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  • STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

    STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

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    A Buonvicino si arriva in 15 minuti da Diamante. Basta volersi fare questa cortesia e sopportare qualche curva. Quella per arrivarci non è una “strada perduta” ma è una strada che, per chissà quale ragione, ancora troppi si ostinano a non percorrere. Eppure Buonvicino ha ottime carte da giocare e basterebbe farsi guidare da appetiti – è il caso di dire – molto ruspanti, senza arzigogolare troppo di fantasia. Perché c’è poco da girarci intorno: a Buonvicino tanto per cominciare si mangia in maniera straordinaria. E questo è un primo dato di fatto inconfutabile.

    Qui si mangia e si beve bene

    Se c’è una cosa per cui i turisti ricordano la Calabria con ammirazione stupita, questa è solitamente la quantità di portate che si nascondono dietro la vaga dicitura di “antipasto misto della casa”. Bene: a Buonvicino, generalmente, dovete moltiplicare per 2 la quantità già ipertrofica e almeno per 5 la qualità rispetto alla media regionale (e giuro di non essere al soldo della pro-loco locale).

    Non è finita qui: i vini locali hanno sapore, corpo e gradazione che francamente non ho mai trovato altrove (gusti personali, ovviamente ma c’è anche una ragione storica di cui parlerò un’altra volta). I ristoranti disseminati lungo i tornanti che portano al paese possono provarlo con fierezza (e qui mi taccio), qualora a provarlo non bastasse la toponomastica con le contrade Vignali, Ficobianco e Puma: tutto intorno al “food”, insomma. Ma mica da ora…

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    Frontespizio della prima edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837)

     

    Il duca Cavalcanti con la passione per la cucina

    Il caso – anzi – la storia vuole che, ad un certo punto, a fregiarsi del titolo di duca di Buonvicino fosse quell’Ippolito Cavalcanti che nel 1837 fu anzitutto autore di quel libro – la Cucina teorico-pratica – che fu il più celebre ricettario d’Italia per almeno 54 anni (nonché il primo a menzionare la ricetta della pasta al pomodoro), ovvero quando fu soppiantato dall’ormai più inclusivo e ‘unitario’ Pellegrino Artusi (col fin troppo popolare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene).

     

    Ora, parliamoci chiaro, il ‘buonvicinato’ c’entra poco, in quanto Ippolito era tutto campano: di madre, di nascita, formazione e decesso (e lo stesso libro è scritto in due lingue: napoletano e italiano). Vero, al suo bisnonno Lucio era stato conferito da Carlo VI il titolo di primo duca di Buonvicino già nel 1720, e l’omonimo nonno di quest’ultimo ne era già barone ancora prima, ma va anche considerato il fatto che, lasciata la Toscana, i Cavalcanti tra Napoli e la Calabria proliferarono enormemente, ed è quindi difficile stabilire quanto davvero Ippolito abbia solcato i vicoli di Buonvicino.

    I vicoli forse no. I campi e i vigneti forse di più, perché una cosa certa c’è: ai Cavalcanti appartenne il gattopardesco Casino di Contrada Lago, oggi abbandonato dopo un primo tentativo di ristrutturazione e ampliamento da parte di privati. L’imponente portale, sempre chiuso, cela dietro al suo muro di cinta semicircolare diversi corpi di fabbrica, tra cui una cappella intitolata a San Giacomo, che certamente potrebbe dire qualcosa di più anche sulla storia di Ippolito e dei suoi.

     

    L’albero genealogico

    Non c’entra ma c’entra: un piccolo dato genealogico che solitamente sfugge e va invece fissato da qualche parte è che la nonna paterna di Ippolito era Marianna Andreassi de Consiliis – originaria di Oriolo Calabro – il cui nonno Francescantonio era, a fine Seicento, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e i cui avi De Georgis furono committenti, nel Cinquecento, dello splendido presepe in pietra di Tursi. Chiusa parentesi.

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    Cartiglio lapideo nella chiesa di San Ciriaco Abate, con voto di Ippolito Cavalcanti (senior) e consorte

     

    Buonvicino è un po’ Napoli

    Buonvicino e Napoli, dunque, e il nesso torna quando intravedi nel centro storico un “vico Speranzella”, che riporta dritto ai Quartieri Spagnoli e alla pizza fritta di Donna Fernanda. Ancora una volta, testa e pancia. Nel bar della piazza mi ero fermato a parlare con due anziani – forse nemmeno tanto – che si contendevano la scena mentre il numero di bicchieri di vino reciprocamente offerti diventava sempre più incerto.

    Gerardo e Angelo mi raccontavano così del maestro d’ascia Francesco Martorello, classe 1906, che batteva i boschi dormendo all’addiaccio in sacchi a pelo fatti di foglie d’albero; della grotta del diavolo, di quella d’u sìettu, della zona della scivulenta detta così perché ci si facevano scivolare i tronchi degli ontani appena tagliati, della grotta di Maladurmì che col suo nome confermava tutto il mio scetticismo di quando altri mi raccontarono l’improbabile etimologia che riconduceva a questa stessa parola il nome della contrada Maladrumi in Sardegna, verso Porto Istana.

    Ma torniamo agli anziani del luogo, meno fantasiosi (forse): mi parlavano dei feudatari della prima metà del Seicento, i De Paula di Malvito (pure avi del gastronomo Cavalcanti), contro i quali la popolazione di Buonvicino si sarebbe armata ferocemente non soltanto per opporsi all’aumento dei balzelli ma anche – immancabile in ogni leggenda che si rispetti – allo ius primae noctis.

    Sanzioni economiche 

    Buonvicino e l’Impero fascista: appena si entra nel centro storico ci si imbatte in una lapide che, lì per lì, dice poco e che invece ha anch’essa un suo primato ben preciso: è tra le meglio conservate delle circa 40 colleghe superstiti in Italia. Risale alla fine del 1935 e ricorda le sanzioni economiche comminate all’Italia da parte della Società delle Nazioni in occasione delle conquiste in Africa Orientale.

    Lapide fascista contro le sanzioni inflitte all’Italia dalla Società della Nazioni (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per disposizione dello stesso Mussolini, tale lapide doveva essere affissa presso tutte le sedi municipali italiane. Dopodiché furono rimosse, abrase, riutilizzate, distrutte e, appunto, ne rimangono oggi pochissimi esemplari. Quella di Buonvicino è tra le più intatte, neppure le lame dei fasci sono state intaccate (solitamente era l’intervento “minimo”): potere della perifericità.

    Non trasferire mai la statua del Santo

    Buonvicino e l’imperscrutabile. Il 17 settembre 2006, festa di San Ciriaco (guaritore ed esorcista vissuto a cavallo dell’anno 1000, patrono di Buonvicino), un masso si stacca dal costone di roccia che sovrasta il paese. Rimbalza da un angolo all’altro del dirupo, ignora il centro storico e si dirige verso la piazza alle porte del paese, laddove è in corso il mercato per la festa.

    Tradotto: persone, bancarelle, automobili. Risultato: nessun danno a persone o cose (e le persone, ok, possono darsela a gambe con una certa prontezza; bancarelle e auto parcheggiate, un po’ meno). Mi fermo ad ascoltare il racconto un po’ più attentamente perché, man mano che i dettagli aumentano, mi ricorda sempre più la trama di altri due o tre racconti analoghi.

    Le chiavi della città donate a San Ciriaco Abate, patrono di Buonvicino

    Pare insomma che la sacra effige del santo fosse stata portata anche quell’anno in processione dalla Chiesa di San Ciriaco Abate fino alla chiesetta costruita nei pressi della grotta che il santo adoperò come eremo, in fondo al vallone nei pressi del paese. Fin lì tutto normale. Se non fosse che quella volta fu deliberatamente lasciata lì e non riportata “a casa sua”. Da qui l’ammonimento del Santo: ira e salvazione, mazze e panelle. Tutti questi dettagli, insomma, m’hanno ricordato la storia di un’immagine sacra, rinvenuta in un bosco, poi trasferita in una chiesa, poi sparita e ritrovata esattamente nel luogo originario, laddove si decise infine di fondare il monastero del Sagittario, in Basilicata.

    La stessa ‘cocciutaggine’ delle statue sacre mi è nota, per il pochissimo che ne so, almeno in due altri casi: a San Bartolomeo ad Alicudi, e alla Madonna del Càfaro ad Albidona (portata in una nuova chiesa e puntualmente ritrovata nella chiesa precedente, e puntualmente riportata nella nuova fino alla frana definitiva di quest’ultima, in cui si salvò solo la statua). Sarà per questo che al bivio della sterrata che conduce alla grotta di San Ciriaco un cartello invita religiosamente a non bestemmiare per le buche, perché “Dio ti sente, il Comune no”.

    Sacro e profano sull’antica via istmica (foto L.I. Fragale, 21.09.2021)

    Enogastronomia e misticismo

    Va detto, Buonvicino riesce a unire sacro e profano, sensi e spirito. Enogastronomia e misticismo, forse, per giunta, tutto in chiave naturalistica: l’enorme statua di San Ciriaco che incombe – protettiva e minacciosa – sul paese, sta fuori da una delle prime curve della martoriata strada che porta alla chiesa della Madonna della Neve, 720 metri s.l.m. (ovvero un dislivello di 320 in pochi tornanti). Ma, quando si arriva lì, si è presi dal guardare a tutto fuorché alla chiesa, trovandosi su un terrazzo naturale a metà tra cielo e montagne dell’Orsomarso. A fare da guardia, due cagnolini, ma proprio cuccioli, che vi seguiranno imploranti (benché non randagi) fino a quando non rimetterete piede in macchina.

    Panorama dalla Madonna della Neve (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Ventisei famiglie senza luce e acqua corrente

    Dall’altra parte del bivio “delle bestemmie” si prende invece la strada sterrata, ma abbastanza in piano, per la contrada abbandonata di Serrapodolo, a circa 5 km dal centro storico. È ciò che resta di una delle antiche vie istmiche calabresi: questa si insinua subito fuori dal paese, in mezzo ad un canyon, e procede fino al Varco del Palombaro (quello che portava al santuario di Artemisia, in seguito a quello del Pettoruto, e da sempre alla Piana di Sibari).

    Le poche case abbandonate di contrada Serrapodolo (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per arrivare a Serrapodolo bisogna bagnarsi i piedi un paio di volte e ne vale la pena: oggi ci si incontra al massimo qualche gruppo composto da bue, vacca e vitellino, ma fino al 1968 qui vivevano ben 26 famiglie, mi dicono. Non erano mai state raggiunte dall’acqua corrente e dalla luce elettrica, e lentamente abbandonarono questa vallata e questi paradisi, restituendoli alla loro eternità.

    Lo Stretto, strozzatura del canyon sulla via istmica (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

     

  • Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

    Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

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    Secondo alcuni studiosi un comune sentire ha sempre legato i cosentini differenziandoli dagli abitanti delle altre città meridionali. Differenza enfatizzata da alcune peculiarità come lo spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura nei confronti dello straniero. Piovene affermava che erano uomini «d’ingegno esatto», «rifuggivano dalle iperboli» e avevano spiccata attitudine alla filosofia: se Napoli vinceva in scintillio dialettico, Cosenza aveva un vigore speculativo essenziale.

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    La Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede della prestigiosa Accademia cosentina

    Cosenza serva dei potenti

    Nell’Ottocento, Arnoni definiva i suoi concittadini ombrosi nelle traversie della vita e «immaginosi» nei fausti avvenimenti, lietissimi nelle private e pubbliche gioie e cupi e permalosi nelle grandi sventure. Ricordava con dispiacere, inoltre, che pur avendo forti sentimenti religiosi, bestemmiavano frequentemente con «occhi di fuoco» il «Santudiavulu» e la «Madonna». Concludeva affermando che avevano una doppia natura e che bello e brutto, civile e selvaggio, tragico e grottesco, odio e amore, riso e pianto, fedeltà e tradimento, bacio sincero e assassinio a sangue freddo, si avvicendavano in loro senza posa.

    Padula, di Acri, irrideva i Cosentini per la loro piaggeria verso i potenti e li rimproverava di non avere alcun senso del bene pubblico. In città vivevano buoni padri di famiglia, ma non cittadini. Nessuno trascurava la pulizia della propria casa, ma non ci si preoccupava di quella delle strade e tale grettezza era propria sia di chi aveva il cappello a cono che quello a cilindro. Egli catalogava i galantuomini della città in «curiosi», «vanitosi» e «importanti».

    Faccendieri che ostentano amicizie importanti

    Tutti, indistintamente, si ingegnavano per guadagnare l’amicizia, la confidenza e la protezione degli uomini di governo. I «curiosi», invece di apprendere le scienze, erano interessati alle notizie che arrivavano da Napoli e andavano a raccontarle agli amici per il piacere di sorprenderli. I «vanitosi» amavano far visita alle autorità, passeggiare con loro lungo il corso e andarci a teatro: il loro unico scopo era quello di ostentare l’amicizia col giudice, il generale e l’intendente. Gli «importanti» erano individui che frequentavano gli uomini potenti in modo da ottenere protezione e favori, faccendieri che a loro volta risolvevano problemi di ogni tipo in cambio di denaro.

    Donne eleganti e uomini ardenti

    Le impressioni sui cosentini degli stranieri che nel Settecento e nell’Ottocento giunsero in città sono spesso negative. È inutile precisare che molti di loro avevano uno sguardo etnocentrico, ma non dobbiamo pensare che il loro unico scopo era quello di manifestare disprezzo verso gente ritenuta inferiore e che tutto ciò che annotavano nei loro diari fosse frutto di malafede o fantasia usata a sostegno della loro cultura.
    Bartels scriveva che, sia per le caratteristiche fisiche che per quelle morali, gli abitanti potevano considerarsi i diretti discendenti dei Bruzi.

    Le donne, nonostante il colorito spento provocato dalla malaria, avevano eleganza nel portamento. Gli uomini erano forti, alti, robusti, con i capelli spessi e neri e uno sguardo ardente. Secondo la Lowe i cosentini erano molto avvenenti, gli uomini più belli che avesse mai visto e, probabilmente, era il freddo degli inverni a conferire loro quella freschezza quasi inglese. Anche Gissing, nel suo breve soggiorno in città, aveva notato fisionomie gradevoli e uomini pieni di carattere, doti che avrebbero potuto essere quelle dei Bruzi, loro fieri antenati. Egli notava, inoltre, che a differenza dei napoletani non amavano il chiasso, parlavano con lentezza e non molestavano gli stranieri.

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    Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica

    I cosentini non erano colti e aperti

    L’immagine dei cosentini aperti, colti e moderni non trova riscontro nei racconti dei viaggiatori. Bartels dipingeva una città in cui le donne erano totalmente sottomess. Non prendevano mai parte alle allegre tavolate e il loro compito era solo quello di cucinare e servire a tavola. Per Vom Rath i mariti erano molto gelosi, le occasioni di incontro tra uomini e donne erano rare, le danze quasi sconosciute e il «ballo tondo», in cui il cavaliere stringeva col braccio la dama, era oggetto della massima esecrazione. Didier raccontava che, nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato, si rispettavano le antiche tradizioni patriarcali: a donne e bambini era vietato sedersi a tavola e così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Gissing confermava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione».

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Il taccuino dei viaggiatori

    I viaggiatori mettevano anche in discussione l’amore dei cosentini per l’indipendenza e la libertà della patria. Per De Custine erano tutt’altro che fieri: avevano il terrore dell’autorità e, dal mulattiere al barone, si adeguavano sempre ai nuovi padroni. Discendenti dei Bruzi, secondo de Rivarol, erano disposti a tutto pur di trarre un guadagno, non avevano un senso della lealtà e della morale, erano crudeli e insolenti con le vittime e vili e imploranti con i vincitori.

    I cosentini erano spesso descritti come particolarmente furbi, capaci di grandi doti attoriali che sfruttavano a loro favore. De Custine li dipingeva come istrionici, «crispini» e «scapini» appena scesi dal palcoscenico e usciti dal teatro per continuare i loro lazzi in strada. Avevano la figura, il costume e lo spirito dei personaggi della commedia e lui si divertiva a spiarne le svagate furberie. Al momento di saldare il conto, l’oste di Strutt si distese su un letto dibattendosi e giurando che non poteva accettare un solo tornese in meno. L’inglese, dal canto suo, assicurava di non potergli dare un solo tornese in più e l’uomo con smorfie, strette di spalle e occhi semichiusi, continuò a tendere sconsolatamente la mano.

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    Il viaggiatore francese Astolphe De Coustine

    Amanti del teatro e dei vestiti alla moda

    Questa abilità dei cittadini nel recitare, spiegava il loro amore verso il teatro, unico luogo di intrattenimento serale. La Lowe rimase colpita dal fatto che il pubblico conoscesse le arie a memoria: tutti canticchiavano come se volessero unirsi al coro. Anche Didier ebbe modo di notare che i cosentini amavano molto gli spettacoli e, andando a teatro, gli sembrò di essere tornato in Europa, siccome da quando era in Calabria si sentiva in Africa!
    Gli stranieri notavano meravigliati l’attenzione che gli abitanti di Cosenza prestavano alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento. Didier rimase colpito nel vedere in un negozio i modelli del Journal des Modes di Parigi che stridevano nel contesto delle aspre montagne calabresi.

    A differenza di altri luoghi le donne non si coprivano la testa col velo nero come monache e gli uomini non portavano il cappello a cono ornato di nastri. Anche Emily Lowe notava che i cosentini ci tenevano molto ad apparire eleganti. Gli uomini indossavano un cappello particolare e pochi si contentavano di averne meno di due, uno vecchio e uno nuovo, da usare a seconda del tempo e delle circostanze: a un rovescio d’acqua compariva il vecchio, col cielo azzurro o davanti a una ragazza carina, spuntava quello nuovo. Maurel scriveva che le donne, anche quelle dei ceti popolari, erano sempre ben vestite e si rammaricava di non averle potuto fotografare con la sua Kodak, sebbene la pellicola non sarebbe stata capace di rendere il vivo colore dei vestiti e i movimenti aggraziati del loro incedere.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Cosenza città sporca

    I viaggiatori sottolineavano, tuttavia, che all’estrema cura della persona non corrispondeva quella per il decoro della città, descritta come particolarmente sporca e in abbandono. La struttura urbana appariva assai modesta, fatta da viuzze strette e ripide, alcune delle quali s’insinuavano al di sotto dei palazzi in portici tortuosi e bui. Questa trama edilizia monotona e povera era rotta, di tanto in tanto, da palazzi nobiliari di sobrie linee architettoniche, con ampi portoni e cortili.

    Cosenza era talmente sudicia da «fare pietà». Per Maurel la città poteva essere meravigliosa solo se la si visitava senza fermarsi: nonostante un viaggiatore del ventesimo secolo fosse disposto a sacrificare alcuni comfort per soddisfare la sua sete di conoscenza, a tutto c’era un limite! Se si voleva sapere cos’era la sporcizia, bisognava visitare Cosenza. Egli era rimasto talmente sconvolto dal lerciume che lo circondava, da decidere di concludere la giornata in montagna, tra capre che gli sembravano profumate!

    Parlavano troppo 

    Altro aspetto che rimarcavano i viaggiatori sui cosentini era la loro eccessiva loquacità. Alcuni stranieri erano infastiditi di dover sopportare le chiacchere delle persone presso cui erano ospiti e dichiaravano apertamente che avrebbero fatto volentieri a meno di ascoltarle. De Tavel ricordava che i cittadini usavano tutta la loro astuzia se volevano persuadere qualcuno: le loro maniere diventavano striscianti e insinuanti e, se non si conosceva la perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    La doppiezza degli abitanti di Cosenza

    De Custine stentava a comprendere l’atteggiamento dei suoi ospiti: erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che avesse mai visto. Mentivano quando l’interesse lo esigeva e lo facevano con tanta sottigliezza e abilità che le loro falsità sembravano verità. Mostravano un’ingenuità disarmante che incuteva paura nel momento in cui si scopriva quanto fosse falsa e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con loro rimaneva confuso, non riuscendo ad afferrare cosa pensassero veramente; erano capaci di accusare un uomo e subito dopo di giustificarlo, di criticarne le azioni, aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole. In altre parole, dopo aver dimostrato la meschinità di un uomo, ne diventavano gli avvocati difensori. Era praticamente impossibile per uno straniero riconoscere la sincerità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

     

  • IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

    IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

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    È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.

    Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni

    E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.

    Difficile innanzitutto sottrarne la descrizione dalle immagini stratificate nel tempo, dagli stereotipi che la precedono e che ne compongono il quadro, stigmatizzandola senza appello. Lo stesso accade se invece prendiamo per buone tutte le rappresentazioni più ravvicinate che all’opposto, e in parte, ne giustificano la realtà e le sue più paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Ancora più difficile è separarne la vicenda contemporanea dall’oscurità delle cronache che da decenni la raccontano non solo sulla stampa e sui media.

    Reggio, la capitale immorale della Calabria

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.

    Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.

    Miti di ieri e di oggi

    La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.

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    Il fenomeno della Fata Morgana

    Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.

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    Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria

    Reggio Calabria sottosopra

    Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.

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    Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria

    Il fantasma del terremoto

    Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.

    Quel che resta del bello a Reggio Calabria

    Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.

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    Il Waterfront progettato da Zaha Hadid

    Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.

    Radici nel cemento

    Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.

    I paradossi di Reggio Calabria

    Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
    Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.

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    La facoltà di Architettura di Reggio Calabria

    L’unica Città Metropolitana

    Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).

    La sacralità dello Stretto

    La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).

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    L’Oracolo di Delfi

    Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.

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    Il mare dello Stretto

    «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.

    «Un mondo che non è più riconoscibile»

    Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
    È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.

  • Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

    Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

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    Il Duomo di Santa Maria Assunta ha da poco compiuto ottocento anni. Da otto secoli tra i “pileri” delle sue navate batte il cuore di Cosenza.
    Sostando sulla piazza digradante lungo corso Telesio per ammirare l’imponente facciata di pietra rosa di Mendicino, entrando nell’ampia aula dove i fedeli si raccolgono in preghiera, ci sembra che il Duomo sia lì da tempo immemore. Uguale a se stesso, incrollabile, saldo come roccia. Eppure, così non è. Nel corso dei secoli numerosi terremoti hanno colpito la Cattedrale danneggiandola talvolta in modo grave.

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    Celebrazioni in onore della Madonna del Pilerio, patrona della città, all’interno della Cattedrale (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Un immaginario da cartolina

    Nel Settecento un intervento barocco ha radicalmente trasfigurato la sua natura duecentesca. Infine, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento è cominciato un paziente lavoro di restauro. È durato oltre cinquant’anni e ci ha restituito le linee architettoniche di una spiritualità priva di orpelli e colma di devozione. Così oggi, ci sembra che la facciata sia sempre stata lì, in attesa dell’ennesima istantanea del buon ricordo.
    Siamo talmente assuefatti al gesto automatico di immortalare in una foto ricordo le bellezze d’Italia – le piazze, le cattedrali, i palazzi e i castelli – che non ci chiediamo quasi mai: «Chi ha costruito, conservato e valorizzato l’immagine monumentale del nostro patrimonio artistico e morale?».

    Affascinati da un immaginario da cartolina pensiamo che le facciate del Duomo di Milano; di Santa Maria del Fiore e Santa Croce a Firenze; del Duomo di Amalfi; del Fondaco dei Turchi e della Ca’ d’Oro a Venezia; il campanile di San Marco; i Castelli della Val d’Aosta; Palazzo Madama a Torino; il Castello Sforzesco a Milano; Porta Soprana a Genova; nonché moltissime altre meraviglie d’Italia siano un lascito arrivato fino a noi nelle forme in cui le opere furono concepite e realizzate dagli antichi maestri delle pietre. La storia è ben altra.

    I meriti dell’Unità d’Italia

    Se non ci fosse stato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’Unità d’Italia, uno straordinario sforzo di costruzione e conservazione dell’immagine architettonica del Bel Paese, gran parte del nostro patrimonio identitario avrebbe oggi un aspetto molto diverso: incompiuto, quando non sfigurato o cadente.

    Dobbiamo alla lungimiranza del Ministero della Pubblica Istruzione – istituito con l’Unità e ai coevi Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti – il privilegio di poter ammirare, con il naso all’insù, i monumenti di cui le città d’Italia vanno fiere. Grazie all’opera e al pensiero di uomini come Camillo Boito e Luca Beltrami a Milano, Alfredo De Andrade in Piemonte e Valle d’Aosta, Giuseppe Partini a Siena, Enrico Alvino a Napoli – per citarne solo alcuni – l’Italia può andar fiera della sua “grande bellezza”.

    Splendore che si mette in mostra in un’infinità di situazioni ideali per le fotografie che hanno i loro antenati nei cliché in bianco e nero delle vecchie e care caroline turistiche. Dobbiamo ad artisti che si sono formati nelle Accademie di Belle Arti (quando ancora le Facoltà di Architettura non esistevano) se l’Italia si è costruita un’immagine monumentale solida come il marmo e non solo di facciata. Un sodalizio fra il sacro e il profano in cui la cattedrale e il palazzo comunale sono quasi sempre gli interpreti di una narrazione civile e religiosa che sfida i secoli parlando di cultura, di storia e di ingegno.

    Le radici nella Storia

    Quegli artisti-architetti, prima ancora di dividersi e scontrarsi sotto le insegne accademiche del restauro filologico da una parte o della ricostruzione in stile dall’altra, erano accomunati da un profondo senso della storia. Le loro scelte estetiche scaturivano sempre da modi personali di interpretare il passato. Fermo restando che il progresso, per loro, era indissolubilmente legato al richiamo della storia patria.
    L’Italia cercava le proprie radici nella storia e i monumenti disegnavano l’albero genealogico della sua cultura. Il dibattito fu molto acceso. I concorsi per la ricostruzione della facciata di Santa Maria del Fiore o del Duomo di Milano, nella seconda metà dell’Ottocento, ne sono una vivace testimonianza.

    Unità d’Italia, un progetto (anche) culturale

    La modernità era interpretata studiando e ispirandosi a un passato ricco di significati non solo estetici, ma anche etici e politici. Un passato iniziato ben prima che l’Italia, negli anni della Riforma e della Controriforma, venisse contesa e spartita fra le corone di mezza Europa. Il Medioevo e il Rinascimento, in epoca risorgimentale, erano i simboli illustri di una italianità autentica, e come tali, alimento inesauribile dell’immaginario degli architetti. Per molti di loro l’Unità era innanzitutto un progetto culturale e politico che si richiamava alle sorgenti dello stile romanico e del gotico. L’uso politico dell’architettura fu dunque uno dei cavalli di battaglia nella costruzione dell’identità nazionale. La conservazione del patrimonio monumentale uno dei temi di costante negoziazione fra lo Stato e la Chiesa.

    Monsignor Sorgente e la raccolta fondi per il restauro

    Cosenza non fu estranea a tale dibattito. L’arcivescovo del tempo, monsignor Camillo Sorgente, insediatosi a Cosenza nel 1874, nel tentativo di contrastare il cosiddetto “patriottismo di pietra” che cercava di escludere le gerarchie ecclesiastiche da ogni decisione operativa, rivendicò il ruolo della chiesa e lanciò una campagna di sottoscrizione per ricostruire la Cattedrale gravemente danneggiata dal terremoto del 1870. Egli si proponeva di ricondurre la sua Chiesa alla spiritualità dello stile di transizione fra il romanico e il gotico voluto dal fondatore Luca Campano, monaco benedettino e scrivano di Gioachino da Fiore; a quella essenzialità delle linee cistercensi che l’enfasi barocca di metà ‘700 aveva trasfigurato nel conformismo stucchevole degli ori e delle volute.

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    Disegno pubblicato in Bollettino del Collegio degli Architetti e Ingegneri in Napoli, febbraio 1887

    Il progetto di ricostruzione fu affidato a Giuseppe Pisanti, allievo di Enrico Alvino, a quel tempo già impegnato con successo nel progetto di restauro della facciata del Duomo di Napoli. Constatate le condizioni di gravissimo degrado delle strutture – la cupola era crollata, le murature in parte lesionate e le volte delle cappelle pericolanti – e confidando nella veridicità di una lapide dove si leggeva che «il Cardinale Maria Capece Galeota a fundmentis restituit la Basilica», Pisanti elaborò un progetto di ricostruzione che la critica del tempo giudicò con grande favore.
    Così il 14 giugno 1886 Monsignor Sorgente circondato dal collegio episcopale e dal capitolo, alla presenza del prefetto e del popolo festante, pose la prima pietra dei lavori di restauro.

    Duomo di Cosenza, si torna al passato

    Quando iniziarono le demolizioni però, Pisanti scoprì che nella parte absidale, sotto gli stucchi e i pesanti intonaci, le strutture duecentesche erano pressoché intatte. L’arco trionfale, l’abside e gli imponenti pilastri avevano resistito alla violenza dei terremoti e allo zelo dei pomposi abbellimenti settecenteschi.
    Alla morte di Pisanti i lavori proseguirono sotto la supervisione del suo allievo Silvio Castrucci. Poi, dopo la pausa forzata della Grande Guerra, i lavori, fra non poche polemiche, furono affidati a Tullio Passarelli, un ingegnere romano che completò il restauro delle navate e della facciata nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare, in particolar modo quando i raggi del sole animano i riflessi rosati della pietra di Mendicino.

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    Monsignor Aniello Calcara

    La data “1944”, scolpita sotto il rosone centrale, indica l’anno di fine lavori e, a ricordare la terza e ultima consacrazione celebrata il 20 maggio 1950 dall’arcivescovo e letterato Aniello Calcara, sta invece la lapide posta sulla parete di controfacciata.
    L’austero aspetto abbaziale che ben si armonizza nel contesto di piazza Duomo è dunque il risultato di un’opera di restauro e di integrazione le cui motivazioni estetiche affondano in una cultura della tutela del patrimonio intesa come salvaguardia del genius loci.

    Giuliano Corti

  • Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

    Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

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    Promulgato il 16 marzo 1942, con la previsione che sarebbe entrato in vigore nel giorno del Natale di Roma, il successivo 21 aprile, il Codice civile italiano veniva preannunciato nel 1939 da Vittorio Emanuele III – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni – come il coronamento dell’opera di codificazione mussoliniana, già avviata con i codici penale e di procedura penale, che nel nuovo testo, secondo il regale avviso, avrebbe assunto “particolarissima importanza” soprattutto nella disciplina “del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza, alla quale il regime ha dato sin dall’inizio le sue più costanti energie”. Basti ricordare che nell’anno precedente il monarca non ebbe alcuna difficoltà a promulgare le leggi razziali, per comprendere come il passaggio del discorso appena ricordato dimostri, se ve ne fosse bisogno, che quelle ignominiose leggi erano pienamente condivise e non subite dal promulgante.

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    Il Codice civile del 1942

    Codice civile, un testo fascista

    Esaltato come tale, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale lo definiva “superba conquista della civiltà fascista”, narrandone le innovazioni e gli aggiornamenti determinati, rispetto alla “vecchia legislazione”, dall’influsso delle idee della “nuova civiltà nazionale e fascista”. Insieme al codice di procedura civile, a quello della navigazione e alla legge fallimentare – si diceva certo l’alto magistrato – “entrando in attuazione nel mentre la guerra infuria, queste leggi costituiscono un potente strumento di compattezza e di resistenza morale e politica e danno una base salda e duratura alle realizzazioni dell’immancabile vittoria, che schiuderà all’Italia nuovi spazi vitali nel mondo”.

    Una profezia fallace

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    La firma dello Statuto Albertino

    Nel luglio 1943 cade il fascismo, il monarca prima plaudente fa arrestare Mussolini, la guerra è persa e viene firmato l’armistizio. Viene soppresso l’ordinamento corporativo, indicato fra le fonti del diritto nella prima disposizione preliminare al codice civile, ma il codice sopravvive intonso fino al 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, che sostituisce alla posizione centrale dell’ordinamento giuridico, in precedenza (i.e. Statuto albertino) assunta dall’autorità statuale (che poteva, ad esempio, permettersi anche di varare leggi razziali), i diritti naturali della persona umana, inviolabili da chiunque, anche dallo Stato.

    La rivoluzione copernicana del nuovo Codice civile

    Una vera e propria rivoluzione copernicana che, ponendo al centro la persona, afferma le libertà del cittadino, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, contemperandole con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); dichiara la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro eguaglianza, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, assegnando alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

    Tale rivoluzione mette in discussione l’impianto stesso del codice civile, che tuttavia non viene rimosso dal legislatore ordinario e continua a regolare la vita dei cittadini ed i loro rapporti, quasi che l’impatto costituzionale dovesse riguardare prevalentemente il diritto pubblico (quod ad statum rei romanae spectat), ma meno incisivamente il diritto privato (quod ad singulorem utilitatem). Si teorizza che le norme costituzionali hanno soprattutto carattere programmatico, riservando al legislatore il compito di attuarle con nuove leggi. Inizia in tal modo il percorso, oggi giunto al compimento degli ottanta anni, attraverso il quale il codice, navicella costruita per navigare nel mare del sistema corporativo e del regime autoritario, affronta la sfida della navigazione in tutt’altro mare e con punti cardinali mutati.

    Ottant’anni di cambiamenti

    In questi ottanta anni sono intervenute sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di singole norme, ma non sono mancate riforme legislative parziali, che però hanno mutato l’assetto di specifiche materie senza incidere sull’impianto generale. La materia del lavoro, ad esempio, rimasta orfana dell’ordinamento corporativo, non ha conosciuto una riforma del codice ed è stata affidata alla legislazione speciale e alla contrattazione collettiva, con la mutevolezza che ne è derivata nelle diverse stagioni politiche. Viceversa la materia commerciale, che aveva trovato dimora nel codice civile per “scelta fascista” (nella codificazione ottocentesca esistevano due distinti codici: quello civile e quello di commercio), è stata mantenuta a dimora e tuttavia riformata più volte soprattutto con riferimento al diritto societario.

    Il Codice civile e le famiglie

    Laddove l’azione riformatrice è stata più incisiva, nel diritto di famiglia, il progresso è stato molto lento. Ci sono voluti ventisette anni, nel 1975, evidentemente sull’onda del referendum popolare del 1974 che ha respinto le istanze di abrogazione della legge sul divorzio, perché il legislatore si decidesse a porre mano all’art. 144 (Potestà maritale) che, in contrasto con il principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dall’art. 3 Cost., recitava: “il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

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    Cittadini in piazza contro l’abrogazione del divorzio

    Le ragioni di tanto ritardo sono tutte culturali e non hanno mancato di influenzare persino i lavori dell’Assemblea Costituente, se nel testo dell’art. 29 della Costituzione è dato leggere, con chiaro riferimento alla norma del codice allora vigente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come dire: una sorta di autorizzazione al legislatore ordinario a perpetrare discriminazioni della donna che infarcivano il codice sopravvissuto al fascismo, facendo prevalere il bene dell’unità familiare, costi quel che costi alla felicità delle persone, sulla parità di diritti e doveri dei coniugi.

    Per non parlare poi del discrimine tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenze di fatto (che ha trovato un accomodamento con la legge sulle unioni civili nel 2016), tra figli legittimi e naturali (equiparati solo nel 2012), ed ancora tra matrimonio e unioni civili (per le quali il legislatore che le ha istituite nel 2016 si è preoccupato di marcare la differenza con il matrimonio escludendole dal dovere di fedeltà).

    Tante norme immutate

    A fronte delle riforme alle quali si è fatto cenno, che sono intervenute in questi ottanta anni, la maggior parte delle norme del codice sono rimaste immutate. Ciò riguarda interamente il diritto delle successioni, quasi integralmente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, l’impianto del diritto delle obbligazioni e del contratto in generale. Tante innovazioni sono state apportate, senza modificare le norme del codice, attraverso la legislazione speciale, per cui si è formata una normativa parallela che ha disciplinato settori come, ad esempio, il diritto delle assicurazioni ed i contratti dei consumatori, introducendo principi e regole divergenti da quelle codicistiche.

    Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

    Un settore che soffre in particolar modo del mancato adeguamento del testo normativo al mutamento della realtà economica e sociale è quello della responsabilità civile. In esso, ma non è il solo, al legislatore si è sostituita la magistratura che, assolvendo ad una funzione di supplenza, non sempre virtuosa, ha iniziato persino a ”creare” norme non scritte nella legge.

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    La cosiddetta giurisprudenza creativa è oramai una realtà ineludibile, frutto di carenze imputabili ad un legislatore sempre più distratto e sempre meno tempestivo nel cogliere i mutamenti della società e le esigenze di regolazione di fenomeni nuovi (si pensi all’impatto che stanno determinato nella vita di tutti noi le nuove tecnologie e le intelligenze artificiali). Fenomeni che non possono trovare adeguata disciplina in un codice civile che, al netto delle riforme parziali intervenute, è in gran parte rimasto immutato in questi ottanta anni. Un codice prodotto dal fascismo, costituzionalizzato alla meno peggio, sempre meno pronto a garantire la certezza del diritto, vecchio di ottanta anni. E li dimostra tutti.

    Vincenzo Ferrari
    Avvocato e Professore di Diritto Privato nell’Università della Calabria

  • Giustino De Vuono, un legionario di Scigliano per Aldo Moro

    Giustino De Vuono, un legionario di Scigliano per Aldo Moro

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    Tra i tanti misteri del delitto Moro e dell’agguato di via Fani, quello che riguarda Giustino De Vuono resta uno dei più inquietanti, forse anche perché apre piste mai esplorate fino in fondo. Queste piste potrebbero portare oltre le dinamiche tipiche dell’eversione, soprattutto rossa, e al di fuori dei centri nevralgici, le grandi aree industriali, in cui operavano i gruppi di terroristi.
    Potrebbero portare, rispettivamente, alla criminalità organizzata (e a certi settori deviati dello Stato) e alla Calabria.

    Il rapimento di Aldo Moro: troppa potenza per dei dilettanti

    Il commento più forte sull’agguato di via Fani proviene da un calabrese famoso, di cui è innegabile l’elevato spessore politico e culturale: Franco Piperno.
    L’ex leader di Potere Operaio parlò di “geometrica potenza” a proposito dell’azione con cui il gruppo di fuoco delle Brigate rosse sterminò la scorta di Aldo Moro senza fare neppure un graffio all’illustre prigioniero.

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    De Vuono (a sinistra) e Nirta (a destra) a via Fani

    Su quest’agguato restano importanti alcune dichiarazioni di Alberto Franceschini, fondatore e leader storico delle Br, che a suo giudizio non potevano avere la preparazione militare idonea per mettere a segno un “colpo” come quello del 16 marzo 1978. Gli unici a loro agio con le armi, secondo Franceschini, sarebbero stati Mario Moretti e Valerio Morucci. Ma le perizie su via Fani parlano chiaro: per far fuori i cinque uomini della scorta furono sparati circa 91 proiettili da tre armi diverse. Oltre 40 di questi colpi, tutti andati a segno, proverrebbero da una sola arma. Troppo, anche per persone addestrate.

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    La foto segnaletica di Giustino De Vuono

    Dopo poche ore, le forze dell’ordine fanno girare alcune foto segnaletiche. Una di queste riguarda Giustino De Vuono, detto “lo Scannato” o “lo Scotennato”.
    E questa foto ha un riscontro importante in un’altra foto, presa a via Fani proprio la stessa mattina dell’agguato: vi sono ritratte due persone, una identificata in Antonio Nirta, boss di San Luca in Aspromonte. L’altra ricorda De Vuono.

    Giustino De Vuono, da legionario a killer

    Il motivo per cui gli inquirenti sospettano di De Vuono in relazione ad Aldo Moro è un altro. Nato a Scigliano, a circa 40 km da Cosenza nel 1940, Giustino De Vuono è il figlio irrequieto di un barbiere.
    Così irrequieto che a un certo punto lascia il paese per arruolarsi nella Legione straniera. Fa ritorno, così raccontano i suoi compaesani quattro anni dopo. È sempre irrequieto, ma è più forte e determinato. Soprattutto, ora spara da Dio.
    Uno così, in Calabria può avere molte opportunità. Soprattutto come killer.

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    Giustino De Vuono legionario

    Infatti, De Vuono partecipa a rapine, rapimenti ed estorsioni. Ed entra ed esce di galera. Ma anche dall’Italia: si reca spesso in Sudamerica, dove fa la spola tra Uruguay e Brasile. La sua specialità, secondo gli esperti e i testimoni dell’epoca, sono le armi automatiche, che maneggia con gran precisione. Una precisione che gli consente di “firmare” i suoi delitti con una raggiera di colpi attorno al cuore delle vittime.

    Questa “firma” sarebbe apparsa anche sul cadavere di Moro. E avrebbe consentito a don Cesare Curioni, l’ispettore dei cappellani penitenziari che seguiva la trattativa per liberare Moro su incarico di papa Paolo VI, di riconoscere De Vuono come killer.
    Questo stando alla testimonianza di don Fabio Fabbri, il vice di don Curioni, riportata da Giovanni Fasanella nel suo Il puzzle Moro (Chiarelettere 2018).

    Il sequestro e la pista calabrese

    Ma dove porta questa pista? Alle agenzie specializzate in contractors? Alla criminalità organizzata? O a entrambe? Di sicuro arriva in Calabria, come dichiarò durante il processo per il delitto Pecorelli nel 1997 l’ex deputato siciliano Benito Cazora, incaricato dai vertici della Dc di avviare dei contatti informali con la malavita calabrese, molto attiva a Roma negli anni ’70. Cazora dichiarò ai magistrati di Perugia che un calabrese, conosciuto come Rocco, avrebbe indicato al questore di Roma il rifugio di via Gradoli.

    Lo stesso Rocco, inoltre, avrebbe offerto il suo aiuto proprio a Cazora. Questa testimonianza riporta a De Vuono, che sarebbe stato identificato da alcune persone proprio a via Gradoli, travestito da uomo delle pulizie…
    Ma per conto di chi avrebbe agito De Vuono, di cui non risultano grandi passioni politiche, se non una generica simpatia per l’eversione di sinistra?

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    Mino Pecorelli

    Ad ogni buon conto, l’ipotesi De Vuono è presa sul serio anche da Mino Pecorelli, che scrisse in un celebre articolo del suo settimanale Op a gennaio 1979: «Posso solo dire che il legionario si chiama De e il macellaio si chiama Maurizio». Dove Maurizio è il nome di battaglia con cui Mario Moretti era conosciuto nelle Br.
    Inutile dire che Pecorelli, ammazzato due mesi dopo il suo articolo sibillino, esibiva una conoscenza dei fatti superiore a quella degli altri giornalisti (tra l’altro, gli si attribuisce la conoscenza della versione completa del memoriale di Moro) che tutt’oggi risulta stupefacente e indicativa dei suoi rapporti col mondo dei servizi

    De Vuono dal Sud America a via Fani per Aldo Moro?

    L’unico punto debole di questa ricostruzione, comunque suggestiva, proviene da un rapporto del Sismi, secondo cui l’ex legionario De Vuono all’epoca del sequestro di Aldo Moro si trovava in Sudamerica. Questo rapporto è confermato dalla polizia del Paraguay, che lo considera presente sia nel proprio Paese sia in Brasile.
    Tuttavia, ciò non avrebbe impedito al supercecchino di spostarsi, anche in incognito, e di essere a Roma nei momenti clou del sequestro: cioè l’agguato di via Fani e l’uccisione dello statista, della quale si autoaccusò Moretti.

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    La scena dell’agguato di via Fani

    La fine misteriosa di Giustino De Vuono

    De Vuono sparì dall’Italia e fu arrestato nel 1983 in Svizzera, dove si trovava sotto falsa identità. Avrebbe passato i successivi dieci anni in galera a Caserta, dove sarebbe morto nel 1994. Il condizionale è quasi un obbligo, perché della sua tomba a Caserta non si trovò traccia. Ma, dato curioso, la sepoltura è stata trovata a Scigliano, senza che sia emersa la documentazione relativa allo spostamento della salma.
    È l’ultimo mistero di un tiratore formidabile…

  • Aldo Moro e Franco Piperno, i perché ancora senza risposta

    Aldo Moro e Franco Piperno, i perché ancora senza risposta

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    Quarantaquattro anni, tanti ne sono passati dalla strage di via Fani e dal delitto Moro, potrebbero essere un’occasione per fare chiarezza. Per avere qualcosa di più delle speculazioni necrofile che scattano ad orologeria in occasione degli anniversari tragici. Questo qualcosa – per ciò che riguarda il sequestro del leader democristiano – avrebbe un valore immenso, se provenisse da testimoni eccezionali.
    È il caso di Franco Piperno, che abbiamo provato comunque a contattare.

    Un mosaico in nero

    Non c’è saggio sul delitto Moro in cui il nome del fisico calabrese non compaia almeno una trentina di volte. Ne citiamo quattro, più o meno recenti, che tentano di raccontare quei fatti con gli approfondimenti doverosi e col tentativo di arrivare a una verità che vada oltre le insoddisfacenti versioni “ufficiali” senza tuttavia cedere alla dietrologia.
    Così ha tentato di fare lo storico ed ex parlamentare Miguel Gotor, nel suo Il memoriale della repubblica, uscito undici anni fa per Einaudi.

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    Franco Piperno negli anni ’70

    La spia che venne dal freddo

    Ancor prima di lui ha scritto cose significative il giornalista Francesco Grignetti, nel suo Professione spia (2002), dedicato a Giorgio Conforto, il più famoso agente del Kgb in Italia. Non è da sottovalutare, inoltre, il contributo del magistrato Rosario Priore in Chi manovrava le Brigate rosse?. E per finire, cose molto significative provengono da Il puzzle Moro, l’importante inchiesta di Giovanni Fasanella uscita quattro anni fa per Chiarelettere.

    Difficile orientarsi nel labirinto di citazioni, fatti, ipotesi documentate o solo verosimili, in cui, in un modo o nell’altro, spunta la figura di Piperno, che si ritrova al centro di un mosaico oscuro, che il professore non ha chiarito. O almeno non troppo.
    In questo mosaico c’è di tutto: l’inchiesta giudiziaria e la spy story, il racconto giornalistico e il romanzo, il saggio storico e la suggestione indiziaria. E c’è, attraverso Piperno ma non solo, un po’ di Calabria. Non mancano le polemiche, inevitabili quando le verità si moltiplicano perché ne manca una.

    Giorgio Conforto, in questa vicenda, c’entra indirettamente. Il legame tra Piperno e lui passa attraverso la figlia Giuliana, protagonista ufficialmente inconsapevole, del colpo di coda calabrese dell’affaire Moro.
    Conforto padre, nel 1979, è un funzionario del Ministero dell’agricoltura con un passato a dir poco interessante: legato all’Urss sin dalla prima giovinezza e salvato per un pelo dai rigori del Fascismo (della sua situazione si occupò personalmente Arturo Bocchini, il supersbirro di Mussolini) era stato per anni al servizio del Kgb come capocentro. Giuliana, invece, è una fisica ricercatrice, amica da anni dello scienziato calabrese.

    Proprio quest’ultimo si sarebbe interessato per procurare a Giuliana, separata da poco e con due figlie, un incarico all’Università della Calabria. Sempre nello stesso periodo Piperno e Lanfranco Pace, ex esponenti di punta di Potere Operaio, chiedono a Giuliana di ospitare due “compagni in difficoltà”. Sono Valerio Morucci e Adriana Faranda, Br in fuga, che avevano avuto un ruolo nel sequestro Moro ma si erano dissociati dall’ala dura del movimento, che faceva capo a Mario Moretti e ad Alberto Franceschini.

    Giuliana Conforto ospita i due, mentre fa su e giù dalla Calabria. E ne paga il prezzo: la notte del 29 maggio del 1979 la polizia fa irruzione in casa sua, a viale Giulio Cesare. La ricercatrice finisce in manette assieme ai suoi ospiti, di cui nega di conoscere la reale identità. Ma c’è di più: durante il blitz di viale Giulio Cesare, gli agenti trovano un arsenale di armi, tra cui la famigerata pistola Skorpion usata per uccidere Moro.

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    Lanfranco Pace negli anni ’70

    È doveroso dire che Giuliana Conforto è stata prosciolta da ogni accusa a livello giudiziario. Ma restano alcuni dubbi a livello storico. Il primo deriva dalle dichiarazioni di Pace e Piperno, riportate da Grignetti, che risultano in parte discordanti. Infatti, Pace dichiara di aver rivelato alla Conforto importanti elementi sull’identità dei suoi ospiti. Piperno, invece, si è limitato a parlare di “compagni con problemi”.

    Ma la dietrologia non finisce qui, perché Fasanella e Gotor vanno oltre. E pensano che nel blitz di viale Giulio Cesare potrebbe aver avuto un ruolo Giorgio Conforto, che avrebbe “consegnato” Morucci e Faranda in cambio della “salvezza” di Giuliana… sono ipotesi non confermate ma, a quel che risulta, neppure smentite.

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    Il brigatista rosso, Valeri Morucci

    La deposizione

    Lo spessore politico e intellettuale di Piperno emerge in pieno dalla deposizione resa il 18 maggio 2000 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, presieduta dall’ulivista Giovanni Pellegrino.
    In quell’occasione Piperno racconta il suo ruolo nel sequestro Moro. La vicenda è risaputa: su invito di Mario Scialoja, all’epoca direttore de l’Espresso, lo scienziato calabrese tentò una mediazione col Psi, attraverso il vicesegretario Claudio Signorile, per rompere il “fronte della fermezza”, costituito – com’è noto – da Dc e Pci.

    Nella sua deposizione, Piperno dice due cose importanti, che suonano un po’ come una smentita e un po’ come una reticenza. Afferma che il suo gruppo, che faceva capo alla rivista Metropolis, non aveva rapporti con Morucci e la Faranda e dice di non ricordare quali fossero stati i suoi contatti con le Br. Al riguardo, si spinge oltre: «Anche se li ricordassi non li direi, per un impegno d’onore».
    Poi marca la differenza tra Potere Operaio, di cui era stato leader, e le Br: anarcosindacalista e “sorelliano” PotOp; comuniste, anche d’ispirazione cristiana, le Brigate. Carica d’ironia l’accusa di “analfabetismo politico” rivolta ai brigatisti. Ma anche un’accusa facile, perché a livello culturale tra lui e Negri da un lato e i vertici delle Br dall’altro c’era un abisso.

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    Adriana Faranda, militante delle Brigate Rosse

    Resta un dubbio su due aspetti della vicenda: Morucci era comunque una conoscenza di Piperno, visto che proveniva da Potere Operaio. E, come abbiamo visto, resta agli atti l’impegno del professore calabrese per aiutarlo dopo la rottura.
    Inoltre, Morucci, pur avendo avuto un ruolo forte nel sequestro di Moro (lui e la Faranda sarebbero stati i “postini” delle Br), era entrato in collisione con l’ala militarista e mirava a negoziare. Possibile che non sia stato proprio lui il contatto di Piperno? E ancora: Flora Pirri, all’epoca moglie di Piperno, fu arrestata con l’accusa di aver partecipato all’attentato di via Fani. Fu una svista clamorosa, che – per fortuna – non ebbe conseguenze giudiziarie. Ma è una svista indicativa di come i movimenti e i legami del prof fossero più che attenzionati.

    Infine, sull’unico numero di Metropolis fu pubblicato un fumetto che raccontava in termini realistici (e corrispondenti al vero) gli interrogatori subiti da Moro. Siamo sicuri che i contatti del prof fossero persone “borderline”, come dice lui o elementi interni?
    Secondo aspetto: Gotor ipotizza che l’impegno di Piperno mirasse a discolpare gli ambienti dell’autonomia dalle accuse di collusione con la lotta armata. E questo è comprensibile, sebbene operare distinzioni in ambienti “permeabili” in cui i militanti passavano da un gruppo all’altro con facilità sia tuttora impossibile.

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    L’agguato di Via Fani in cui fu rapito Aldo Moro

    E tuttavia: perché proprio Piperno? Solo perché era figura di grande spessore e prestigio o, non piuttosto, perché in PotOp si erano formati alcuni futuri militanti delle Br?
    Su altre accuse, Piperno ha dato smentite secche. Ci si riferisce a quelle, formulate da Gotor, secondo cui lui avrebbe gestito la vicenda dell’appartamento di via Gradoli.
    Ne prendiamo atto, anche perché questa vicenda è oggetto di una pesantissima querela rivolta dalla giornalista tedesca Birgit Kraatz a Gero Grassi, ex membro della Commissione Moro 2. Ma non ci sono sue smentite su quanto scrivono Grignetti e Gotor sui rapporti con Morucci.

    La scuola delle spie

    L’aspetto più inquietante della parabola delle Br e quindi del sequestro Moro resta la scuola di lingue Hyperion, fondata a Parigi nel ’77 da Corrado Simioni, intellettuale inquieto ed ex membro del gruppo originale da cui sarebbero sorte le Brigate Rosse.
    Assieme a Simioni ebbero un ruolo in questa scuola anche Duccio Berio e Vanni Mulinaris. I tre avrebbero, inoltre, fatto parte della cosiddetta Superclan (che sta per Super clandestina), un’organizzazione scissionista delle Br, di cui non approvava le modalità operative.

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    Il corpo senza vita di Aldo Moro ritrovato in via Caetani

    Piperno nella sua deposizione afferma di non aver avuto rapporti con la scuola Hyperion. Tuttavia, secondo Priore, questa scuola avrebbe avuto rapporti con le Br: aprì una sede a Roma poco prima del sequestro Moro e questa sede era vicina a via Caetani, dove fu ritrovato il corpo dello statista. E ci sarebbe dell’altro: secondo molte accuse, mai finite in una sentenza, Hyperion sarebbe stata una “centralina” sia dei gruppi eversivi internazionali (Olp, Ira, Eta e Br ecc.) sia di alcuni Servizi segreti, tra cui Cia e Kgb. Il che riporta senz’altro a Conforto. Ma anche ad altri Servizi: in questo caso la Stasi, che aveva schedato Piperno, Morucci, Faranda, Pace e altri protagonisti di questa vicenda.
    Inoltre, un docente di Hyperion fu l’ex PotOp Toni Negri. Davvero è impossibile saperne di più?

    Inchiesta alla ’nduja

    Il contraccolpo sulla Calabria fu il blitz all’Unical dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto il 29 giugno 1979. Fu una maxiperquisizione senza esiti giudiziari ma seguita da polemiche aspre.
    Contro il generale si schierò Giacomo Mancini. I comunisti, in particolare Franco Ambrogio, presero posizione contro le Br.
    Altri tempi. Che sarebbe opportuno ricostruire con più chiarezza.

    Franco Piperno in una foto di qualche anno fa
  • BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

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    La carta si fa con gli alberi, e di alberi in Calabria ce ne sono sempre stati tanti. Ma la produzione della carta direttamente dal legno è storia recente. Nei secoli passati la “bambagina” era fatta soprattutto con gli stracci e dal XV secolo in poi, con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la domanda di tale bene aumentò vertiginosamente soprattutto quando l’abbattimento dei costi di produzione portò a un uso capillare.

    Correva l’anno 1590 quando i veneziani Domenico Contarino e Giacomo Ferro, e il napoletano Marcio Imparato, impiantarono una cartiera nella città di Cosenza. Non sappiamo se l’opificio venne realizzato o meno, ma l’antico documento denota la forte richiesta di carta in riva al Crati. Ciononostante per ben due secoli la Calabria non vide neppure l’ombra di una cartiera. Nel suo Saggio di economia campestre (1770) Domenico Grimaldi scriveva infatti che la regione «n’è totalmente priva, malgrado le acque, che ha in abbondanza, i stracci, e carnaccio che vende al forastiero». Poi, d’improvviso, fra ‘800 e ‘900 qualcosa cambiò.

    A Serra San Bruno producevano 12mila quintali di cellulosa

    A Serra San Bruno, venne impiantata la Fabbrica Italiana di Cellulosa e Carta, un bagliore d’industria nell’entroterra calabro. Nel 1908 spiccavano due industrie dipendenti dalla silvicoltura regionale. Si trattava di quella di Serra San Bruno per la fabbricazione di carta e cellulosa e quella di Dinami per la “distillazione del legname”. Le due realtà impiegavano insieme 155 lavoratori. Quello di Serra San Bruno era uno stabilimento ben attrezzato. Aveva macchine continue, sfibratoi con pressa, autoclavi, tre caldaie a vapore della potenza di 300 cavalli dinamici e cinque motori. Impiegava 68 uomini e 12 donne, che riuscivano a produrre 12mila quintali di cellulosa all’anno e, con lavorazione aggiuntiva, anche «carta da impacco lucida da un lato, ruvida dall’altro».

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    La Fabbrica di Cellulosa a Serra San Bruno

    Costi di trasporto troppo alti

    La materia prima utilizzata era il legno di abete proveniente dai boschi limitrofi della «nobile casa Fabbricotti, di A. Fazzari ed altri» e «ricchi di secolari abeti, che intanto si adoperano per l’industria, sebbene non forniscano il miglior materiale». Il taglio non era indiscriminato. Di anno in anno venivano gli alberi venivano «ricostituiti nell’intento di ridurli in turno trentennale». Nonostante la forte disponibilità di materia prima e i dati lusinghieri per una fabbrica di provincia, lo stabilimento di Serra San Bruno incontrava difficoltà per gli alti costi di trasporto della cellulosa e della carta fino alla marina di Pizzo e alla ferrovia più vicina. Così, come ricostruito da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nel volume La Fabbrica di Cellulosa e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, già negli anni trenta del ‘900 la cartiera risultava abbandonata.

    Carta da imballaggio nel Reggino

    Nel Reggino, già negli ultimissimi anni dell’Ottocento, era attiva una cartiera a Favazzina. Si trattava di un’industria piccola ma operosa, che impiegava l’elettricità nel processo produttivo. Si occupava soprattutto della produzione di carta da imballaggio e che nel 1906 aveva esportato «quintali 1190 di carta da involti». Sempre in provincia di Reggio, nel 1968 era attiva la cartiera di Rosarno che, con quella di Cosenza, produceva «modesti quantitativi di carta-paglia e di cartone pressato, destinati alla confezione di imballaggi per agrumi».

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    Migranti nella cartiera di Rosarno, foto Andrea Scarfò, fonte Wikipedia)

    Gli ormai dismessi capannoni della cartiera di Rosarno, di recente sono assurti agli onori della cronaca per essere stati il rifugio di molti immigrati che svolgevano lavori stagionali nei dintorni. Nel 2009, in seguito ad un rogo scoppiato nei capannoni, alcuni immigrati rimasero feriti e la cartiera venne sgomberata e murata.

    Carta e tipografia lungo il Busento

    Il fattore incentivante l’inizio della moderna industria della carta nel Cosentino fu la presenza di importanti corsi d’acqua, in primis il Busento. Al 1928 risale infatti la richiesta della ditta “Luciano ed Ernesta Ragonesi” per la «concessione di derivare dal fiume Busento in comune di Cosenza» le acque necessarie «per azionare un lanificio ed una cartiera».

    Intestazione cartiera Ragonesi (foto Franco Michele Greco)

    Già nel 1921 è attestata nella cartiera Ragonesi la produzione di carta da imballaggio. La stessa famiglia possedeva pure, sempre sul fiume Busento ma nel comune di Dipignano, un impianto idroelettrico per il quale riceveva delle sovvenzioni. Lanificio e cartiera Ragonesi caratterizzeranno a tal punto la zona di Cardopiano, a monte della Riforma lungo la strada che porta a Carolei. A volte veniva identificata proprio come “contrada Ragonesi”.

    Nel 1912 la proprietà affiancò alla fabbrica anche una piccola stamperia, la “Tipografia Cartiera Ragonesi”, un modo di utilizzo diretto della propria produzione di carta ancora fino agli anni ’20. Un decennio più tardi la gestione della cartiera, ancora nominalmente Ragonesi, passò alla famiglia Bilotti, tanto che negli annuari industriali dell’epoca intorno al 1938 compare la denominazione “Ragonesi Luciano ed Ernesta di V. Bilotti”. Con la nuova gestione la cartiera cosentina crebbe notevolmente e i Bilotti ampliarono il raggio di azione raggiungendo anche gli Stati Uniti.

    Industriali cosentini

    Quando nel mese di giugno del 1950 la Cartiera Bruzia prese il posto dell’ormai dismessa Ragonesi, la città era in piena fase di espansione. Quel tessuto proto-industriale costituitosi a inizio secolo fatto da attività artigianali e piccoli opifici a conduzione familiare era ormai a un bivio: rilancio e modernizzazione oppure dismissione. Fu allora che i fratelli Mario, Vincenzo e Ferdinando Bilotti, industriali cosentini di spessore, decisero di riporre entusiasmi e capitali nella produzione della cellulosa dalla paglia e della carta oleata dalla cellulosa.

    «La cartiera Bilotti – scriveva Concetta Guido nel 2001 su Repubblica è una specie di monumento cittadino. È lì da decenni, appena fuori il centro urbano. La cartiera è uno dei primi insediamenti industriali in un territorio che di ciminiere non ne ha conosciute quasi per niente. Vincenzo Bilotti (proprietario di palazzi a Rende, il comune attaccato a Cosenza nato come città dormitorio, e di ville a Sangineto, il lido dei vip locali) è un uomo che gode di molta stima negli ambienti professionali».

     I sindacati denunciano: lavoratori sfruttati

    La fabbrica portò occupazione e un momentaneo benessere per gli oltre 100 operai impiegati. Inoltre i prodotti della cartiera di via Cardopiano 44 erano inclusi nei cataloghi di produttori e commercianti d’oltreoceano. Com’è ovvio lo sviluppo in senso capitalistico avrebbe cominciato a piagare il territorio. «Già nel 1955 la cartiera, che appestava l’aria con i miasmi dei suoi scarichi acidi versati nel Busento, attirò le denunce da parte dei sindacati, che nel 1957 segnalavano lo sfruttamento dei circa 200 operai, impegnati per 11 ore al giorno con una paga giornaliera di lire 1.100 da parte del proprietario, Mario Bilotti, consigliere comunale Dc» scriveva lo storico Enzo Stancati in Cosenza nei suoi quartieri (Pellegrini, 2007).

    Operaio muore schiacciato

    Tra l’aprile e il maggio del 1963 si consumò la rottura definitiva tra gli operai e la proprietà. Per più di un mese oltre 200 cartai intrecciarono le braccia e invasero le strade del centro cittadino. Chiedevano l’applicazione più giusti salari, la corresponsione degli stipendi arretrati, condizioni di lavoro più dignitose. E protestavano pure per avere una maggiore attenzione sul problema della sicurezza sul lavoro. Poco dopo quella che fu ricordata come “La lotta più lunga degli annali sindacali” (Gazzetta del Sud), beffarda arrivò la tragedia.

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    Gazzetta del Sud, archivio storico, settembre 1964

    Il 25 settembre del 1964 Antonio “Tonino” Garofalo, operaio venticinquenne di Santo Stefano di Rogliano, finiva schiacciato sotto l’ascensore di un compressore: «Il giovane stava pressando della carta, inavvertitamente però anziché azionare il pulsante per la salita dello ascensore del compressore, ha azionato quello per la discesa con la inevitabile conseguenza di restare investito in pieno».

    Le indagini non portano a nulla

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    Il giovane cartaio Tonino Garofalo, vittima del lavoro

    Le indagini della Squadra Mobile per omicidio colposo non portarono a nulla, se non fosse per una forte mobilitazione popolare in occasione dei funerali. In uno scritto A memoria del concittadino… (2014), Pro Loco e Gruppo consiliare “Insieme per Santo Stefano” ricordano che «gli ingranaggi facenti parte del sistema produttivo della Cartiera Bilotti, sopprimono in pochi istanti la vita di quel giovane, da pochi mesi padre di una bambina, consegnando alle vittime cadute sul lavoro uno dei migliori figli della comunità santostefanese che, avendo conosciuto nell’età giovanile il volto e le sofferenze derivanti dal fenomeno dell’emigrazione in Germania, riteneva il lavoro un momento esaltante per la dignità e la libertà individuale».

    Cartai a Montecitorio

    La cartiera Bilotti chiuse i battenti nel 1972 lasciando un centinaio di lavoratori, da mesi in cassa integrazione, senza lavoro. Pochi mesi prima il “caso cartai” venne portato tra gli scanni di Montecitorio dall’ex fascista e deputato missino per la circoscrizione di Catanzaro-Cosenza-Reggio, Antonino Tripodi. Il politico calabrese si rivolse all’allora ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, il socialista Mauro Ferri. Chiedendo al ministro come «intende intervenire con l’urgenza e la perentorietà che il caso richiede per evitare che in provincia di Cosenza continuino a ripetersi recessioni produttivistiche con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia».

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    Antonino Tripodi

    In quei mesi aveva decretato lo stop della produzione e l’inizio della dismissione lo stabilimento tessile di Cetraro che occupava 500 dipendenti. Stessa sorte per le metalmeccaniche Cavalli di Rende, mentre anche la Mancuso e Ferro si avviava alla fine della sua gloriosa esistenza. «Non sembra che le autorità locali stiano seriamente agendo per evitare che i dipendenti della cartiera Bilotti perdano, non solo il posto ma anche il presidio di disoccupazione. Se il governo non interviene la già dissestata economia della provincia di Cosenza riceverà un colpo fatale…», tuonò Tripodi.

    Da cartiera Bilotti a discoteca

    Il ministro Ferri portò alla memoria i due grossi finanziamenti ricevuti dalla cartiera per un totale di poco meno di 200milioni di lire tra il 1969 e il 1970 e la promessa di una proroga a 9 mesi dell’intervento della cassa integrazione. Poi nicchiò: «Alcuni settori produttivi risentono com’è noto, da vari anni, di una recessione […] Tra tali settori è compreso il l’edilizio, il cartario e il tessile, cioè quei settori che riguardano le industrie di Cosenza che recentemente hanno interrotto la loro attività». Continuando: «Ovviamente nelle zone nelle quali il processo di industrializzazione è agli inizi, la chiusura delle industrie viene subito maggiormente avvertita ed il governo tiene in conto tale aspetto, intervenendo con tutti i mezzi di cui dispone».

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    A poca distanza dal fiume Busento, dove sorgeva la cartiera Bilotti e poi la discoteca “Soho”

    Divenuta “Cartiera Busento” dopo un piano di ristrutturazione aziendale, la gloriosa fabbrica chiuse definitivamente nel 1976. Una fine tra clamorose perdite, 35 licenziamenti e conti ballerini. Nei capannoni dell’ex cartiera, adibiti a partire dal dicembre del 1997 a discoteca “Soho Music Hall”, molti di noi brindarono al nuovo anno leggeri, psichedelici e sicuramente immemori.

  • STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

    STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

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    Strade perdute sono pure quelle del mare, ammettendo che possano chiamarsi così. Del resto, sempre di mappe si tratta. E allora c’è una storia da raccontare in merito ad un’isola-non-isola, che sarebbe sorta a metà strada tra il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara. Assomiglia un po’ alla storia tutta siciliana (o quasi) dell’Isola Ferdinandea. Nel nostro caso, però, si tratta di una faccenda che ancora oggi resta in bilico tra leggenda e scienza.

    I più scettici vi parleranno di un errore cartografico, e basta; o, al limite, di una coincidenza. I più fantasiosi vi parleranno di un’isola, magari pure temporaneamente abitata, e poi scomparsa per chissà quale motivo. Io mi metto in mezzo e provo a stemperare le due diverse anime, una più rigida dell’altra, aggiungendo un dettaglio abbastanza sorprendente, che non deve passare inosservato.

    L’allegoria del mostro marino in prossimità del vortice di Albidona (G.A. Magini, Italia, 1620)

    Il mostro e il Vortice

    Un’edizione del 1620 della Carta d’Italia di Giovanni Antonio Magini mostra un’interessante allegoria del mostro marino nelle sue prossimità. Nel 1785 la Marina Borbonica si spinse invece nello specchio di mare limitrofo alla Torre di Albidona. Lì riscontrò una sorgente subacquea e “il grandioso vortice marino sinistrorso, alla profondità di m. 32,20, a km 1,3 dalla Torre”.

    Il tiranno nella Secca

    Nel Banco di Amendolara si incagliarono nel 379 a.C. le flotte inviate da Dioniso il Vecchio, tiranno di Siracusa, per distruggere Thurio. Nel Libro Rosso di Taranto del 1463 si regolamenta l’esercizio della pesca nel Banco, inaugurando una serie di provvedimenti dei Viceré spagnoli, i quali riconoscevano diritti esclusivi di pesca a favore dei tarantini. La Commissione di Studi sul regime dei litorali del Regno vi recuperò nel 1936 un’àncora lignea con chiodatura bronzea, rivestita di piombo, e risalente al IV secolo a. C. (nonché identica a quelle recuperate al Porto di Siracusa). Si fecero avanti ipotesi sul passato morfologico della Secca: residuo di un’isola o addirittura di una penisola? Qualcuno si spinse prudentemente a dichiarare che la Secca fosse in passato emersa, sì, dall’acqua… ma non meno di 8.000 anni fa.

    Il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara nella Carta batilitologica del Sinus Thurinus, su fondo rilevato dall’Istituto Idrografico della Marina

    Oggi è una notissima secca di 31 km², a forma di ferro di cavallo con la concavità rivolta in direzione sud-ovest, adiacente al Vortice di Albidona e prospiciente la marina di Amendolara ad una distanza di circa 10 miglia dalla costa. Pescosa e pericolosa per le imbarcazioni, si erge infatti dai 200 ai soli 20 metri di profondità (addirittura solo 14 nel 1891).

    Isola o arcipelago?

    I latini registravano la presenza di un’isola Elèctoris (ma più corretto sembrerebbe Electris e poi Electra), detta anche Febra da Servio. Altri scrittori, sulla scorta di Plinio, hanno affermato l’esistenza di una o più isole nella zona, credute sommerse a causa di cataclismi “o che sian tanto piccole che appena si vedono, o le suppongono scogli, o che da cinque sian ridotte a due, a tre, e che l’arcipelago nel secolo XV più non era”.

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    L’Electris, sive Febra insula nell’Italia di Georg Horn (1595)

    Leandro Alberti, nei primi del Cinquecento ne avrebbe viste però ancora due seguendo la via lungo l’Esaro.
    Non è finita qui: è proprio una Electris, sive Febra insula, quella che nel 1595 i cartografi Ortelio e Horn registrano nelle loro opere Magna Graecia e Italia nam Tellus/Graecia Maior.
    A rendere la questione più confusionaria è poi la presenza delle piccole isole Cheradi, di fronte al porto di Taranto: nelle mappe geografiche più datate, infatti, alcune di esse vengono spinte fin quasi nel mezzo del golfo, assumendo nomi non sempre omogenei tra loro.

    Il grande equivoco

    Nel 1608 Magini diede alle stampe la sua prima Carta d’Italia, ponendo nel bel mezzo del Golfo di Taranto un’isola mai sentita prima: Monte Sardo. Egli stesso se ne accorse e corresse la svista nella successiva edizione del 1620. Troppo tardi: la diffusione della prima mappa era ormai irrimediabile. Se ciò sembra poco bisogna pensare non tanto al valore economico di quelle mappe, ma alla loro funzione di fonte per le mappe successive. Le carte che presentano quest’isola coprono la bellezza di due secoli di produzione cartografica, in cui sono coinvolte le firme dei più grossi nomi della cartografia europea.

    Ora, la tesi della svista sarebbe inconfutabile se non fosse che, appunto, l’Isola di Monte Sardo coincide spesso con quella già denominata Electra vel Febra Insula, proprio alla maniera latina, in modo molto più suggestivo ed allusivo. E allora torniamo a Magini e al suo errore. Anche lui utilizzava una fonte, e si trattava dell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Stigliola (1582). Bene: una copia di quest’atlante riporta a sud-ovest di Taranto un appunto di mano dell’autore, che raffigura un profilo di collina con la sottostante denominazione Monte Sardo.

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    La prima apparizione di Monte Sardo, nell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Nicola Antonio Stigliola, 1595

    L’isola c’è o non c’è?

    Per alcuni, questo disegno non si riferirebbe ad un’isola ma ad un rimando “fuori mappa” all’altura sulla quale sorge il comune di Montesardo, situato in Terra d’Otranto a 186m sul livello del mare, pochi chilometri a sud di Alessano, uno dei paesi più elevati delle Murge Salentine, e perciò importante da segnalare ai navigatori. Non si capisce però il motivo d’aver segnalato ciò proprio in mezzo al mare, e proprio dove un’isola – con tutti i “forse” del mondo – c’era o c’era stata.

    E resta poi il nodo cruciale delle fonti che riportano l’Electra o la Febra: da dove l’avrebbero tirata fuori? Se sempre da Stigliola, perché allora attribuirle un altro nome? Altra cosa buffa ma indicativa: i toponimi Electra o Febra non si riscontrano mai contemporaneamente a quello di Monte Sardo. Insomma: è stato certamente un errore utilizzare la denominazione di Monte Sardo ma… è stato anche un errore indicare l’esistenza dell’isola? Non ne sarei per niente sicuro.

    Un ultimo indizio

    Pare abbastanza ovvio, a un certo punto, che la Secca e l’Isola (o pseudo-isola) coincidano. Esperti di geologia marina hanno chiarito che se il fenomeno di subsidenza fosse stato costante negli ultimi tre secoli, la Secca poteva ben essere rappresentabile come un’isola all’inizio del Seicento. Detto più chiaramente: se l’inabissarsi dei rilievi subacquei fosse stato uniformemente costante, ne deriverebbe che già soltanto sul finire del Settecento questi avrebbero fatto capolino attraverso il pelo dell’acqua.

    Ma resta ancora il dato più sorprendente, e peraltro assai poco noto: nella mappa denominata Magna Graecia etc., realizzata da Bertin nel 1699, l’Electris Ins. possiede l’esatta forma a ferro di cavallo con concavità rivolta a sud-ovest, così come è stata descritta in tempi recenti grazie alle attuali tecniche idrografiche e batimetriche. Come la mettiamo?

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    L’Electris Ins. nella Magna Graecia di Francesco Bertin (Padova, 1699)

    Due possibili ipotesi

    Ricapitolando, restano possibili due ipotesi. L’isola è esistita prima dell’incidente delle flotte di Dionisio il Vecchio. Deve esserne poi rimasto ricordo – in seguito alla sua scomparsa – presso i latini e le successive popolazioni indigene, fino al sopraggiungere dei più moderni mezzi cartografici che hanno decretato la giusta cancellazione di questo rilievo dal Golfo di Taranto.

    Oppure, più probabilmente, l’azione erosiva deve essere stata – dall’epoca di Thurio in poi – non del tutto progressiva ed ininterrotta e, tra l’altro, alternata forse a riemersioni sporadiche dell’isola, soprattutto nel periodo di compilazione delle carte geografiche storiche. I motivi di una scomparsa del genere possono essere molteplici. Da una semplice azione erosiva marina alla subsidenza dei fondali e alla convulsione tellurica della costa, fino a qualche evento eccezionale, non ultimo un maremoto.

    L’isola gemella (eterozigote)

    A differenza della sicula gemella eterozigote Ferdinandea, l’isola Febra, Electra o di Monte Sardo, non provocherebbe mai – qualora rinascesse – conflitti internazionali, innocua com’è e inglobata com’è all’interno delle acque territoriali del Golfo di Taranto, tutto italiano, senza perciò poter dar adito a polemiche sul suo assorbimento o meno nella piattaforma continentale. Al più potrebbero sorgere dissidi tra gli enti locali costieri per aggiudicarsene l’amministrazione o, più probabilmente, per liberarsi da inattese incombenze. Che resti, allora, a sonnecchiare tranquilla…

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    L’Isola Ferdinandea, in un dipinto del 1831 (fonte Wikipedia)

     

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    STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

    Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

    Tra Cetraro e Cavinia

    Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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    Cavinia vista dall’alto

    Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

    Le torri sulla scogliera

    Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

    Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

    Cetraro e i suoi toponimi

    Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

    Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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    Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

    Verso il centro storico

    Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

    Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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    Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

    1749, fuga da Cetraro

    Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

    Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

     

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    Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

    La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?