonese assieme agli attivisti di Italia Nostra si batte da anni per difendere il grande patrimonio archeologico della città e dei dintorni.

    I nuovi mostri

    Sventato per ora il massacro di una grande lottizzazione speculativa per la costruzione di ville sull’area archeologica di capo Colonna, si profila all’orizzonte un’altra mostruosità: un colossale parco energetico offshore da piazzare nelle acque antistanti la città. Se verranno confermate le concessioni alla trivellazione alla Global Med, una società estrattiva americana, il progetto promette in un sol colpo di collocare su una superficie di mare di ben 2.250 kilometri quadrati tre nuove piattaforme di trivellazione, un campo di enormi pale eoliche offshore e una piastra di approdo per navi container e navi gasiere per rifornimento di gas naturale liquefatto. Tutto dentro le sacre acque che bagnano l’antica città di Kroton.

    Si narra che Pitagora, che 2.500 anni fa scelse Crotone per fondare la sua scuola sapienziale, iniziasse la giornata insieme ai suoi scoliasti salutando il sole che saliva da oriente. Per ora il megaprogetto, avversato da gruppi ambientalisti e associazioni, pare aver trovato oppositori anche tra gli attuali amministratori cittadini. Se così non sarà, dopo lo scempio compiuto in terra, anche l’orizzonte ionico blu cobalto e il meraviglioso paesaggio marino dello specchio d’acqua crotonese avranno forse le ore contate.

    Il prezzo del progresso

    Oggi il Sud e la Calabria sono com’è Crotone: un immenso e caotico terreno di battaglia disseminato peggio che altrove delle macerie e dei ruderi informi di una modernizzazione scarsa di sviluppo che è stata – e sarà – incapace di tenere fede alle promesse di progresso annunciate un secolo fa. Il prezzo delle conquiste della modernità qui è stato tra i più compromettenti ed elevati: territorio massacrato, assenza di un’economia reale, disoccupazione che non smette di crescere, amministrazioni e governi locali allo sbando, una mafia efficiente e pervasiva come qui nessun potere legale riesce ancora a diventare.

    Un nuovo e più sottile disordine sociale sta finendo per sgretolare una società pericolante. Che, a dispetto del benessere materiale ostentato ovunque, resta sottomessa, immiserita nei valori e culturalmente dimidiata nel suo unico bene: la sua memoria, la bellezza dei luoghi, il monito dimenticato che proviene dalla storia e dalla forza del suo paesaggio. Una società entro la quale nessuno pare avere il coraggio, la forza sufficiente a contrastare il peggio. Altre regioni, si dirà, altri Sud offrono della modernizzazione un bilancio simile, e tuttavia ‘ora’ è meglio di ‘allora’. Restano pur sempre il benessere dei consumi, le macchine, i frigoriferi, i computer, i telefonini, le parabole, l’economia di carta. Certo, è vero. Ma non è comunque una buona ragione per tacerne stupidamente il prezzo e nasconderne lo scandalo.

    L’ultima colonna

    Rivolgo lo sguardo al Capo Lacinio, da qui si intravede l’ultima colonna rimasta in piedi sul promontorio. Capo Colonna con la sua solennità a futura memoria resta lontano, sembra confinato a una distanza disperata, crescente. Un’altra nemesi sfacciata, uno scherzo beffardo della storia. Più di cent’anni fa, di passaggio nella “terrificante Crotone” battuta dallo scirocco e senz’acqua potabile, si ammalò di febbre polmonare George Gissing, e qui restò lungo in balia della tisi.

    Si salvò solo grazie alle cure di un medico di campagna, il dottore Sculco, che divenne poi suo amico, e all’amore per lo straniero di un paio di donnette del popolo che aveva incantato, la povera gente che lo risollevò alla vita in una misera stanzetta dell’albergo Concordia, un posticino che in realtà era un bordello maltenuto. Il vittoriano solitario così scrisse grato: «Per me sarebbe stato meglio meglio morire qui sulle rive dello Ionio, piuttosto che in un tugurio di Shoredicth», il quartiere per dannati della Grande Londra dove era finito a vivere.

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    L’area archeologica di Capo Colonna

    Prima di riprendere la strada voglio andare a rifarmi gli occhi e la mente al Museo di Capo Colonna, che conserva meravigliose la bellezza e la magnificenza che qui abitarono e che sono solo del passato. Ad accogliermi, anche qui, sono cumuli di monnezza traboccanti da cassonetti artisticamente piazzati nell’area archeologica, all’interno dell’oasi naturalistica del Parco di Capo Colonna, un centinaio di metri appena dall’ingresso del Museo archeologico. Se Gissing fosse venuto in macchina con me a rivedere Crotone, anche lui si sarebbe sentito coinvolto nel disastro morale della storia. E avrebbe pianto.

  • Il tesoro di Alarico esiste e costa 25 euro al grammo

    Il tesoro di Alarico esiste e costa 25 euro al grammo

    Questa è un’avventura di impresa resistente, di identità e di passione per un tesoro che la Calabria non sa di avere.
    Dalla città di Cosenza partivano carichi di zafferano in pieno Rinascimento, richiesti in tutto il mondo. Nel 1844 Luigi Zucoli, autore di una guida per viaggiatori, cita questa ricchezza bruzia. In “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative” del 1862, Carlo Arrivabene parla di tre rarità del sud: i vini siciliani, le donne di Bagnara e lo zafferano di Cosenza.

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    Una pagina del libro “Italy under Victor Emmanuel. A personal narrative”, pubblicato nel 1862

    La spezia di Cleopatra a Castiglione

    Oggi piccole aziende, sparse per la regione, lo hanno riscoperto. Una di queste è lo “Zafferano del re” di Castiglione Cosentino, impresa partita benissimo e che, come tante, ha subito la batosta pandemica. Ma le sorelle Linardi, Benedetta e Maria Concetta, non mollano. La spezia più costosa sul mercato, fino a 25 euro al grammo, ha fatto tanta strada da Cleopatra alla Calabria. La regina egizia lo usava ogni giorno per dorare la sua pelle. E così lo riscopriamo come antenato dei gettonati illuminanti della cosmesi di oggi.

    «Sì, è così, la provincia cosentina era una delle maggiori esportatrici al mondo. Ci sono fonti storiche che raccontano della sua produzione in Presila nel 1500». Benedetta Linardi, 35 anni, laureata in scienze politiche e consulente finanziaria, insieme con sua sorella Maria Concetta, 39 anni, laurea in scienze della nutrizione, hanno ereditato i terreni di famiglia e hanno deciso di cambiarne il destino.

    La collina si tinge di viola

    C’è un momento, tra ottobre e novembre, in cui la collina di Castiglione, a 400 metri sul livello del mare, si tinge di viola, proprio mentre intorno l’autunno ha già spento tutti i colori. È l’ora della fioritura dello zafferano e dura circa 15 giorni. «Andiamo a raccogliere i fiori uno per uno – spiega Benedetta Linardi – un lavoro che facciamo personalmente perché richiede estrema cura». Il fiore raccolto deve arrivare integro alla fase dello “sfioramento”, parola ricca di fascino poiché contiene in sé l’atto di eliminare il fiore dal gambo, ma anche la necessità di farlo con estrema delicatezza.

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    Una cesta con i fiori di zafferano appena raccolti

    L’azienda è nata nel 2018 e i clienti sono per lo più ristoratori. La spezie, cara alla Sardegna e indispensabile per il famoso risotto alla milanese, oggi è laboratorio gastronomico di chef stellati che valorizzano tradizioni calabresi. «Le nostre ricerche – spiega ancora Benedetta, – ci hanno permesso di rintracciare un legame forte con il territorio e di farne un racconto. Ed è un aspetto fondamentale, perché il tipo di consumatore medio vuole apprezzarne le qualità ma anche conoscerne la storia». Sono grandi chef gli amici partner dello Zafferano del re (sul sito https://www.zafferanodelre.it, nella sezione partner, ci sono i loro piatti coloratissimi e i video sulle relative preparazioni). Come Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, ambasciatore nel mondo della buona Calabria a tavola, oggi chef nelle strutture del lussuoso Four Season Hotel di Doha in Qatar.

    Luigi Ferraro, originario di Cassano allo Jonio, è chef del rinomato Four Season Hotel di Doha in Qatar

    La grande sfida, adesso, è riprendersi dalla crisi

    L’azienda delle combattive sorelle Linardi, da startup di successo si è dovuta subito scontrare con il Covid. Quarantamila euro di fatturato, 20mila bulbi l’anno, sono numeri di tutto rispetto per una realtà appena nata.
    L’impresa è partita nell’anno in cui si faceva un gran parlare di scavi per trovare il tesoro del Sacco di Roma nei fiumi cosentini e le due sorelle, un po’ per cavalcare l’onda, un po’ per scherzo, l’hanno battezzata “Zafferano del re” pensando ad Alarico. «Il vero tesoro, quello che abbiamo sotto gli occhi, è la terra. Noi ci crediamo. In un territorio, piuttosto che inseguire qualcosa di inesistente, bisogna cercare e preservare ciò che realmente c’è».
    «I primi duemila bulbi siamo andati a prenderli in Toscana – continua Benedetta.- La nostra scommessa è nata a partire da quel piccolo scrigno».

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    Uno dei campi di zafferano delle sorelle Linardi

    I compaesani “prestano” gratis i loro terreni

    I terreni – in contrade dai nomi che richiamano un passato lontano, Pristini, Canterame, Orbo – sono appezzamenti di famiglia. Altri se ne sono aggiunti, concessi in comodato gratuito da privati. «Erano abbandonati e incolti. Ci sono stati consegnati volentieri, i nostri compaesani hanno creduto in noi e il loro modo per dimostrarcelo è stato offrire quello che poteva servirci». È il Genius loci che si manifesta nell’idea di comunità che condivide terra e sapienza. «Nei piccoli paesi è facile che si inneschi questo meccanismo di supporto reciproco», sorride.

    Fiori d’ottobre

    Quella dello zafferano è una produzione molto semplice: «piantiamo i bulbi intorno a ferragosto, quando la temperatura comincia a cambiare. La pianta cresce in pochi mesi, a fine ottobre fiorisce». È questo il momento più importante, perché tutto deve essere svolto in pochissimo tempo e manualmente, per non rovinare i fiori, molto delicati, che devono essere adagiati nelle ceste. A questo punto la lavorazione avviene nel laboratorio, dove il fiore viene separato dal pistillo (è questa la cosiddetta “sfioratura”) che verrà poi essiccato. Lo zafferano ottenuto viene infine conservato nel vetro, in attesa di essere imbustato e confezionato.

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    Le sorelle Linardi piantano i bulbi intorno a ferragosto

    «Il 90% dei nostri clienti sono ristoratori – spiega Benedetta – ma pochissimo di ciò che produciamo resta in Calabria, solo il 10%». Le sorelle dello zafferano in pochi anni sono diventate un caso, un esempio di impresa giovane, coraggiosa, attenta alla qualità e al territorio. L’azienda ha ricevuto premi e riconoscimenti.

    Il prodotto più contraffatto al mondo

    «Il 2020 è stato un anno nero – ammette -. Un po’ per tutti, certo, ma noi abbiamo avuto un crollo quasi totale della produzione. Nessun aiuto, nessun sostegno, perché tecnicamente rubricati come florovivaisti e non come agricoltori, non ne avevamo diritto». Con la ristorazione in ginocchio la loro attività ha subito una brusca battuta d’arresto. «Eravamo un’azienda in crescita. Abbiamo investito moltissimo e aspettavamo di raccogliere i primi frutti. Non avremmo mai immaginato di trovarci invece a dover affrontare un’emergenza tanto grave come una pandemia. Non è facile sostenere i costi di produzione in una situazione del genere e questo alla lunga non può reggere».

    Bisogna poi considerare il problema della concorrenza. «Lo zafferano è il prodotto più contraffatto al mondo – aggiunge – e la nostra piccola produzione deve misurarsi con quelle intensive dell’Iran, del Marocco e della Spagna. Questi paesi portano sui mercati uno zafferano che al grammo arriva a costare due euro, contro i venticinque di quello italiano».

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    I colori inconfondibili dello zafferano

    L’afrodisiaco di Richelieu

    Non c’è rassegnazione nelle parole di questa giovane e caparbia imprenditrice. «La strada da seguire è sicuramente quella di unire le forze», dice. «Noi piccoli produttori siamo tanti e tutti abbiamo difficoltà simili che possiamo superare creando una rete, una collaborazione che ci consenta di stare sul mercato e di diventare davvero competitivi. In questo momento siamo a terra, ma stiamo valutando nuove strategie».
    Piccoli ma tenaci come il fiore di croco dell’oro rosso.

    In passato con lo zafferano si curavano reumatismi, gotta e forti infiammazioni come il mal di denti. Usato anche come polvere abortiva, era più noto come afrodisiaco (tra gli abituali consumatori il cardinale Richelieu). Per gli imperatori e i sacerdoti romani era un prezioso profumatore di saloni sfarzosi e templi, i contadini calabresi lo spargevano sul letto della prima notte degli sposi. Una spezia dai mille usi, un mondo da scoprire. Oltre il risotto alla milanese.

  • 1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    Agli inizi del 1943, incalzati da un possente esercito britannico, i soldati italiani e tedeschi erano costretti a ritirarsi dalla Libia in Tunisia e a Cosenza cominciarono ad arrivare le famiglie emigrate nelle terre dell’impero. In tutta fretta, si erano imbarcate sulle navi per raggiungere Brindisi. Accolti alla stazione i profughi raccontarono spaventati che gli inglesi erano spietati, affondavano le navi con i civili, mitragliavano gli ospedali e maltrattavano i prigionieri. In Russia, nel gennaio 1943, dopo ripetute sconfitte, le truppe italiane si avviavano verso una disastrosa ritirata. I soldati dell’Armir, senza mezzi e senza armi, attaccati costantemente dalle truppe regolari e dai partigiani, fuggivano terrorizzati lungo le steppe innevate. Decine di giovani cosentini e della provincia morivano in battaglia, congelati o nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica.

    La ritirata delle truppe italiane dopo la disastrosa campagna in Russia

    La propaganda fascista

    I fascisti cosentini ammettevano che i Russi avevano iniziato una grande controffensiva ma sostenevano che alla fine avrebbe vinto chi a una ferrea resistenza avesse unito «le più pronte doti di recupero». Altre volte affermavano che i bolscevichi erano stati fermati dal glorioso esercito italiano, saldamente schierato, in eroici atti di valore e abnegazione. Per rassicurare la popolazione, pubblicavano sui giornali lettere di combattenti in cui si leggeva che stavano «spezzando le reni» ai bolscevichi. Il soldato Tullio De Simone, ad esempio, scriveva che al fronte russo andava tutto bene, che l’inverno era passato e tutti erano al proprio posto per la vittoria finale. Egli pensava con nostalgia a famiglia, parenti e amici ma, sopra ogni cosa, gli era cara la Patria, per la quale era disposto a combattere sino alla fine.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    La popolazione, tuttavia, non credeva più alla propaganda del regime, perché ormai la guerra si combatteva anche in Italia. Centinaia di sfollati arrivavano a Cosenza. Da Genova, Torino, Milano, Messina, Palermo e, soprattutto, da Taranto e Napoli, bombardate costantemente dall’aviazione alleata. Il prefetto De Sanctis, informava il Ministro degli interni che, a seguito delle incursioni aeree, alla fine del gennaio 1943 erano giunti in provincia 1.249 profughi ospitati in genere da amici e parenti. L’afflusso degli sfollati dalle regioni italiane dava l’impressione che Cosenza sarebbe stata risparmiata da un eventuale bombardamento. E, del resto, le stesse autorità avevano sempre rassicurato che difficilmente il nemico l’avrebbe scelta come meta da colpire: non c’erano fabbriche, depositi militari e scali ferroviari importanti.

    Amantea devastata dalle bombe

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    Il ricordo delle vittime del bombardamento su Amantea

    Il Comitato provinciale della forza antiaerea invitava costantemente la popolazione a rispettare le norme sull’oscuramento. Squadre della Mvsn giravano nei quartieri per assicurarsi che non trapelassero luci dalle abitazioni, ma molti cittadini disattendevano le misure ritenendole inutili. L’atteggiamento generale mutò quando, agli inizi del 1943, alcuni centri della provincia subirono tremende incursioni aeree. Particolare impressione suscitò il bombardamento del 20 febbraio ad Amantea, nel quale morirono 21 persone e centinaia furono i feriti trasportati nell’ospedale del capoluogo. Nel paese marino, sede delle colonie estive, letteralmente sconvolto dall’improvvisa devastazione, durante i solenni funerali la popolazione seguì silenziosa il corteo di camion militari adibiti a carri funebri.

    12 aprile 1943, il bombardamento su Cosenza

    I cosentini, scriveva il Questore, in seguito al raid aereo di Amantea, erano rimasti profondamente turbati non solo per le vittime e la devastazione, quanto perché la città non aveva rifugi sicuri ed era del tutto impreparata per contrastare eventuali attacchi.
    Il 12 aprile, uno stormo di bombardieri Alleati partiti dall’Africa, sganciò i suoi devastanti ordigni anche su Cosenza. L’obiettivo principale era la stazione ferroviaria e tuttavia buona parte del bombardamento colpì il centro urbano provocando la morte di numerose persone, tra cui alcuni scolari.

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    Il mobilificio Giuliani distrutto dal bombardamento alleato. Sullo sfondo, il Palazzo degli Uffici nell’attuale piazza XI settembre

    I fascisti denunciarono la vile aggressione definendo gli anglo-americani uomini di razza inferiore che, accecati da bieco livore e incapaci di distinguere il bene dal male, si scagliavano contro gente innocente. L’ignobile bombardamento aveva l’obiettivo di deprimere il morale della popolazione ma le bombe che avevano avuto ragione della carne non avevano intaccato l’incrollabile fede nel fascismo. I cosentini avevano reagito all’incursione aerea fornendo prova di fierezza, fermezza, disciplina, abnegazione e solidarietà; con ogni mezzo si erano prodigati per sgomberare le macerie e portare soccorso ai sinistrati e avevano manifestato odio verso il barbaro aggressore che non aveva avuto pietà neanche per i bambini.

    Il giorno dopo

    Il giorno dopo il bombardamento, fu affisso un manifesto del Federale nel quale si accusavano gli inglesi di avere colpito in maniera spregevole una città indifesa. I degni figli d’Albione avevano sempre disprezzato gli italiani ed erano stati anche responsabili della fucilazione dei patrioti cosentini e dei fratelli Bandiera! Gli effetti devastanti dei quadrimotori avevano provocato il crollo di decine di palazzi e sul selciato erano rimaste numerose vittime incolpevoli ma bisognava stare calmi, stringere i denti e continuare a lavorare: alla fine gli italiani avrebbero vinto la guerra e si sarebbero liberati dalle catene degli schiavisti inglesi! Per la messa dedicata alle vittime del bombardamento, nella navata centrale della cattedrale era stato eretto un catafalco sormontato da una croce bianca e con festoni, ceri e drappi neri.

    Il vescovo Calcara, rivolgendosi alla folla silenziosa e commossa, condannò con parole dure la crudele incursione aerea e invocò la benedizione divina sulle vittime. Il giorno prima della cerimonia, il podestà Angelo Ippolito aveva fatto affiggere sui muri della città un manifesto in cui ricordava che i cosentini nel corso dei secoli avevano dato un largo contributo di sangue alla Patria e che, anche durante il bombardamento, dando prova di fierezza e coraggio, si erano stretti intorno al Fascio littorio. I fratelli morti sotto le bombe chiedevano che ognuno restasse al proprio posto e conservasse la calma dei forti, con la consapevolezza di servire la causa della civiltà contro la barbarie, del puro spirito contro la bruta materia. I micidiali ordigni nemici non avrebbero piegato la resistenza di Cosenza, da sempre madre generosa di combattenti ed eroi.

    Il panico collettivo durante il bombardamento

    In realtà durante il bombardamento, in preda al panico, la popolazione non rispettò quanto stabilito durante le esercitazioni. L’allarme delle sirene suonò in ritardo e le squadre di pronto soccorso si dimostrarono inadeguate. Equipaggiate con tute blu, badili, piccozze ed estintori, non furono all’altezza della situazione. I Vigili del fuoco, che si dettero un gran da fare per estrarre i corpi dalle macerie, erano pochi e scarsamente equipaggiati. Qualche giorno prima dell’incursione, il Comandante aveva avvertito il prefetto che, di fronte alla costante attività aerea nemica, il Corpo non aveva uomini sufficienti per agire in caso di bisogno.

    Soldati impegnati a scavare tra le macerie

    La Milizia della contraerea, composta da soldati riformati, anziani o disoccupati, non aveva reagito in alcun modo e persino i soldati del presidio militare non avevano dato esempio di coraggio e ardimento durante l’incursione aerea. In libera uscita, al segnale d’allarme, avevano occupato i ricoveri pubblici e, allontanatasi gli aerei nemici, erano tornati in caserma senza prestare soccorso ai sinistrati. Questo comportamento indignò la popolazione e lo stesso federale Rottoli chiese una punizione esemplare. Ne seguì un’inchiesta che coinvolse due colonnelli, anch’essi accusati di avere avuto un atteggiamento passivo durante il bombardamento e di aver protetto con rapporti compiacenti i propri uomini.

    Dopo il raid aereo, molti sinistrati furono accolti in capannoni alla periferia della città. Grazie grazie alle offerte di alcuni benestanti, si approntò una mensa per fornire loro un pasto caldo. I senzatetto trascorrevano le giornate nei paraggi delle case crollate, mentre di notte pattuglie di militi e vigili perlustravano i quartieri colpiti per scoraggiare lo sciacallaggio. L’1 maggio, il prefetto De Sanctis scriveva che, nonostante il rilevante numero di vittime provocato dagli ordigni, i cosentini mostravano virile compostezza ed esemplare disciplina, rimanendo tenacemente al proprio posto.

    1943, fuga da Cosenza

    In realtà, come scriveva il giornale dell’arcidiocesi, per causa degli aerei nemici che continuavano a sorvolare sulla città, si registrò un forte esodo della popolazione verso campagne e paesi vicini. Durante il giorno, Cosenza appariva semideserta, anche perché gli studenti d’ogni grado disertavano le aule e il Provveditore ammetteva che il numero dei frequentanti si era ridotto di circa quattro quinti. In una lettera riservata, il questore di Cosenza scriveva che, dopo l’incursione aerea del 12 aprile, si era verificato un largo esodo dei cittadini nelle campagne e nei paesi vicini. Le linee ferroviarie erano continuamente bombardate, gli aerei mitragliavano ogni cosa e la vita in città era spenta.

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    Corso Mazzini semideserto dopo il bombardamento

    «Calabria Fascista» riconosceva che i quartieri si erano spopolati ma molti abitanti avevano raggiunto le case di campagna più per desiderio di uova fresche che per paura delle bombe e la maggior parte degli sfollati conduceva vita da «villeggianti»: spendereccia, festosa e brillante! A fuggire erano state soprattutto le famiglie di ricchi proprietari, professionisti, commendatori e pezzi grossi della burocrazia cittadina, gente verso la quale il partito non nutriva antipatia, consapevole che l’umanità non era fatta solo di audaci eroi, ma anche di persone caute, timide e paurose.

  • STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    STRADE PERDUTE| Calabria: un’isola ai piedi del Pollino

    “Qui non si gode immunità”. Così recita una lapidetta ottocentesca sulla facciata di una chiesa a Morano Calabro. A pensarci bene, messa lì, sulla metaforica porta d’ingresso della regione, oggi suona quasi come un monito: “benvenuti in Calabria, a vostro rischio e pericolo”. Si scherza, ovviamente, ma, d’altro canto, a poche centinaia di metri da lì non venivano esposte le teste dei briganti infilate sulle colonnette ai margini della strada? Senza farla lunga, il fatto è che a cavallo tra Sette e Ottocento la Chiesa e il Regno di Napoli concordarono che taluni luoghi di culto fossero esenti dal dover garantire il rifugio ai colpevoli della maggior parte dei reati.

    Morano Calabro. Iscrizione ottocentesca sulla facciata di una chiesa (Foto L.I. Fragale)

    La Calabria come un’isola

    E però oggi, in tempi di ambite immunità di gregge, questa iscrizione suscita pure qualche riflessione in più. Lo annotavo due anni fa, all’alba del lockdown: «La Sicilia chiude. La Sardegna chiude. La Val d’Aosta idem. Se si escludono due spiagge, due fiumare, due linee ferroviarie, porti e aeroporti, un numero indefinibile di sentieri escursionistici, fiumiciattoli e strade sterrate, gli unici accessi alla Calabria sono 1 autostrada, 3 strade provinciali, 4 statali e circa 14 comunali. Una ventina di strade. Quest’è tutto. Intelligenti pauca».

    E, di riflessione in riflessione, viene pure da pensare a quanto in realtà la Calabria sia, sì, geograficamente peninsulare, ma forse assai più intimamente insulare: una metaforica isola vera e propria, tagliata fuori dal resto d’Italia da quell’enorme sipario roccioso del Pollino, che per secoli deve essere stato un discreto deterrente rispetto alla possibilità di fare due passi più a Nord. Lo guardavi da Sud e probabilmente ti passava la voglia di valicarlo. Volendo esagerare si potrebbe dire che è molto più insulare lei che una stessa Sicilia, appiccicata com’è questa a Villa San Giovanni e quindi al ‘continente’ (ponte o non ponte, visto che qualcuno attraversò lo Stretto a nuoto, e ahilui non in omaggio all’Horcynus Orca).

    Il massiccio del Pollino visto da Sud

    Ancora una riflessione, alla quarta potenza: mi pare che la perifericità del Sud (tutto) faccia sì che involontariamente, inconsapevolmente, i suoi abitanti abbiano maggiore conoscenza della geografia rispetto ai settentrionali. Un paradosso, ma come a dire: necessità fa virtù. Se non fosse che resta molto spesso una conoscenza, appunto, confinata al bisogno: meramente istintiva e perciò acritica.

    La prima grande strada della Calabria

    Ma, dicevo, il sipario roccioso: se ne riconoscono a memoria, da sinistra a destra, le cime principali. La rotondità di Serra del Prete, la piramide del Pollino, il triangolo isoscele della Serra Dolcedorme, la linea lunga della Manfriana e poi le rupi sopra Frascineto, e ancora più a destra le obliquità taglienti del Monte Sèllaro

    Eppure a valicare questo massiccio ci riuscirono – ovviamente prima di Cristo (a quei tempi non servivano i miracoli. Nemmeno per i Lavori Pubblici) – con la Via ab Regio ad Capuam, o Popilia, la prima (e ultima?) grande strada calabrese, di cui oggi l’autostrada ricalca paro paro (o giù di lì) tutto il percorso, quantomeno dallo “svincolo” di Nerulum (…), addirittura più di quanto l’avesse ricalcato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) che, a differenza della Popilia, oggi sopravvive leggermente meglio e in più punti.

    Trattorie e McDonald’s

    L’ho voluta percorrere praticamente tutta, questa qui, da Salerno a Palermo, in due sole ed estenuanti tappe, perché lo dico spesso: l’autostrada sta alle vecchie strade come un McDonald’s sta a una trattoria. E mi pare sufficiente. Eppure anche nei luoghi più impensati non c’è verso di salvarsi da certe ovvietà, da certi appiattimenti subculturali inutili, se non altro: perché bisogna chiamare “via Posillipo” un pezzetto della vecchia Strada Regia, peraltro in piena montagna?

    Appena un pezzo di strada si infila in un tessuto urbano o, meglio, viceversa: appena un tessuto urbano cresce e ingloba un pezzo di strada antica e usurpa dignità di Comune sopra o sotto gli X abitanti, ecco tutto un fiorire di toponomastica e odonomastica da brivido. In Calabria come altrove. Ricordo, in un paesino nel mezzo del ridente Polesine (sì, certo che è ironico) una stradina intitolata a Eduardo De Filippo. Anzi: ovviamente ad Edoardo. Con la o. C’era da aspettarselo: ‘l male, ‘l malanno e ‘l danno all’uscio, direbbero nel senese.

    Non divaghiamo: questa vecchia strada, questa spina dorsale viaria (e scoliotica assai) c’è più o meno tutta, non è scomparsa. Basta cercarla e trovarla senza cascare nei tranelli (sfogliatelo almeno, vi prego, lo straordinario volume di Luca Esposito, La Strada Regia delle Calabrie. Ricostruzione storico-cartografica dell’itinerario postale tra fine Settecento e inizio Ottocento da Napoli a Castrovillari, st. Marostica, 2021).

    La Dirupata

    Certo, ricordo il tratto campano chiuso per frana (Petina-Polla), un brevissimo tratto lucano (ingresso da Nord nel centro abitato di Lagonegro) ufficialmente riservato ai residenti, e quindi tutto il tratto in Calabria da Laino a Mormanno, ufficialmente chiuso per frana ma regolarmente utilizzato dai locali (almeno al 2014). Poco più oltre si giunge a Campotenese, ignorando un incrocio per una sorta di sentiero dorato da Mago di Oz, che conduce verso luoghi di cui parlerò un’altra volta. E si arriva così alla famigerata Dirupata, a nord-ovest di Morano.

    La Dirupata nuova (in basso a sx) e ciò che resta della vecchia (a dx). In fondo, l’autostrada

    La Dirupata antica è però fuori uso da almeno 60 anni: se ne intravede qualche tratto dalla Dirupata nuova, che vale comunque la pena di percorrere come surrogato di un ‘battesimo stradale calabro’. Quella vecchia, che sopravvive zigzagando sterrata rispetto al tracciato della nuova, è stata invece l’incubo di generazioni di palafrenieri, postiglioni, viaggiatori di ogni specie.

    Il miglior modo di viaggiare in Calabria

    Ripidissima, quasi sempre innevata, quasi a strapiombo sulla vallata sottostante. La gente ci moriva, le ruote schizzavano fuori, le diligenze scivolavano a valle tirandosi dietro cavalli e passeggeri. C’è un quadro ispirato proprio a questo luogo. Lo dipinse il calabrese Andrea Cefaly, nel 1866, e lo intitolò Il miglior modo di viaggiare in Calabria. Con dedica (si fa per dire) al Ministro dei Lavori Pubblici (all’epoca il lombardo Jacini, conte di Casalbuttano…).

    Andrea Cefaly, “Il miglior modo di viaggiare in Calabria”, 1866

    Eppure su questa strada sono passati tutti. Tutti, fino alla costruzione dell’autostrada. Che, se ci pensate bene, tanto remota non è. Tutti ci sono passati ma nessuno più se la ricorda. È stata percorsa da briganti, truppe militari, addirittura da quei carcerati tradotti a piedi, da regnanti, dagli stranieri del Grand Tour, da tutti i giovani che per secoli sono andati a studiare a Napoli (compresi tutti i nomi nostrani più celebri) e da chiunque avesse voluto o dovuto per ogni ragione dirigersi da una capitale all’altra, da Palermo a Napoli e viceversa.

    Vita da nobili

    E tra questi quel danaroso viaggiatore calabrese che nel 1836, di ritorno da un lungo giro dell’Europa, si fece comodamente trasportare addirittura in lettiga, mica in carrozza, da Morano fino ad Amendolara perché, scriveva, “questo modo di viaggiare è molto comodo nei paesi in cui non vi sono strade carrozzabili”. Più che giusto, noblesse oblige, caro il mio Alessandro Mazzario. E si chiude il cerchio, tornando a parlare di pandemie ed epidemie, perché lo stesso giovane calabrese scampò il colera di quegli anni (il colera che non risparmiò Leopardi, per intenderci).

    Viaggiare in lettiga
    Viaggiare in lettiga

    Durante la quarantena dentro a un lazzaretto si invaghì prima della figlia del luogotenente di guarnigione. Quindi conobbe due gradevoli imprenditrici toscane che avevano appena inaugurato una loro cappelleria a Madrid. Poi conobbe Edward Leeves col quale scambiava libri. Infine, si invaghì di una cameriera russa: “[…] Vi son poi due cameriere piuttosto graziose, e bastantemente svegliate per essere Moscovite. L’una di esse mi sorride tutte le volte che la guardo, e par che abbia gran voglia di farmi ricominciare la quarantina […]”. Insomma: quando si dice “prenderla con filosofia”.

    Il guardiano dell’autostrada

    Poco più oltre vale la pena di lasciare un attimo la Strada Regia, e perdersi nelle campagne di Castrovillari – prima di raggiungere la zona delle Vigne, una sorta di miglio d’oro senza mare –, tra le masserie di contrada Cutura, per arrivare fino al convento di Colloreto che tra Sei e Settecento pare fungesse da copertura per ospitare non tanto dei monaci ma qualcosa di equivalente ai Servizi segreti d’oggi, intenti a controllare ogni tipo di traffico obbligato sulla Strada Regia.

    Masserie in contrada Cutura di Castrovillari (foto L.I. Fragale)

    Il convento-fortino, con torre di vedetta anziché consueto campanile, si è salvato – per modo di dire – dalla costruzione dell’autostrada e dal recente ampliamento della stessa. Rudere silenzioso, resta a guardia pure del traffico e del suo rumore costante. In una specie di mise en abyme cronologica, le gallerie dell’autostrada si possono scorgere, tristemente, attraverso brecce e finestre, tra le sue mura di pietra a secco. Una ferita sacrificata per quale progresso?

     

  • BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    BOTTEGHE OSCURE | Calabria maiala: l’industria del “porchicidio”

    «Se doppo haver mangiato carne di porco bevissimo dell’acqua vi farebbe molto danno, ma bevutoci vino temperatamente, sarà buona, e salutevole». Il saggio consiglio di abbinare del buon vino alla carne di maiale per ridurne gli effetti dannosi per l’organismo viene da un astrologo e astronomo cosentino. A cavallo tra ‘500 e ‘600 il torzanese Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo – in cui si occupa sostanzialmente di firmamento, corpi celesti, calcoli pseudoscientifici e nozioni di storia – si premura di dare al lettore «alcuni buoni et utili avertimenti per conservarsi la salute et vivere lungo tempo sani». Non sappiamo quale beneficio per la salute ne abbiano tratto i lettori dell’Almanacco. È certo però che nei secoli passati la gente comune faceva incetta di carne di maiale, che rappresentava una vera e propria “conquista” e occasione festiva per molte famiglie.

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    Maiali neri di Calabria

    Vasci e detti

    L’allevamento del maiale era una delle voci che più contribuivano al sostentamento famigliare. Allevare maialini e poi macellarli, di gennaio in gennaio, significava avere la dispensa piena. Quella del “porco” era un’industria dal basso e le “botteghe oscure” erano in questo caso le stesse abitazioni. A parte le famiglie benestanti che potevano permettersi una stalla, generalmente nelle case il piano superiore era riservato alle persone mentre il piano inferiore a masserizie e animali. Ma a “sua maestà” il maiale veniva generalmente riservato un angolo a sé.

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    La ‘piertica’

    Le famiglie povere invece condividevano il “vascio” con le bestie, porco compreso. Il possesso di maiale rappresentava un vero e proprio spartiacque tra l’inedia e la sazietà, che significava benessere. A tal proposito un proverbio riportato da Luigi Accattatis nel suo vocabolario del dialetto calabrese recita che «amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, ca ‘e vide e li desiddera i sazizzi». Oppure un altro avverte che «chine se spùsa sta cuntientu nu jùarnu, chine s’ammazza lu pùorcu sta cuntìentu n’annu».

    I porci del marchese

    Nel 1770 il marchese ed economista Domenico Grimaldi diede alle stampe un Saggio di economia campestre di Calabria Ultra con l’obiettivo di diffondere quelle che oggi definiremmo con un termine abusato “buone pratiche” agricole. Grimaldi, che aveva delle proprietà in Calabria, era consapevole che «fra li maggiori capi d’industria della Calabria, quella d’ingrassare i Majali è una delle più considerabili». Ciò era dovuto al fatto che i suini erano soliti scorrazzare liberi nei boschi e cibarsi di ghiande che rendevano «la carne di questi animali più solida, e più sana, e più durabile dopo salata» rispetto a quella dei maiali nutriti a granturco e che dimoravano nei porcili. Ma se c’era una cosa che non gli andava a genio era il modo di produrre e commercializzare i salumi in Calabria.

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    De’ Majali. Dall’opera di Grimaldi del 1770

    Secondo il marchese non si usava «alcuna diligenza per scegliere la carne […] niuna regola prefissa per salarla e mettersi la giusta quantità di sale […] Di più i Calabresi ignorano la maniera di prosciugarli e unger di tempo in tempo i detti salami». Nonostante l’ottima qualità delle carni, i discutibili metodi di conservazione rendevano disponibile per l’esportazione una bassissima quota di prodotto. I calabresi avrebbero dovuto dunque imitare «il più ricco commercio che fanno i Bolognesi delle loro mortadelle» e incominciare a «estrarre salami dalla Calabria, che fossero gustati nell’Inghilterra, e in altre parti oltramontane, che il profitto farebbe certamente stropicciar gli occhi alli nazionali».

    Maiale al bando

    Nella seconda metà dell’Ottocento i maiali vagavano indisturbati per le vie di città e paesi. Erano una presenza costante nei più immondi tuguri, tanto da far scrivere al solito Vincenzo Padula che «il Calabrese nasce tra porci e porcelle». Nell’articolo L’ostracismo dei porci (Il Bruzio, Cosenza 4 Maggio 1864) il sacerdote-giornalista si spinge in «quei bugigattoli, dove stivate, pigiate e affumicate albergano le famiglie del popolo». Poco oltre quel «fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo [trogolo, mangiatoia dei maiali, nda], e presso al truogo un porco».

    Una Calabria non troppo antica dove il maiale viveva in famiglia (foto pagina Facebook Calabria Ieri)

    Padula non manca di sottolineare la stretta simbiosi tra esseri umani e rosee ma talvolta pezzate creature, giacché «il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorrazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo [naso grosso] nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica». Tutto ciò suscitava le sdegnose proteste di quei pochi privilegiati e dei sindaci «dai calzoni di segovia e dagli stivaletti di vitellino incerato» che in nome della civiltà e dell’igiene chiedevano «di mettere i porci cittadini al bando».

    Pentolini di creta

    Tra il serio e il faceto Padula spiega come all’improvviso «i porci si posero sotto il patrocinio di S. Antonio». In effetti Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, è spesso raffigurato con un maialetto al suo fianco. Padula annota come in Calabria i frati Cappuccini e Riformati – francescani come Sant’Antonio di Padova – abbiano attribuito a quest’ultimo la protezione dei maiali ma solo per un fatto di omonimia con l’altro santo Antonio.

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    Rende (CS), chiesa di S. Antonio Abate. Il santo con il maialino

    Questo garbuglio di santi e maiali serve a Padula a introdurre un uso devozionale, praticato in alcuni paesi della Calabria fino pochi decenni or sono e legato al suino. «Appressandosi la stagione del porcocidio» i frati andavano di uscio in uscio e lasciavano dinanzi a ciascuno cinque pentolini di creta. Nel trovarli, spiega Padula, «la donna calabrese li bacia per devozione». Dopo una quindicina di giorni un fraticello sarebbe passato a raccoglierne uno solo ma pieno di strutto, un “ben di Dio” che si ricava dalle parti grasse dell’animale.

    Maiale, unica industria

    Padula tuona però contro sindaci, agenti di pubblica sicurezza e paladini della nettezza urbana: in Calabria «togliere la cittadinanza ai porci non si può». Il sacerdote dalla penna affilata adduce tre ragioni a sostegno della sua affermazione. La prima: «Dei nostri cento paesi, novantasette non hanno macelli, né beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca». La seconda: «Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il dì l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira e la sua donna 25 centesimi».

    Dinanzi a siffatta «spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti» a quei disgraziati non rimane altra industria che «allevare un porco» e godere dei suoi frutti. La terza motivazione a sostegno dei suini è pratica: «Lungi dal creare immondezze, le distruggono». In breve: finché in ogni paese non verrà costruito un sistema fognario in pietra, per Padula non cesserà «la necessità delle fogne vive che sono i porci».

    Pubblico mattatoio

    A Cosenza nel 1859 l’aria era poco salubre anche per via della pratica della macellazione delle bestie, maiale incluso. A tal proposito Ferdinando Scaglione annota che «l’abuso generale de’ macellai di sgozzare e di scorticare quasi entro l’abitato gli animali vaccini, pecorini e porcini, riempendo ogni luogo di sporcizia e d’impurità». Bisognava dunque «impedire ogni sorta di putrefazione, sola cagione di miasmi e di febbri tifoidee» e ci si pose il problema della creazione di un pubblico mattatoio cittadino. Tuttavia, ancora nel 1870 il medico Domenico Conti scriveva che «per mancanza di adatto macello sgozzansi gli animali nell’abitato buttandosene gli escrementi o nelle strade o ne’ fiumi Crati e Busento».

    Grastaturi e daziari

    Era colui che interveniva con la sua arte per castrare il maiale. Si riteneva che la procedura favorisse la crescita dell’animale e evitasse alcuni inconvenienti che potevano inficiare la qualità delle carni. Chiamato all’occorrenza, il grastature giungeva nella “zimma” con la sua cassettina di legno contenente gli attrezzi del mestiere, quasi una valigetta da chirurgo viste le mansioni veterinarie che era invitato a svolgere. Attraverso delle piccole lame affilatissime interveniva incidendo, dopo una sommaria pulitura della parte interessata, e quindi, con un altro arnese, castrando il malcapitato maiale. Si trattava di competenze chirurgiche molto rudimentali ma non alla portata di tutti, acquisite non con lo studio ma con la pratica, spesso passata di padre in figlio.

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    Lo ‘scannaturu’ (foto Lorenzo Coscarella)

    Se il grastature godeva del rispetto delle famiglie allevatrici, al contrario l’agente del dazio, chiamato a riscuotere una tassa per ogni animale macellato, si accattivava tutti gli odi. I “porchicidi” non denunciati erano passibili di multe che rappresentavano per le famiglie un danno economico. In breve, l’agente daziario era il guastatore della festa e in molti cercavano di eludere i controlli. C’era chi sottoposto a indagine dichiarò di trasportare due mezzi maiali quando, in realtà, ciascuna metà era dotata di coda e dunque i maiali dovevano essere almeno due. La multa fu inevitabile e salata.

    Cosenza caput… puarci

    Le statistiche circa “l’industria del porco” nella provincia di Cosenza tra ‘800 e ‘900 dimostrano quanto questa fosse diffusa e popolare. Accattatis scrive infatti che solo la città capoluogo «coi suoi mercati settimanali provvede di carne suina anche le altre Calabrie». Il prodotto medio annuale dell’intera provincia era di 249 mila animali. Questi consumavano 100 mila ettolitri di ghiande e 150 mila di castagne. Circa 40mila maiali venivano consumati nella provincia, di cui 4.000 nella sola Cosenza ricavandone prosciutti, costa, gelatina, sanguinaccio, frittule, gambone, soppressata, salsicce, capocollo, lardo, frisuli, grasso. Un maiale tra i 30 e i 90 kg poteva costare tra le 34 e le 100 lire in base al peso.

    Nel comune di Cosenza nel 1908 erano stati macellati 4098 maiali, per un totale di circa 165mila kg di carne suina (a peso morto). I capi di suino consumati erano stati però 8991, quindi gran parte dei maiali giungeva in città dai centri vicini. A Corigliano i suini macellati erano stati 1151, a San Giovanni in Fiore 3742. A Catanzaro, nello stesso anno, erano stati macellati 1080 suini per un totale di 158mila kg di carne, mentre i maiali consumati 3947. Nel suo circondario è possibile conoscere i dati di Monteleone, con 359 maiali macellati; Nicastro con 1648; Sambiase con 860. Per Reggio non si hanno a disposizione dati per quell’anno, visto che i registri furono dispersi durante il terremoto, ma per la provincia le statistiche riportano 451 maiali macellati a Palmi e 67 a Cittanova.

  • Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni insieme: Cosenza festeggia la sua Cattedrale

    Ottocento anni. Una data importante, un compleanno differente, quello che si appresta a festeggiare la Cattedrale di Cosenza, il grande tempio della nostra città, cuore vivo e palpitante dell’intero centro storico e che porta con sé i segni di cambiamenti, di passaggi, di disfatte e di rinascite. Il 30 gennaio 1222, alla presenza dell’imperatore Federico II, veniva solennemente consacrata per opera del cardinale Niccolò dé Chiaromonti, vescovo di Tuscolo e delegato apostolico, la Cattedrale di Santa Maria Assunta a Cosenza.

    Il ruolo dell’arcivescovo Luca Campano

    Nel 1184, un rovinoso terremoto aveva distrutto molta parte della Calabria, tra cui l’antica costruzione medievale del Duomo di Cosenza. A partire dal XIII secolo, con la nomina ad arcivescovo del monaco cistercense Luca Campano, già abate della Sambucina in Luzzi, oltreché collaboratore e scrivano di Gioacchino da Fiore, iniziò un importante e fondamentale lavoro di ricostruzione della Cattedrale cosentina.
    Luca Campano, figura centrale nei rapporti tra impero e papato tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII, contribuì a rendere la città di Cosenza un crocevia culturale e politico di primaria importanza, posizione culminata con la presenza in città dell’imperatore, arrivato con un solenne quanto nutrito corteo imperiale, in occasione della riapertura del nuovo tempio cittadino.

    Il tesoro più prezioso della Cattedrale: la Stauroteca

    In occasione della consacrazione, inoltre, si fa corrispondere il dono, da parte dello Stupor mundi al Capitolo della Cattedrale, della preziosa croce reliquario in oro, pietre e smalti, contenente una reliquia della croce di Gesù Cristo e perciò detta Stauroteca. Il reliquiario, realizzato nei laboratori del Tiraz palermitano a cavallo tra XI e XII secolo rappresenta un raro e concreto esempio della convergenza multiculturale presente nella corte normanna di Palermo. L’opera riformatrice dell’arcivescovo Luca, e la sua capacità di mediazione con le strutture dell’Impero, a partire dallo stesso Federico II, trova il suo momento di massimo splendore e di coronamento ideale nella consacrazione della Cattedrale.

    La Stauroteca donata da Federico II

    Sepolture illustri

    Il rapporto con gli Hohenstaufen fu sancito da un ulteriore quanto drammatico accadimento. Nel 1242 a seguito della morte nei pressi di Martirano di Enrico VII, figlio di Federico II e di Costanza d’Altavilla, fu deciso che fosse sepolto nella Cattedrale di Cosenza, all’interno di un antico e prezioso sarcofago romano, decorato con scene della caccia al cinghiale di Calidone.
    A questa sepoltura regale, sempre all’interno della Cattedrale, si aggiunse dopo il 1271 il monumento funebre della regina di Francia, Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III l’ardito; la regina, incinta di sei mesi del quinto figlio, quando di ritorno dalla sfortunata crociata di Tunisi, trovò la morte nella Valle del Savuto.

    La Madonna del Pilerio

    Nella Cattedrale è inoltre conservata l’antica e miracolosa effige della Madonna del Pilerio, patrona della Città di Cosenza e dell’intera diocesi; si tratta di un’icona attribuita dagli studiosi al XII secolo, immagine a cui tutti i cosentini sono intimamente legati.
    Questi brevi accenni alla storia europea dimostrano come nel corso degli ultimi otto secoli, le tante testimonianze materiali e documentali, richiamino il passaggio della micro storia e della macro storia nella nostra Cattedrale; ma la Chiesa madre, così è conosciuta nel popolo, ha svolto sempre un ruolo centrale nella vita religiosa, sociale e politica della comunità.

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    L’icona della Madonna del Pilerio, patrona della città di Cosenza

    Dai Telesio alle bombe

    Nella Cattedrale, insieme ad altre famiglie nobili della città, aveva il giuspatronato la famiglia Telesio, da cui nel 1565 divenne arcivescovo di Cosenza Tommaso, fratello minore del più noto filosofo Bernardino.
    In una cappella laterale hanno trovato iniziale sepoltura i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, unitamente ai loro gli eroici compagni; e poi le vicende che la videro protagonista durante la fine del XIX secolo, con una nuova e importate campagna di restauri, diretti dall’architetto Giuseppe Pisant; e ancora gli eventi bellici e i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.

    La storia della città nella sua Cattedrale

    Nel corso dei secoli, la città ha sempre vissuto la piazza grande e la Cattedrale come un luogo centrale della propria vita nella fede, ma anche della sua esistenza sociale e culturale, lasciandosi attraversare.
    Gli 800 anni della cattedrale sono in qualche modo anche gli 800 anni della nostra città, sono la storia di Cosenza e dei cosentini. È nostro dovere celebrarne la memoria.
    L’azione programmatica non trova solo pieno riscontro nello specifico indirizzo religioso e teologico, ma vuole coinvolgere tutta la comunità e la cittadinanza, in quanto la conoscenza della storia, la conservazione del territorio e la sua tutela, oltreché la formazione alla loro consapevolezza, necessitano di una coscienza unitaria attiva e partecipata.

    Ottocento anni dopo: tanti eventi e un francobollo celebrativo

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    Il francobollo emesso per gli 800 anni del Duomo di Cosenza

    Il 2022 perciò deve essere anche, e soprattutto, un anno in cui iniziare, in cui partire dalla chiesa madre, e da li unirsi intorno a grandi progetti con uno sguardo di fiducia e speranza solida, un messaggio di vita: procediamo in questo anno giubilare e afferriamo la capacità di cogliere nelle nostre radici i valori che orientano il futuro, spesso meravigliandosi, e a credere con speranza in un progetto più alto cui guardare.
    Un anniversario, un anno di eventi, tra musica, arte, storia, esperienze immersive, circolazione di idee e di progetti, ma soprattutto la presenza di persone, nel riappropriarsi del tempo e dello spazio.
    L’anno di eventi pensato per celebrare questo ottocentenario si apre con un francobollo celebrativo e rappresenta un importante sforzo in tale direzione: trasversali e inclusive, le diverse iniziative si pongono infatti l’obiettivo concreto di fare della chiesa madre della città la casa di tutti, senza distinzione.
    Buon compleanno Cattedrale, e auguri a tutti i cosentini.

    Antonella Salatino
    Presidente Associazione 8centoCosenza APS

  • Ferramonti, dove l’umanità prevalse sull’Olocausto

    Ferramonti, dove l’umanità prevalse sull’Olocausto

    Il Giorno della Memoria in Calabria ci ricorda un frammento del secondo conflitto mondiale, fra i meno tristi e pur sempre angoscioso, legato alle leggi razziali e alla storia degli internati ebrei. Tra il 1940 e il 1943, per una serie di circostanze fatali alcune migliaia di ebrei deportati e di prigionieri provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee, ebbero la ventura di concludere la loro odissea non nei vagoni sigillati davanti ai cancelli senza ritorno dei campi di sterminio polacchi o tedeschi, ma in un angolo remoto e dimenticato della Calabria interna. Approdando, dopo dolorose vicissitudini e peregrinazioni, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, «in provincia di Cosenza, una landa deserta e malarica». Lì ebrei «provenienti da tutte le terre d’Europa, il fior fiore della scienza e dell’intelligenza ebraica», ricorda lo scrittore e fotografo ebreo dalmata Luciano Morpurgo in Caccia all’uomo, un introvabile libro-memoriale pubblicato nel 1946, erano stati concentrati in una dozzina di «grandi baracche di legno costruite per la bonifica» dal fascismo nel 1940.

    Ferramonti, il primo campo liberato

    Il campo, un recinto di 16 ettari di superficie, fu costruito dallo speculatore Eugenio Parrini. L’impresa di Parrini, sodale di importanti gerarchi fascisti, era già presente a Ferramonti per eseguire i lavori di bonifica delle paludi del Crati. Alcuni dei capannoni predisposti con camerate da 30 letti erano in origine dormitori e alloggi per gli operai della bonifica agricola del Crati. Ferramonti con i suoi 4.000 internati divenne così il più grande dei 15 campi di concentramento per ebrei costruito in Italia da Mussolini dopo le leggi razziali del 1938. Fu il primo in Italia ad essere liberato dopo l’armistizio. Era sorto in una plaga del malarico vallo cosentino nei pressi di Tarsia, su di una grande spianata infestata dagli insetti e frequentemente inondata dal Crati.

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    Soldati all’esterno del campo

    A qualche chilometro lontano dai reticolati del campo, protagonista di alcune fughe senza fortuna, correva il binario della ferrovia Sibari-Cosenza, mentre a circa sette chilometri da Ferramonti restava lo scalo di Mongrassano-Cervicati, sulla diramazione del tronco ferroviario che da Paola, via Castiglione Cosentino, e proseguiva per Cosenza. Percorso attraverso il quale giunsero al campo, con tradotte in littorina e vaporiera in partenza dai binari della stazione di Paola molti degli internati. Mentre dai binari della linea ionica Sibari-Taranto furono raccolti a Tarsia anche gruppi di internati ebrei provenienti dal nord Europa, insieme a quelli rastrellati lungo il versante adriatico della penisola.

    Lontani dal genocidio

    Insieme agli ebrei furono detenuti nel campo anche prigionieri civili, partigiani jugoslavi, carcerati politici greci, militari francesi e persino un gruppo di prigionieri cinesi a cui venne affidata la lavanderia interna al campo.
    In questo luogo isolato del vallo cosentino appena sfiorato dal treno, remoto e inospitale come pochi altri, ma per questi stessi motivi rimasto a lungo intoccato e lontano dai fuochi divampanti della guerra e dal fanatismo antisemita dei regimi nazifascisti, gli internati ebrei, pur privati della libertà poterono sfuggire al genocidio. Furono trattati con umanità anche dal personale militare italiano addetto alla sorveglianza del campo.

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    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    Ferramonti, che ricadeva sotto la responsabilità del ministero degli interni fascista, fu sempre diretto da commissari di pubblica sicurezza. Solo la sorveglianza esterna al campo era affidata alle camicie nere della gendarmeria territoriale. I deportati poterono durante gli anni di prigionia, godere anche di una certa libertà di movimenti, e solidarizzarono con le popolazioni locali con le quali praticamente convissero a lungo, dando vita durante gli anni di guerra ad un insolito rapporto di simbiosi civile e umana, improntato alla solidarietà e costellato da frequenti episodi di fraternità umana, tanto più significativi in quanto scaturiti in tempi e circostanze storiche che vedevano consumarsi altrove nel resto dell’Europa i crimini dello sterminio antisemita.

    Ferramonti, il più grande kibbutz prima di Israele

    Condizioni di vita insolite, al punto che lo storico ebreo Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti «il più grande kibbutz sorto sul continente europeo, prima di Israele». Per molti degli internati ebrei, affluiti in Calabria dopo le leggi razziali del 1938 e poi più numerosi nel corso della nuova diaspora durante gli anni del genocidio, l’ultimo dei treni che portava a destino l’«ebreo errante arrivato in catene» fu quello della salvezza.

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    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Numerosi fra gli ex internati ebrei del campo di Ferramonti di Tarsia hanno conservato un ricordo vivo e intenso di quei viaggi compiuti sui treni a vapore che percorrevano il faticoso tracciato a cremagliera della Paola-Cosenza. Come Luciano Morpurgo, che procedeva sulla tratta per far visita ai parenti internati. «Negli otto giorni» trascorsi dal suo arrivo a Ferramonti, si servì ancora dello stesso treno, portandosi dietro a ogni suo ritorno da Paola un «un carico di buona frutta che mancava ai rinchiusi al campo». Nella cittadina tirrenica, «quando si seppe di me – continua Morpurgo – e della causa che mi aveva portato fin là, fu una gara di gentilezza, di bontà, da parte di quella gentile e buona gente che con le cortesie e le premure voleva compensarmi di tanti dolori e amarezze».

    L’omnibus dei poveri

    Per gli internati di Ferramonti questo piccolo treno divenne così il treno del rifugio e della speranza. Si può dire che solo l’immagine di questo modesto omnibus dei poveri che solcava lento fra sboffi di vapore i recessi boscosi e assolati di questa ignota frontiera calabrese, resta a lottare contro l’immagine terrificante e disumana di quei lunghi treni di morte, neri e sigillati come bare, che ogni giorno nelle albe buie nate sotto i cieli di piombo di Mauthausen, di Dachau, di Treblinka conducevano all’ultimo calvario di atrocità milioni di ebrei.

    «A Paola ci fecero trasbordare su di un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera come quella del parco Petrìn di Praga. Salimmo molto in su verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti». E così, lontano dagli orrori dell’olocausto, per alcuni anni sui banchi di legno di terza classe dei umili convogli a vapore della Paola-Cosenza, accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene ma per concludere fortunosamente le angosce di quei lunghi viaggi incogniti verso il destino di Ferramonti, ebrei italiani, polacchi, slavi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi, e al familiare dialetto calabrese si mischiarono per un momento le voci e le parole sradicate di quegli idiomi lontani.

    Il viaggio contrario

    I pochi internati ebrei che per sfortunate circostanze ebbero la ventura fatale di compiere un giorno su quello stesso rassicurante trenino il viaggio contrario che li allontanava dalla Calabria – quelli che tra loro fecero richiesta di trasferimento verso altri campi e quelli destinati dopo un periodo di mite internamento dal campo di Ferramonti ai campi del centro e del nord Italia (Trieste – S. Saba, Fossoli, Urbisaglia e altri), quasi tutti conclusero tragicamente le loro peregrinazioni, incontrando il destino nei carri piombati dei lugubri convogli avviati ai campi di Dachau, Auschwitz e altri luoghi di morte.
    Paradossalmente a Ferramonti le uniche quattro vittime belliche le fece per errore il mitragliamento di un aereo inglese durante un combattimento contro un caccia tedesco che ne sorvolava la superficie nell’agosto del 1943.

    auschwitz
    La scritta “Il lavoro rende liberi” sul cancello di Auschwitz

    Troppo permissivo per i fascisti

    All’interno del campo agli ebrei deportati e agli altri internati fu permesso di organizzarsi e di eleggere propri rappresentanti. I medici ebrei presenti usufruirono di un’infermeria con annessa farmacia, e spesso anche gli abitanti dei dintorni del campo che si rivolgevano loro vi furono curati. Vi fu attiva una scuola, un asilo, una mensa per bambini, una biblioteca, un teatro e luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un’altra greco-ortodossa). Non furono rare le unioni e i matrimoni tra gli internati e durante il periodo di detenzione nel campo nacquero 21 bambini.

    Paolo Salvatore, uno dei funzionari di polizia che condussero il campo di internamento, venne sollevato dalla direzione agli inizi del 1943 per un atteggiamento che fu giudicato poco fascista e troppo permissivo nei confronti degli internati, ai quali aveva persino permesso di lavorare fuori dal recinto del campo per integrare le scarse razioni alimentari di guerra. Quando gli inglesi liberarono il campo di Ferramonti nell’estate del 1943, la gran parte degli internati ebrei si erano già dispersi nelle campagne intorno a Tarsia. Molti rifugiati e nascosti nelle case dei contadini calabresi con cui avevano solidarizzato durante il periodo di detenzione.

     

    Gli internati più famosi

    Tra gli internati a Ferramonti trovarono riparo personalità eccezionali. Numerose le figure singolari e i caratteri geniali che ebbero salva la vita entro quel remoto recinto sorto su una sponda malarica del Crati, lontano dagli orrori dell’Olocausto. Quando poterono ritornare al mondo, il segno che parecchi di loro lasciarono nella vita successiva scampata proprio nel periodo trascorso a Ferramonti, non di rado fu memorabile. Traiettorie di rinascita e di affermazione personale che raccontano imprese e fioriture tra le più varie. Come quelle segnate da

    • Ernst Bernhard, medico e psichiatra berlinese, che fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, analista di grandi personalità della cultura italiana di cui divenne amico e confidente, come Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli e Cristina Campo;
    • Imi Lichtenfeld, ebreo ungherese, poi cittadino israeliano, passato alla storia come esperto di arti marziali e inventore del famoso metodo di combattimento e autodifesa chiamato Krav Maga, praticato oggi dagli agenti del Mossad e dalle truppe scelte israeliane;
    • Moris Ergas, ebreo greco che dopo la liberazione divenne uno dei più importanti produttori cinematografici del cinema italiano degli anni ‘60, legando il suo nome a quello dei capolavori di Rossellini, Pasolini e De Sica;
    • l’internato jugoslavo David Mel, che nel periodo di detenzione a Ferramonti fece il cuoco ma che divenne poi uno scienziato più volte candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore del vaccino per la dissenteria;
    • Richard Dattner, un giovane ebreo polacco internato con la famiglia a Ferramonti, e che emigrato negli USA diventò nel dopoguerra uno dei più importanti e famosi architetti americani;
    • Alfred Wiesner, ingegnere jugoslavo che dopo la liberazione fu partigiano e che alla fine della guerra si mise a produrre gelati, iniziando così l’attività che lo portò nel 1953 a fondare il marchio Algida, nato dal suo innovative sistema di produzione industriale dei gelati di cui inventò sia il nome che il logo, oggi conosciuti e affermati in tutto il mondo;
    • Oscar Klein, giovane ebreo austriaco imprigionato con la famiglia a Ferramonti, dove pare imparò i primi rudimenti del jazz, e che divenne poi un famoso compositore ed esecutore di musica swing e dixieland;
    • Menachem Shelah, ebreo dalmata, poi emigrato in Israele dove divenne un importante storico e studioso della Shoa;
    • Evangelos Averoff-Tossizza, internato politico greco, che nel dopoguerra fu un importante uomo politico, ministro e fondatore del Nuovo Partito Democratico ellenico, e che raccontò in un libro pubblicato in Italia da Longanesi nel 1977 la sua storia di internato a Ferramonti;
    • Michel Fingesten, ebreo italo-austriaco che studiò a Vienna insieme all’amico Oskar Kokoschka, divenendo a sua volta uno dei più importanti artisti ed incisori del ‘900, famoso per i suoi ex-libris per le sue opere grafiche esposte nei musei di tutto il mondo – deportato a Ferramonti istituì per i detenuti del campo una scuola d’arte. Fingesten morì purtroppo pochi giorni dopo la liberazione a causa di una infezione contratta in prigionia. È ancora oggi sepolto nel piccolo cimitero di Cerisano, vicino Cosenza.
    • A Cosenza l’eredità culturale dei deportati ebrei di Ferramonti si mantenne viva nella figura di Gustav Brenner, un ebreo austriaco che trasformò la sua detenzione a Ferramonti nella scelta di vita che lo portò a stabilirsi a Cosenza, dove nel dopoguerra fondò una casa editrice di cultura specializzata in opere antiche e rare ripubblicate in edizioni anastatiche, ancora oggi attiva.

    Un treno per vivere

    Nel giugno 1944, ormai liberi, erano partiti per il loro ultimo viaggio sul treno a vapore per Paola, proseguendo poi sino a Napoli, dove al porto li aspettava per l’esodo finale una nave diretta in Palestina o negli Stati Uniti, alcune centinaia di ex internati ebrei di Ferramonti. Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo di Ferramonti di Tarsia», un ultimo convoglio ferroviario partito dai binari di Mongrassano, via Cosenza-Paola, avrebbe riportato gli ultimi profughi ebrei alla stazione di Paola. E da qui cambiando nuovamente treno, verso il centro di raccolta di S. Maria al Bagno, in Toscana, presso Lucca. Con quell’ultimo viaggio verso la libertà anche «il trenino degli internati» di Ferramonti, poteva dire estinto quel debito fortuito contratto – suo malgrado – con la grande Storia. Regolato il suo conto e restituitosi libero tornava ancora una volta alla sua piccola storia di sempre.

    Quel che resta del campo

    Degli ebrei morti durante il periodo di detenzione nel campo, 16 trovarono sepoltura nel vicino cimitero cattolico di Tarsia (solo 4 sepolture sono tuttora visibili), e 21 nel cimitero di Cosenza, dove è ancora possibile visitare le loro tombe. Del tentativo da parte del Comune di Tarsia di fare dei resti del campo un piccolo museo della memoria, rimane per ora solo una baracca esterna al recinto originario, con dentro poco più di qualche riproduzione fotografica di vecchie immagini di repertorio; niente altro. Del campo, che all’interno del perimetro contava in origine 92 baracche, comprese officine, depositi, laboratori, refettori e cucine, smantellato nel tempo e sopraffatto da abusi e incuria, non restano oggi che sterpaglie e pochi capanni residui, abbandonati e fatiscenti. Uno spazio senza nome tagliato in due da un rettifilo della A2 Salerno – Reggio Calabria. Il traffico scorre immemore e veloce sopra la scarpata dell’autostrada del Mediterraneo. Altre storie asfaltate via.

    Campo_di_concentramento_di_Ferramonti_-_panoramio

  • STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    STRADE PERDUTE| Sangineto, il finto carnevale sui resti dei mammut

    […] Successivamente a Sangineto s’è parato davanti il teatro umano più interessante, le due anime principali di quelle invasioni estive: la borghesia professionale cosentina da una parte e un pot-pourri di ceto medio, medio-basso e basso tra il partenopeo e l’avellinese. Nel mezzo, qualche fioritura di ceto medio e piccola borghesia cosentina, pure. A fare da cuscinetto o, appunto, da spettatore divertito. Le due anime di cui sopra, infatti erano a compartimenti del tutto stagni. Se comunicazione c’è stata, fidatevi, era quasi sempre fasulla. Pregiudizi da una parte, pregiudizi dall’altra (e so bene quali gli uni e quali gli altri. Ma anche quali verità).

    Tra i due litiganti

    A un certo punto, non appartenere a nessuno dei due gruppi è stato anche un salvacondotto per barcamenarsi o, più semplicemente, farsi i fattacci propri. Certo è che qualcuno dei secondi cercava di imitare i primi, mentre non ho mai visto il fenomeno contrario. Ma senza dubbio spenderei di nuovo le mie controre dei 12/13 anni come feci allora, con i peggiori scugnizzi che mi insegnavano la combinazione di tasti (e me la ricordo ancora) per scaricare tutti gli spiccioli dai telefoni pubblici, come delle slot-machine a disposizione per innocentissimi gelati o per qualche giro ai videogiochi. O assieme ai quali si improvvisavano rally in fangosissimi campi abbandonati, con Grazielle arrugginite e di fortuna: gradi di libertà.

    E altrettanto senza dubbio mi facevano piuttosto ridere (e oggi, a distanza di tempo, più pena che altro) certe mode cosentinissime: il colletto della polo alzato, la fetta di limone in quella birra lì, e soprattutto quella moda, durata per fortuna poche estati, di scendere dall’auto a piedi scalzi calcando con disinvoltura asfalto rovente e fetente – poca la differenza – davanti alle spoglie della microgattopardesca Villa Giunti, laddove pernottavano (ma ben dopo l’alba) monumentali cubiste dell’Est. Lì dove una volta c’era un ponte in pietra, quasi inspiegabile, che tirava dritto dal fianco delle chiesetta di San Michele fino al casello ferroviario ormai abbandonato.

    Azzilio, Ferrari e Doc Martens

    Ricorderei eccome nomi, volti e anche frasi specifiche. Ma a che pro? Ricordo il figlio del giudice, che non avrebbe mai messo piede in una Fiat (roba per poveracci, diceva). La nipotina di, lasciamo perdere, che quando le rubarono lo Scarabeo nuovo di zecca gliene comprarono immediatamente un altro, se no chi la sentiva… Quello che in spiaggia andava con le Dr. Martens perché così faceva più punk (molto, molto molto prima che diventassero obbligatorie già tra le ragazzine di V elementare), quello che… basta. E chissà quante cose davvero non ricordo. Pettegolezzi di 25 anni fa di cui, per fortuna, non m’importava nulla allora, figuriamoci ora.

    Ricordo articoli dell’epoca su rampolli, protettissimi dall’anonimato, invischiati in brutti giri di prostituzione d’alto bordo; le Ferrari fuori luogo, guidate da 18enni ubriachi o parcheggiate rigorosamente in bella vista (se no perché comprarne una?) nei giardini delle ville con o senza piscina, i rampolli di seconda o terza generazione, inspiegabilmente biondi (o forse molto spiegabilmente); tutti i cognomi e qualche nome (con l’incredibile incidenza di Attilio – pronunciato Azzilio – forse dovuta a endorsement trisavoleschi delle gesta dei fratelli Bandiera, boh, se no non si spiega). Ma non pensiate a coloriture ideologiche. Di ideologie nemmeno una lontana ombra, né da una parte né dall’altra. Superficialità, invece, quanta ne cercavate.

    Il finto carnevale bruziopartenopeo

    Uno squarcio in questa tela periodicamente imbrattata a tinte bruziopartenopee fu, ricordo, nel pieno dell’estate del… ’90?, un funerale tutto sanginetese. Dal primo piano di una casa del Lido, la salma mosse giù per la scala esterna, e portata in processione per il lungomare, con tanto di banda al seguito, come piace a me. E i turisti zitti, finalmente. A cuccia. Davanti a certe faccende è doveroso che riemerga una tacita gerarchia naturale: territoriale, prima ancora che sociale. Ecco perché dico che se volete capire Sangineto dovete andarci quando sveste gli abiti estivi, di quel finto carnevale di eccessi e di divertimenti certamente più sbandierati che reali. Dopo che gli acquazzoni di fine agosto ripuliscono il marcio del turismo e scacciano finalmente i villeggianti in città, a meritati calci nel sedere assieme alle loro chiacchiere da spiaggia, alle loro incoerenze involontariamente militanti e al loro vuoto a perdere.

    La vecchia natura di Sangineto

    È allora che riemerge lentamente la vecchia natura del posto, anche dell’unica contrada che il Comune ha sul mare: quella Contrada Le Crete dove alla fine dell’Ottocento furono addirittura scoperti resti di mammut (e chi volete che lo sappia?). Qui, da metà settembre, nell’unico bar che resta aperto anche fuori stagione riaffiorano i volti locali, gli uomini che tornano ai tavoli che occupavano – direi di diritto – negli altri dieci mesi, con le loro birre e i loro mazzi di carte. E, nel periodo consentito, si può vedere uscire in barca don Pietro con le frasche per preparare i cannizzi per le lampughe.

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    Sangineto Lido, prima metà del ‘900

    Il bar, dicevo: niente pubblicità, per carità, tanto uno ce n’è. Quel bar che è praticamente un faro, unica lucina accesa sul lungomare d’inverno. Una sicurezza, un’istituzione. Da Patrimonio Unesco: lo troverete aperto fino a mezz’ora prima di cena, il 31 dicembre. E di nuovo aperto il 1° gennaio, con tanto di alberello di Natale sul marciapiede, provare per credere. Molto più di un bar: una garanzia, quasi un servizio sociale, un approdo per naufraghi (in senso molto lato), con la signora dall’occhio vigile che ha visto crescere generazioni di bambini e bambine, poi adolescenti, risate e pianti.

    La festa è finita

    Poi a un certo punto (ora non ricordo bene l’anno ma fu una cosa nettissima, da un’estate all’altra) i riflettori si spensero in modo drastico. Dove ad agosto faticavi letteralmente per fare due passi nella folla, ora a mezzanotte contavi le persone sulle dita delle mani. Ricordo che si erano spostati tutti a Diamante, mi pare. Sarò maligno io, ma mi pare che la festa finì – così come finì per il tentativo di rinascita di Cosenza vecchia – quando morì Mancini. E in fondo tutto tornerebbe. Nascita, apogeo e morte di un fenomeno sociale. E nonostante l’ex voto dell’intitolazione a Mancini di un bel pezzo di strada sanginetese, vi fu sì una ripresa, lenta, difficile, ma mai in grado di eguagliare i numeri di prima. Soltanto mera emulazione dell’emulazione dell’emulazione: i ventenni di oggi, per il poco che veda, sono enormemente diversi dai ventenni di vent’anni fa. Come lo eravamo noi rispetto a paninari, yuppie rampanti & coevi, come lo erano questi dai pionieri fortunati di quindici anni addietro.

    I disonori della cronaca

    Più di recente, Sangineto cadde pure temporaneamente nei disonori della cronaca: Angelo era un cane e fu ucciso a sassate da un gruppetto di giovani sciaguratelli del paese. Non so come sia finita la storia, mi auguro abbiano dovuto prestare servizio gratuito (e controllato) in qualche canile, come minimo. O costruire con le proprie mani un monumento al malcapitato. Ma ovviamente da questa faccenda sortì tutta una stupida stigmatizzazione generica: indirizzata ai paesani tutti, prima, poi ai calabresi tutti, poi ai meridionali, poi agli italiani, a seconda della voce narrante. Solita sindrome del giudizio facile.

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    La statua di Angelo nel rione Monteverde a Roma, vittima della stupidità umana come il cane a cui è dedicata

    Sangineto plurale

    È come se ci fossero due Sangineto: non il paese e la marina, no. Ma da una parte quella di luglio e agosto, e dall’altra quella degli altri dieci mesi. Nella prima non metto piede da una decina d’anni. Nella seconda torno appena posso. Perciò, sia chiaro, non c’è assolutamente nostalgia in ciò che leggete, anzi. Semmai un’autoaccusa, in un certo senso, sia della mia passata natura – seppur scettica – di villeggiante, sia del mio attuale (ab)uso di dimestichezza da finto residente.

    Torno nei momenti più impensabili, a perlustrare per controllare che sia ancora intatto l’abbandono totale di certi minuscoli paradisi rurali scampati alla cementificazione a suon di smottamenti e disoccupazione. Di frane ed emigrazione. E di una spolverata di colpevole ignoranza. Toponimi che non dicono più niente nemmeno ai figli di chi è rimasto. Nemmeno a chi è rimasto, a rimbambirsi per decenni davanti alla tv. Relitti di un equilibrio perduto, magari non magnifico ma funzionante.

    Varese, Venezia, Courmayeur

    I sanginetesi emigrati, che tornano per l’estate (se va bene), hanno accento di Varese, perché dagli anni ’60 in poi se ne sono andati lì a frotte. Ogni paese, al Sud, ha la sua testa di ponte al Nord. Per Sangineto è Varese. Per Belvedere fu Courmayeur (ebbene sì: fatevi un giro nelle campagne di Belvedere, contate quante vecchie auto vedete targate AO e non sorprendetevi. Le belle baite alpine e gli chalet in legno della Val d’Aosta sono opera dei boscaioli arrivati dai monti di Belvedere. Anche qui: farsene una ragione. Come gli ontani usati per le fondazioni di Venezia erano – anche – quelli di Buonvicino, sopra Diamante, ottimamente refrattari a infracidirsi).

    Il sentiero dei ricordi

    Ma torniamo a noi… Il signor Pasquale, per esempio, è emigrato a 15 anni. Ogni tanto torna giù. A marzo del 2020 c’è rimasto bloccato per la pandemia. Non sapendo cosa fare s’è messo a ripulire un sentiero che da bambino percorreva per andare alla cascata dentro la grotta, in mezzo al bosco, a due passi dal paese (la cascata del Vuglio delle Forge, ed ecco ancora i toponimi a indicare le attività artigiane di un tempo, come Le Crete, qualora non bastassero – sparsi per le campagne sanginetesi – sopravvivenze di qualche carcara o di carbonaie): il sentiero l’ha trovato abbandonato, infestato dai rovi.

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    La cascata del Vuglio delle Forge

    Oggi, falce in mano, alla cascata ci accompagna gli escursionisti (sii come il Signor Pasquale, verrebbe da dire). Mi racconta che tutto quel sentiero e quelle fattorie abbandonate erano, fino a 60 anni fa, un pullulare di famiglie, bambini, lavandaie al lavoro giù al torrente, contadini inerpicati su per i pendii. «La vedi quella casa lì?» – mi fa, indicandomi una meravigliosa masseria a mezza costa, che oggi mi pare un rudere raggiungibile solo da qualche capra acrobatica – «lì ci vivevano tre famiglie». Non di quattro componenti ciascuna, immagino. Ma di quelle otto/dieci unità dove per sfamarsi dovettero inventarsi pietanze come la “cieca”, d’una povertà agghiacciante: acqua calda e farina rappresa; o la ricotta fatta con latte tagliato col latticello dei fichi.

    Sangineto, terra di nessuno

    Sangineto fuori stagione ha l’aria di un set cinematografico abbandonato, terra di nessuno pur sapendo che di qualcuno è. Ridiventa simile a tanti certi posti magnificamente desolati che ho visto in Croazia come alle Canarie (con le dovute differenze, ovvio). O come Tristan da Cunha, dove non andrò mai: l’isola più isolata al mondo, ormai famosa proprio per questo. Si trova in mezzo al nulla, nell’Atlantico (non nel Pacifico, come si potrebbe pensare: lì ce ne sono troppe perché ognuna sia sufficientemente distante dall’altra).

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    Tristan da Cunha, indicazioni per raggiungere il resto del mondo dall’isola più sperduta del pianeta

    È un’isola fredda, non una di quelle isole tropicali da pubblicità. È un’isola ostile, con poche risorse e ben poco da fare. Un bar e, fino a poco tempo fa, un solo computer connesso a internet. La posta arriva poche volte all’anno e la città più vicina, Città del Capo, sta a tre giorni e tre notti di peschereccio, se non ricordo male. Vi abitano poche centinaia di persone, tutte discendenti di naufraghi. Anche di naufraghi italiani. Nei periodi storici in cui gli uomini da matrimonio scarseggiavano, le donne invocavano qualche nuovo naufragio. Ma quando arriva qualche mero curioso allora si barricano tutti dentro casa per paura delle malattie (hanno difese immunitarie debolissime).

    Silenzio

    Ecco, io preferisco interpretare Sangineto come una personale Tristan da Cunha, senza bisogno di dover viaggiare tanto. Atlantide, in un certo senso, esiste. Ed è in tutti i luoghi che dimentichiamo, o che non abbiamo mai neppure considerato. Magari dietro casa, quelli rimasti nel silenzio. Il silenzio, appunto. Una volta la signora del bar mi chiese «ma cos’è che ti piace tanto, di qua?”. «Il silenzio», risposi. E lei: «certe volte questo silenzio è così forte che non ti abitui mai». Muto, anch’io.