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  • Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Rap, break dance e street art: come la Calabria scoprì la poesia della strada

    Un tappetino disteso sull’asfalto, il radiolone con le casse sparate “a palla”. Quattro ragazzi si contorcono a turno. E il marciapiede sembra prendere vita nei loro corpi modellati in pose impossibili, al ritmo di una voce che perentoria declama versi su basi ripetute. È il rap, la poesia della strada. Mai vista prima una scena simile in Calabria e regioni confinanti. I cosentini si fermano, osservano incuriositi. È il 1984 quando in città compaiono per la prima volta i B-boy, la break dance, l’hip hop e la street art. I muri spogli di edifici periferici e centrali ospitano vistosi graffiti colorati che appaiono all’alba, suscitando l’interesse dei passanti e il furore di qualche capo-condomino.

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    La street art è arrivata in Calabria

    I pionieri di rap e hip hop

    «Si usciva con radio in spalla a ballare in strada nonostante la pioggia e il freddo. Qualcuno la chiamava ciutìa – racconta Carmelo Gervasi, uno dei pionieri calabresi di questa cultura – ma per noi era magia. Il nostro immaginario era ispirato a film come Flashdance, Electrik boogaloo, Wild style, Breakin’ e Beat street. Avevamo letto il libro Spraycan Art. Ascoltavamo dischi dei Melle Mel, Run Dmc, Whoudini. Per noi l’hip hop significava poter danzare sulle sonorità fuori dai canoni. Lo sport che praticavamo era scovare qualcun altro che avesse le stesso nostro sentimento. C’erano Ramon con la sua fibbia personalizzata e Lugi col capello afro, mezzo popiliano e mezzo etiope. Loro hanno fatto da catalizzatori. Ramon ha aperto la strada a tutti i graffitari, Lugi è da sempre un modello per i rapper nostrani. Se oggi si parla di street dance, graffiti o rap in Calabria si deve solo a loro».

    Le prime crew che fecero scuola

    Mentre gli altri interpreti locali delle sottoculture giovanili apparivano a volte statuari, bloccati nelle pose museali della piazza Kennedy degli anni Ottanta, i giovanissimi B-boy erano dinamici, creativi, carichi di significati inediti per le latitudini meridiane. «La prima crew fu la Southern Style, composta da Ramon, Rak e Dedo. Poi – spiega Amaele Serino – venimmo noi, prima Mexicani e poi Jolly artist crew composta da Tiskio, Simo e J.D. Tutto ruotava nei quartieri di via Panebianco, Bosco de Nicola e l’ultimo lotto di via Popilia. I nostri luoghi di riproduzione sociale erano piazza Kennedy, il C.S.A. Gramna e il garage di Simo. All’epoca ci sembrava strano fare rap in lingua italiana; ascoltavamo Public Enemy, Beastie boys, N.W.A, Run DMC».

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    Writers nel quartiere Bosco De Nicola

    «Le prime controversie – continua Amaele – nacquero tra noi Mexicani e i Portoricani di Commenda e alcuni nostri graffiti furono sfregiati. Oggi è tutto diverso. Il writing e il bombing hanno lasciato il posto alla street art, a un nuovo modo di lanciare messaggi, anche se noi lo abbiamo sempre fatto, la tag c’era, ma non aveva più il significato dell’esserci come individuo, originario del Bronx». Tra i breaker più qualificati spiccava Giannone che nel mondo ultrà assumerà un insolito nome di battaglia: Tonno Nostromo.

    Dai murales cancellati a Banksy e Jorit

    All’inizio, quando questa forma di arte apparve sui muri della città, ci fu pure chi si affrettò a cancellare i murales, addirittura considerandoli atti di vandalismo. E in alcuni casi i rapper cosentini furono costretti ad arrivare allo scontro fisico con altre “bande”. Oggi i graffiti riscuotono rispetto e ammirazione. Artisti come Banksy sono celebrati in tutto il mondo. C’è pure qualche amministrazione comunale che destina spazi alla street art e ne finanzia la realizzazione. Rende ha accolto un’opera del grande Jorit. Ma, all’opposto, il perbenismo strisciante e la mania del decoro urbano perseguitano i writer, cancellando i loro lavori e multandoli.

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    Il murales commissionato a Jorit dal Comune di Rende durante la fase di realizzazione

    Ramon ricostruisce le difficoltà dei primi anni: «Io ricordo due momenti fondamentali della nostra storia: anzitutto gli inseguimenti tra noi graffitari e gli agenti di polizia. E parlo di inseguimenti veri e propri, con alcuni di noi catturati e portati in centrale e qualche poliziotto che cadeva e si infortunava nella foga dell’inseguimento, e il mitico concerto al Gramna in cui suonarono i membri della posse di Bologna, i Sangue Misto, tra cui Neffa e Gruff. Quella volta noi facemmo una figura ottima».

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    Cosenza, il concerto del 1992 al Gramna

    Ampollino rap: la Woodstock di Calabria

    Negli anni Novanta il movimento si allargò. Coinvolse ragazzi geniali come il compianto Dj Marcio. Nacque la South Posse. Il festival Ampollino Rap fu la Woodstock di Calabria. Una sera salì sul palco Frankie hi-nrg mc. Su base sincopata declamò i versi della sua Fight da faida: «Cosenza Potenza carne morta in partenza consacrata alla violenza senza opporre resistenza». Il testo non piacque per nulla al numeroso pubblico che si sentì offeso. Fischi, insulti, qualcuno minacciò di salire sul palco per tirare giù con la forza il rapper torinese.

    Sangue Misto (e chillum) all’Ampollino Rap del 1994

    Balzò su Dj Lugi, chiese rispetto per Frankie e lo ottenne dai tantissimi ragazzi provenienti dalle terre più remote della regione. Poi, improvvisando, ingaggiò con lui una sfida a colpi di rime. Lo convinse che i suoi versi raccontavano il sud in modo superficiale, aderente al mainstream, distante dalla realtà. Potenza del Rap: la serata finì in un abbraccio collettivo e sincere strette di mano. Della capacità dell’hip hop di penetrare le coscienze si è accorto di recente pure qualche insegnante nelle scuole. Ci sono professori che lo adoperano come strumento didattico.

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    La South Posse

    Doctor M, un primario graffitaro

    A Cosenza i rapper storici, attivi all’interno del collettivo Brò Crew 360, sono protagonisti di attività istruttive imperniate sull’uso dello spray. Nei workshop tematici realizzati nella Città dei Ragazzi, docente d’eccezione è stato anche Mario Verta. Nell’arte di strada si chiama Doctor M e di giorno fa un delicato lavoro: primario del reparto Gastroenterologia nell’ospedale dell’Annunziata. «Mario è molto bravo nel catturare l’interesse dei ragazzi. Un giorno – prevede Amaele – l’hip hop diventerà materia di studio nelle scuole. Oggi più di prima ha una connotazione socio educativa. E dopo 50 anni possiede ancora, nella sua essenza, la potenza comunicativa del riscatto sociale».

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    La Brò Crew 360

    Animali di strada

    In questi giorni la Brò Crew 360 espone nella Galleria Arte Indipendente Autogestita su corso Telesio una mostra dal titolo ANIMALI, visitabile fino al prossimo 24 aprile. I temi sono quelli di sempre: nessuna discriminazione, lotta contro le ingiustizie, educazione del dissenso, salvaguardia dell’ambiente e delle altre specie viventi. La spray art riproduce su pannelli lo sguardo e il punto di vista che queste creature hanno maturato su di noi, cioè sulla specie cosiddetta sapiens.

    «La mostra – spiega la crew – dà voce agli animali che ci accompagnano lungo la nostra esistenza, non soltanto come compagni, ma come esseri viventi capaci di aprirci gli occhi e il cuore. Il nostro egoismo e il nostro specismo non ci autorizzano a dominare la natura e il mondo in maniera assoluta; anche noi siamo esseri viventi destinati a morire. Il bisogno di comunicare sarà sempre una priorità per il genere umano. Più crescerà il disagio, maggiore diverrà questo bisogno. Nella G.A.I.A. si espongono gli animali. Per loro non c’è giusto o sbagliato. Forse è ciò che cerchiamo anche noi».

  • BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

    Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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    La stazione di Cosenza a inizio ‘900

    Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

    Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

    C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

    L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

    Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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    Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

    Brutti, sporchi e cattivi

    «Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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    Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

    Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

    La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

    Tavernari di Cosenza

    Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
    Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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    Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

    Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
    «Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

    La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

    Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

    Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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    Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

    A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

    Vino e follia nelle cantine di Cosenza

    Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

    Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

    A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

    Dal bicchiere alle lame

    Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

  • La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    Non è un romanzo né un film, sebbene la vicenda abbia tutti i crismi della spy story. Anche l’Italia ebbe un’organizzazione simile a Odessa e Der Spinne, che mirava a proteggere i fascisti in fuga alla fine della guerra.
    A differenza delle due strutture tedesche, l’associazione italiana non fu completamente segreta né ebbe caratteri illegali o, peggio, criminali.
    Ma ebbe comunque le sue peculiarità: fu un gruppo essenzialmente femminile (e, per i parametri dell’epoca, anche “femminista”) ed ebbe la sua base vera in quella Calabria che, dopo la caduta del regime, si riscopriva “rossa” e in cui i contadini, appoggiati dalle forze di sinistra, iniziavano le prime, importanti mobilitazioni.

    Il Movimento italiano femminile, così si chiamava questa struttura, fondato dalla principessa Maria Pignatelli nell’autunno del ’46, ebbe anche il singolare primato di essere la prima organizzazione neofascista legale del Paese, perché precedette di poco la nascita ufficiale del Msi (che si costituì il 26 dicembre 1946).

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    La principessa Maria Pignatelli

    La strana fuga

    È l’estate del 1945. La principessa Pignatelli è prigioniera nel campo di concentramento britannico di Riccione. In città c’è Puccio Pucci, un reduce di Salò collegato a Pino Romualdi e ad Arturo Michelini, che nello stesso periodo si trovano a Roma e cercano di radunare tutti i fascisti sbandati attorno a un progetto politico.
    Pucci non è lì per caso. Deve recuperare la principessa che progetta l’evasione dal campo. Il piano riesce: grazie all’aiuto delle suore di Cesena, che fanno le ausiliarie del carcere alleato. Le religiose nascondono la principessa nel furgone della biancheria e la fanno arrivare a Roma. Qui trova rifugio in Vaticano, presso monsignor Silverio Mattei, prelato della Sacra congregazione dei riti.
    Proprio a casa di Mattei la Pignatelli inizia a tessere la trama con cui costituirà il suo movimento di assistenza ai fascisti, grazie senz’altro alla sua formidabile rete di contatti con l’aristocrazia romana e con molti esponenti dell’ex regime. Ma soprattutto grazie all’aiuto delle autorità vaticane.

    Un personaggio particolare

    La fuga a Roma, dove si erano rifugiati moltissimi fascisti in fuga dal Nord, mette la parola fine a due anni di prigionia per la principessa.
    Tutto era iniziato nella primavera del ’44, quando donna Maria riuscì in un’impresa spericolatissima. Varcò il confine di guerra, all’epoca poco sotto Roma, incontrò il feldmaresciallo Kesserling, a cui riferì notizie sensibili sulle strutture strategiche alleate. Poi andò a Gargnano sul Garda, dove incontrò Mussolini e Francesco Maria Barracu, ex federale di Catanzaro e in quel momento sottosegretario della Repubblica Sociale Italiana.
    Stando alle dichiarazioni della principessa e a varie testimonianze storiche, Mussolini in persona ordinò alla nobildonna di creare il Mif.
    L’ordine non fu dato per caso, perché la principessa Pignatelli sembrava la persona adatta allo scopo.
    Fiorentina di origine e figlia dell’ammiraglio Giovanni Emanuele Elia, donna Maria aveva sposato in prime nozze il marchese Giuseppe de Seta, aristocratico siciliano col vizio del gioco. Da lui ebbe quattro figli, tra cui Vittorio de Seta, che sarebbe diventato un importante regista del filone neorealista.

    Michele Bianchi e la principessa Pignatelli

    Sposa del principe Pignatelli di Cerchiara

    Ma il matrimonio durò poco. Subito dopo la separazione, la marchesa de Seta si legò a Michele Bianchi, di cui fu amante. Poi, nel ’42, subito dopo la morte del marito, sposò il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara.
    Il loro fu un legame forte, in cui sentimenti e passione politica costituirono un mix micidiale vissuto con una certa incoscienza. Anche Valerio, un fascista irrequieto con una carriera militare alle spalle, era legatissimo a Mussolini, per conto del quale aveva creato, alla fine del ’43, la Guardia ai labari, un’organizzazione clandestina ramificata tra la Calabria e Napoli.
    L’organizzazione fu scoperta e smantellata dai carabinieri nell’estate del ’44. Qualche mese prima, la polizia militare britannica aveva scoperto il viaggio della principessa oltre confine e arrestò i Pignatelli.
    Per Valerio e Maria iniziarono la galera e i guai giudiziari. I due, condannati a 12 anni di carcere a testa per spionaggio, furono detenuti assieme nel campo di concentramento di Padula per alcuni mesi. Poi la principessa fu trasferita dapprima a Terni e, da lì, a Riccione.

    Giornale d’epoca sul processo agli 88 di Catanzaro

    Intrighi internazionali

    Il Movimento italiano femminile disponeva di due carte vincenti: una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale e l’appoggio della Chiesa, grazie al quale la principessa organizzò, quando ancora era latitante in Vaticano, l’espatrio di oltre 15mila fascisti in fuga verso l’Argentina di Juan Domingo Peron.
    Come rivela l’inchiesta di Giorgio Agosti, all’epoca questore di Torino, gli espatri furono coperti dai francescani di Genova, che radunavano i fuggiaschi e procuravano loro i passaporti per lasciare l’Italia. Assieme ai fascisti sbandati, per molti dei quali era diventato pericoloso restare in Italia, scapparono in Sud America non pochi ustascia croati, per i quali restare in Italia significava il rimpatrio e la morte certa.

    Ma perché proprio l’Argentina e, soprattutto, quale fu il ruolo della Pignatelli? La prima risposta è semplice: la comunità italiana di Buenos Aires era filofascista e, grazie a Peron, era diventata molto influente nelle scelte politiche del Paese latinoamericano. Più nello specifico, Valerio Pignatelli aveva un forte legame personale con il presidente argentino. Questo legame, di cui si avvantaggiò il Mif, fu ribadito in un incontro riservato tra la principessa, le dirigenti del suo movimento ed Evita Peron, che si svolse a Roma nel ’47. Il Mif, inoltre, si occupò anche della raccolta dei finanziamenti inviati dagli italiani d’Argentina per aiutare la nascita del Msi.

    Evita Peron

    Cose di Calabria

    Nell’estate del ’46 la situazione cambia. Grazie all’amnistia di Togliatti, donna Maria abbandona la latitanza e Valerio lascia il campo di Padula.
    I due tornano in Calabria, per la precisione a Sellia Marina. E proprio da lì la principessa inizia a gestire il Mif. Soprattutto, inizia a usare la Calabria come rifugio per fascisti.
    La vicenda, a questo punto, assume tratti pittoreschi, che emergono dalle lettere che la principessa indirizza alle dirigenti calabresi del Mif o ai leader del Msi. Donna Maria non parla mai di “fascisti” o di “latitanti”, ma si esprime in gergo: a seconda della gravità dei casi, parla di “disoccupati”, di “malati che devono cambiare aria”, di “falegnami”, “carpentieri” e via discorrendo.

    La casa in Sila per il fratello di Junio Valerio Borghese

    In un caso, il riferimento è esplicito, quando la principessa chiede aiuto a Luigi Filosa (foto in basso a destra), dirigente del Msi cosentino, perché cerchi una casa in Sila per il fratello e la sorella di Valerio B., cioè del principe Junio Valerio Borghese.
    In un altro caso, a dispetto delle tante cautele, qualcosa emerse a Cosenza, dove due ex repubblichini in fuga da Roma, avevano dato un po’ troppo nell’occhio e allarmato i comunisti. Difficile quantificare quanti fascisti abbiano approfittato degli aiuti del Mif. Secondo un calcolo prudente, potrebbero essere attorno al migliaio.

     

    Fasciste in rosa

    La particolarità del Mif fu la sua natura di movimento creato e gestito da donne, in cui gli uomini potevano avere al massimo due ruoli: quello di legale (che a Cosenza, per fare un esempio, fu ricoperto da Ugo Verrina, altro leader del Msi meridionale) o di consigliere religioso.
    I rapporti col Msi furono tutt’altro che idilliaci, perché la principessa difendeva a oltranza l’indipendenza del Mif dalle mire del partito, che voleva farne una specie di sezione femminile.
    Al riguardo, restano memorabili le polemiche della Pignatelli nei confronti dei vertici missini, di cui non gradiva le ingerenze.

    Se le donne votano come gli uomini, chiedeva la principessa al segretario del Msi Arturo Michelini, a cosa servono le sezioni femminili? E ancora: noi facciamo assistenza a chi ha problemi, non politica, ribadiva la nobildonna alle sue seguaci che si facevano tentare dalle candidature (anche se, va detto, il Msi fu il partito che candidò più donne).
    Il Mif chiuse i battenti intorno al ’53, perché la normalizzazione del quadro politico nazionale ne aveva rese superflue le funzioni. La principessa sopravvisse altri 15 anni. Morì in un brutto incidente stradale, nel momento in cui il ’68 gettava le basi di un protagonismo ben diverso per le donne…

  • Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Nell’estate 1959, a Roma, Pier Paolo Pasolini 37enne non era ancora l’autore di successo che sarebbe diventato di lì a poco grazie al cinema. Scriveva qualche sceneggiatura, aveva appena pubblicato il suo secondo romanzo e collaborava sporadicamente con delle riviste. Per Successo, il mensile milanese diretto da Arturo Tofanelli, accettò di realizzare un reportage da pubblicare a puntate sui litorali italiani in piena stagione balneare.

    Il reportage di Pasolini

    Al volante della sua Fiat Millecento, accompagnato dal fotografo Paolo di Paolo, iniziò il suo periplo partendo dal confine franco-italiano, Ventimiglia, e da quello contrapposto, Trieste. Poi passò per le spiagge liguri e toscane (San Remo, Portofino, Santa Margherita, Forte dei Marmi, Viareggio, Tirrenia), le spiagge e le balere dell’Emilia-Romagna, arrivò a Roma (dove a Fregene incontrò gli amici Moravia e Fellini intenti al lavoro). Infine, prima di fare ritorno al nord, affrontò la parte del viaggio che più doveva attirarlo: il sud d’Italia.

    Napoli, Ischia e Capri, Maratea, Taranto, Gallipoli, Santa Maria di Leuca, Rodi Garganico, e quindi la Calabria e le sue spiagge. Pasolini non è un cronista turistico, è un poeta, e come tale descrive ciò che vede ma tende anche a idealizzare (le città biancheggianti, i grandiosi lungomari, i villini liberty incrostati d’ornamenti, le rotonde scrostate), a volte va oltre, ricorre al tipico immaginario pasoliniano, usa il linguaggio metaforico.

    Sulla strada per Crotone

    Sulla strada per Crotone incontra, illuminati dal sole, due uomini che gli fanno segno di fermarsi. Gli è stato consigliato di non farlo, ma lui, figuriamoci, si ferma e li fa salire a bordo: la curiosità dello scrittore è più forte della prudenza. Nei discorsi di quelle persone emerge la durezza della loro vita, il lavoro precario, i mezzi di trasporto che mancano (ogni giorno devono fare venti chilometri ad andare e tornare). Gli dicono anche che quella è una zona pericolosa, di notte è meglio non passarci, fermano le macchine e rapinano, qualche tempo prima c’è scappato pure il morto. Forse un po’ suggestionato da quelle parole ecco che Pasolini arriva a Cutro, che spicca in una specie di altopiano.

    Cutro, il paese dei banditi

    E scrive così: «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

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    Pasolini a Crotone in occasione del premio conferitogli per Una vita violenta

    In realtà, nel suo testo, Pasolini precisa che il “paese di banditi” deve intendersi alla maniera dei western, poi ha anche parlato del fervore che precede la cena, l’omertà che in quel luogo ha una forma lieta, vociante. Ma non basta, non basterà. Sarà lo scandalo, abbastanza devastante, anche perché il sindaco di Cutro querelò Pasolini per diffamazione a mezzo stampa, e questo avvenne, non a caso, proprio nei giorni in cui il suo romanzo Una vita violenta riceveva il Premio Crotone per la narrativa.

    La Calabria non si tocca, il sindaco querela Pasolini

    Nell’esposto del sindaco, si difendeva: «La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro… le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate di centinaia e centinaia di casette linde, policrome, gaie, dell’Ente di Riforma dove la laboriosa gente del Sud, della Calabria, di Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte». Una penosa questione ingigantita non solo dall’orgoglio e dal campanilismo, ma anche da un’astiosa polemica politica (il sindaco di Cutro era democristiano, l’amministrazione comunale di Crotone era comunista) e da una serie di interventi istituzionali (le aziende di soggiorno locali, il prefetto di Reggio Calabria).

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    Pasolini a passeggio con alcuni giovani di Cotrone

    Poi per fortuna tutto rientrò, la querela fu archiviata e soprattutto ci furono le spiegazioni. Pasolini scrisse lettere aperte e accettò incontri chiarificatori con intellettuali e studenti cutresi. Per lui – spiegò – «il termine “banditi” voleva dire “emarginati”, uomini banditi dalle classi dominanti che li sfrutta e spinge al crimine».

    Uno scandalo tra i tanti

    Era dunque uno spiacevole equivoco ma lo scandalo rimase e andò ad aggiungersi ai tanti scandali, più o meno gravi e dolorosi, che hanno accompagnato la vita privata di Pasolini (le denunce per corruzione di minori, addirittura un processo “per rapina a mano armata”) e la sua opera (da Accattone, suo esordio nel cinema, a Salò e le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo, tutti i suoi film hanno avuto censure e sequestri). E questo fatto può spiegarsi solo con il modo di Pasolini di vivere il suo ruolo e il suo personaggio nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.

    Cento anni dalla nascita

    Amato o odiato, lodato o rifiutato sempre sull’onda del pregiudizio, a cento anni dalla sua nascita (che ricorre il 5 marzo)  e a quasi mezzo secolo dalla sua morte tragica, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è ancora con noi con le sue prese di posizione spiazzanti, le sue provocazioni, le sue anticipazioni quasi tutte avverate: la globalizzazione, il consumismo dell’effimero, lo sviluppo senza progresso, l’ecologia, le nuove forme di sfruttamento. Ma al di là dei giudizi di merito su un’opera così vasta e proteiforme (poesia e narrativa, cinema e teatro, saggistica politica, pittura, musica, danza), c’è una cosa che resta indiscutibile: la vera rivoluzione operata da Pasolini riguarda proprio la figura dell’intellettuale.

    Con lui si realizza per la prima volta quella che Tullio Kezich chiamò «l’integrazione dell’intellettuale italiano con la società contemporanea». Una figura, quella dell’intellettuale, fino allora chiusa nell’isolamento editoriale e accademico, e che solo con Pasolini si aprirà, in maniera violenta e irresistibile, ai mezzi di comunicazione di massa.
    Fuori dagli agi e dai comportamenti borghesi, intempestivo e provocatorio, agendo senza calcoli e cautele, c’era in lui certamente una voglia di protagonismo, quasi una spinta masochistica a “venire alle mani” con il giudizio corrente e nel mettere in discussione i valori di quella borghesia italiana da lui giudicata “la più ignorante di Europa”.

    Di qui, conseguentemente, l’infinita serie di scontri e scandali, di volta in volta con gli studenti del Movimento studentesco (quando prese le parti dei poliziotti “figli del popolo” dopo gli incidenti di Valle Giulia a Roma), con i radicali e le femministe (quando si schierò contro la legge sull’aborto), contro i comunisti (quando li sfidava sul piano della moralità e del conformismo), contro la DC (i famosi articoli-invettiva pubblicati sul Corriere della sera, poi raccolti in Scritti corsari).

    Pasolini e la Calabria: poca sintonia, tanto amore

    In questo contesto può apparire quasi secondario l’incidente di Cutro “città di banditi” e invece è significativo per comprendere la difficoltà di Pasolini a entrare in sintonia con la cultura del suo tempo e anche con una regione come la Calabria da lui sicuramente ammirata, come avrebbe dimostrato più volte con i fatti e con le opere. Tornò infatti a girare spesso in Calabria, proprio a Crotone e nelle vicinanze, alcune parti di Comizi d’amore (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964, le scene del lago Tiberiade). Era di famiglia calabrese Ninetto Davoli, che accompagnò a lungo la sua vita e partecipò a gran parte della sua filmografia, erano calabresi la Madonna giovane de Il Vangelo (Margherita Caruso) e San Tommaso (il partigiano Rosario Migale).

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    Margherita Caruso ne Il Vangelo secondo Matteo

    Ma con Pasolini non si smette mai di avere sorprese. Gianni Scalia, scrittore e suo amico affettuoso, avvertiva: «Su Pasolini bisogna essere sospettosi e interrogarlo nell’unico modo possibile. Dovremmo forse essere cattivi interpreti, non prenderlo alla lettera, e prendendolo alla lettera, trascinarlo nelle nostre contraddizioni, mescolarlo alla “nostra” vita». In molti casi la “nostra vita” erano le beghe politiche, i pregiudizi culturali, le ritorsioni. Tradurre Pasolini, interpretarlo, è quindi necessario, mai imbalsamarlo. Che è un’indicazione di lavoro utile e, insieme, anche la conferma della particolare attualità di un’opera che a distanza di anni continua a parlare al cuore e all’intelligenza delle persone.

    Ma che cos’è questo onore?

    A me è capitato, facendo la curatela di un libro dedicato all’opera omnia di Pasolini, di rivedere tutti i suoi film e rileggere tutti i suoi scritti. Le sorprese non sono mancate, e una riguarda proprio la Calabria e i calabresi. All’inizio degli anni Sessanta, Pasolini girò il film-inchiesta Comizi d’amore, ancora una volta in anticipo sui tempi, dedicato all’educazione sessuale degli italiani. Quella era l’Italia del “miracolo economico” (tassi di crescita quasi del 6%, indici di produzione e consumi costantemente positivi), ma sulla cultura e sul sesso il risultato è di un’arretratezza spaventosa. E questo dato riguarda il nord esattamente come il sud, gli operai delle fabbriche di Monfalcone come i frequentatori delle discoteche romagnole, come i bagnanti delle spiagge meridionali.

    Pasolini interroga intellettuali (Ungaretti e Moravia), psicoanalisti (Musatti), cantanti famosi (Peppino Di Capri) e calciatori del Bologna (Bulgarelli e Pascutti), ma soprattutto gente comune. Ai bambini chiede se sanno come sono nati, agli adulti l’importanza data alla verginità nelle donne, l’infedeltà coniugale, il divorzio, l’omosessualità. Un po’ si diverte, un po’ provoca, un po’ s’indigna per il maschilismo di certe risposte, per l’arrendevolezza complice delle donne.

     

    Anticonformismo a Crotone

    In uno stabilimento balneare di Crotone intervista soprattutto le donne, e le risposte sono di un’incredibile chiusura: la sacralità della famiglia unica e indivisibile, la supremazia del maschio, il dovere della donna a non dare scandalo.
    Ma ad un certo punto Pasolini si trova di fronte una ragazzina che davanti alla madre scandalizzata e furente dice che no, che secondo lei è giusto separarsi quando l’amore finisce. Pasolini l’inquadra a lungo in primo piano, il sorriso, la sicurezza.

    E per la prima e ultima volta nel film, lascia il suo ruolo di intervistatore neutro e con la sua voce fuori campo, un po’ emozionato, le dice: «Senti, treccina, voglio proprio dirti che la bella sorpresa della mia inchiesta è una ragazza come te, nel generale conformismo voi ragazze siete le uniche ad avere idee limpide e coraggiose». Questo accadeva sessant’anni fa a Crotone.

    Piero Spila
    giornalista e critico cinematografico

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.

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    Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)

    Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque

    Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.

    La giornalista e scrittrice Matilde Serao

    L’estate dei cosentini

    Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.

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    Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival

    Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.

    La Diamante di Matilde Serao

    Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.

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    Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.

    Un mare di cemento (e non solo)

    L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.

    La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.

    Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.

    Teatro di chiazza

    Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.

    A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.

    La chiesa di San Biagio a Diamante

     

    Diamante d’inverno, voci nel deserto

    Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.

    Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.

    Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.

    Un bar che si chiama Desiderio

    Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.

    I ruderi di Cirella e l’isola omonima

    La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.

    Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).

  • STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    STRADE PERDUTE| Si fa presto a dire “Calabria”: a ciascuno il suo Nord-Est

    Stavolta proviamo a entrare in Calabria dall’angolo in alto a destra. Una strada oggi ancora pericolosa, ma antica e in perenne via di ammodernamento, scende lungo tutta la costa altoionica pugliese, lucana e ca­labrese. Il tratto lucano, dritto, monotono e trafficato non meno degli altri, è battuto spesso da un sole impietoso, allontanato ogni tanto da qualche filare di eucalipti. Ad est il mare, in lontananza la costa salentina o quasi. Ad ovest le campagne: vite e grano in prevalenza. Anche questa strada, sebbene priva di dislivelli e di particolari asperità, era piuttosto sconsigliata fino a tutto l’Ottocento. Figurarsi – ho le prove – che quando nel 1865 una giovane di Roseto Capo Spulico dovette sposare un nobile di Pisticci, la famiglia di lei vi si recò in barca, facendo scalo a Metaponto. E non certo per diletto.

    La Calabria che non c’è

    Benvenuti in Calabria? Nemmeno stavolta. Non del tutto, almeno. Mettiamo piede in quest’isola nell’isola, nell’Alto Ionio Cosentino, appunto. Un recinto di cui non si capisce ancora bene dove stia l’inizio e dove la fine. Vada per i confini geografici (una fiumara o l’altra, a sud o a nord, poco cambia; qualche crinale che fa da spartiacque ad ovest; il mare, indiscutibilmente, ad est); vada per i confini linguistici (la famosa – davvero? – Area Lausberg), vada per quelli ufficiali (la Comunità montana?); ma io mi attengo ai confini “umani”. Non siamo forse più in Basilicata (e dico forse), ma col cavolo che siamo davvero in Calabria. Targhe a parte, prefissi telefonici e codici di avviamento postale a parte, non c’è proprio niente che possa suggerire d’essere entrati in provincia di Cosenza.

    La zona altoionica nell’Italia di Giovanni Antonio Magini (1620)

    Chi vive qui ha come punto di riferimento nemmeno Matera, no, ma addirittura Taranto (due Regioni più in là, come se niente fosse). Il suo ospedale, ad esempio, o i centri commerciali lucani. A Cosenza, proprio, nemmeno ci pensano. In comune neppure l’accento e, soprattutto, nemmeno gli atteggiamenti o l’umorismo, lo spirito. E del resto si tratta di un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. E non solo: periodicamente, numerosi gruppi di cittadini di queste zone si uniscono proprio per chiedere l’annessione alla Basilicata.

    Perché se l’attuale territorio della provincia di Cosenza corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che per lunghissimo tempo ha segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. Come a dire che nel Cosentino c’è un Alto Jonio, sì, ma pure un Altissimo Jonio dall’anima ancora più estranea: Rocca Imperiale, Canna, Nocara.

    Nocara, Armi S. Angelo, rupe ovest

    Lasciando la SS 106

    Anche qui, come sull’altra costa, tanti paesi hanno voltato le spalle ai monti e alle campagne per mascherarsi in chiave balneare finché si può. E allora anche qui, per non farmi ingannare, provo per una volta a bypassare la 106 e a inerpicarmi per una strada che non conosco. La prima strada che valichi il confine più all’interno rispetto a quest’ultima. La prima non sterrata, intendo; la prima che porti da qualche parte, manco si trattasse del confine USA-Messico, Serbia-Montenegro (e chi più ne ha più ne metta), da controllare a vista attraverso pochi varchi e troppi doganieri nevrotici. E allora parto da Valsinni (MT) e prendo una stradina fortunosamente asfaltata.

    I miei appunti sul cruscotto parlano chiaro, non c’è che dire (mi rifiuto di usare i navigatori e suggerisco di fare altrettanto): “a sinistra al bivio per Rotondella / al cippo a sinistra / al bivio dopo il cippo: a destra per Nocara / al bivio tra i faggi: a destra”. Più chiaro di così… Dopo vari tornanti su pendenze discutibili su per il Monte Coppolo e qualche bivio enigmatico, da testa o croce, la stradina mi porta esattamente dove volevo. Diciamo in Calabria. Ma sarebbe meglio dire nel pieno dell’Alto Medioevo, a Serra Maiori, giusto ai piedi dei resti della cittadella di Presinace. Un po’ come a Frittole.

    Un angolo della zona archeologica di Presinace

    Riti e palazzi

    Da qui posso continuare a occhi chiusi, quindi mi fermo e invece li apro, perché in pochi posti vale la pena farlo come in questo. Ci sono già stato e ci sono tornato almeno altre tre volte: 10 minuti (a piedi) dal bivio per l’area archeologica e si arriva nel punto in cui la stradina passa in mezzo alla fenditura tra due magnifiche rocce: è l’Arma dei Gatti, o le Armi S. Angelo (‘armi’ alla greca, nel senso di ‘grotte’). Un giovanissimo Lorenzo Quilici (Siris-Heraclea, Roma, 1967) vi trovò sulla sommità vasellame magnogreco e indizi della remota presenza di un luogo di culto.

    Da qui veniva poi la pietra utilizzata un paio di secoli fa per i portali dei palazzi nobiliari di mezza Calabro-Lucania, qui leggenda vuole che si facessero – ancora in tempi non lontanissimi – riti pagani per supplicare fertilità. Di certo non è un sito che possa lasciare indifferenti: vento costante, anche ad agosto può esserci nebbia (vi assicuro), si cammina su un crinale stretto, ad ovest lo sguardo scivola verso le campagne lucane, giù per la valle del Sinni, e sconfina fino a chissà dove, cime dopo cime, abbracciando mezza Basilicata.

    Armi S. Angelo, le rupi viste da nord (foto L.I. Fragale, 5.8.20)

    Fuori dal contemporaneo

    Ad est lo sguardo rotola in Calabria verso le campagne di Rocca Imperiale e il mare. Anzi, da qui si gode una prospettiva del tutto inusuale: il castello di Rocca Imperiale lontano, minuscolo, giù in basso, mostra i suoi bastioni posteriori sulle rupi spoglie, senza il paese a fargli da solita cartolina presepiale ai suoi piedi. Sembra di intravedere Adso e Guglielmo da Baskerville, avvolti nei loro mantelli, Brunello che si gettava felice nelle feci umane sotto la torre. Ma che bestia! Che cavallo! E invece c’è solo rumore di vento, campanacci di vacche, un toro che se le controlla, una minuscola sorgiva in mezzo all’asfalto (è una sorgiva, è una sorgiva, niente tubature a quest’altezza).

    Il castello di Rocca Imperiale, visto da ovest

    “Da qui, messere, si domina la valle…”, diceva Astolfo. E invece no, è soltanto un’oasi che resta tagliata fuori dal contemporaneo: il capoluogo della provincia a due passi da qui è stato Capitale Europea della Cultura nel 2019 (che sembra già un decennio fa). Ma di quale Cultura, l’abbiamo notato? Queste erano le categorie di classificazione dei vari eventi: Digital / Sport / Design and architecture education / Circus / Food / Dance / Street art / Contemporary art / Classical art / Theater / Photography / Cinema / Music / Literature (quest’ultima categoria è stata confinata in altri paesi fuori dal capoluogo).

    Nessun evento a Matera ma ben 4 letture di brani a Melfi e Rapolla, una delle quali alle 10:00 di mattina del 30 marzo: come non esserci?; uno a Villa d’Agri; uno addirittura nella lucanissima Brescia; un contest di poesia a Muro Lucano – ma perché poi la poesia si presta tanto alle competizioni? boh – e ben 9 a Policoro, di cui 5 sul ‘giallo’ lucano, nuovo genere di cui non s’aveva notizia. E nessuna menzione di Albino Pierro, di Rocco Scotellaro, di Isabella Morra (e chi se li ricorda più? anzi, chi li ha mai letti?). Ma, soprattutto, mancano alcune paroline: History, Anthropology, Nature, Landscape/Environment e magari qualcosa d’affine, che in un programma del genere ci si aspetterebbe pure (perché mica in queste terre c’è mezzo Parco del Pollino, mica è un pezzo di Magna Grecia, mica Alan Lomax o Ernesto De Martino ci hanno messo mai piede, no).

    Armi S. Angelo, rupe est (foto L.I. Fragale, 5.9.17)

    Tutto il paese è mondo

    Tutto insomma è declinato alla subcultura d’evasione. O a quella della fuffa del primo che si sveglia la mattina e si autoincorona fotografo o street artist quando non entrambe le cose o, peggio, curatore degli stivali dei suddetti. Tutto in sintonia con i gusti personali del discutibile direttore artistico di turno (artistico, appunto, eppure ben poco culturale). L’indirizzo, anzi, l’obiettivo mi pare chiaro e perfettamente in via di conseguimento. Continuiamo così, barattiamo ciò che abbiamo con ciò che non ci serve affatto.

    Tutta l’Italia è paese. Anzi, tutto il paese s’atteggia a mondo. Cade a pennello il modo di dire delle nostre parti, “ni tìani munnu!”, che si rivolge di solito a chi ostenta ricercatezze, fisime o vittimismi smisurati. Nel frattempo, e prima che sia tardi, fatevi un regalo: andateci, a Nocara. Godetevi con estrema lentezza i tornanti che scendono giù per i suoi dirupi, in direzione Oriolo-Montegiordano, mentre qualche rapace vi volteggia in testa. State tranquilli, non ce l’ha con voi.

    Nocara, vista da sud

     

  • Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Fausto Gullo, a buon diritto annoverato tra i compianti “politici-di-una-volta”, nel 1944 era tra i sostenitori della svolta di Salerno. Aveva aderito alla linea del suo leader, Palmiro Togliatti, ed era poi entrato nel secondo governo Badoglio come ministro dell’Agricoltura, carica mantenuta anche nei successivi. Con il De Gasperi II, cioè il primo governo repubblicano, il comunista Gullo è invece passato al Ministero di Grazia e Giustizia. La Dc aveva spinto affinché lasciasse il posto ad Antonio Segni, futuro capo dello Stato su cui, in quel frangente, i conservatori puntavano per frenare l’approccio che il cosentino (ma nato a Catanzaro) passato alla storia come “il ministro dei contadini” aveva impresso al settore agrario.

    Sergio Rizzo e lo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra l’esordio di Gullo nel governo di unità nazionale e la sua nomina a Guardasigilli sono passati appena due anni. Ma, si sa, a precedere l’alba della Repubblica era stata una notte lunga e tempestosa. Che aveva reso quei tempi forieri di straordinarie mutazioni istituzionali e politiche. È in questa fase che un interessante libro appena uscito colloca una vicenda cruciale nella storia della magistratura italiana: il caso Pilotti, assurto a simbolo dell’eterno dibattito sull’indipendenza del potere giudiziario da quello politico.

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    Il giornalista Sergio Rizzo

    Il libro si chiama Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia (Solferino) ed è l’ultima fatica di Sergio Rizzo, già firma del Corriere della Sera, oggi vicedirettore di Repubblica e autore di bestseller come La casta, scritto con Gian Antonio Stella nel 2007. Il caso in questione, illuminante rispetto alle odierne questioni che (referendum e anniversari di Tangentopoli compresi) investono il sistema Giustizia, riguarda la carriera di Massimo Pilotti, uno che era già magistrato a 22 anni (nel 1901) e che nel 1933 ottiene la nomina a segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni.

    Pilotti l’epuratore

    Un giurista di fama internazionale, insomma, che dopo l’invasione della Jugoslavia fu anche presidente della Corte suprema di Lubiana. E una volta rientrato in Italia diventa procuratore generale della Cassazione (1944). Il governo Bonomi lo mise pure a presiedere le commissioni di epurazione del ministero degli Esteri, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dell’Avvocatura dello Stato. Incarico, quest’ultimo, da cui si dimise dopo che la stampa lo accusò di aver tramato con i funzionari sottoposti a epurazione per ridimensionare le accuse a loro carico. Il governo Parri lo confermò, nonostante la contrarietà di Togliatti (all’epoca ministro della Giustizia), negli altri ruoli.

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    Ritratto di Massimo Pilotti (dal sito della Procura generale di Cassazione)

    Schiaffo alla Repubblica

    Il vero scandalo però viene fuori quando il Guardasigilli è Gullo. È in corso l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947, sono trascorsi appena 6 mesi dal referendum del 2 giugno. In platea per l’occasione siede il primo presidente della neonata Repubblica, Enrico De Nicola. «Il procuratore generale della Cassazione – ricostruisce Rizzo – prende la parola, e nel discorso che apre l’anno giudiziario non gli rivolge il saluto istituzionale. Fatto che già sarebbe grave. Ma Pilotti ignora perfino la nascita della Repubblica». Gravissimo. Si dice che Pilotti sia monarchico, una sorta di Quinta colonna dei fedeli al re nella magistratura, che avrebbe anche spinto sul riconteggio dei voti – in quei giorni non mancano gli scontri di piazza – per mettersi di traverso rispetto alla proclamazione della Repubblica.

    Un Gullo diverso

    Il nuovo ministro ha bene in mente il giudizio sprezzante del suo predecessore nei confronti di Pilotti, che Togliatti definì l’uomo «di fiducia del Governo fascista al momento della conquista dell’Etiopia». Così lo sgarbo a De Nicola diventa un’occasione per fare le scarpe all’alto magistrato. Gullo è certamente un uomo diverso rispetto agli anni della clandestinità, quando da giovane politico-avvocato, nonché fondatore di giornali come Calabria proletaria e L’Operaio, veniva schedato, sorvegliato, arrestato e mandato al confino in Sardegna. Non è nemmeno più lo stesso a cui nel novembre del 1943, dopo la rivolta cosentina contro la permanenza in cariche istituzionali di persone coinvolte con il Fascismo, veniva preferito Pietro Mancini come prefetto.

    Soprattutto, Gullo non è più quello della svolta di Salerno, in nome della quale i partiti antifascisti avevano accantonato la questione monarchica per favorire l’unità nazionale. Ora i conti si possono regolare. Così il Guardasigilli scrive al Consiglio superiore della magistratura, all’epoca dipendente dal suo Ministero, annunciando l’intenzione di rimuovere Pilotti. L’epuratore, dunque, sta per essere epurato. Prova a difendersi, ma Gullo è irremovibile: Pilotti perde il posto da pg. Ma uno così non non finisce certo in rovina. Lo piazzano alla Presidenza del Tribunale delle Acque e per l’occasione elevano la carica a pari grado di procuratore generale.

    Giustizia e politica: due scuole di pensiero

    Anche la pensione non gli va malaccio: da collocato a riposo, nel 1949 Pilotti diventa arbitro italiano alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja e, nel 1952, presidente della Corte di giustizia della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Nel togliere a Pilotti la poltrona di pg, secondo Rizzo, Gullo avrebbe incontrato ben altre resistenze se la vicenda non si fosse incrociata con quella dell’Assemblea costituente. Che proprio nei giorni dello sgarbo a De Nicola discute degli articoli sul rapporto tra giustizia e politica.
    Si scontrano due scuole di pensiero. Da una parte quella che rappresenta anche il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone: propone che i pm dipendano dal governo e che a guidare il Csm sia il capo dello Stato. Dall’altra chi sostiene l’indipendenza assoluta dei magistrati dal potere politico.

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    La Corte di giustizia della Ceca. Al centro, Massimo Pilotti (1952, dal sito della Corte di giustizia europea)

    Le parole di Calamandrei sullo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra questi c’è Piero Calamandrei. Ma, dopo il caso Pilotti, la sua linea perde consistenza e nell’Assemblea si finisce per mediare tra le due posizioni. «In realtà chi ha impedito all’autogoverno della magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto – attacca Calamandrei alla Costituente – non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti».

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    Piero Calamandrei

    Lo sgarbo, secondo Calamandrei, l’alto magistrato lo ha fatto «non al presidente della Repubblica, ma proprio alla magistratura: e la magistratura deve ringraziar proprio lui, il procuratore generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni». Qualche giorno dopo il discorso di Calamandrei, Gullo rimuove Pilotti. E, secondo Rizzo, l’idea «dell’indipendenza cristallina della magistratura tramonta con la sua defenestrazione».

  • Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Uno dei motivi che spingeva i viaggiatori a visitare la Calabria era la sua natura meravigliosa. Molti religiosi provenienti dalle regioni del Mediterraneo e dell’Europa si rifugiarono nelle grotte lungo le coste o sulle montagne per vivere in eremitaggio. Nel silenzio delle foreste si avvertiva più intensamente che altrove la presenza del numinoso, la natura sconvolgente avvicinava gli uomini al Padre Eterno, creatore di quel mondo incantevole; la serenità del paesaggio e la dolcezza del clima erano ideali per arricchire la mente e lo spirito.

    Dove la natura regnava incontrastata si dimenticavano vanità e orgoglio e si aveva la possibilità di ritrovare i valori autentici dell’uomo persi nel caos della civiltà. Brandon-Albini osservava che in Calabria, lontano dalle brutali e rumorose grandi città, l’uomo poteva togliersi la «scorza» utilitaristica e meschina che sembrava rivestire il cittadino del XX secolo.

    Strabone e Sybaris

    Strabone scriveva che l’ecista Is di Elice non dovette avere molti dubbi nello scegliere Sibari come luogo dove costruire la città: in una manciata di chilometri erano concentrati mare, fiumi, pianura, colline e montagne. Il territorio era attraversato da due grandi fiumi che avrebbero rifornito d’acqua la città e irrigato i campi; le colline e la vasta pianura avrebbero dato grano, olio, vino, ortaggi e frutta in abbondanza; le montagne vasti prati per i pascoli, selvaggina di ogni specie, pece e legname pregiato per la flotta, costruzioni e riscaldamento. Il mare dove sfociavano i due fiumi, navigabili vicino alla foce, avrebbe favorito la pesca e i commerci con i popoli del Mediterraneo.

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    Gli scavi allagati dell’antica Sybaris

    Dio fece la Calabria

    Per De Custine la natura in Calabria era ancora quella creata da Dio: La natura in queste regioni è armoniosa e solenne come la musica sacra! Le forme regolari delle montagne, la luce, i suoni, le lunghe linee delle coste delineate dalle onde, la grandezza e il colore delle pianure che, da lontano, sembrano la continuazione del mare, tutto quest’insieme così diverso, e dove si riconosce il pensiero di un solo artefice, mi causa un piacere simile all’ascolto di una grande sinfonia. L’orchestra è così perfetta che si crede di udire un solo strumento! Un’idea unica espressa con una diversità infinita: questo è il sublime, il capolavoro del Creatore e delle creature ispirate da lui».

    Alla ricerca del vascello di Ulisse

    Una volta giunti nella regione, molti viaggiatori si dichiaravano rapiti e sopraffatti dall’emozione di fronte alla rara bellezza dell’ambiente. Quella regione aveva una natura insieme dolce e pittoresca, inquietante e tempestosa. Wey, contemplando lo scenario di Palmi, confessava che quel posto magico ispirava al pensiero di Dio e degli dei, all’Oriente cristiano e alla Grecia classica. Il viandante scrutava le acque alla ricerca della scia del vascello di Ulisse e della nave di Giasone; ascoltava il fruscio del vento che spirava dalle Eolie, ed era come se sentisse il rumore del martello di Vulcano che forgiava nelle sue fornaci le armi del figlio di Anchise. Palustre de Montifaut, guardando il paesaggio di Bagnara, annotava che ogni genere di splendore si trovava riunito in quel punto del globo, sembrava che la natura avesse voluto, con uno sforzo supremo, dare spettacolo di tutto ciò che era capace di produrre.

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    Una vecchia stampa di Bagnara Calabra

    Da Palmi a Bagnara

    E De Custine scriveva: Non credo che esistano al mondo dei luoghi più belli di questa parte delle coste della Calabria. Quando dall’alto della montagna che le separa da Palmi e si procede verso il mare, si scorge Bagnara, la sua posizione e le rocce che la circondano sembrano talmente straordinarie che appena non le vedo più mi riesce impossibile rappresentarmele. Tutto profuma di erbe aromatiche ed è ornato di festoni di liane pittoresche simili a cascate di fiori. Questi grandiosi anfiteatri si innalzano a delle altezze spaventose e niente è più provocante tra il contrasto del lavoro dell’uomo e l’irregolarità di una natura sempre selvaggia, la cui bizzarria è addolcita da una certa armonia che io ho trovato solo nei paesaggi italiani.

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    Il viaggiatore francese De Custine restò senza fiato dinnanzi alle bellezze di Palmi

    Lusso selvaggio e primitivo

    Le forme e le luci di questi luoghi sfarzosi sono, in verità, delle “invenzioni” della natura. Sembra che essa non voglia permettere all’uomo di abbellire la terra senza intervenire essa stessa. Perciò, si affretta a mascherare le proprie opere d’arte sotto un lusso selvaggio e primitivo. Sembra che in questa terra la natura, indignata dalle conquiste dell’uomo, si burli della civilizzazione non opponendogli degli invincibili ostacoli, come sulle Alpi, ma abbellendola come nella pittura! Tutto ciò che dico è incompleto o monotono: bisognerebbe vedere il trionfo della luce sul mare i cui riflessi mutano ad ogni istante, come quelli di una lama di metallo esposta ai raggi del sole; bisognerebbe udire il mormorio del vento tra gli alberi.

    Come appariva il fiume Crati agli occhi dei viaggiatori francesi

    Anche le zone interne erano affascinanti e incantevoli. Saint-Non, pur vedendo intorno miseria e desolazione, scriveva che la Calabria appariva come una terra promessa vista dal deserto, un’immagine dell’età dell’oro e del paradiso terrestre. C’erano foreste come frutteti e frutteti come foreste e tutto ciò che negli altri paesi avrebbe richiesto dispendio di risorse per abbellire i giardini, in quella terra cresceva naturalmente e con un’armonia sorprendente.

    I giardini di Corigliano e dell’Esaro

    I giardini di Corigliano sembravano simili a quello delle Esperidi, tanto gradevoli quanto utili, tanto abbondanti di frutti quanto suggestivi. In quelle terre si raccoglievano grano e uva in quantità, c’erano pascoli grassi e fertili, si pescavano pesci in abbondanza e si potevano raccogliere i frutti più deliziosi al mondo.

    Corigliano calabro in un’antica stampa francese

    Lenormant, osservando la vegetazione lungo le sponde dell’Esaro, osservava che in quel posto incantato era possibile ritrovare tutti i miti della cultura greca: «Ammiro l’incomparabile rigoglio e la fecondità della vegetazione nei giardini dell’Esaro. Vi sono terreni che sarebbero un vero paradiso terrestre, se la febbre non venisse a screditarli, rendendoli inabitabili durante un gran tratto dell’anno. Nella stagione in cui vi si può passeggiare senza timore e godere liberamente la delizia della loro fresca verdura, questo sito è davvero incantevole, e si darebbe volentieri per quadro ad un idillio. È proprio nei boschetti di tal genere che la poesia greca si compiaceva di descrivere i trastulli delle Ninfe; è proprio in mezzo ai canneti, come quelli che fiancheggiano il fiume, che essa le faceva spiare nel bagno dai Sàtiri.

    Questi canneti, in cui mormora il vento, sembrano scendere in linea retta da quelli che produsse la metamorfosi della ninfa Syrinx, stretta da presso dal dio Pane, che la perseguitava amorosamente; questi allori dal tronco slanciato, si crederebbe volentieri che abbiano avviluppato con le loro cortecce il bel corpo di Dafne, allo scopo di sottrarla agli amplessi di Apollo; queste viti che si arrampicano ai rami degli alberi giganteschi e fanno ricadere intorno ad essi mollemente i loro festoni, rappresentano Erigone, la disperata amante di Dioniso, il corpo della quale si culla in balìa dei venti dopo il suicidio; i vortici fangosi del fiume sono pronti ad inghiottire ancora una volta il bel cacciatore Aisaros, se mai si avventuri imprudentemente nelle sue acque. Qui, come in Grecia, l’aria che si respira è quasi impregnata di mitologia».

    L’antica Stilo

    Mostri e vulcani

    La natura della Calabria attirava i viaggiatori anche per i suoi aspetti mostruosi e terrificanti. Quella terra nascondeva dentro le sue viscere mostri non domati dagli dei che scuotevano il terreno e distruggevano tutto ciò che gli uomini avevano pazientemente costruito in centinaia di anni. De Tavel affermava che la Calabria, il cui suolo si agitava continuamente, riposava sul fuoco dell’inferno: a ogni scossa di terremoto vomitava sulla sua superficie una legione di demoni. Stolberg pensava che la regione fosse al centro del fuoco sotterraneo del Mediterraneo, il cui alito spirava attraverso il Vesuvio, lo Stromboli e l’Etna. La Calabria era come una donna in fiore, ma aveva nel cuore un gigante le cui convulsioni scuotevano spesso la terra! La sua nascita era stata annunciata con violenza dalle doglie della partoriente e queste doglie sconvolgevano la terra da polo a polo!

    Lo Stretto e le sue leggende

    Il mare dello Stretto era ricco di storie mitiche che narravano di mostri spaventosi, sirene mangiatrici di uomini e fate incantatrici. Non bastavano i devastanti maremoti, le impetuose correnti e le trombe marine a rendere quella zona inquietante e misteriosa. Lo Stretto era uno spazio naturale e insieme soprannaturale, un luogo magico dove avvenivano metamorfosi, incantesimi e prodigi in contrasto con le leggi della natura. Da quando Poseidone aveva separato, con un colpo di tridente, la Sicilia dalla Calabria, sulle opposte rive si erano insediati esseri mostruosi.

    C’erano le sirene, che se ne stavano sulla spuma delle onde, sulle spiagge deserte e sulle rocce: belle e perfide donne con la coda di pesce, le chiome d’oro o di colore verde come lo smeraldo, con la loro voce melodiosa ammaliavano marinai e pescatori che, non potendo resistere al fascino della loro bellezza e del loro canto, sbarcavano sulle spiagge, dove venivano fatti prigionieri o divorati. Sempre in quel tratto di mare dimorava la fata Morgana, che aveva il suo castello sotto le acque profonde e, soprattutto nei mesi estivi, si divertiva a fare apparire sulla superficie del mare e nell’aria spettacoli favolosi e immagini bizzarre.

    Nel tratto di mare di Reggio Calabria secondo la leggenda dimorava la Fata Morgana

    Il nome che più di tutti suscitava orrore nell’immaginario dei viaggiatori era quello di Scilla. Per de Custine non aveva senso arrivare in Calabria senza lasciarsi trasportare dalle onde dello Stretto dove aveva navigato la nave di Ulisse e senza vedere dal mare gli orridi scogli di Scilla. Quella rupe che si elevava maestosa all’imbocco dello Stretto, era un limite che separava la soglia dei mortali da quella degli immortali. Nell’infinità del cosmo occupava uno spazio separato e isolato, posto alle estremità del mondo, un punto fisso che orientava i viaggiatori e li metteva in relazione col soprannaturale.

    La natura della Calabria descritta dai viaggiatori è stata mortificata dai suoi abitanti. Già verso la fine dell’Ottocento Wey scriveva che il territorio di Monteleone, soprattutto dove si trovava il «Fondaco del Fico», era una zona infetta e miserabile. In passato, i poeti della Magna Grecia l’avevano celebrato la degna dimora degli dei: la figlia di Cerere vi coglieva il mirto e il melograno e danzava sui fiori e sulle spighe di grano. Da molto tempo quel territorio era preda del soffio velenoso della morte, germogliavano spine, rovi, e l’asfodelo consacrato agli abitanti della Stige. Concludeva dicendo che, se la natura aveva dato un clima salubre e dolce, l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche, avevano creato delle cloache infette. Questa atmosfera condizionava la moralità degli abitanti e spiegava perché i figli di questa terra, da grandi, diventavano «infidi serpenti».

     

  • Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    A Galatro, poco meno di 1.500 abitanti tra la Locride e le Serre, ci sono due potenti attrattori: innanzitutto le terme, costruite a fine ’800, e una fattoria modello, la Tenuta agricola Riario Sforza.
    Queste strutture sono ciò che resta di un progetto ambiziosissimo e mai realizzato. Si tratta di una città nuova di zecca, che avrebbe dovuto prendere il posto del borgo, dedicata nientemeno che all’eroe dei due mondi. Parliamo di Garibaldipoli, forse il primo progetto di rigenerazione urbana in Calabria, concepito da un personaggio singolare, Luigi De Negri, un ex garibaldino genovese trapiantato a Napoli.

    Un avventuriero per due continenti

    Su Luigi De Negri si sa poco. E quel poco che si sa lo si deve alle ricerche effettuate dallo storico Giuseppe Monsagrati, finite nel libro “Garibaldipoli e altre storie di terra e di mare” (Rubbettino 2021). Difficile dire, soprattutto, che età avesse De Negri quando, nel 1862, tentò la fortuna in Calabria meno di un anno dopo essere uscito di galera, dov’era finito per una maxitruffa a Napoli. E non si sa neppure che fine abbia fatto, dopo aver tentato di far fortuna in Africa, agli albori del colonialismo italiano.
    Che sia stato garibaldino e avesse partecipato alla spedizione dei Mille lo si apprende dai documenti del Generale. L’eroe dei due mondi in effetti ebbe con lui un rapporto particolare. In cui c’era di tutto, tranne la fiducia. E le sue idee strampalate, a volte geniali ma sempre irrealizzate, emergono dagli archivi giudiziari e ministeriali.

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    Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi

    Una città ultramoderna a Galatro

    Nel 1861 Galatro aveva un problema singolare: lo spopolamento, iniziato addirittura in età borbonica e dovuto alla cattiva posizione del borgo, tutt’altro che salubre.
    Il paese, tra l’altro, era stato ricostruito a inizio ’800 su un’altura, dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo il sito originario. In altre parole, questa situazione era il risultato di una scelta fatta in situazione di grave emergenza, in cui i rischi erano ben altri che l’aria insalubre e l’umidità.
    Con tutta probabilità, l’idea di creare una nuova città e dedicarla a Garibaldi fu suggerita agli abitanti di Galatro proprio da De Negri, che quell’anno aveva appena chiuso una tipografia per inventarsi una fantomatica Società Promotrice per le Opere Pubbliche Comunali per l’Italia meridionale, con tanto di sede prestigiosa: il Palazzo Maddaloni di Napoli, proprietà del principe Tommaso Caracciolo.

    Proprio a Napoli, De Negri avrebbe frequentato un galatrese diventato famoso: Nicola Garigliano, un medico liberale, ferito durante i moti che precedettero l’arrivo dell’Eroe dei Due Mondi nella ex capitale dei Borbone. Vediamo meglio di cosa si trattava.

    Galatro-Garibaldopoli-Garibaldi-I-calabresi
    Garibaldi entra a Napoli con i suoi uomini

    Garibaldipoli

    Sembra strano trovare tanta modernità nell’Italia appena unita. Eppure, se fosse stata realizzata, Garibaldipoli sarebbe stata la prima città realizzata in project financing.
    Non solo: sarebbe stata anche la prima città costruita su un piano regolatore all’avanguardia: una pianta quadrata, divisa in quattro porzioni da due strade che si incrociano ad angolo retto. L’abitato, infine, sarebbe stato costituito da case di un solo piano, di uno o tre vani. Il nome di Garibaldi, in questo caso, serviva ad ungere le ruote dell’amministrazione provinciale e dei ministeri e ad attirare investitori. Già: perché oltre che dai desideri dei cittadini di Galatro e dalla megalomania di De Negri, il progetto non era supportato da niente.

    La città patacca

    Garibaldipoli si sarebbe dovuta realizzare su un’altura della Valle del Salice, tramite l’esproprio, finanziato dal Comune di Galatro, di vari appezzamenti di terreno agricolo già assegnati a vari privati.
    L’operazione non era leggerissima, avendo un costo iniziale di circa 10 milioni di euro odierni. Stesso discorso per la costruzione, che secondo il piano di De Negri, sarebbe stata finanziata in parte dagli stessi cittadini con l’acquisto preventivo delle case, in pratica una cooperativa edilizia. Più interessante è l’altra parte del finanziamento, che sarebbe dovuto derivare da azioni, dal valore di 200 euro odierni l’una, emesse direttamente dalla Società di De Negri, il quale praticamente non metteva uno spicciolo di suo, ma solo il nome di Garibaldi, con cui millantava rapporti di grande intimità.

    In cambio di tanto impegno, l’imprenditore si “accontentava” della concessione gratuita delle acque termali, che allora sgorgavano in una grotta nei pressi del paese. Per sfruttarle avrebbe costruito uno stabilimento, finanziato sempre con azioni, da collocare addirittura presso il mercato internazionale.
    E non finisce qui: il nome del Generale, inoltre, avrebbe dovuto garantire la costruzione di nuove strade che collegassero l’area di Galatro, praticamente isolata, alla vicina Polistena.

    Convocato da Garibaldi

    C’è da dire che il Nostro si diede da fare per davvero. Inondò di lettere Garibaldi, a cui chiese addirittura di mettere la sua residenza proprio nella futura città.
    Ma l’Eroe dei Due Mondi, ripresosi da poco dalle ferite riportate in Aspromonte, non solo non aderì all’iniziativa, che finì in niente, ma volle vederci chiaro e convocò De Negri a Caprera. Di questo incontro, che avvenne alla fine del 1863, non si sa molto, se non che, da allora in avanti, De Negri non si sarebbe più messo in bocca il nome del Generale.

    Truffe garibaldine

    Infatti, non era la prima volta che De Negri usava il nome di Garibaldi che era già un brand di suo. Già nel 1860, a conquista appena ultimata delle Due Sicilie, l’imprenditore ligure aveva inventato un Comitato per la spada d’onore a Garibaldi, con sedi a Napoli e Milano.
    Era la classica macchinetta mangiasoldi, escogitata assieme ad Alessandro Salvati un altro ex garibaldino avventuriero come lui, segno che chi si somiglia si piglia.
    Lo scopo di questo comitato, che faceva concorrenza ai ben più seri Comitati di provvedimento garibaldini, era la raccolta di fondi per finanziare le prossime imprese dell’Eroe. Tra cui una bizzarrissima e megalomane: una spedizione nei Balcani per liberare l’Ungheria dal giogo austriaco. Sembra strano, ma qualcuno la prese sul serio, col rischio di scatenare una crisi internazionale

    Intrigo internazionale

    In Italia c’era allora una comunità di esuli ungheresi, divisa da una forte rivalità interna tra due leader, entrambi militari. Erano Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e uomo di fiducia di Garibaldi, e il generale Sandor Gall.

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    Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e persona molto vicina a Garibaldi

    Gall si fece sedurre dall’idea dei due fondatori del Comitato della Spada: uno sbarco in Grecia, possibilmente guidato da Garibaldi (o comunque in suo nome), quindi la risalita in armi nei Balcani occidentali per dare una mazzata all’Impero d’Austria. E così il Comitato iniziò a reclutare volontari e, soprattutto, a raccogliere quattrini.
    Peccato solo che Cavour, impegnato a negoziare la pace, contrastò l’iniziativa, a cui Turr si era ferocemente opposto, e Garibaldi negò il suo consenso. Risultato: i Comitati di provvedimento denunciarono per malversazioni finanziarie Salvati e De Negri, che finirono in galera assieme a Gal.

    Il generale ungherese Sandor Gall

     

    Senza Garibaldi

    Nel 1870 De Negri si tolse dalla testa Garibaldi e si buttò in un altro settore: la pesca. Allo scopo, aveva comprato uno scoglio nella baia di Posillipo, l’isola di Gajola. Luogo su cui aveva costruito una villa che sarebbe dovuta diventare la sede di quest’impresa. Un’attività economica per l’epoca all’avanguardia: l’allevamento dei pesci e il loro sfruttamento razionale. Inutile dire che questa iniziativa si sarebbe dovuta finanziare, più o meno, come Garibaldipoli: attraverso la raccolta di fondi mediante le azioni della sua Società di Pescicoltura. Anche quest’impresa finì malissimo, sia perché i pescatori vi si opposero sia perché la bocciò l’illustre zoologo Achille Costa.

    L’isola di Gajola, che fu acquistata dall’avventuriero ed ex garibaldino Luigi De Negri

    Mal d’Africa

    De Negri tentò l’ultima avventura ad Assab, nei primi ’80 del 1800. Il porto eritreo era da poco colonia italiana perché l’armatore Rubattino l’aveva venduto al governo. Logico che attirasse gli appetiti di imprenditori, semplici lavoratori e di avventurieri. Altrettanto logico che uno come De Negri tentasse anche lì. Infatti, il Nostro ripropose l’idea della pescicoltura con un’aggiunta esotica in più. Purtroppo per lui, trovò sulla sua strada Costa, a cui il governo dell’epoca chiese una consulenza. Inutile dire che il progetto fu lasciato cadere. Da questo periodo in avanti non si hanno più notizie di questo personaggio, a dir poco singolare.