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  • Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Repubblica Rossa di Caulonia: falce, martello e sangue contro i latifondisti

    Degli sfruttati l’immensa schiera/

    La pura innalzi, rossa bandiera/

    O proletari, alla riscossa/

    Bandiera rossa trionferà.

    Una bandiera rossa garriva a Caulonia, seppur per un attimo. Quella che raccontiamo è una pagina poco nitida e menzionata della storia della Calabria, una vicenda maturata al termine della Guerra di Liberazione italiana, che, nella sua brevissima parabola, non rimase relegata ai circoscritti confini territoriali in cui ebbe luogo, ma si riverberò sul panorama nazionale.

    La Rivoluzione d’ottobre fa il bis

    6 marzo 1945. Mentre l’Armata Rossa prepara l’ingresso decisivo nella Germania nazista ed Evgenij Chaldej non sa ancora che fra poche settimane sul tetto del palazzo del Reichstag scatterà una delle fotografie più iconiche del secolo, in tutta Italia sono alle ultime battute le operazioni militari degli Alleati. L’intenzione è di formare un nuovo ordine nella Penisola precipitata nel marasma dopo la caduta del Fascismo, l’Armistizio di Cassibile, l’occupazione tedesca, la nascita dello stato fantoccio di Salò e la sanguinosa guerra civile.

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    La bandiera sovietica issata sul Reichstag nella più famosa foto di Evgenij Chaldej

    In questo scenario a dir poco caotico, a Caulonia, centro della Calabria sudorientale, scoppia una rivolta destinata ad aggiungere un capitolo nella cronistoria del centro che prende il nome dalla antica città magnogreca (fondazione achea dell’VIII secolo a.C.) di Kaulon (o Kaulonìa) che un tempo si credeva sorgesse entro i confini comunali dell’attuale Caulonia, prima delle scoperte archeologiche del primo Novecento che hanno attestato la corretta collocazione a Punta Stilo, nel territorio di Monasterace, circa quindici chilometri più a Nord.

    Falce e martello in un angolo di Calabria

    Il più esteso dei paesi della comunità montana Stilaro-Allaro-Limina, conosciuto come Castelvetere fino al 1863, all’epoca dei fatti contava una popolazione relativamente significativa, circa dodicimila abitanti, il doppio rispetto a quelli del XXI secolo, determinato dal progressivo abbandono del vasto centro storico partito negli anni ’50 del secolo scorso.
    In quei giorni di marzo del 1945 quello sconosciuto angolo della misterica Calabria – ulteriormente impoverita dalla guerra – balza agli “onori” della cronaca nazionale grazie al compimento di una sommossa sullo schema delle azioni criminali della Rivoluzione d’ottobre e successiva guerra civile nella Russia di circa un quarto di secolo prima.
    I moti, maturati negli ultimi giorni della stagione di sangue che culminò con la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, profittando quindi di una situazione sociopolitica oltremodo instabile, portano alla nascita della Repubblica Rossa di Caulonia.

    La Repubblica Rossa di Caulonia e gli scontri fra contadini e latifondisti

    Vessati dai latifondisti intenzionati a mantenere i propri privilegi anche in vista della nuova epoca oramai alle porte, i contadini di Caulonia decidono di unirsi e di insorgere contro i potenti padroni.
    La scintilla che fa scattare la rivolta è l’arresto del figlio del sindaco del paese, reo di avere rubato presso una proprietà di un notabile della zona. È vero, però, che l’arresto del giovane è soltanto il più classico casus belli, ché il clima nel paesino dell’odierna provincia di Reggio Calabria ribolliva da tempo. Già nel 1750 i braccianti di Castelvetere erano stati protagonisti di una insurrezione contro i Carafa, famiglia dominante dell’area. Negli anni susseguenti alla Grande Guerra, poi, si era registrato qualche nuovo acceso scontro.

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    Contadini al lavoro nei campi (Archivio Istituto Luce)

    Soprattutto, però, è dopo l’8 settembre che gli attriti fra contadini e possidenti, ovverosia fra braccianti rossi e agrari neri, si inaspriscono: ribelli comunisti si macchiano di aggressioni, convinti di potere usare violenza in quanto aderenti alla “giusta” lotta contro i fascisti. Emblematico è l’agguato che vede vittima il curato don Giuseppe Rotella, assalito e bastonato a sangue perché si permette di biasimare la brutalità dei rivoltosi.

    Pasquale Cavallaro issa la bandiera sul campanile

    Capopopolo della sollevazione di Caulonia è Pasquale Cavallaro, classe 1891, sindaco comunista del centro del Reggino, uomo di discreta cultura e grandi capacità oratorie, già oppositore del regime di Mussolini e pertanto confinato per circa quattro anni sulle isole carcere di Ustica e Favignana.
    Descritto come uomo ardito e inquieto, dai personali principi saldissimi, incentrati sulla “defascistizzazione pacifica” del suo paese, quel 6 marzo 1945 Cavallaro occupa l’ufficio delle poste e le caserme dei Carabinieri reali e delle guardie forestali, per poi proclamare la nascita della repubblica filocomunista issando sul campanile della chiesa la bandiera rossa con falce e martello.

    Eugenio Musolino
    Eugenio Musolino

    Già le primissime fasi della “conquista del potere” sono oggetto di discussioni. Uno dei protagonisti politici di quella stagione, Eugenio Musolino (segretario comunista e poi parlamentare del Pci dal ’48 al ’58, nonché membro dell’Assemblea Costituente), inviato sul posto perché chiarisse cosa stesse accadendo nel centro jonico e mediasse una rapida risoluzione della faccenda, riporta nel libro La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? che il sindaco rivoluzionario si era in parte ritrovato nel turbine dei tumulti a causa dell’incontenibile desiderio insurrezionale dei due figli.

    La Repubblica Rossa di Caulonia: caccia ai fascisti

    Quel giorno un gruppo di migliaia di contadini e operai sfruttati dell’are si unisce. I numeri non sono precisi: alcuni parlano di tremila, altri, fra i quali lo stesso Pasquale Cavallaro, addirittura di diecimila unità fra caulonesi e altri braccianti (fra cui anche centinaia di donne) provenienti dai vicini comuni di Camini, Stignano, Placanica, Monasterace, Riace e Nardodipace.
    Accade, però, che la necessità di ribellarsi alle soperchierie storiche dei proprietari terrieri, sul modello di un sistema feudale difficile da intaccare e rimasto praticamente immutato a Caulonia, come in altri angoli isolati del Mezzogiorno, si trasforma immediatamente in una sommossa segnata dalle violenze e dalle vendette personali, regolamenti di conti non soltanto contro i “nemici” fascisti.
    Contando sulla protezione delle montagne sovrastanti, nella Repubblica di Caulonia si alzano barricate, i compagni armati di fucili e mitraglie presidiano le porte del paese e le colline intorno, minano alcuni ponti verso la marina.

    L’umiliazione dei “nemici del popolo”

    I tumulti vengono soffocati già il 9 marzo, ma durante le quattro giornate di Caulonia si assiste a scene mostruose in cui numerosi notabili del paese vengono oltraggiati e torturati dagli insorti e alcune donne sono stuprate con la inammissibile scusante della libertà dei popoli oppressi. I nemici del popolo vengono processati sommariamente da un tribunale del popolo e le umiliazioni pubbliche ai danni di sostenitori dei fascisti, reali o presunti, si succedono. A pagare il prezzo più alto è soprattutto il parroco Gennaro Amato, amico d’infanzia del Cavallaro e simbolo di un mondo che i cosiddetti “mangiapreti” intendono distruggere. Ucciso dall’esercito popolare all’alba della sommossa, il prelato è la sola vittima sulla coscienza della Repubblica Rossa di Caulonia.

    Per quattro giorni l’euforia e il terrore corrono per le stradine del centro agricolo. Infine è l’arrivo della polizia di Reggio Calabria a sedare la ribellione, già affievolitasi con il manifestarsi delle violenze più belluine, chiaramente disapprovate da gran parte della comunità. Il dissociarsi della brava gente di Caulonia non è la sola ragione che porta alla conclusione della parentesi anarchica. Ce ne sono almeno altre due che portano al fallimento, pratico e ideologico, la rivolta della Repubblica caulonese: i ribelli non trovano né il sostegno dei dirigenti provinciali del Pci, né tantomeno l’approvazione della malavita locale, entità che, nel bene o nel male, avrebbero potuto dare consistenza al golpe abortito di Cavallaro e compagni.

    La Repubblica rossa di Caulonia a processo

    Il sindaco/presidente della Repubblica si dimette il mese successivo, le bandiere rosse vengono strappate dai tetti delle abitazioni e circa trecentocinquanta fra i più feroci rivoluzionari di Caulonia sono arrestati con l’accusa di costituzione di bande armate, estorsione, usurpazione di pubblico impiego, violenza a privati e, in ultimo, di omicidio, per l’assassinio del parroco Amato.
    Al processo partito nel marzo 1947 alla Corte di Assise di Locri, per la quasi totalità degli imputati non si procede perché i reati sono dichiarati estinti a causa della controversa amnistia (decreto presidenziale numero 4 del 22 giugno 1946) proposta dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, storico segretario generale del Pci.
    Solamente Pasquale Cavallaro e i due assassini materiali dell’omicidio Amato sono condannati a otto anni di reclusione.

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    Il tribunale di Locri oggi

    Un esempio di liberazione dal servilismo

    «Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti. Questi erano i miei intendimenti precisi, chiari, inequivocabili. […] Fatto sta che a Caulonia si è dato un grande esempio, l’esempio della liberazione del servilismo».
    È un estratto dell’intervista di Pasquale Cavallaro con Sharo Gambino, scrittore, giornalista e intellettuale meridionalista, contenuta nel volume succitato La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita?, che raccoglie scritti di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Vincenzo Misefari e Eugenio Musolino relativi alla Repubblica Rossa di Caulonia.

    Episodio campale della sequenza di ribellioni delle classi oppresse del Sud Italia che negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso lottarono contro le vessazioni dei latifondisti e per la distribuzione delle terre incolte e una legittima riforma agraria, il caso della Repubblica Rossa di Caulonia del ’45 è di fatto scivolato nell’oblio, trovando appena qualche eco nei racconti popolari tramandati per via orale.

    Una piazza per ricordare la Repubblica Rossa di Caulonia

    Recentemente è stata avanzata la proposta di dedicare una piazza a quella rivolta popolare, pare, al tempo, encomiata anche dallo stesso Iosif Stalin, leader del più potente partito comunista del globo, e, negli anni, da taluni riconsiderata, in maniera a dir poco acrobatica, come antipasto della Repubblica italiana. Comunque sia, i propositi celebrativi si sono scontrati con chi invece considera quella breve parentesi, forse troppo mitizzata, certamente contraddistinta da punti tutt’oggi oscuri e di una ricostruzione lacunosa, una pagina da dimenticare considerate le azioni violente esercitate nel corso delle quattro giornate e pure il numero dei contadini puniti successivamente al ripristino dell’ordine.

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    Stalin, segretario del PCUS negli anni dell’insurrezione calabrese

    Per approfondire meglio la complicata storia del governo rosso di Caulonia esiste una ampia e sfaccettata letteratura. Segnaliamo alcuni altri testi: In fitte schiere. La repubblica di Caulonia di Sharo Gambino (Frama Sud), La Repubblica di Caulonia di Simone Misiani (Rubbettino), Cavallaro e la Repubblica di Caulonia di Giuseppe Mercuri (Vincenzo Ursini Editore), Operazione “Armi ai partigiani”. I segreti del Pci e la Repubblica di Caulonia di Alessandro Cavallaro (Rubbettino) e La Repubblica di Caulonia tra omissioni, menzogne e contraddizioni di Armando Scuteri (Rubbettino).

  • Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Eranova, cronaca (e romanzo) di un assassinio di Stato

    Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
    Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
    Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
    La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.

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    La Piana di Gioia Tauro

    Eranova, il paese profumato di zagara

    Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
    Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
    Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Eranova: l’origine del disastro

    Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
    Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.

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    Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli

    La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.

    Mille miliardi gettati al vento

    Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.

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    I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)

    Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
    Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
    Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.

    Il disastroso impatto ambientale

    Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
    Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.

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    Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo

    Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
    Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.

    Un memento per i calabresi

    L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.

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    Lo scrittore Carmine Abate

    Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.

  • GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    GENTE IN ASPROMONTE | A spasso nel tempo: quando il trekking insegna il passato, ma senza cliché

    In questo mio vagare per la Montagna, mi sono chiesto più volte se ci fosse un modo corretto di raccontarla e, se sì, quale fosse. Dopo un anno di peregrinare, portato a volte dalla casualità, altre dal passaparola, altre ancora da contatti che avevo o che sono arrivati, mi sono accorto che il modo più giusto era quello dettato assieme da intuito, curiosità e flusso. E con flusso intendo la capacità di farsi trasportare verso un apparentemente noto in grado di farsi ignoto. Ripulendosi, in un certo senso, gli occhi e la bocca, per tutto quanto, pur guardandolo, non era stato visto. Pur udendolo, non era stato ascoltato. Pur contemplandolo, non era stato colto. Perché, crogiolandosi nella familiarità di schemi cognitivi confortevoli, che consentono di inferire sommariamente risparmiando energie, spesso ci si accomoda. Ma tale comodità ha un prezzo alto: lo stereotipo.
    Chi invece si è battuto contro questa tendenza che spesso porta ad oscillare tra sciovinismo e manicheismo non è né un ritornato, né un restato. Ma un arrivato. Che poi, a modo suo, è diventato un ritornante e con il quale ho condiviso diversi momenti, più o meno lunghi, di confronto e riflessione: il generale Giuseppe Battaglia.

    Storia e geografia

    Oggi consulente presso la Commissione Europea, emiliano di origine, è un uomo di legge e di passioni. «Sono stato assegnato al Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria per un caso fortuito. La mia destinazione doveva essere Milano. Ho obbedito ai comandi e mi sono ritrovato in una terra inaspettata e sorprendente, dove ho avuto la fortuna di incontrare l’Aspromonte e i suoi sentieri. L’ho battuto palmo a palmo, vivendolo e respirandolo, ora per lavoro ora per diporto. Il primo alimentava il secondo e viceversa. Appena posso, vi torno sempre. Per quanto abbia girato, non ho mai scovato altrove ciò che ho trovato in Aspromonte: una terra primordiale, selvaggia, ancorata a un’antropologia, a tradizioni e a culture complesse che troppo facilmente sono state etichettate».
    Grande appassionato di alpinismo, esploratore e viaggiatore, per il generale tutto ruota attorno un concetto semplice: «La geografia viene prima della storia, la plasma e l’ha sempre indirizzata. È così che l’Aspromonte deve essere osservato e analizzato». Col generale ho camminato, ho viaggiato e ho anche affrontato l’esperienza di Polsi che tratterò nella prossima puntata.

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    Antonio Barca con la moglie Marie Therese Italiano

    Siamo al rifugio Il Biancospino, gestito da altri due pezzi da novanta, Antonio Barca e la moglie Marie Therese Italiano: uno dei luoghi incantati della Montagna, nascosto tra i Piani di Carmelia nel territorio di Delianuova. Lo ha costruito a mano lo stesso Antonio, pezzo dopo pezzo. In occasione della presentazione del libro Guida all’Aspromonte misterioso – Sentieri e storie della montagna arcaica si è radunata una piccola folla di appassionati. Battaglia ne è l’autore insieme ad Alfonso Picone Chiodo, scrittore, fotografo, ricercatore, trekker, alpinista, agronomo. Restato di questa puntata, primo tra i primi camminatori degli anni Ottanta e tra i primi a intravedere le opportunità di questo territorio.

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    La copertina del libro scritto da Battaglia e Picone Chiodo

    La Calabria brutta e cattiva

    «Tornare qui a fare questa presentazione è una fortissima emozione. Si tratta del luogo in cui sono stato accolto come un pellegrino. Perché – inizia Battaglia – pellegrino lo sono stato davvero. La mia storia è cambiata nel 2017, l’anno della riunificazione del Corpo Forestale dello Stato coi Carabinieri. Durante la ricerca di alcune piantagioni alcuni operai forestali si persero in località Ferraina, piena zona A del Parco. Un caso molto imbarazzante per il Comando Generale a un mese dall’accorpamento. Anche perché si trattava del comune di Africo, stereotipo della Calabria brutta e cattiva. Durante un viaggio col Comandante Generale che stava assegnando le destinazioni dei provinciali (comandanti, ndr.), quegli si ricordò che sono un alpinista: da Milano mi dirottò a Reggio Calabria, dove c’era tutto un territorio da esplorare e serviva gente esperta. A distanza di anni mi colpisce ancora che, dalle prime ricerche che effettuai per documentarmi su un territorio a me ignoto, emerse una narrazione nera. Negativa. Nemmeno il sito dell’Ente Parco conteneva informazioni aggiornate».

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    Il generale Giuseppe Battaglia

    Drammatica bellezza

    «Il mio primo giorno di incarico, il 5 ottobre, lo trascorsi a Polsi – prosegue Battaglia – dove c’era la chiusura dell’anno liturgico. Chi conosce i luoghi sa quanto lunghe e impervie siano le uniche due strade che arrivano al santuario. Fu un’epifania. Non facevo altro che fermarmi per potere scattare delle foto. Il mio primo contatto diretto con l’Aspromonte si consumò all’insegna di una drammatica bellezza. Iniziai poi un’attività di esplorazione sistematica di tutte le stazioni, dalle alture al mare, constatando che ogni vallata aveva una storia peculiare, diversa dall’altra. Avevo bisogno di battere quelle vaste aree palmo a palmo per potere operare. Mi resi conto di due cose: constatai quanto complesso e articolato fosse il territorio di Reggio ed ebbi la conferma che ogni cosa – nel bene e nel male – aveva una sua radice geografica. Se una certa famiglia aveva tenuto cinque sequestrati nel suo territorio, non era un caso: quel nucleo gestiva una determinata porzione di territorio ben noto che gli consentiva di latitare e di tenere sotto diretto controllo i rapiti».

    La Guida ai sentieri dell’Aspromonte

    È una giornata di metà autunno. Il tempo non si decide a volgere al meglio o al peggio e resta sospeso. Frescheggia nonostante sia l’ora di pranzo. Nell’ampio giardino del rifugio Teresa e Antonio hanno allestito un salottino con sedute rustiche e comode. Alla chetichella, alla presentazione arrivano invitati e avventori. Si presenta, in omaggio al generale, anche un manipolo di carabinieri.

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    Carabinieri al rifugio Il Biancospino per la presentazione del libro

    «L’idea e la nascita di Guida all’Aspromonte Misterioso – Sentieri e Storie di una montagna arcaica – derivano dall’incontro mio e di Alfonso. Come Arma dei Carabinieri avevamo già avviato delle pubblicazioni storiche che racchiudevano quanto acquisito nei nostri archivi a livello provinciale e centrale sulle vicende che avevano coinvolto questi luoghi negli ultimi 60 anni. Con Alfonso abbiamo poi ragionato sulla possibilità di prendere questo materiale, isolare determinati episodi contenuti in quegli archivi e nei verbali e associarli a itinerari escursionistici. L’obiettivo era quello di liberare questa montagna da uno stereotipo negativo collegato a fatti storici criminali, senza tuttavia negarli. Ossia associare la parte escursionistica positiva, rappresentata da un pioniere come Alfonso, a una memoria, in modo che l’Aspromonte di oggi possa essere percorso, sia con la consapevolezza di ciò che è avvenuto, sia con la sicurezza e la libertà di un nuovo corso. Senza negare quanto accaduto né il sacrificio dei tanti carabinieri e civili vittime della criminalità, ma celebrando questa nuova vita nella bellezza», mi spiega Battaglia.

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    Il tavolo dei relatori alla presentazione del volume. Da sinistra: Alfonso Picone Chiodo, Francesco Bevilacqua, Michele Albanese, Giuseppe Battaglia e don Pino De Masi

    Un modo di chiudere i conti con la storia e di operare una rifondazione che – continuano in coro gli autori – «fa soprattutto parte di una più ampia operazione di liberazione: agevolare e promuovere la frequentazione di questi luoghi, restituendoli alle persone per bene e sottraendoli ai simboli e al malaffare delle organizzazioni criminali».

    Comprendere l’Aspromonte attraverso i sentieri

    In effetti il volume è una guida per i camminatori e al tempo stesso deposito di memorie che segnano la storia della montagna dall’Ottocento fino ai nostri giorni: 17 itinerari e 124 fotografie suddivisi in cinque parti in cui gli autori compongono affascinanti percorsi escursionistici lungo i sentieri dell’Aspromonte, più o meno lunghi e complessi, sulla falsariga delle storie e degli uomini che li hanno attraversati o contraddistinti. Dal brigantaggio, sulle orme di Giuseppe Musolino, ai primi fenomeni di ‘ndrangheta ambientati tra Pentedattilo, Montalto e Casalnuovo, fino alla lotta dello Stato contro la criminalità e ai luoghi della stagione dei sequestri. Tra boschi, asperità, pendici di origine alpina e vie di fuga. Un percorso per fare un viaggio tra storia, legalità e nuove opportunità relative al circuito di trekking, sport di quota, torrentismo, canoying e ospitalità.

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    Il brigante Musolino

    «Era per noi essenziale legare l’ambiente ai fatti che vi sono avvenuti. Storie di successi e sconfitte per lo Stato, come nel caso di Musolino. Difficoltà. Quelle che oggi l’escursionista incontra sono le stesse che hanno affrontato i carabinieri nel cercare il fuggitivo e ancora le medesime che utilizzava il fuggitivo per nascondersi. E solo in questo gioco di specchi e immedesimazioni, solo recandosi, camminandoci sopra, si può comprendere cosa sia avvenuto in questo teatro remoto e brulicante, in termini di sentimenti, modo di operare, errori, fortune, successi di chi ci ha vissuto. Dove il Luogo ha determinato la dinamica di certi episodi. Questa è la chiave per comprendere l’Aspromonte nella sua integrità», spiegano Battaglia e Picone.   

    La Montagna liberata

    «Abbiamo voluto coinvolgere anche Libera, cui andranno devoluti gli introiti dei diritti di autore e a cui abbiamo affidato la prefazione del volume, nella persona di Don Luigi Ciotti. Da antesignano escursionista sono testimone di come quell’atto del camminare in luoghi ritenuti pericolosi e malfamati a ridosso della stagione dei sequestri abbia contribuito a liberare questa montagna e a trasformarla in vera risorsa, anche a partire dall’istituzione del Parco Nazionale. Un progetto allora impensabile in cui in pochi credevamo ma che ci ha dato ragione, se oggi i sentieri dell’Aspromonte sono battuti da migliaia di escursionisti», continua Alfonso che è anche autore del noto blog L’Altro Aspromonte, una miniera di informazioni e ricerche sulla Montagna e fondatore della Coop Nuove frontiere, prima realtà eco-turistica nel meridione.

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    Alfonso Picone Chiodo, tra i principali esperti dei sentieri in Aspromonte

    Anche lui ha trascorso un pezzo della sua vita a battersi contro gli stereotipi. È stato tra coloro che hanno creduto di poter riscattare un territorio coniugando legalità ed escursionismo. Insieme a Sisinio Zito – socialista con importanti ruoli di governo che creò le premesse legislative per la nascita dell’area protetta – e Guido Laganà, ex assessore regionale al Turismo, ha promosso la creazione del Parco Nazionale a partire dalla realizzazione di un pezzo del Sentiero Italia in Aspromonte, avviando, tra le altre cose, contatti con tour operator stranieri.

    La trappola della legalità

    La liberazione dei luoghi, la loro restituzione a quella parte di comunità sana, l’impegno a rigenerarli attraverso l’avvio di processi di rinascita, riscoperta o sviluppo è lo strumento per evitare quella che il generale Battaglia definisce «trappola della legalità»: un certo oltranzismo nell’applicazione pedissequa di regole e norme in assenza delle necessarie e commisurate risorse a garanzia della sostenibilità di una tale operazione. Solo per scaricarsi da certe responsabilità. Cadere preda di questa trappola castra il principio stesso di legalità, ponendo divieti senza potersi occupare di – o avere le condizioni per – effettuare i dovuti controlli. Inducendo così nelle popolazioni coinvolte la chiara consapevolezza che si tratti solo di divieti formali che possono essere violati allegramente, quando così non è. Comunità e luoghi da tutelare allora rischiano di diventare vittime vulnerabili, perché privati di opportunità di sviluppo e tutela realmente ed oggettivamente sostenibili.

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    L’antropologo Vito Teti

    Sono quegli stessi luoghi – per dirla con le parole di Vito Teti – che non sono solo «articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio, luogo antropologico in senso lato in quanto abitato, umanizzato e riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che se ne sentono parte e che, nell’essere parte di una storia che ha a che fare con noi stessi, ci interroga ancora tutti: restanti ritornanti e partiti».
    Luoghi che, in quanto tali, sono il nucleo di vita, memoria, riconoscimento, speranza, visione, sperimentazione. Nonostante la propaganda che li ha umiliati, la dignità che è stata sottratta e lo stereotipo che li ha fagocitati.

  • Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
    Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.

    Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
    Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.

    Come sta andando?

    «Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».

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    La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico

    In che senso?

    «Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».

    Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?

    «Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commedia Final Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».

    Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…

    «E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».

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    Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria

    Una lettera scarlatta?

    «Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».

    Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…

    «Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».

    Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.

    «L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».

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    Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro

    Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.

    «A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».

    Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.

    «Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».

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    Rocco Carbone

    Ossia?

    «Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».

    Che Calabria racconta Vins Gallico?

    «Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.

    Corrado Alvaro

    In che senso?

    «Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».

    Questa speranza è finita?

    «Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».

    Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?

    Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».

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    Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria

    Cos’altro bolle in pentola?

    «Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascolto promosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».

  • Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    «C’è qualcuno che crede davvero, seriamente, che le conseguenze dei negoziati di pace finora abbiano assicurato la pace eterna?».
    Appaiono incredibilmente attuali le domande che si poneva un anonimo commentatore subito dopo la fine della Prima guerra mondiale. Domande che probabilmente facevano parte di quel dibattito pubblico che, al tempo, tentava di individuare una sorta di cammino comune per ciò che già si chiamava Europa.

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    La Cornell University

    Oggi sappiamo che c’è voluta un’altra guerra mondiale – oltre ad innumerevoli conflitti interni e minori – prima di arrivare alla moderna concezione di Unione Europea, già immaginata in quel progetto di Paneuropa abbozzato nel 1922 per contrastare i totalitarismi militari e le “vendette” tra popoli vicini.
    Eppure, dopo la fine del primo conflitto mondiale (che provocò tra i 15 ed i 17 milioni di morti civili e militari) dovevano essere in molti ad avere una propria ricetta per la pace.
    Nel 2017 la Cornell Univesity di Ithaca ha digitalizzato e pubblicato un documento conservato per quasi un secolo tra i loro archivi. Si tratta di una mappa del 1920, nella quale si ipotizzava un articolato e bizzarro piano per la “pace duratura” in Europa, in cui l’Italia viene addirittura divisa in quattro parti.

    La mappa di Maas

    Il foglio, 60×80 centimetri, venne realizzato da un anonimo P. A. Maas (ipotizzato come Philippe André Maas, figlio del tipografo Otto Maas operante in Vienna). La mappa fa parte di un opuscolo di 24 pagine, intitolato The Central European Union! A guide to lasting peace nel quale l’autore ipotizza una nazione “divisa ma unita” che ha come fulcro il Duomo di Santo Stefano a Vienna.
    Nel testo del libretto (che purtroppo non è stato digitalizzato, ma solo parzialmente trascritto) viene dunque ipotizzata una primordiale unione (Einheitsstaates, ossia “stati uniti”) nella quale convivono pacificamente 4 popoli – romani, germani, slavi e magiari – suddivisi in 24 cantoni, che prendono il nome dalle rispettive capitali del tempo.

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    La nuova Europa suddivisa in 24 cantoni nella mappa custodita dalla Cornell University

    Un modello “federale” imperniato su una visione decisamente austro-ungarica del continente, che si differenzia da tante altre mappe del tempo per l’inusuale quanto insolita suddivisione conica (potremmo definirla a fette) difficilmente attuabile nella realtà. Ma di fondo, si tratta di un’utopia, che prevedeva – tra le altre cose – l’uso dell’esperanto come lingua principale.

    Europa in pace: l’Italia (e la Calabria)

    Già a vista d’occhio, la mappa presenta dei dettagli anomali. Ad esempio, non fanno parte dell’unione la Spagna ed il Portogallo, né la Bulgaria, la Grecia o la “Serbia-Albania”. Escluse anche Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Gran Bretagna ed Irlanda, così come tutta la Russia. Indicato anche l’Hebraisches Reich in corrispondenza dell’odierna Israele, oltre a numerose zone neutrali.
    Anche l’Italia è sostanzialmente esclusa dall’unione: presente solo il cantone di Milano (che comprende grossolanamente l’area dell’odierna Lombardia, del Piemonte e della Valle d’Aosta). Il resto della penisola coinvolta (comprendente Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, parte di Toscana) rientra nel cantone di Marsiglia.

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    Le quattro Italie nella mappa di Maas

    Tutto il resto del bel paese, fino ai confini del Pollino in Calabria, è identificato come Kirchenstaat, e dunque lo Stato della Chiesa o dei papi. La Sardegna invece è associata alla Spagna, e dunque al di fuori dell’unione a differenza della Corsica.
    Che succede invece oltre il Pollino? Nella nuova Europa finalmente in pace l’enigmatico autore ha riunito la Calabria e la Sicilia alla Grecia, territorio che comprende anche l’isola di Creta (all’epoca ancora nota con il nome della sua antica capitale, Candia) ma non l’isola di Malta.

    Rivalse cartografiche?

    Una visione audace, in un certo senso, dettata da un accomunamento storico o mossa da differenti ambizioni? L’Italia era unita già da 59 anni, ma nell’idea dell’autore è stata “scomposta” riproponendo una divisione simile, seppur differente, a quella preunitaria. Parte dell’ex regno borbonico dunque non venne neppure inclusa nello stato ecclesiastico, ma addirittura associata alla Grecia.
    Bisogna notare infatti che nella mappa realizzata da Maas vi sono alcuni “stati cuscinetto” che proteggevano il confine a sud dell’ipotizzata unione. Mentre sul fronte spagnolo e sul fronte russo si disegnano delle linee militari, a separare la Grecia (ma anche la Turchia) sono tre stati autonomi, che di fatto rappresentano un’ulteriore barriera: un modo per limitare nuove invasioni da sud?

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    Soldati italiani con la divisa asburgica durante la Grande Guerra: decine di migliaia di altoatesini combatterono per il Kaiser durante la Grande Guerra

    Per quanto riguarda il Sud Italia, invece, si può ipotizzare una sorta di “rivalsa” a seguito del comportamento ambiguo ed ambivalente che i Borbone tennero proprio nei confronti del regno austriaco: sebbene Francesco II trascorse i suoi ultimi anni anche a Vienna, era ancora vivo il ricordo della guerra mossa da Ferdinando II, per volere del primo governo costituzionale del Regno delle Due Sicilie.
    Ciò avvenne nonostante gli storici legami di parentela con la corona austriaca, e dopo secoli di avvicendamenti e conquiste reciproche. Ma parliamo di una mera ipotesi: non è da escludere infatti che l’autore abbia voluto semplicemente accomunare un territorio già noto al tempo come Magna Græcia con quella che riteneva essere la sua vera patria.

    La Mitteleuropas

    Ad ogni modo, non bisogna guardare questa mappa con sospetto, né ipotizzare moderne concezioni di razzismo. L’originale disegno di Maas infatti rientra a pieno titolo nella logica del tempo, quando l’idea di Europa centrale era differente rispetto ad oggi.
    La “mitteleuropas” infatti comprendeva originariamente le regioni tra i fiumi Reno e Vistola, ed oggi si estende tra Germania, Svizzera, Polonia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e Liechtenstein. La Francia ed il Regno Unito fanno parte dell’Europa occidentale, mentre Portogallo, Spagna ed Italia di quella meridionale.
    Il concetto di Mitteleuropa era molto importante anche prima della guerra, in quanto – di fatto – riguardava due regni: quello tedesco e quello austro-ungarico, che volevano porsi entrambi come baricentro dell’unione e dei suoi equilibri. Equilibri non solo umani e sociali, ma anche (se non sopratutto) economici.

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    1916, il generale Toshev e Hilmi Pasha osservano la battaglia nei dintorni di Medgidia (archivio Toshev)

    In tal senso, si tendeva dunque a disegnare un’area di influenza (o di egemonia) proprio in base alle etnie, che al tempo si usava dividere sommariamente per lingua, costumi, religioni ed usanze. Nel corso degli anni l’Europa centrale si è poi ingrandita fino a comprendere altre regioni storiche, arrivando alla massima espansione ipotizzata dallo stesso Maas nella sua mappa.
    Quella che ci troviamo di fronte, dunque, è la raffigurazione di un’idea probabilmente molto diffusa al tempo: l’idea di un’unione necessaria per la pace. Ma è pur sempre un’idea parziale, nata e sviluppata in quello che al tempo era il centro di un’Europa oggi molto più grande.

    La Calabria nella nuova Europa in pace

    Fa comunque riflettere il fatto che, per arrivare alla tanto agognata pace in Europa, fosse necessario addirittura escludere interi paesi e che in questo intricato scacchiere internazionale abbiano trovato un posto addirittura singole regioni, come la Calabria. Come se già al tempo fosse percepita come una realtà distante e addirittura distaccata dalla nascente unione.
    Almeno nelle intenzioni di un anonimo mappatore viennese.

    Francesco Placco

  • Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto: un nome che a Cosenza dice poco a molti, ma pure qualcosa a tanti. Una via a suo nome, lì dove per anni ha avuto sede una delle principali e più longeve case massoniche in uso alla compagine locale del Grande Oriente d’Italia.
    Una loggia a suo nome, e una delle più prestigiose e datate: più esattamente la “Bruzia – Pietro De Roberto 1874 n. 269”, che tra pochi mesi festeggerà i 150 anni di lavori. Conteggio ovviamente approssimativo, che non conta cioè il ventennio di inattività dovuto alle leggi fasciste. Fu infatti soltanto nel dicembre del 1943 che la loggia si poté risvegliare, grazie alla determinazione del Venerabile Samuele Tocci e di Alessandro Adriano, del pediatra mazziniano Mario Misasi, del medico antifascista Giuseppe Santoro, di Vittorio Tocci nonché di Emilio e Giovanni Loizzo.

    La Loggia Bruzia – Pietro De Roberto

    La Loggia Bruzia–Pietro De Roberto ne aveva passate, insomma, di cotte e di crude, e senza contare i trasferimenti fisici da Casa Tocci ai locali – ormai non più esistenti – di proprietà dei fratelli Loizzo in via Cesare Marini e poi in quelli di via Guglielmo Tocci. Proprio durante la prima convocazione straordinaria, dopo 18 anni di imbavagliamento fascista, il Venerabile Tocci diede lettura dell’ultimo verbale, quello del 18 settembre 1925, e aggiunse una raccomandazione nuova di zecca: «È necessario intanto combattere ogni attività estremistica ed impedire il dilagarsi del Partito democratico cristiano, che vorrebbe ripetere la nefasta attività del Partito popolare». Buona intenzione disattesa, alla luce dell’ormai documentato equilibrio catto-massonico che resse Cosenza nel secondo dopoguerra.

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    Sigillo della prima Loggia Pietro De Roberto n. 269

    Un rivoluzionario al governo

    Ma torniamo a Pietro De Roberto, che alla loggia – e alla via – dà il nome. Non un Carneade qualsiasi: nacque a Cosenza, il 1° giugno 1815, in una casa di Strada Santa Lucia, dal Consigliere d’Intendenza Francesco (poi magistrato) e da Nicoletta Guarasci.
    Trasferitosi a Napoli, dove conseguì la laurea in Medicina, aderì lì alla Giovine Italia, alla Carboneria locale. Lo perseguitò, pertanto, la polizia borbonica. Dopo un tentativo di sommossa a Cosenza, partecipò ai moti del ’48, che gli costarono quattro anni di carcere «per attentati volti a distruggere e cambiare il Governo ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità» nonché «per aver senza diritto o motivo legittimo preso il comando delle Guardie Nazionali». Per tutta risposta, quando Garibaldi nominò Governatore della Provincia Donato Morelli, quest’ultimo chiamò proprio De Roberto a prendere parte al Governo Provvisorio.

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    L’atto di nascita di Pietro De Roberto

    Pietro De Roberto «sindaco perenne»

    Fu così consigliere provinciale per il mandamento di Cosenza: in occasione delle elezioni suppletive comunali di Cosenza del 1886 – dovute alle dimissioni del sindaco Clausi – il giornale La Sinistra auspicò la creazione di una lista guidata proprio dal medico, candidandolo contrariamente al suo stesso parere a «sindaco perenne», per «l’onorabilità  della vita e la fermezza del carattere».
    Pietro De Roberto tuttavia rifiutò poiché non concepiva il cumulo delle cariche, così come in passato aveva rifiutato la candidatura al Parlamento dichiarando di non possedere le virtù indispensabili a un legislatore e di non avere i mezzi per vivere nella capitale.

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    Nello stesso 1886 si trovò però assieme ad altri massoni – compreso il futuro senatore Nicola Spada – tra i fondatori della neonata succursale della Banca Agricola in Piazza piccola. Pietro De Roberto era appartenuto infatti alla loggia cosentina Pitagorici Cratensi Risorti e, il 7 ottobre 1874, aveva fondato, assieme ad altri fratelli della stessa, la loggia Bruzia, laddove si sarebbero affrontati con impegno i problemi dell’educazione elementare e di quella domenicale per le donne, dell’educandato femminile, della polizia urbana, dell’annona, delle società  e scuole operaie, di un dispensario gratuito per i poveri e finanche della fondazione di un Gabinetto di lettura come mezzo di lavoro e propaganda.
    Nel biennio 1888-1889 risulta Venerabile, e di grado 33°, della stessa loggia.

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    Brevetto di Maestro rilasciato dalla Loggia Bruzia e firmato dal venerabile De Roberto

    Pietro De Roberto morì il 2 aprile 1890. Lo commemorarono nella sala dell’Istituto Tecnico cittadino mentre le sue esequie si svolsero in forma civile: «Aprivano il corteo le società  operaie, seguivano i Fratelli delle due logge cittadine con i labari, le Scuole, i Consiglieri Comunali e Provinciali, le autorità  militari e civili. La bara fu portata dai Maestri Venerabili della Bruzia e della Telesio, e dal Presidente del Consiglio Provinciale. Il corteo, dopo aver attraversato la città fra la più profonda commozione, si fermò presso il Palazzo dei Tribunali, dove il De Roberto fu commemorato dal Sindaco e dal Presidente della Provincia».

    Il monumento a Pietro De Roberto

    L’inaugurazione del busto in memoria di Pietro De Roberto, opera di Giuseppe Scerbo, scultore massone reggino, dell’ingegnere Marino e del geometra Prato, fu inaugurato nel cimitero di Cosenza il 3 novembre 1890, con un discorso di Giacomo Manocchi, tesoriere della loggia Bruzia  (e, in quel biennio, di grado 18°) nonché pastore valdese impegnato nell’evangelizzazione nelle cittadine di Corigliano, Altomonte, Lungro, S. Sofia d’Epiro, S. Demetrio Corone, e Vaccarizzo Albanese.

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    Simboli massonici sul basamento del busto funebre di Pietro De Roberto (foto L.I. Fragale)

    Sul monumento spiccano piccole figure esoteriche sui quattro lati del basamento: le insegne del Rito Scozzese Antico e Accettato, poste frontalmente; una squadra assieme ad un serpente accollato al maglietto e a un piccolo destrocherio di scalpellino; le insegne del 33° grado; infine, squadra e compasso in grado di Compagno (e non, come sarebbe stato più corretto, in grado di Maestro) accompagnate da un teschio accollato a una tibia e trafitto da un pugnale.
    Il basamento riporta la seguente epigrafe di mano del cavaliere Zanci: «Pietro De Roberto 33 / nei moti / pel civile riscatto / uno de’ primi / cariche ed onori / sdegnando / menò vita povera / esempio ai posteri / di antica virtù».

  • Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Il cinema, fin dalle sue origini, ha portato sul grande schermo le storie del sogno americano inseguito anche da milioni di italiani. Il teatro, invece, sembra essersi interessato poco a queste vicende, ma trova nell’attore e regista teatrale cosentino Ernesto Orrico un divulgatore di storie di migrazioni.
    Già con la regia di Malamerica, su una drammaturgia di Vincenza Costantino, aveva dato voce alle tribolazioni degli emigrati che non ce l’hanno fatta e i cui nomi si perdono nell’oblio della storia. Tra di loro, anche un anarchico, come i più noti Sacco e Vanzetti, finito sulla sedia elettrica nel 1933 dopo dieci giorni nel braccio della morte della Florida State Prinson di Raiford.
    Joe Zangara, protagonista dello spettacolo La mia idea. Memoria di Joe Zangara, era partito da Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria, nel 1923.
    L’opera trae spunto dal libro del 2020 La mia idea. Memoria di Joe Zangara, pubblicato nell’edizione italiana e inglese da Erranti nella collana La scena di Ildegarda e scritto da Ernesto Orrico, Massimo Garritano, tradotto da Emilia Brandi.

    Joe Zangara e l’attentato

    Giuseppe Zangara nasce nel 1900 in una terra che le logiche del latifondo costringono ad arretratezza e marginalità. Un’infanzia difficile la sua: perde troppo presto l’affetto materno e si ritrova a vivere tra la fame, la violenza di un padre padrone e una malattia cronica che gli procura forti dolori addominali, specchio del suo male di vivere.
    Dopo aver combattuto gli ultimi mesi del primo conflitto mondiale anche lui, come tanti, si lascia sedurre dal sogno americano e lascia per sempre l’Italia.

    È proprio su questa figura di perdente, nel suo aspetto più intimo, che Orrico si concentra. Un uomo condannato per aver attentato alla vita dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, procurando la morte del sindaco di Chicago, Anton J. Cermak.
    Zangara è realmente colpevole di un tentato omicidio e dell’assassinio di un uomo, una condizione che non gli consente riabilitazioni come per Sacco e Vanzetti.

    Due lingue e un flusso di coscienza in musica

    La mia idea Memoria di Joe Zangara prende spunto dal memoriale che lo stesso Zangara scrive pochi giorni prima che lo giustizino. Orrico e Garritano lo presentano come uno spettacolo/concerto.
    Il racconto in prima persona procede attraverso un linguaggio capace di fondere termini dialettali calabresi con un inglese/americano  forzato, ma mai stentato. Ed è proprio questo bilinguismo a sottolineare l’incapacità di adeguarsi completamente ad una nuova realtà sociale.

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    Orrico e Garritano sul palco (foto noteverticali.it)

    La mescolanza di termini evidenzia il voler rimanere ai margini di Joe Zangara, estraneo alla nuova vita che aveva scelto di seguire, così come lo era nella sua terra.
    Il piccolo emigrante calabrese è insoddisfatto della sua vita e lo racconta attraverso un flusso di coscienza che si intreccia con la sonorità degli strumenti a corda. Allora il bouzouki e il dobro non sottolineano pensieri, diventano essi stessi riflessioni, rabbia e dolore.

    Il sogno americano infranto

    In scena vanno i sentimenti di un uomo dal destino segnato. E, attraverso questi, l’umanità e lo sdegno di chi, lasciando la propria terra per scelta o perché costretto, si accorge che il Nuovo Mondo è solo il luogo della perdita del valore umano, minacciato dalla logica dei consumi o barattato con la promessa di una effimera ricchezza.

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    Franklin D. Roosevelt pochi istanti prima che Joe Zangara gli sparasse

    L’attentato di Joe Zangara a Roosevelt, il 15 febbraio 1933, rappresenta l’incapacità di adeguarsi a vivere in un sistema che ha bisogno di sfruttare la gente per far decollare l’economia americana dopo la Grande Depressione del 1929.
    Il New Deal per Joe Zangara si traduce in un sentimento di anticapitalismo, “la sua idea”, cui Orrico e Garritano danno corpo attraverso parole e musica nell’autobiografia più intima di un condannato a morte.

    Joe Zangara dagli States al Rendano

    Dal 27 ottobre al 5 novembre i due hanno riportato Joe Zangara negli States tra la comunità italo-americana in occasione della decima edizione del festival In Scena! Italian Theater Festival NY Fall Edition 2023, promosso da Kairos Italy Theater in collaborazione con Kit Italia e Casa Italiana Zerilli-Marimò at NYU, con il supporto del Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale.

    La kermesse, a cura di Laura Caparrotti e Donatella Codenescu, ha quindi raggiunto San Diego e Santa Rosa in California, poi Calgary e Lethbridge in Canada, con spettacoli teatrali per le comunità di origini italiane e incontri tra artisti italiani e internazionali rendendo concreto il senso più profondo del teatro che vuole essere un incontro, non solo tra pubblico e attori, ma tra comunità, tra culture e identità che si ritrovano oltre quell’oceano attraversato molti anni prima della loro nascita dai loro stessi progenitori.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Dopo il tour nordamericano, lo spettacolo torna adesso nei teatri della Calabria per il progetto speciale di Fondazione Armonie d’Arte, L’Altro Teatro e Nastro Mobius, nel cartellone di Un Giorno All’Improvviso .
    La mia idea. Memoria di Joe Zangara di Ernesto Orrico, con le musiche di Massimo Garritano, produzione Zahir/Teatro Rossosimona va in scena infatti nella Sala Quintieri del teatro Rendano di Cosenza venerdì 8 dicembre alle 19. L’ingresso è gratuito.

  • Il sindaco repubblicano: addio a Claudio Giuliani

    Il sindaco repubblicano: addio a Claudio Giuliani

    Il nostro ricordo più recente di Claudio Giuliani risale a due anni fa, quando bazzicava con grandissima frequenza la redazione de I Calabresi.
    Non era più l’ingegnere di spessore (la pensione arriva per tutti) né il politico abilissimo e ironico che Cosenza aveva imparato ad apprezzare durante la sua lunga militanza a Palazzo dei Bruzi, come consigliere, assessore e sindaco. Il tutto nelle file del Partito repubblicano.
    Era la memoria perenne, lucidissima e viva di tutto questo. Era l’esperienza che si faceva saggezza, senza prendersi troppo sul serio.

    Parole e contenuti forti di Claudio Giuliani

    Non prendersi sul serio, per uno come Claudio Giuliani – che aveva fatto e visto tanto – significava una cosa: sorridere. E, soprattutto, non cercare mai di fare il protagonista. Sebbene il suo protagonismo nella vita della città resti indiscutibile.
    Indiscutibile e prezioso per almeno due volte. La prima fu a fine metà anni ’80, quando consentì alla giunta tipartita (Dc-Psi-Pri), orfana dei Socialdemocratici e di Pino Gentile, sindaco per la prima volta nelle schiere socialiste, di arrivare al voto.
    La seconda volta fu nel 1986, quando gestì il passaggio, ancor più delicato, tra Giacomo Mancini (sindaco per l’ultima volta nella Prima Repubblica) e il big democristiano Franco Santo.

    Un santino elettorale di Claudio Giuliani

    Claudio era una miniera di ricordi, che snocciolava con precisione chirurgica nel suo linguaggio ironico e tagliente.
    Tra una facezia e l’altra, ricostruiva interi periodi della vita cittadina e tracciava ritratti – a volte al vetriolo ma sempre fedelissimi – dei tanti big con cui aveva diviso la sua strada.
    Era pignolo senza averne l’aria. Uno di noi, che gli diede un passaggio, si sentì dire: «Non barare, togli quei gancetti e metti la cintura, perché non sai cosa rischi». Da uno come lui, che conosceva e amava i motori, non era un rimproverò né un’esortazione: era un ordine.

    Gioie e motori

    Della passione di Claudio Giuliani per i motori c’è una forte traccia in Corsi e ricorsi, il libro in cui l’ex sindaco raccontò la passione, sua e familiare, per le auto da corsa.
    Una passione soprattutto praticata, visto che l’ingegnere frequentò a lungo i tracciati della prestigiosa Coppa Sila (già battuti dal nonno, dal prozio e dal papà) con ottimi risultati.
    Detto questo, Claudio Giuliani non era un pirata della strada. Anzi: pilotava le auto allo stesso modo in cui faceva politica. Cioè con passione, abilità e coraggio, mai con spregiudicatezza o spericolatamente.
    Passione e abilità, ma anche spirito di servizio.

    Claudio Giuliani nell’album della Prima Repubblica

    A scorrere gli organigrammi di Palazzo dei Bruzi degli anni ’70-’80 emerge il ritratto di un’élite, l’ultima che Cosenza abbia avuto.
    Di questa élite, che traghettò la città in maniera indolore alla Seconda Repubblica (dice nulla la leadership persistente di Giacomo Mancini?), Claudio Giuliani fu elemento di spicco.
    La sua ultima attività pubblica risale al 2011, quando recuperò il mitico quadrifoglio e schierò una lista col sindaco uscente Salvatore Perugini. Al riguardo, resta memorabile un siparietto con tra i due ex sindaci, durante il quale l’ingegnere sottoponeva l’avvocato a un test di “cosentineria” (ovvero, basato sul riconoscimento dei luoghi storici o caratteristici e sulla traduzione in italiano dei detti tipici). Test passato appieno.
    Dopo, il graduale ritiro dalla vita pubblica, frequentata e osservata con lo sguardo del testimone passionale, che parlava di politica con lo stesso trasporto con cui si occupava del Cosenza.
    Gli anni passano e i percorsi (inevitabilmente) finiscono. I ricordi, quando sono costruiti sui meriti, restano.
    Cosenza saluta Claudio Giuliani nella camera ardente, allestita oggi a Villa Rendano il 9 novembre, e nella chiesa di Santa Teresa, dove sono previsti i funerali alle 11 di domani.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Finché c’è scuola c’è speranza… per il grecanico

    GENTE IN ASPROMONTE | Finché c’è scuola c’è speranza… per il grecanico

    Visitare la Bovesìa, con i suoi centri spopolati, è come fare un salto nel tempo. Tra l’alternarsi dei gialli, dei verdi, di quei marroni sovrastati dal bagliore delle rocce bianche della fiumara Amendolea, ogni metro percorso racconta pezzi di una storia spezzata. Pezzi di comunità sparite che si sono lasciate alle spalle un passato di compattezza ed unità che non c’è più.

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    La piazzetta di Gallicianò

    Arrivando nella piazzetta di Gallicianò, comune di Condofuri, alveo di una delle tante varianti linguistiche del grecanico, una bandiera greca sventola solitaria.
    Gallicianò è un paese ormai per lo più vuoto. Eppure è ancora teatro di manifestazioni culturali come quella cui sono venuto a partecipare: la presentazione del progetto europeo Coling, un percorso di ricerca e di studio internazionale per la valorizzazione, il rafforzamento e la rivitalizzazione del greco di Calabria come lingua minoritaria. La mia visita segue quella di qualche mese fa a To Ddomàdi Grèko, la settimana di formazione linguistica intensiva che da alcuni anni si svolge a Bova Marina e in cui si sono formati molti dei collaboratori di Coling.

    To Ddomàdi Grèko

    «Negli ultimi 50 anni la nostra associazione si è battuta per la tutela, la promozione e la valorizzazione della grecità calabra. Da nove anni, ogni agosto, realizziamo a Bova un corso di grecanico che è in realtà percorso formativo full immersion di una settimana. Partiti in 15, oggi siamo in 70, l’interesse va via via crescendo ed ospitiamo giovani e adulti di Reggio, provenienti da altre regioni di Italia e stranieri. Abbiamo creato un’iniziativa che combina la pura formazione linguistica alla riscoperta di tradizioni, cultura e territorio. La lingua è il collante che ci fa incontrare, confrontarci, dialogare».

    Danilo Brancati firma gli attestati di partecipazione alla Settimana Greca di Bova

    Danilo Brancati è il presidente di Jalò tu Vua, una delle più longeve associazioni culturali che, dagli anni Settanta, si occupa di quest’ambito. La sua associazione è l’ideatrice di quest’iniziativa che trasporta la formazione classica in uno spazio totale di apprendimento collaborativo. E promuove l’incontro tra gli ultimi nativi parlanti ed i neofiti.
    Grazie a questo impegno, la Bovesìa ha fatto scuola. Me lo racconta Gian Lorenzo Vacca, attivista salentino e ricercatore del progetto Coling: «La Calabria Greca per me è un pezzo di cuore perché è dove ho capito qual era la mia strada. Guardando il lavoro dei ragazzi di Jalò tu Vua, ho capito che il modello funzionava e poteva essere replicabile. Ho formato un gruppo di appassionati, abbiamo rilevato l’associazione Grika Milume, siamo venuti a partecipare ai lavori di To Ddomàdi Grèko e, nel giro di un anno, nel 2021, abbiamo organizzato la prima edizione della Settimana Greco-salentina, I Ddomàda Grika. Senza questa esperienza calabrese non saremmo stati qui a parlarne adesso».

    Una lingua deve vivere

    «Per noi era importante insegnare una lingua che sta scomparendo, ma non volevamo che avvenisse in un contesto accademico. La lingua non vive – non solo – attraverso lo studio di regole grammaticali. Vive se viene usata. In un confronto costante con i pochi parlanti nativi ancora in vita. Perché consente di entrare in contatto con quel sistema culturale, valoriale, di saperi giunto fino a noi. Che esisterà fin quando ci sarà anche un solo parlante. Di parlanti oggi ne abbiamo persi parecchi. Per questo è importante trasmettere questo patrimonio».

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    Danilo Brancati

    Il problema per Danilo non è (solo) legato al numero di parlanti effettivi, ma all’approccio con cui una lingua e la sua cultura di riferimento vengono vissute. A prescindere dal numero. «Quest’anno abbiamo ampliato l’offerta formativa ed esperienziale che Jalò tu Vua propone. Alle classi standard – principianti, livello intermedio, avanzato – e a quelle per bambini che prevedono forme di apprendimento giocoso, si è aggiunta quella rivolta agli insegnanti di latino e greco. Vogliamo favorire connessioni culturali tra il sapere autoctono e quello che si studia ad esempio nei Licei classici».

    Studenti dialogano con i grecanici anziani

    Il progetto Coling

    To Ddomàdi Grèko si è rivelata un laboratorio di ricerca e applicazione didattico-linguistici anche nel progetto “Coling – Lingue minoritarie, maggiori opportunità. Ricerca collaborativa, coinvolgimento della comunità e strumenti didattici innovativi”, il primo del genere a mettere in contatto la comunità dei Greci di Calabria con l’accademia. Coordinato dall’Università di Varsavia, con il contributo di Università e centri di ricerca europei e del Gruppo di Azione Locale Area Grecanica, il progetto ha svolto una ricerca collaborativa assieme alla comunità dei parlanti greco-calabri, elaborando metodologie e strumenti didattici nuovi per un insegnamento a 360 gradi del grecanico fin dalla più tenera età.

    Un momento della presentazione del progetto Coling

    Cofinanziato con oltre 1 milione di euro e partito nel 2014, si è chiuso a fine settembre a Gallicianò con la presentazione di risultati: un manuale grammaticale, un corso on line di lingua grecanica., un videogioco, due giochi da tavolo educativi, schede di apprendimento linguistico per l’infanzia. Oltre all’elaborazione di un sistema di standardizzazione ortografica delle varianti linguistiche greco-calabre.

    Una comunità di parlanti in agonia

    A chiarirmi la complessità della situazione è Salvino Nucera, intellettuale, poeta, autore grecanico di Chorio di Roghudi e antesignano della battaglia per la tutela della minoranza greco-calabra. «Oggi i grecanici sono circa un migliaio, di cui parlanti 300 scarsi». Uno stillicidio che nei secoli ha degradato il greco di Calabria da lingua predominante di tradizione orale in tutto l’Aspromonte a macchia culturale resistente.
    Un processo lungo, durato secoli, in cui la compattezza della grecità culturale e linguistica entra in crisi: il declino politico e culturale di Bisanzio, la diffusione del rito latino nella liturgia e nella predicazione della Chiesa, il tramonto del monachesimo basiliano e, più recentemente, le ragioni unitarie, la propaganda fascista, l’emigrazione, la delocalizzazione, il pubblico ludibrio e il senso di inferiorità culturale percepito assestano un colpo quasi mortale a questo “spazio” culturale. Oggi i grecanici sono una comunità sfilacciata, a volte sparsa, quasi frutto di una diaspora e preda di un inesorabile disfacimento.

    Salvino Nucera

    Salvino Nucera, il poeta greco-calabro 

    «Sono contento che una nuova generazione volenterosa e curiosa stia proseguendo sulle nostre orme, perché per me si è trattato di un impegno e di una passione per la vita».
    Salvino Nucera non è solo colui che, assieme ad Alessandro Serra, fondatore di Teatropersona, sta traducendo le tragedie di Euripide in greco di Calabria. È anche l’antesignano che, tra gli anni Settanta e Ottanta, assieme agli allora ragazzi dell’associazione Jonica si batte per la tutela della minoranza greca. Ed è tra coloro che hanno riaperto la stagione della produzione scritta in grecanico.

    «L’ultimo precedente è databile alla fine del Seicento: un testo scritto da un sindaco bovese pro-tempore. Nel 1981 Giovanni Andrea Crupi pubblica La Glossa di Bova, traduzione di cento favole esopiche in greco di Calabria. Nel 1986 esce il mio primo libro. All’inizio pensavo in dialetto, scrivevo in grecanico e ritraducevo in italiano. Poi ho capito che avrei dovuto partire pensando direttamente in greco».
    Dal nucleo originario di Jonica si staccarono una serie di cellule. E andarono a costituire organizzazioni diverse: Apodiafazzi, Comelca – Comunità greca di Calabria -, Jalo to Vua, per citarne qualcuna. Ma qualcosa secondo Salvino non ha funzionato.

    I fondi della legge 482 

    «C’è stata poca sinergia. I fondi stanziati dalla Provincia di Reggio Calabria attraverso la legge 482 per le minoranze linguistiche hanno scatenato gelosie e sono stati male utilizzati. L’impatto di quanto finanziato è stato limitato. Ha prevalso lo spirito greco della divisione. Faccio un esempio: i corsi di lingua grecanica promossi dalla Provincia come specializzazione per la Pubblica Amministrazione venivano pagati profumatamente. Spesso però i partecipanti non figuravano e il controllo era scarso. Successivamente con quei fondi il GAL Area Grecanica realizzò alcune pubblicazioni. Una la feci anche io con Rubbettino. Poi poco altro». Tuttavia, dopo la recente presentazione del piano regionale di dimensionamento scolastico, appellandosi alla 482, i sindaci dell’area Grecanica sono riusciti a scongiurare la chiusura di alcune scuole. Infatti il piano prevede agevolazioni per le aree delle minoranze linguistiche, fissando a 600 anziché a 1000 studenti la soglia sotto cui attuare il ridimensionamento.

    Diversa la situazione della comunità arbëreshe che, con i suoi oltre 50mila membri (fonte Wikepedia) e con impegno e peso politico ben diversi, ha raggiunto importanti obiettivi. Uno su tutti: il nuovo contratto di servizio RAI 2023 -2028 garantirà produzione e distribuzione di trasmissioni e contenuti in arbëreshë. Anche il presidente Occhiuto ha ritenuto l’Arbëria di tale importanza da assegnare a Pasqualina Straface la delega ai rapporti tra il Consiglio Regionale e le comunità arbëreshë. Con buona pace di Danilo, i numeri contano, eccome!

    Al di là di una legge regionale vigente che tutela lingua e patrimoni delle minoranze calabresi, le differenze sono molte. Tanto che la stessa Straface ha accennato a una prossima riforma del provvedimento, i cui lavori vanno avanti dallo scorso aprile.

    L’esposto contro il Bando 

    Oggi intanto presso la Corte dei Conti pende un esposto contro l’avviso pubblicato lo scorso febbraio dalla Città Metropolitana di Reggio. Poco meno di 100mila euro per associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro impegnate nella tutela del greco di Calabria. Il bando prevede l’attivazione di 10 sportelli linguistici con interprete/traduttore per le sedi dei comuni di Bagaladi, Bova, Bova Marina, Cardeto, Condofuri, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi e Staiti.
    Peccato che lo faccia incaricando enti terzi cui verrebbe delegata la verifica dei requisiti di idoneità. Tra questi anche la “qualifica di interprete e traduttore di lingua greco-calabra”.

    Lo stesso Danilo Brancati, raccontandomi l’attività di Jalò tu Vua nelle scuole, aveva sollevato tutte le criticità del caso. A cominciare dall’assenza di un sistema di certificazione della conoscenza di una lingua tramandata oralmente. L’avviso, anche secondo il Movimento Federativo delle Minoranze Linguistiche, rischierebbe di «alimentare pratiche clientelari sotto le mentite spoglie della promozione e della valorizzazione della lingua greco-calabra».

    Daniele Castrizio

    La ricetta di Castrizio

    Nel frattempo chi può e sa, fa sui territori. E chi non le manda a dire è il professor Daniele Castrizio, storico, archeologo, docente di numismatica all’Università di Messina e neo-direttore del Museo della Lingua Greca di Bova Gherard Rohlfs: «Siamo ormai all’anno zero. Non c’è visione, né progettualità. Io ho tutta l’intenzione di riorganizzare il Museo di Bova. Per cui mi chiedo e chiedo: quale progetto abbiamo per la lingua e l’universo grecanico? Ritengo la questione della lingua parlata una battaglia ormai persa».

    Che fare allora? «Riconosco e apprezzo l’impegno di Jalò tu Vua che sta effettuando un’attività di rivitalizzazione eccezionale, ma adesso dobbiamo puntare sulla valorizzazione di questa nostra grecità: filoxenia, enogastronomia, archeologia, monumenti, territorio. Dobbiamo spiegare che cosa vuol dire essere grecanici, costruendo una narrazione del territorio che non viene praticata da nessuno e che, spesso, quando c’è stata, ha prodotto dei falsi storici. Pensa che nella versione cattolica i greci di Calabria sarebbero piccole comunità insediatesi nel Settecento, quando invece un filone di studi ha dimostrato come la presenza greca in Calabria sia millenaria».

    Piccoli alunni della Settimana Greca a Bova

    DNA greco-calabro

    Castrizio porta diversi esempi: «Prendi i risultati della mappatura del DNA della Bovesìa condotte da Giovanni Romeo dell’Università di Bologna: un DNA talmente antico da essere privo di elementi italici, slavi, dori o joni e simile a quello degli abitanti di Creta. Prendi le fonti storiche – in ultimo Dionigi di Alicarnasso – che attestano che 14 generazioni prima della guerra di Troia gli Arcadi si mossero verso il Sud Italia. Oppure prendi gli studi di John Robb che dimostrano la presenza dei grecanici prima del periodo miceneo. O, ancora, prendi anche solo un mero dato linguistico: ci sono parole di greco-calabro che si trovano nei poemi omerici e addirittura nella Lineare B. Quanti sanno che la produzione di seta del Reggino, protetto da 11 fortificazioni, rappresentava il cuore economico dell’impero Romano? Quando Reggio cadde in mano ai normanni la moneta si deprezzò del 30%».

    Il nuovo ruolo del Museo Rohlfs

    «Sono cose che andrebbero raccontate, così come andrebbe raccontato che le comunità dell’Arbëria sono originariamente greche, tanto che adottano il rito religioso greco. Bisogna abbandonare il particolare delle singole narrazioni con un’operazione di verità e trasparenza che restituisca la memoria e la dignità necessarie per decodificare, valorizzare e raccontare il territorio».
    Castrizio ha tutta l’intenzione di dare nuovo impulso all’azione del Museo della Lingua Greca: «Voglio fare diventare il museo di Bova un museo Storico. Sto organizzando una prima mostra, suddivisa in tre aree: storia e archeologia, linguistica e territorio. Nel frattempo stiamo programmando una serie di attività educative con le scuole. E puntiamo ad aprire il Museo al territorio, per trasformarlo in un centro di produzione culturale».

    Premere di più sugli attrattori culturali

    L’idea di Castrizio sembra fare il paio con le linee della nuova programmazione regionale che puntano sugli attrattori culturali: meno opere murarie e maggiori investimenti culturali. In un contesto in cui i parlanti sono ormai sparuti e i numeri delle nascite tracciano un orizzonte grigio, la rivitalizzazione linguistica rischia di rivelarsi un tentativo per ritardare una morte annunciata.
    I (pochi) nuovi parlanti, sempre meno autoctoni, avulsi da un contesto che incoraggia un uso quotidiano e indefesso del grecanico, trasmetteranno ai propri figli quanto appreso o lo terranno per sé? Combinare invece l’apprendimento linguistico con un’azione più incisiva nelle scuole e una strategia più ampia di narrazione e valorizzazione della grecità calabrese potrebbe migliorare la situazione.

    Studenti di grecanico
  • STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.

    Piano a: Castroregio via Albidona

    La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
    Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato.
    Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.

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    Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)

    Piano b: Castroregio via Oriolo

    La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
    In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
    Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
    Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
    Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.

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    I ruderi della masseria Maristella ad Albidona

    I portali di Castroregio

    In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
    Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
    Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.

    Preti e magia a Castroregio e non solo

    Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
    Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
    E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.

    I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)

    Due parole sull’Arbëria

    Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
    Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
    Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.

    Quanti sono gli arbëreshe?

    È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
    Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.

    L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca

    Ritorno alla base

    Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
    L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
    Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
    Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.