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  • Principe contro Principe: una città per due urbanistiche

    Principe contro Principe: una città per due urbanistiche

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    Empio Malara è cittadino onorario di Rende. E questo è l’unico dato certo nella polemica esplosa tra Malara e Sandro Principe, che ha tenuto banco nei media regionali.
    Ma questa stessa polemica impone una riflessione sulla storia recente di Rende, che è essenzialmente una storia urbanistica.
    Malara ha accusato Principe di «velleità strapaesane» e di «ingratitudine» nei confronti di suo padre, il mitico Cecchino.
    Principe ha tenuto botta: coi soliti toni pesanti, ma anche con molti dati alla mano, ha provato a dimostrare che la “sua” Rende è una città diversa da quella pensata da Cecchino e disegnata da Malara.

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    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    L’archistar, dal canto suo, ha cercato di far capire che la “sua” Rende (quindi, anche quella di Cecchino) era migliore di quella realizzata da Sandro.
    Non è il caso di entrare in questioni estetiche, su cui forse neppure gli addetti ai lavori concordano. Resta vero, tuttavia, che la Rende ideata tra i ’60 e i ’70 era decisamente diversa da quella che conosciamo e vediamo oggi.

    Rende e Cosenza: dalla continuità alla rivalità

    La Rende di Cecchino Principe, in effetti, non dava nell’occhio: continuava Cosenza e l’aiutava a smaltire la popolazione in eccesso, accumulata dal dopoguerra fino agli anni ’70.
    Il leader socialista, al riguardo, si era limitato a riprendere la vecchia intuizione urbanistica del ventennio fascista: Cosenza non poteva sviluppare a sud-ovest, per via della sua struttura collinare e quindi l’unico sbocco urbanistico era a nord-est, in direzione della Valle del Crati e della Sibaritide.

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    Rende, Panoramica di via Rossini

    La città verde disegnata da Malara, che si agganciava a Cosenza tramite Roges, era lo sfogo ideale. Certo, qualcosa scappò, visto che il primo disegno urbanistico non comprendeva l’Unical – che negli anni ’60 era nella mente di Dio e neppure – e non ipotizzava la crescita di Quattromiglia, che era solo la sede di una Stazione ferroviaria che continua a non richiamare Rende in alcun modo (infatti, è tuttora la Stazione di Castiglione).
    Rende aveva iniziato il suo sviluppo come città servente e forse non poteva essere altrimenti. Ma la realizzazione dell’Università della Calabria, in origine non prevista da Cecchino né da Malara, cambiò non poco il quadro.

    Il Campus della discordia

    La variante del piano regolatore che includeva il Campus di Arcavacata fu firmata (e quindi progettata o quantomeno approvata) da Malara negli anni ’70.

    Beniamino Andreatta

    L’idea di creare un ateneo all’americana, cioè staccato dal tessuto urbano, aveva un motivo nobile, pensato da Beniamino Andreatta in persona: staccare i laureandi dai contesti socio-familiari per creare una classe dirigente progressista.

    Rende vinse la sfida sia grazie al dinamismo di Cecchino, che elaborò un mega esproprio “lampo”, ma soprattutto grazie alla maggiore disponibilità di territorio, sottopopolato e in larghissima parte agricolo.
    Ottenere il Campus fu il primo passo. Il secondo, davvero decisivo, fu l’inclusione dell’Unical nel Piano regolatore generale. Da quel momento in avanti, Rende iniziò a mordere al collo Cosenza.

    Parlano i numeri

    La classe dirigente cosentina, costituita da professionisti formatisi fuori regione, aveva sottovalutato ciò che accadeva, anche perché il capoluogo era in ascesa demografica.

    La demografia di Cosenza fino al 2011

    Ma, contemporaneamente, cresceva pure Rende, che accoglieva non pochi cosentini “bene”: si pensi solo che alcuni amministratori di Cosenza risiedevano (e risiedono tuttora) oltre il Campagnano.
    L’evoluzione successiva, caratterizzata dalla decrescita di Cosenza e dall’ascesa demografica di Rende, cambiò il quadro della situazione a partire dagli anni ’80.
    Infatti, la città del Campagnano passò dai 13mila e rotti residenti del ’71 ai circa 25mila e rotti nell’81 e agli oltre 30mila del decennio successivo. Cosenza, che aveva superato i 100mila abitanti nell’81, invertì la curva demografica, fino a scendere agli attuali 64mila e rotti abitanti. Questi numeri spiegano le generose colate di cemento al di là del Campagnano.

    La demografia di Rende fino al 2011

     

    Politiche diverse

    È difficile dire se Sandro Principe abbia inaugurato un trend o, più semplicemente, lo abbia interpretato.

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    Sandro Principe

    Detto altrimenti: se abbia deciso di far concorrenza al capoluogo oppure abbia approfittato della crescita spontanea di Rende per ideare una città alternativa.
    Di sicuro, la creazione di via Rossini a partire dalla chiesa di San Carlo Borromeo (che a suo tempo fu contestata da Malara), la struttura di Commenda e la definitiva urbanizzazione di Quattromiglia, agganciata all’Unical a partire dagli anni ’90, sono il prodotto di variazioni, anche particolarmente invasive, del disegno originario.

    Rende e Cosenza: la guerra tra Principe e Mancini

    Quasi ignorata dal vecchio sistema dei partiti, la concorrenza tra Rende e Cosenza esplose feroce negli anni ’90, quando Sandro Principe iniziò il braccio di ferro col vecchio Giacomo Mancini.
    Il volano della crescita di Rende fu l’Unical, che aveva stimolato una forte espansione edilizia nella città perché aveva superato la sua funzione originaria di ateneo per studenti a basso reddito e attirava molti iscritti, per i quali le strutture residenziali “istituzionali” non bastavano più.
    La guerra tra le due città fu condotta senza esclusione di colpi a partire dai servizi (si pensi allo scontro sui bus dell’Amaco, bloccati dai vigili di Rende),

    La situazione attuale

    Il declino di tutta l’area urbana cosentina non ha colpevoli specifici. Lo spopolamento – che tocca anche Rende e a cui corrisponde un calo di iscritti dell’Unical, scesa nel 2021 sotto le 30mila immatricolazioni – è, purtroppo, l’esito di un calo che ha colpito tutto il Mezzogiorno.

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    Panoramica dell’Unical

    Atene piange e Sparta non ride e, nel Cosentino, è difficile dire chi sia Sparta e chi Atene. Ma un dato è certo: l’enorme quantità di appartamenti, invenduti o sfitti, di Rende non giustifica ulteriori incrementi edilizi. E lo stesso discorso vale per il capoluogo. Eppure, in entrambe le città si continua a far colare il cemento e si programmano altre colate, come se non ci fosse un domani.

    Il cemento è per sempre

    Il litigio a mezzo stampa tra Malara e Principe rivela troppi non detti, a cui l’ex sindaco ha alluso pesantemente.
    Il primo riguarda i rapporti tra la famiglia Malara e Rende: si pensi che Andrea Malara, il nipote di Empio, cura tuttora l’illuminazione pubblica di Rende. Questo dato banale non deve meravigliare nessuno, visto che i Malara sono una firma nell’urbanistica.

    Empio Malara

    Il secondo sottinteso riguarda la cementificazione: l’area di viale Principe, secondo il Piano strutturale comunale caldeggiato dall’attuale amministrazione Manna, dovrebbe essere destinato non più solo ai servizi (centri commerciali e rifornitori di carburanti) ma anche all’edilizia residenziale. Cioè altri palazzi, per un totale di mille appartamenti in più.
    Una quantità di vani che non si giustifica neppure con l’incremento demografico, di 1.200 residenti, annunciato con orgoglio dal sindaco alcuni giorni fa, considerata l’enorme quantità di abitazioni vuote, non ancora censita.

    Tra Rende e Cosenza Montalto gode

    Contrapporre la Rende di Malara a quella di Sandro Principe significa contrapporre due epoche diverse.
    Tutto lascia pensare che la rievocazione di un Cecchino “buono” e lungimirante contro un Sandro “cattivo” e “strapaesano” sia l’ennesima tossina di una lotta senza quartiere, che rischia di avvelenarsi ancor di più perché c’è un terzo incluso: la magistratura.
    Forse nell’attuale maggioranza c’è chi spera che l’ex uomo forte di Rende finisca fuori combattimento e, con lui, l’opposizione.

    La demografia di Montalto fino al 2011

    Il problema non è l’urbanistica né la cementificazione. Soprattutto, non sono un problema il “rendecentrismo” o la “cosentineria”: Rende è cresciuta a scapito di Cosenza e ora Montalto cresce a scapito di Rende, come dimostra la curva demografica in costante ascesa. Questo processo ha spostato di molto a nordest l’asse dell’area urbana e tolto più centralità al capoluogo.
    Di fronte a questa evidenza tutte le polemiche sono inutili.

  • Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

    Un altro Mondo nuovo non è più possibile: 5 anni senza Lombardi

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    Antonio Lombardi se n’è andato l’11 aprile 2017, pochi mesi prima di compiere ottant’anni. Con lui è venuto meno un pezzo di storia di Cosenza, le inquietudini, l’acume critico, il desiderio di cambiamento di tanti giovani della sua generazione.
    L’avevo conosciuto in una giornata di primavera del 2002 quando mi sono affacciato per la prima volta nel suo negozio di tappezziere, nel centro di Cosenza, in via Trento al numero 59.

    Via Trento è una parallela di corso Mazzini, risale all’impianto urbano di epoca fascista, ospita un negozio di dolciumi caro ai cosentini, Monaco e Scervino. Pochi metri lo separano dalla vetrina della tappezzeria Lombardi.

    Due luoghi agli antipodi, con mio grande dispiacere, dato che visitando l’uno mi sembrava doveroso astenermi dall’altro. Moralismo piccolo borghese, avrebbe detto Lombardi.

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    Antonio Lombardi, il tappezziere agit prop e letterato di Cosenza

    A sessantacinque anni Antonio era ancora un uomo vigoroso, diretto, quasi brusco nei modi. L’avevo cercato incuriosito da un articolo apparso su Teatro Rendano, anno VI (numero 50), marzo 2002, pp. 12-18: Michele Cozza: “Mondo nuovo reprise. Ricostruiamo una vicenda singolare degli anni Sessanta a Cosenza”.

    Nella minuscola stanza semibuia e ingombra di materiale, rotoli di carta da parati, corde, soprattutto piena di libri, ritagli di giornali e stampe alle pareti ho avuto subito l’impressione di entrare in un altro mondo, la sensazione che si prova quando ci si inoltra in un edificio antico, oppure incontriamo una persona capace di restituirci un’epoca, un modo di sentire le cose, un approccio alla realtà fatto di nomi, di pensiero, di idee.

    Il Mondo nuovo di Antonio Lombardi

    Mi ha indicato una sedia piuttosto precaria e mi ha squadrato; aveva un piglio quasi da maestro di altri tempi, mentre parlava si accertava che fossi in grado di seguirlo sul racconto che stava articolando, anche per valutare se fosse il caso di sprecare il fiato.

    Ho capito con il tempo che quell’atteggiamento nasceva proprio dalla sua storia personale, dal ruolo e dalla missione che si era assunto, sia personalmente sia come animatore del circolo Mondo nuovo.

    Lui che era un appassionato lettore dei saggi di Lukács amava richiamarne un concetto in particolare. Quello secondo cui un testo saggistico deve risultare comprensibile per un operaio, per una persona dotata di una cultura di base.

    Dopo i fatti di Ungheria

    I testi sacri per Lombardi andavano studiati pagina per pagina, e questo impegno l’aveva attuato negli incontri serali, nel circolo, leggendo insieme agli amici e spiegandosi uno con l’altro innumerevoli libri su ogni genere di argomento. Tra il 1960 e il 1980, insieme a rassegne di cinema, dibattiti, interventi sull’attualità politica e artistica.
    Così ho iniziato ad ascoltarlo e ad addentrarmi nella storia del circolo Mondo nuovo, prendendo in mano libri, volantini, foto e ritagli di giornali, ma soprattutto rivivendo quegli anni grazie al suo vivo racconto. La svolta nella sua vita avviene nel 1956, con i fatti di Ungheria e la decisione di aderire al socialismo libertario; lui e i suoi amici sono studenti all’istituto per geometri, hanno un rapporto privilegiato con il professore di italiano, Umile Peluso, sindaco di Luzzi e senatore del P.C.I.

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    Dagli anni ’60 agli anni ’80 giovani e meno giovani hanno frequentato Antonio Lombardi e il circolo Mondo nuovo a Cosenza

    Diversi dalle solite conventicole culturali

    Non mi era mai capitato, fino a quel momento, di percepire un approccio così diretto, immediato, ai libri e al lavoro culturale. Nella città dell’Accademia cosentina, delle tante conventicole e consorterie, un atteggiamento simile era del tutto inusuale e dirompente, infatti aveva dato vita a un gruppo di giovani, quasi tutti provenienti dalle scuole tecniche, estranei ai riti e alle cerimonie, alle liturgie della politica e della vita culturale di una città di provincia. Dopo quel primo incontro ne sono seguiti molti altri, durante i quali ho avuto in consegna una serie di documenti, un piccolo ma significativo archivio relativo all’attività di Mondo nuovo, che ho inventariato e studiato.

    Consigli di lettura

    Alla fine di ogni visita mi assegnava qualche libro da leggere. Alcuni me li vendeva, dato che era rimasta qualche copia della libreria del circolo, a un prezzo stabilito da lui senza possibilità di trattativa. Altri me li prestava, quando si trattava di copie uniche, come “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” di Ruggero Zangrandi. Mi dava i compiti perché, diceva, avevo dei vuoti da colmare sulla storia dei movimenti e del socialismo.
    Così pur essendo all’epoca già un quarantenne con laurea ho accettato, in amicizia e per la forza dei suoi racconti, questo ruolo di discepolo che non è proprio in linea con il mio carattere. Penso che entrambi fossimo consapevoli che la mia estraneità al suo mondo facilitasse molto la comunicazione, non c’erano diffidenze ideologiche tra noi.

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    Anche Giampiero Mughini ha scritto per i Quaderni di cinema (a cura del circolo Mondo nuovo di Cosenza)

    Mondo nuovo e la vecchia Olivetti di Antonio Lombardi

    Non mi proponeva solo letture impegnate. Mi aveva dato da leggere anche i romanzi di Stefano Terra, storie romantiche ambientate tra l’Italia e la penisola balcanica, le Porte di Ferro, Rodi e Atene. Insieme ai libri di Terra mi aveva consegnato un carteggio con amici e conoscenti di questo giornalista torinese, a cui avrebbe voluto dedicare un convegno. Così ho capito come si muoveva quando decideva di approfondire una questione. Non so come riuscisse, dal suo negozio, a rintracciare inviati all’estero, editori francesi, direttori di istituti culturali oltrecortina. Senza internet e con una vecchia Olivetti. Era meticoloso e ostinato, in queste ricerche.

    Il Foglio volante e Umberto Eco

    Abbiamo discusso per ore, con Antonio, della storia del circolo, delle rassegne di cinema, dei dibattiti, dei verbali dattiloscritti delle assemblee dei soci, in cui tutto veniva registrato e messo agli atti. Come è noto alle centinaia di persone che hanno partecipato alla vita del circolo, Mondo nuovo ha costituito un luogo di formazione culturale e politica il cui peso non è stato, ancora, adeguatamente riconosciuto.
    Antonio non era divorato dalla nostalgia, anzi, dopo un lungo silenzio successivo alla chiusura del circolo, nel 1980, aveva ripreso a intervenire a modo suo, nella vita cittadina, con il suo Foglio volante, confezionato artigianalmente, fotocopiato e diffuso come un samizdat clandestino, per vie misteriose che solo lui conosceva. Lo riceveva pure Umberto Eco.

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    Umberto Eco tra i suoi amati libri

    Poeti a Santa Chiara

    Sul Foglio volante riprendeva articoli significativi del dibattito in corso, ma da un certo momento in poi aveva iniziato a pubblicare anche testi suoi, brevi componimenti in versi, in dialetto, i muttetti di Santachiara, perché così aveva deciso di firmarli, dal nome della zona del centro storico, Santa Chiara, a cui si sentiva più legato per storia familiare.
    Spesso incollava sui Fogli le foto delle attrici della sua giovinezza, specie quelle dove le forme dei fianchi e del seno erano più evidenziate. Alle dive più procaci dedicava versi allegri e scurrili, che amava leggere agli amici di passaggio e alle signore, purché fossero anche loro ben dotate, giunoniche. Sulle misure femminili era intransigente come nell’avversione allo stalinismo.

    Oltre i confini cittadini

    Radicato nella sua città, di cui conosceva aneddoti e personaggi, Antonio aveva però sempre guardato oltre i ristretti confini cittadini, dialogando con i protagonisti della cultura italiana e non solo. Scherzava raccontando di come fosse abituato a presentarsi, senza preavviso, a casa di Franco Fortini, per fare lunghe chiacchierate sulle novità in libreria e sulle vicende politiche.
    Molti progetti di Mondo nuovo e Antonio Lombardi sono rimasti incompiuti, e sono testimoniati dalle carte d’archivio, corrispondenze per organizzare pubblicazioni, per sollecitare attenzione verso un autore ingiustamente dimenticato.
    Durante gli anni della nostra frequentazione avevo pubblicato qualche articolo e alcuni documenti inediti del suo archivio, strappandogli qualche bonario e ironico apprezzamento: «Bravo, ti sei impegnato». Aggiungeva poi che, senza rendersene conto, stava scivolando verso posizioni socialdemocratiche, dato che si intratteneva in conversazioni con una persona come me, estranea ai gruppi eternamente litigiosi della sua area politica.

    Il carteggio con Lelio Basso

    L’archivio è parziale, perché alcune parti sono forse andate disperse, o si trovano in mano a persone che non sono riuscito a rintracciare, o che non intendono metterle a disposizione. Materiale vario credo sia ancora nel negozio. Dietro sue indicazioni ho cercato le tracce delle centinaia di lettere scambiate, in venti anni, con registi, pittori, artisti e intellettuali italiani e stranieri. A Mondo nuovo avevano progettato di pubblicarle, per documentare l’attività del circolo. Forse in parte si potrebbero ancora recuperare, tra i fondi documentari privati disponibili negli archivi. Servirebbe un progetto di ricerca.

    Anche nella sua parzialità la documentazione è impressionante rispetto agli striminziti resoconti e annuari di altre associazioni coeve. Di recente, dando seguito a una sua volontà e dopo aver considerato la situazione degli istituti culturali cittadini, ho deciso di consegnare tutte le carte in mio possesso alla Fondazione Basso a Roma, dove già custodivano le lettere scambiate con Lelio Basso, verso cui Lombardi nutriva un affetto filiale.

    Un articolo dedicato a Mondo Nuovo e Antonio Lombardi

    Il dovere di ricordare

    Sapevo e so bene, ora che non c’è più, che ben altro andrebbe ricostruito e portato all’attenzione in un dibattito dominato, come sempre, da logiche di mercato e diviso in riserve indiane, in cui non ci si può azzardare a mettere piede. Antonio Lombardi non si rammaricava dell’isolamento e delle ristrettezze economiche dei suoi ultimi anni. L’aveva messo in conto molti anni fa, quando il suo attivismo e la sua irruenza avevano scavato il vuoto intorno a lui.
    Ora però la sua città e i suoi amici e anche i suoi avversari dovrebbero rendergli omaggio e saldare il debito nei suoi confronti.

  • BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

    BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

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    Se si chiedesse a qualcuno d’indicare un prodotto strettamente identificabile con la Calabria, al netto degli stereotipati ‘nduja e peperoncino, in molti risponderebbero «il bergamotto». Questo agrume noto per le essenze che è possibile ricavare dalla sua scorza, giunse in Calabria quasi per caso e non si sa bene quando. E ottenne un discreto successo per la sua bellezza come pianta ornamentale. Secondo la tradizione si diffuse agli inizi del Seicento, altri studiosi ne attestano la presenza più di un secolo prima.

    Ma è dalla seconda metà del XVIII secolo che la coltura si è estesa gradualmente. E, comunque sia, la sua fortuna, e quella dei proprietari, giunse all’apice tra Ottocento e Novecento, quando la sua coltivazione era divenuta molto redditizia.

    https://www.youtube.com/watch?v=R8lohpOthd0

     

    Come Reggio comanda

    C’è da fare un’altra precisazione. La coltivazione di questo agrume era caratteristica non dell’intera regione ma di una zona specifica: il circondario di Reggio Calabria. In una relazione del Ministero dell’Agricoltura del 1879 si sottolinea proprio questa specialità del Reggino: «Quasi esclusivamente proprio del solo territorio di Reggio, è la cultura fatta su larga scala del bergamotto (Citrus Bergamia), il quale vi sostituisce ogni altra specie di agrumi ed è fonte di grandi guadagni per l’essenza che si trae dalla corteccia dei suoi frutti». Qui, nella zona tra Scilla e Palizzi affacciata sullo Stretto di Messina, questa coltura veniva portata avanti «con arte insigne, e con pari arte si conducono le relative industrie».

    Ma cosa se ne ricavava? La coltivazione di questo agrume aveva, e in larga parte ha tuttora, come scopo principale l’estrazione dell’essenza dalla sua scorza, molto ricercata da industrie come quella profumiera. Dalla polpa si ricavava invece «agro cotto ed acido concentrato o citrato di calcio».

    Quest’idea che il bergamotto fosse «una pianta tutta propria del territorio di Reggio» e che se trapiantata altrove non avesse gli stessi risultati, nell’Ottocento era tanto radicata che in regioni vicine con clima simile, come le coste siciliane, il bergamotto non aveva riscosso molto successo.  A Messina, ad esempio, «molti proprietari, allettati dai più lauti profitti che i bergamotti fra tutti gli agrumi son capaci di dare, in varie epoche ne hanno tentato con pieno successo la coltura», ma la minore richiesta e la mancanza di persone dedite alla cura e al commercio del prodotto, non permetteva di trarne «quei vantaggi che ordinariamente ne ricavano i proprietari ed i coloni del territorio di Reggio».

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    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (foto Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Le statistiche del 1879

    Le statistiche del 1879 riportano per la provincia di Reggio la presenza, contando insieme bergamotti, cedri e mandarini, di più di 400mila piante. Un numero che, da solo, rappresentava oltre il 70% dell’intera produzione italiana, percentuale che, se si considera l’alto tasso di prodotto medio per pianta, superava l’85% del totale della produzione in frutti.

    Si tratta di numeri che reggevano il confronto con le vaste produzioni di aranci e limoni delle province siciliane. Meno di venti anni dopo il numero di piante di bergamotti, cedri e mandarini dei “giardini di Reggio” era ulteriormente aumentato superando le 750mila piante, segno di una industria molto florida e di una significativa vivacità economica.

    La Zagara contro gli speculatori siciliani

    Tra Otto e Novecento quasi tutta la produzione reggina finiva per foraggiare le industrie di Francia, Germania, Russia, Inghilterra. Il polo principale dello smercio era Messina, dove «commercianti siciliani accaparrano i prodotti calabresi che vengono esportati nelle varie direzioni». Per sfuggire a questi “accaparramenti” degli speculatori, nel 1903 a Reggio venne costituita la Zàgara, una società di proprietari terrieri che cercavano di acquistare e vendere direttamente le essenze, creare depositi di prodotti agrumari, incrementare scambi e depositi di essenze.

    Nei primi anni di attività la Zàgara ottenne un discreto successo, ed era ancora attiva un trentennio dopo nel settore della produzione di essenze di agrumi. In generale, però, la produzione era «esercitata alla spicciola, proprietario per proprietario», tanto che nel 1903 erano attivi 160 piccoli stabilimenti di fabbricazione che impiegavano, nelle varie fasi, 1748 lavoratori.

    Contadini, coloni, proprietari

    I libri e le statistiche ovviamente tralasciano le fatiche insite nel lavoro di raccolta, o le sfiorano appena. I vantaggi economici che spinsero molti proprietari a impiantare coltivazioni di bergamotto si riflettevano solo parzialmente sui contadini, assoggettati in genere a patti agrari particolari. In generale negli agrumeti vigeva un sistema di “colonia mista”.

    Se in quel fondo era possibile piantare anche ortaggi, il colono si occupava della raccolta dei bergamotti. Percepiva una percentuale del prodotto e pagava un fitto per il terreno sul quale coltivava l’orto per sé. Al colono che effettuava la raccolta dei bergamotti poteva spettare una percentuale tra 1/4 e 1/7 del prodotto. Il resto era del proprietario. Ed era quest’ultimo a occuparsi delle spese per l’estrazione delle essenze e l’acquisto e la manutenzione dei macchinari. Proprio la fase dell’estrazione dell’essenza dal frutto era particolarmente delicata.

    Il reggino che inventò la macchina per l’estrazione

    Anticamente si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta. Intorno al 1840 la svolta. Il reggino Nicola Barillà inventò una macchina per l’estrazione dell’essenza.

    Presto venne chiamata comunemente “macchina calabrese”. Permetteva di estrarre una maggiore quantità di prodotto. Col tempo i sistemi migliorarono, ma il prodotto continuò a rimanere pregiato: con 10 quintali di frutti si ricavavano in media 12 libbre di essenza e 35 kg di citrato. La quasi totalità del prodotto veniva esportata, ma non mancavano alcuni tentativi di lavorazione in loco. Negli anni ‘20 del ‘900, ad esempio, erano attivi tre stabilimenti che producevano acqua di colonia: a Melito Porto Salvo la “Melita”, a San Giorgio Morgeto la “Calabresella” e a Cannitello la “Efel” dei fratelli La Monica.

    Autarchia e rilancio del Mezzogiorno

    Proprio dal Reggino provenivano le sequenze filmate di un cinegiornale (in alto nel video da Youtube) del Luce del 1936. Il titolo è “Un prodotto nostrano: il bergamotto” in pieno stile autarchico. Nel video chiari messaggi in linea con la retorica del regime fascista: «Italiani che giustamente boicottate i prodotti di profumeria dei paesi sanzionisti, ecco una coltivazione e un’industria di carattere prettamente nazionale».

    Meno di trent’anni dopo, il bergamotto è nuovamente al centro di  un documentario dell’Istituto Luce sulla “XVI fiera degli agrumi a Reggio Calabria” (1964). In un tono meno aulico del precedente ma fiducioso in un rilancio del Mezzogiorno, l’agrume viene presentato come l’elemento «alla base della moderna profumeria». Prodotto che, secondo il cronista, avrebbe portato a un «aumento dell’economia a tutto vantaggio delle popolazioni del Sud».

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    Una fase della raffinazione dell’olio essenziale di Bergamotto (foto Consorzio di tutela del bergamotto di Reggio Calabria)

    Denominazione di origine protetta

    Oggi nel Reggino la coltivazione del bergamotto e la preparazione degli oli essenziali continua. Il prodotto è sempre ricercato e, per le sue peculiarità, il “Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale” ha ottenuto nel 2001 l’iscrizione nel «registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette».

    Il riconoscimento ne fissa caratteristiche, processi di lavorazione ed enti di sorveglianza, in modo che il prodotto possa mantenere alta la sua qualità, ed è sorto un apposito consorzio. Di pari passo è cresciuta la consapevolezza dell’importanza anche culturale del bergamotto, divenendo anche oggetto di studi e pubblicazioni, fino alla realizzazione di un apposito “Museo Nazionale del Bergamotto” a Reggio Calabria.

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    Il pregiatissimo olio essenziale di bergamotto
  • STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

    STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

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    Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamantela chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).

    Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.

    Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).

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    I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi

    I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi

    E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.

    Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.

    La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
    Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.

    Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).

    Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali

    Chiarello, il vino dei Papi

    Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
    Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».

    Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.

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    La scogliera di Cirella

    Il preferito di Sua Santità

    Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».

    Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso

    Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
    Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
    E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

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    Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma

    Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.

    Il declino del Chiarello

    Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
    Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».

    Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
    Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
    Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…

  • Mancini, 20 anni dopo: anatomia di un socialista senza eredi

    Mancini, 20 anni dopo: anatomia di un socialista senza eredi

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    Due chilometri di corteo funebre, decorato da mazzi di garofani rigorosamente rossi, e venti anni di nostalgia.
    Il corteo, che si svolse il 12 aprile 2002, lo raccontò Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera. La nostalgia, invece, è roba di queste ore e di questi giorni.
    Giacomo Mancini se ne andò l’8 aprile del 2002 a ottantasei anni, cinquantotto dei quali vissuti da protagonista politico di primo piano. E da allora è diventato il mito incapacitante di Cosenza, che usa l’ultimo decennio da sindaco dell’illustre vegliardo come un parametro per valutare i successori.

    Ma anche questi ultimi hanno provato a rivendicare, ciascuno a modo suo, l’eredità mancinana. La rivendicazione fu scontata per Eva Catizone, erede diretta a Palazzo dei Bruzi. Un po’ meno per gli altri.

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    Un manifesto elettorale di Mancini presente anche oggi in un garage del centro storico di Cosenza (foto Camillo Giuliani)

    Tutti i sindaci… manciniani a parole

    «Io mi candido a guidare la città che fu di Mancini», esclamò da un palco nei pressi della Villa Comunale Mario Occhiuto. «Fui presidente del Consiglio comunale quando era sindaco Mancini», gli rispose Salvatore Perugini, sindaco uscente e avversario di Occhiuto su problematica designazione del Pd. E che dire del terzo incomodo, cioè Enzo Paolini, altro presidente del Consiglio di quel decennio, che si portò sul palco Gaetano Mancini, ex senatore socialista e cugino di Giacomo? Anche lui aveva bisogno di un pezzo di mancinismo…

    Era la campagna elettorale del 2011, a cui sarebbe seguita l’esperienza di Occhiuto, che ha trascorso buona parte della sua sindacatura a realizzare o terminare opere progettate dal vecchio Giacomo: il rifacimento di piazza Bilotti e il ponte di Calatrava su tutte. Infine, la metro leggera, finita in nulla dopo una vicenda a dir poco travagliata.
    In compenso, i debiti maturati nel decennio, sono esplosi e il dissesto, di cui si parlava dai primi Duemila, è diventato realtà. L’era Occhiuto, che inaugurava la stagione del centrodestra, doveva essere il superamento del mancinismo, già tentato da Perugini. In realtà ne è stato il remake fatto male.

    Di padre in figlio… in nipote

    Per i malevoli, non pochi anche tra i calabresi, Mancini fu una specie di satrapo. Del «califfo della Calabria Saudita», come lo ha definito di recente (ma in maniera benevola) Filippo Ceccarelli, si ricorda la prepotenza, la personalizzazione del potere, iniziata ben prima di Craxi, e la propensione dinastica.
    Figlio di Pietro, storico leader socialista, Giacomo Mancini fu padre di Pietro, che fu sindaco di Cosenza al crepuscolo della Prima Repubblica, e nonno di Giacomo, che è stato consigliere comunale, deputato e assessore regionale. E continua a rivendicare l’aggettivo jr, appiccicatogli quando il nonno era vivo, con un misto di orgoglio e devozione.
    Ma tant’è: il tradizionalismo, ribadito dal passaggio generazionale dei nomi e del potere, è una curvatura inevitabile della politica del Meridione profondo, anche di quella progressista.

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    Giacomo Mancini, Giulio Andreotti e altri big della politica italiana

    Mancini dinasty

    Ma le tradizioni familiari (e familistiche) di quella generazione erano anche scuole, in cui l’apprendistato poteva essere severo. È ciò che fa la differenza tra un figlio d’arte e un figlio di papà.
    Per il vecchio Giacomo, essere figlio di Pietro ha significato la possibilità di misurarsi coi gigantissimi come Pietro Nenni, di esordire nel movimento clandestino della Roma ancora occupata dai tedeschi e di farsi le ossa nella difficile accademia del riformismo, allora quasi azzerata dalla presenza ingombrante del Pci.
    Ha significato, soprattutto, avere la possibilità di dialogare col potere democristiano per spostare a sinistra l’asse della politica italiana.

    Non si diventa ministri per caso, specialmente non allora. Il vecchio Giacomo approdò ai governi di centrosinistra di Moro e Rumor, in cui fu ministro del Lavori pubblici e della Sanità, dopo un rodaggio di dodici anni come deputato.

    A 20 anni dalla morte sul Web ancora si ironizza sulla SA-RC che Mancini volle far passare da Cosenza (meme A. Muraca)

    Il vaccino contro la polio e l’autostrada Salerno-Reggio

    L’ascesa alla segreteria del Psi fu per lui un coronamento quasi naturale. Se la sua carriera si fosse fermata lì, ai primi anni ’70, Mancini sarebbe passato comunque alla storia come il politico calabrese di maggior successo e potere, con la sola eccezione di Riccardo Misasi (che, tuttavia, fu ministro quasi a vita ma mai segretario).

    L’ambivalenza tra il radicamento nella sua città e la frequentazione romana, fu alla base di una visione politica (oggi merce rara) particolare, per cui il disagio sociale del Sud diventava il simbolo del disagio del Paese, perché i poveri si somigliano tutti, e la questione meridionale era una questione nazionale. Con questa logica, Mancini impose in tutt’Italia la vaccinazione contro la poliomielite. E poi vagheggiò la modernizzazione del Sud, a partire dalla Calabria.
    Con tutti i loro difetti, la Salerno-Reggio e i tanti tentativi di industrializzazione della regione sono frutto di questa visione, secondo cui il lavoro e il benessere erano le basi della democrazia. E le “tute blu” l’antidoto alle coppole.

    Cosenza rinasce grazie a Mancini

    Giacomo Mancini fu sindaco di Cosenza per la prima volta a metà anni ’80. Ma solo nel decennio successivo divenne “il” per davvero.
    Contestato dagli oppositori e dai rivali per i metodi autoritari e per la propensione alla spesa facile, il vecchio Giacomo terminò la carriera politica (e la vita) dando una sonora sveglia alla sua città, fresca reduce da una feroce guerra di mafia.
    In quei nove anni e rotti Cosenza esibì un dinamismo inedito e tentò di imitare le città del Centronord in cui parecchi cosentini “bene” facevano l’università. Vogliamo dire che il Festival delle Invasioni costava un po’ troppo? Diciamolo. Ma aggiungiamo che fu l’unico tentativo di creare, a Sud, un rivale credibile ai Festival che contavano (Umbria Jazz in testa).

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    Giacomo Mancini con Carlo Azeglio Ciampi

    Vogliamo dire che il ricorso massiccio alle cooperative sociali sarebbe diventato un’eredità impossibile da gestire? Certo. Ma all’epoca fu un calmiere sociale che riportò la pace e la sicurezza.
    Vogliamo constatare che il recupero del centro storico alla lunga si rivelò effimero? Senz’altro. Ma il tentativo mantiene un suo innegabile successo: una zona negletta e borderline, fino ad allora sinonimo di povertà estrema, divenne un attrattore.
    Anche il duello con la vicina Rende, sostenuto con fermezza, si sarebbe rivelato perdente sulla lunga distanza. Tuttavia, quello di Mancini resta il tentativo più forte di dare al capoluogo una centralità che non ha più.
    Il limite più vistoso di questo modo di amministrare fu il ricorso quasi esclusivo alle casse pubbliche, che ne uscirono stremate. Certo, Mancini indebitò il Comune quando il “deficit spending” vecchia maniera era ancora praticabile, perché il Trattato di Maastricht, in quel lontano ’93, era appena firmato e i suoi vincoli non mordevano ancora. Ma quel debito non lo colmò nessuno…

    Craxi driver?

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    Giacomo Mancini e Bettino Craxi

    Mancini fu l’ultimo grande politico della Prima Repubblica a gestire potere in Calabria e a Cosenza. Ma fu anche il primo sindaco della Seconda, cioè eletto col voto diretto, che fu la seconda mazzata al sistema dei partiti.
    La prima era stata la preferenza unica, con cui si svolsero le Politiche del ’92 e proprio Mancini, candidato da capolista ne fece le spese: non rientrò in quel Parlamento che frequentava dal ’48.

    Tra la mancata rielezione a l’ascesa a Palazzo dei Bruzi, ci fu la controversa deposizione resa al pool di “Mani Pulite” a carico di Craxi il 18 novembre del ’92. Per i malevoli, quelle dichiarazioni spontanee sarebbero state il ticket pagato da Mancini per avere cittadinanza nella Seconda repubblica. Per altri, ancora più cattivi, il vecchio Leone si sarebbe vendicato del suo ex segretario, che lui stesso aveva aiutato a trionfare al Midas nel ’76. Per altri, invece, Mancini avrebbe detto solo la verità sui finanziamenti illeciti del Psi. Comunque sia, quel «non poteva non sapere» che inchiodava Craxi e sminuiva un po’ le responsabilità del tesoriere Vincenzo Balzamo, confermava il teorema di Tangentopoli

    Stampa e procure

    La micidiale battuta di Cuore, il settimanale satirico de l’Unità, («Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti») potrebbe non riferirsi al solo Craxi.
    Nei primissimi anni ’70 Mancini fu bersaglio di una terrificante campagna stampa condotta dal giornalista di destra Giorgio Pisanò sul Candido, con linguaggio e metodo che anticipavano non poco le celebri inchieste di Mino Pecorelli su Op.
    «Mancini, ladro e cretino», oppure: «Si scrive leader si legge lader». O infine: «Quelli che rubano con la sinistra si chiamano Mancini», erano gli slogan del battagliero settimanale di satira, trasformatosi per circa due anni in una testata d’inchiesta.

    La mitica prima di Cuore con la battuta sull’ora legale (archivio Camillo Giuliani)

    Per quelle espressioni pesanti (che riportiamo per mero dovere di cronaca) e per alcuni errori giornalistici, Pisanò passò i guai e si fece pure un po’ di galera, da cui lo tirò fuori il celebre avvocato Francesco Carnelutti. Mancini, oltre al fango, non ebbe conseguenze. L’unico che ebbe problemi seri fu il produttore cinematografico Dino De Laurentis, finito nel tritacarne di Pisanò assieme al segretario del Psi, che lasciò l’Italia.
    Il secondo round di guai fu l’inchiesta per mafia, intentatagli dalla Procura di Palmi, dalla quale  derivò un processo lungo e pesantissimo. Ne sarebbe comunque uscito assolto, se non fosse morto prima.

     

    L’eresia a Cosenza

    Tutto si può dire di Mancini, tranne che fu un riciclato. Al contrario, divenne sindaco di Cosenza alla guida di una coalizione di liste civiche, in cui gli eretici della destra (Arnaldo Golletti e Benito Adimari) coesistevano coi reduci dei Movimenti (ad esempio, la Lista Ciroma, guidata da Paride Leporace) e i duri e puri del Psi convivevano con le vecchie glorie dell’autonomia (ad esempio, Franco Piperno, che visse la sua seconda giovinezza come assessore del Vecchio Leone).
    Mancini non entrò in alcun partito, ma fece il sindaco a dispetto dei partiti, spesso colonizzati da ex socialisti cresciuti sulle sue gambe (è il caso di Pino Gentile…).
    A prescindere da ogni valutazione, Cosenza fu un laboratorio interessante. Che ebbe un limite: l’incapacità di sopravvivere al suo stregone.

    Ironie del web: la 106 secondo Mancini (meme di Alessandro Muraca)

    Un gigante senza eredi politici

    Della Mancini dinasty resta pochissimo: il nipote Giacomo, dopo una prima fiammata come deputato della Rosa nel pugno, riuscì a farsi battere da Salvatore Perugini. Poi, dopo il salto nel centrodestra, effettuato fuori tempo massimo, e l’esperienza di assessore per Scopelliti, ha perso consensi elettorali e si limita a sortite in nome della nostalgia.
    Stesso discorso per suo padre Pietro, che esibisce ora simpatie salviniane. Quasi sparita, invece, Giosi, la figlia di Giacomo (che ha tentato solo una candidatura come consigliera nelle ultime Amministrative a Roma). Sparita del tutto Ermanna Carci Greco, la figlia di prime nozze di donna Vittoria, più manciniana, forse, dello stesso Patriarca.

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    Giacomo Mancini, jr e sr

    Eva Catizone, dopo la sindacatura, ha tentato più volte la carta elettorale in ciò che restava del Psi. Poi è passata con Mario Occhiuto. E Cosenza? Langue. Fuori da quel contesto politico, le nuove opere del vecchio Mancini, piazza Bilotti e il Ponte, sembrano fuor d’opera. E molte di quelle vecchie, i ponti sul Crati e il Palasport ad esempio, sono fatiscenti.
    Polvere e rughe: tutto ciò che resta di un’esperienza politica forte, che ha bruciato in dieci anni uomini e risorse per cinquanta. È lo specchio di una città dal declino irrimediabile che si rifugia nella nostalgia: «Le rughe han troppi secoli, oramai, e truccarle non si può più». Cantava Lucio Battisti.
    Oggi, a truccarle, non basterebbero dieci Mancini redivivi.

    L’ultimo, grottesco, capitolo sull’eredità politica di Giacomo Mancini
  • STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    Chi se lo ricorda Totò in Destinazione Piovarolo? Umile ferroviere, vi veniva spedito a fare il capostazione: il luogo era dimenticato da Dio e chi poteva se ne andava. Poi un giorno arrivava la sospirata notizia: Totò veniva distaccato a Rocca Imperiale. Ma era una pura formalità: era solo successo che le autorità fasciste avevano cambiato nome al paese.
    Pare che gli sceneggiatori nemmeno sapessero che la nostra Rocca Imperiale esistesse realmente.

    Tante sovranità e un primato

    Del resto, come ho già detto, Rocca ha storicamente altalenato nella sua appartenenza amministrativa: un territorio, se non conteso, quantomeno condiviso e quasi mercanteggiato dalle diverse sovranità territoriali che vi si sono succedute, passando addirittura da essere pertinenza del Principato di Benevento ad esserlo poi della Terra d’Otranto, e successivamente assegnato alla Basilicata, alla Calabria e nuovamente alla Basilicata (prima sotto Matera, poi sotto Potenza). E, ancora, al distretto di Lagonegro, di Castrovillari, al mandamento di Rotondella, di Oriolo Calabro e infine, solo dal 1817, alla provincia di Cosenza.
    Rocca Imperiale ha pure un primato: è il capoluogo di Comune più settentrionale della Calabria (mentre appartiene al Comune di Nocara il lembo di terra più a nord della Regione).

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    Un frame da “Destinazione Piovarolo” (1955)

    Come di consueto, mi tengo lontano dall’enumerare attrazioni turistiche e culturali. Del resto sono chiuse in pieno agosto, com’è altrettanto consueto che sia, dalle nostre parti, nelle località balneari, per via delle illuminatissime gestioni locali. Però non posso evitare di menzionare quel manifesto dove si elencavano le principali opere custodite presso il Museo delle Cere. Tra i tanti personaggi dell’elenco spiccava (con tanto di foto, a scanso di equivoci) la laconica definizione di “Calcutta”. Da intendere, ovviamente come “Madre Teresa di” e non nel senso del cantante. Tutto molto analitico, insomma. Con buona pace del senso del ridicolo.

    Rocca Imperiale: presepe e limoni

    Dicevo quindi che non è il caso di cadere – come si fa sempre anche per Morano Calabro – nel solito luogo comune del paese che «uh, che bello, sembra un presepe». Anche perché, a rigor di logica, sono i presepi a voler assomigliare ai paesi. Semplice questione di uova e galline, precedenza anagrafica nell’esser fatti a immagine e somiglianza d’altro.

    Del resto, anche al meraviglioso castello ho già accennato e allora andiamo semmai a cercare quello che si vede meno: il Comune di Rocca Imperiale non è nemmeno particolarmente esteso ma i suoi talenti nascosti li ha. Non dico le arcinote e vastissime piantagioni di limone – che chi di dovere e potere protegga – ma dico piuttosto i pianori disabitati di Santa Venere.

    Vi si arriva ignorando ovviamente la nuova 106 e infilando la vecchia, oggi relegata a funzione di complanare. Da qui, si possono scegliere due diverse uscite – l’una vale l’altra – e dopo aver macinato un po’ di tornanti e un pezzo di bosco fittissimo e pietroso, si arriva sulla sommità della collina: a un tratto sparisce ogni traccia di albero e restano solo prati e vento. Anche qui l’archeologo Lorenzo Quilici setacciò palmo a palmo ogni podere trovando e catalogando con zelo ogni possibile coccio. Fu luogo abitato, infatti, secoli e secoli fa. E non di poco conto. Nulla rimane, neppure qui.

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    Piantagioni di limone a Rocca Imperiale

    Lo scoglio degli scrittori

    Altra strada interessante, se non fosse interrotta da numerose frane (almeno all’epoca in cui la perlustrò il sottoscritto) è la vecchia comunale che portava da Rocca a Canna, del resto oggi definitivamente surclassata dalla comodissima provinciale costruita su un fianco dell’ormai innocua fiumara del torrente Canna.
    E il mare dov’è? Là, dietro la ferrovia, una striscia di pini e sassi davanti a quello scoglio del Cervaro dove si incontravano scrittori del calibro di Dario Bellezza ed Enrico Panunzio . Poeta maledetto, romano, il primo, pupillo di Pasolini, seminatore di ricordi non sempre graditi tra i rocchesi; scrittore sopraffino, pugliese e poi parigino d’adozione, il secondo, incompreso, sottovalutato e sconosciutissimo cesellatore del suo ‘barocco appestato’ (rubo però la definizione data da altri, e giustamente, al genio di Enzo Moscato). Paragonato a Gadda, Landolfi, Pizzuto (ma io direi anche Bufalino o addirittura Imbriani, per la ricercatezza della lingua). Due maestri d’“oltrecalabria” che amarono risciacquare i panni in Ionio.

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    Lo scoglio del Cervarolo

    La marina di Rocca Imperiale resta in gran parte chiusa tra la nuova e la vecchia 106: si biforcano, a un certo punto, separandosi come due amanti. Congestionata, rumorosa e frenetica, l’una. Serena, placida e decorata dalle file dei suoi vecchi pini svettanti, l’altra. Su un fianco di questa sopravvive una torre d’avvistamento medievale, diventata nel corso del tempo un’abitazione privata.

    Un gioiello dimenticato

    E poi un gioiello dimenticato. Così ampio da sembrare più basso di quanto in realtà non sia; costruito in piano, e oggi quasi soffocato dagli altri edifici, qui alla marina non svetta – come meriterebbe – il Magazzino del Grano. Neppure gli storici e cultori dell’architettura settecentesca si sono particolarmente curati delle vicende di questo fabbricato.

    A farlo costruire fu il duca Fabio Crivelli, nel 1731, secondo direttive molto complesse. Era munito di buche sotterranee per le diverse qualità di grano, ciascuna della capacità di circa 500 quintali e rivestita a calce. Non deve stupire che da Rocca passasse tanto grano: qui c’era una dogana del Governo, e il traffico marittimo che vi faceva capo era addirittura superiore a quello di Gaeta.

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    Facciata del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale (foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    Nel 1855 il barone Giuseppe Mazzario di Roseto Capo Spulico incaricò suo figlio Pietro di acquistare dal duca Nicola Crivelli alcuni latifondi nonché proprio il Magazzino “sito in rivo della Marina di Rocca Imperiale”. Con quel tanto di avarizia inevitabile agli affaristi del nuovo notabilato meridionale, cinque anni dopo venne stilato un curioso contratto di deposito in base al quale l’uso dei locali dell’enorme Magazzino venne concesso al Real Governo, a causa di un’emergenza (“avendo investita questa spiaggia due Legni carichi di grani del Real Governo”).

    Il tutto a particolarissime condizioni favorevoli a Mazzario, tra cui quella di poter eventualmente “ricacciare sulla spiaggia” tutto il grano in caso di inadempimenti, ovviamente a spese della controparte e sollevandosi dalla responsabilità del deperimento e finanche della “perdita” del grano stesso, messo così alla mercé di chiunque, compresi – è facilmente intuibile – i primi ad esserne informati, ovvero gli stessi uomini di fiducia del proprietario.

    Dal grano alla cultura

    Il Magazzino passò poi sotto le cure dei nobili Toscano di Rocca Imperiale, prima di diventare di proprietà pubblica, restando inutilizzato. Abbandonato così per anni, è diventa-to semplice deposito di materiali deperibili. Non troppo tempo fa si progettò un possibile recupero dell’edificio, prendendo ad esempio il recupero della Sala Borsa di Bologna, dimostrando cioè come – da struttura abbandonata – il Magazzino avrebbe avuto le qualità per diventare luogo di aggregazione in cui far confluire attività culturali (potendo disporre, peraltro, di una superficie di circa 980 mq potenzialmente raddoppiabile con la predisposizione di un ballatoio).

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    Interno del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale ((foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    I Toscano, dicevo: e allora torniamo allo svincolo della Statale, prima di andarcene via. È proprio sul poggio qui di fianco che si riescono a scorgere alcune delle strutture dell’antica Masseria di contrada Saliva, dei baroni Toscano/i (dopo secolari indecisioni, col tempo il cognome ha preso definitivamente il plurale). Ancora una volta mi viene in mente il Gattopardo: un palazzotto nobiliare avvolto dalle piante (qualche palma stravecchia, eucalipti, chiome a ombrello di pini secolari), una cappelletta privata, un’antica dependance. Il tutto affacciato da lontano sul mare, da prima che vi fossero le strade, da prima che vi fosse la ferrovia. Sul retro, un lunghissimo viale d’ingresso, alberato, in mezzo a interminabili filari e piantagioni ordinatissime sul pianoro di contrada Maddalena.

    Voci da un altro tempo

    È forse una delle ultime residenze nobiliari, in questo lembo di Calabria, a poter conservare memorie storiche di qualche consistenza, e uno dei pochissimi casati locali sopravvissuti al Novecento. Lo guardo con malinconia, quest’edificio, un tempo elegante, ora dall’intonaco malmesso e qualche infisso esasperato dopo duecento anni di sole, vento e salsedine. Ci potevi mettere forse due minuti, a cavallo, per raggiungere la sponda del mare in mezzo agli agrumeti. Ora c’è tutta una ferita di svincoli, rotonde con in mezzo i gesucristi di cemento a braccia aperte, manco dovessero dirigere il traffico. Ah, il buon gusto!

    La vecchia nobiltà s’è ritirata (e ha fatto bene). E mi verrebbe da tornare a Panunzio e al titolo del suo primo romanzo, I signori scaduti. Ricordo una telefonata, una decina d’anni fa, con l’ultranovantenne barone Lucio Toscani che, a un certo punto, lucidissimo, mi disse con voce flebile «e questo è tutto. E ora non so come passare il tempo. E vivo completamente solo… in questo enorme palazzo». Tarda voce da un altro tempo.

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    Rocca Imperiale nel Settecento (Jean Louis Desprez per il Voyage pittoresque ou Descrip-tion des royaumes de Naples et de Sicile di Richard de Saint-Non, Parigi 1781)
  • San Francesco di Paola, il grande onomastico della Calabria

    San Francesco di Paola, il grande onomastico della Calabria

    Quando arrivate a Paola ve ne accorgete subito: Francesco di Paola, “il santo glorioso” è imposto ovunque, e ovunque buono per usi convenevoli. Lo incontrate persino elevato a indicatore di direzione e nume tutelare del traffico stradale. Quasi ad ogni svincolo e incrocio, compresa la trafficatissima nazionale, già alle porte del paese alla confluenza del Santuario con la SS 18, c’è una grande statua del santo col bastone di cui tutti i calabresi si dicono timorati e devoti, «u santu nuastru». Come se ci fosse bisogno di lui nelle vesti di vigile miracoloso pure per sbrogliare il movimento soffocante di mezzi che ogni giorno attraversano pericolosamente queste contrade di passo.

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    Panoramica del Santuario di San Francesco di Paola

    San Francesco di Paola, il grande onomastico della Calabria

    C’è un gran traffico in giro. Si capisce proprio dalla statale intasata che questa giornata segnata sul calendario di tutti i calabresi si è invece trasformata in una ricorrenza di festa. E oggi, come ogni anno nel nome di Francesco di Paola si celebra il grande onomastico della Calabria. In Calabria il santo più santo di tutti i santi patroni di paesi e città è proprio lui, quello di Paola. E la sua fama non è seconda a quella di Francesco di Assisi, patrono d’Italia, di cui pure l’eremita paolano era stato seguace.

    Il convento dei Minimi a Plessis-lez-Tours in un’incisione acquarellata del 1699 (Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi, In primo piano l’orto di frate Francesco)

    San Francesco è infatti il vanto universale del paese che gli diede i natali il 27 marzo 1416. Il 2 di aprile, è invece il giorno, era un venerdì santo, della sua morte, avvenuta lontano dalla Calabria. Morì infatti proprio il 2 aprile 1507 nel castello di Plessis Lez Tours, alla corte di Francia, alla veneranda età di 91 anni, negli stessi ambienti che qualche anno dopo videro la presenza di Leonardo da Vinci.

    Il santuario e l’identità dei calabresi

    Eppure come ogni anno la sua vicenda comincia e ritorna ogni volta qui, alle porte di Paola. La storia di questo santuario è legata a filo doppio con la vicenda e l’identità culturale dei calabresi. «Il nostro luogo di Paola», lo chiamava San Francesco. Verso il recinto sacro del «monasterio» e della «ecclesia», fondati dal taumaturgo alla metà del XV secolo, dalla traccia segnata sulle boscose e segrete balze dell’Isca da un’apparizione del santo assisiate, un luogo sottratto alla natura e già tributario di un suo ordine mitico, mutato in luogo di preghiera, il «deserto», e poi da eremo a santuario.

    Nobili e popolani si recavano in affollato corteo per penitenze e suppliche. Ottenevano auspici e consolazione. Invocavano grazie e frequentemente ricevevano guarigione per i mali del corpo e dello spirito dal pater pauperum Francesco di Paola.

    San Francesco di Paola, l’eretico

    Francesco de Alessio, di Giacomo Alessio, detto “Martolilla”, e Vienna de Foscaldo, era figlio di due ebrei convertiti. Il piccolo Francesco venne al mondo come frutto di un voto fatto da due genitori sterili e di età avanzata. Nasce gracile e con un “posteuma”, un tumore all’occhio sinistro. Guarisce. Diventerà alto e forte come un gigante e morirà quasi centenario. Prima seguace e devoto dell’altro Francesco, diventerà egli stesso santo. Il santo viandante, il frate col bastone, il santo dei poveri e degli ultimi, il “Pater pauperm Francisci de Paula”. “Il povero frate Francisci de Paula, minimo delli minimi siervi de Giesù Christo Benedetto”, che fu asceta e formidabile servo di Dio.

    San Francesco di Paola in processione

    Fece presto miracoli di carità in Calabria e altrove, ed ebbe fama grande di taumaturgo presso i popoli e le corti del suo tempo. Fu però dapprima giudicato eretico da preti e prelati increduli, e tenuto persino per «eretico», «mago et erbarolo».

    Contro i prepotenti di ogni risma e i sovrani malfattori ebbe parole terribili: «Guai a chi regge, e mal regge, guai ai Ministri dei Tiranni et alle tirannie, guai alli Ministri di giustizia che li è ordinato far giustizia e lor fanno il contrario. Guai alli impij che di loro è scritto: non resurgent impij in iudicio, neque peccatores in Concilio justorum». Fu giusto in vita ed ebbe infine gloria universale nel mondo dei cristiani.

    Contro i potenti e per la pace

    Luigi XI di Francia

    In Francia l’eremita visse gli ultimi 24 anni della sua vita. Partecipò in prima persona alla soluzione dei più importanti problemi politici e diplomatici del suo tempo tra il papa e i re francesi. A Parigi teneva testa ai dotti e ai filosofi della Sorbona, dopo aver condannato l’ingiustizia del re di Napoli Ferrante d’Aragona, e non fu più tenero col re di Francia. Il frate asceta fu infatti chiamato per la sua fama di taumaturgo alla corte dell’uomo più potente del secolo gravemente ammalato, Luigi XI. Gli rifiuterà la guarigione del corpo per concedergli solo quella dell’anima.

    Francesco di Paola fu in anticipo sui tempi e protagonista della riforma cristiana. Nella verità della carità per i poveri e gli umili il “bono patre Francisci de Paula” guardò sempre ai potenti del secolo con “occhi di lione”. E nel nome del Signore non fece sconti a nessuno. «Conserva i giusti, et alli ingiusti l’inferno», sentenziò. L’asceta che seppe reggere il confronto con re e papi era dunque un calabrese con la schiena dritta. Fiero con i potenti, generoso con gli umili.

    In tempi di guerre di religione fu però ispiratore di armonia e di concordia, che esortò sempre i governanti e potenti del suo secolo alla pace: «Amate la pace, perché è molto meglio di qualsiasi tesoro che i popoli possano avere». La regola del suo Ordine dei Minimi, Ordo Minimorum, approvata nel 1506, alla stregua di una costituzione democratica, vale ancora oggi come codice di moralità etica e sociale per gli uomini e le donne di tutti i tempi.

    Il culto di San Francesco di Paola nel mondo

    Sparse in Italia e in tutti gli angoli dei cinque continenti, esistono ancora oggi centinaia di chiese intitolate al santo di Paola. Sono 54 le congregazioni religiose che rispondono ai tre Ordini dei Frati Minimi di San Francesco di Paola (circa 200 monache, 220 frati e 5-6.000 laici), con comunità diffuse in paesi come Spagna, Francia, Repubblica Ceca, Ucraina, Brasile, Colombia, Messico, Usa e India. La sua figura di taumaturgo e di protettore è particolarmente sentita e venerata nel mondo dei migranti, delle genti di mare e nelle comunità calabresi e meridionali all’estero.

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    La chiesa di San Francesco di Paola a Napoli

    Fondatore dell’Ordine dei Minimi (1506) che divenne uno dei quattro ordini religiosi più importanti nel secolo della controriforma cattolica, taumaturgo formidabile, teologo, mistico e asceta tra i più importanti del XV secolo, il santo della carità, il pater pauperum fu anche una delle figure di maggior spicco del cristianesimo europeo, a cui lo storico Johan Huizinga nel suo L’autunno del medioevo (1919) dedicherà pagine esemplari.

    Dalla fede popolare al supermercato della devozione

    Ma per sua predilezione per gli ultimi la figura del santo di Paola appartiene ancora oggi prevalentemente all’agiografia, alla religione dei ‘poveri’ e alla fede popolare. Da un secolo all’altro il Santuario di Paola divenne un centro di fede e devozione sempre più importante. Si sono moltiplicati i pellegrinaggi sempre più affollati e cortei di auto e bus verso il Santuario e al monastero, con la visita alle reliquie e al primo romitorio medievale fondati dal taumaturgo paolano. Era il 1969 quando Annabella Rossi, allieva di Ernesto de Martino, nelle sue ricerche antropologiche sulla religiosità popolare pubblicate in Le feste dei poveri (1971), scopriva in Calabria il santuario di Francesco di Paola.

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    Mostacciolo di San Francesco

    Ma il santo patrono dei calabresi era già ultrapopolare, patrono delle genti di mare, degli emigrati e a quel tempo soprattutto dei “poveri”. Il flusso annuale dei devoti nel 1969 veniva stimato dalla Rossi in 800 mila persone all’anno. Ma la festa a quel tempo era quella della tradizione locale, del mondo contadino e degli emigranti, con i pellegrini che si radunavano tutti davanti alla chiesa: organetti, balli popolari, gruppi di famiglia, mangiate e dormite all’aperto, processioni, fratini ed ex voto. Poche macchine, pochi pullman, poche bancarelle. Scarsi e ancora simbolici gli affari e i proventi della devozione anche per il convento: medagliette e bottiglie di acqua benedetta, immagini tradizionali, ex voto e statue di creta con l’effigie del santo col bastone.

    Oggi è un posto da “antropologia del casino” meridionale. Il santuario è più simile a una sorta di supermercato della devozione di largo consumo, tappa di trasferimento nei tour del pellegrinaggio parrocchiale fast-food. È pur sempre un bagno di buoni sentimenti. Ma anche per la memoria e per il nome di Francesco di Paola il rischio è quello di una religione popolare smorzata e ridotta spesso a superstizione secolarizzata in invettive e proclami, una fede che nessuno pratica sul serio e che non costa niente tranne qualche souvenir di plastica.

    Musical, fiction e Padre Pio

    Ormai la sua effigie sulle bancarelle gareggia infatti a pochi euro con quella più modaiola e telegenica di Padre Pio. Fino a qualche anno fa i bancarellari li offrivano affiancati i santi del Sud pauperizzato, un tanto alla coppia. Adesso di statuette votive ne fanno certe fuse in un orrendo impasto di resine sintetiche conciate in formato bipartisan, modello ibrido “San FranPio”. Nel frattempo, dopo il recente successo di un musical, per rinfrescare e rendere più modaiola la popolarità appannata dal lungo medioevo rurale del santo calabrese ascetico e incazzoso, si minaccia una fiction televisiva della Rai modello Padre Pio.

    Ma se invece volete farvi un’idea del carisma e della forza del suo sembiante, a conferma delle impressioni fissate dalle fonti coeve e della fede popolare dei Calabresi di quei tempi, ben difficili dei nostri, l’immagine più attendibile di Francesco di Paola proviene dall’iconografia pittorica più vicina ai tempi della sua vita. C’è un dipinto che si può ammirare a Montalto Uffugo, Chiesa dell’Annunziata, che viene ritenuto il più prossimo a un ritratto dal vero San Francesco di Paola (autore, “Bastianus Floretinus”, 1513 circa).

    Il ritratto di San Francesco di Paola

    Impressionano i particolari delle mani che reggono il bastone, i tratti severi del volto, la figura vigorosa avvolta dal saio, i piedi con i calzari. Dettagli del sembiante che già parlano chiaro. Guardategli quelle dita nodose e le mani con le vene gonfie, così contratte e nervose che sembrano pronte a scattare per scagliare contro i prepotenti di tutte le risme il grosso bastone a cui si appoggia lungo lungo come fosse una lancia da armigero. E quel cipiglio da leone arruffato e gli occhi insonni da sentinella d’accampamento, il naso affilato dalla fame spirituale e dal fanatismo vegano, la barba da mistico e profeta, e quei piedi forti e snudati, i ditoni sghembi, le unghie scheggiate, le palme ossute e deformate dal cammino senza soste del pellegrino solitario, che non ha risparmiato nemmeno i suoi santi piedoni usati per calci formidabili sferrati al diavolo in persona.

    Vegetariano per amore degli animali

    San Francesco di Paola fin dall’inizio della sua vocazione, si attenne a una dieta rigorosamente vegetariana escludendo ogni derivato animale. Ad appena 14 anni si ritirò nei boschi di Paola in solitudine. E vi rimase, dormendo in una grotta e mangiando ciò che la natura donava lui spontaneamente, con la sola compagnia degli animali selvatici. L’astinenza dalla carne praticata dall’asceta e dai suoi seguaci entrò nella regola sotto forma di 4° voto di “perpetua vita quaresimale”.

    Il frate amava troppo gli animali per mangiarseli: «Un giorno, mentre Francesco di Paola andava per boschi, trovò un piccolo cervo che i cacciatori volevano catturare. Francesco lo protesse e lo lasciò libero. Dopo lungo tempo, mentre altri cacciatori inseguivano quel cervo per catturarlo, fuggì verso il convento e si fermò sotto la cella di Francesco. Quel cervo poi seguiva il buon padre in chiesa e dovunque andasse, leccava il suo saio facendogli festa come un suo difensore».

    San Francesco resuscita i pesci

    Il santo vegetariano fece anche partecipi gli animali del miracolo più grande della religione cristiana: la resurrezione dalla morte. Resuscitò due animali a cui era molto affezionato: l’agnellino Martinello e la trota Antonella ripresero vita non appena il santo, che soleva dare un nome a tutti gli animali, impose loro le mani. Ma le resurrezioni di animali avvenute per l’intercessione del santo calabro non si esauriscono qui. Ospite alla corte di Napoli gli offrirono da mangiare dei pesci fritti, ma egli li tirò fuori con le mani nude dall’olio bollente e li risuscitò. Altri miracoli parlano di un serpente che era stato schiacciato e ucciso, miracolosamente riportato in vita da San Francesco e di un bue, anche questo risuscitato.

    Un ecologista ante litteram

    Prima che spuntasse “il sole che ride” il santo della Charitas era perciò anche un ecologista ante litteram. Di recente Francesco di Paola che era già nella “hall of fame” dei santi vegetariani, è diventato il patrono “de facto”, di tutti le comunità dei vegani cristiani. Qualche anno fa la questione fu argomento di discussione anche al Vegan Fest di Lucca. Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa pare molto prossimo.

    Vita quaresimale, regime vegetariano, sensibilità da ambientalista e rispetto caritatevole per il creato, l’amore solidale per i viventi e per tutte le forme di vita della terra e dell’acqua, i boschi, gli animali, la natura. Sta tutto nella sua “Regola” (1506). Una grande ricchezza. Basterebbe leggerla. E rispettarla un poco. In questi tempi di bassi orientamenti etici e di incerti sentimenti sul sacro sarebbe forse questo il vero miracolo di San Francesco. Liberarsi del superfluo, amare il creato, rispettare il prossimo.

    Strane apparizioni vicino al Santuario

    Ma qualcosa nonostante tutto riemerge dal sottofondo delle mentalità, dall’immaginazione sorgiva di un passato del sacro soffocato dal turismo religioso e dalla fede-spettacolo. Già nell’anno del quinto centenario della morte, il 2007, u santu nuastru si era mostrato ai viventi con qualche prodigio di difficile decifrazione. Adesso in tempi di crisi conclamata dirà la sua sulla guerra e uomini e su ciò che piace a Dio? In questi giorni difficili tra i fedeli si riparla sottovoce di un’ultima profezia di Natuzza Evolo, la veggente di Paravati che del santo di Paola era devotissima.

    La fede popolare reclama manifestazioni, vuole vedere segni. Qualcuno tra i fedeli più tradizionalisti di frate Francesco giura pure di aver visto un monaco incappucciato aggirarsi di notte sui luoghi intorno al Santuario profanati dalle ruspe e da troppi abusi edlizi. Ha un bastone in mano e un’aria santamente incazzata. Che cosa vorrà dirci adesso frate Francesco?

    Samprancisk

    Ma in questo giorno del calendario San Francesco è per tutti i calabresi Samprancisk. Uno che puoi prenderlo a bestemmie o invocarlo al bisogno. Uno che ci parli e gli dai del tu, come un amico o un parente che si incontra per strada, e che è di casa ovunque dal Pollino allo Stretto. E così in giro per la regione, e in mezzo mondo, nel suo nome si possono festeggiare anche tre processioni all’anno, sempre con la folla dei devoti dietro l’effigie barbuta e austera del patrono calabrese. Il protettore di Paola, un asceta medievale incazzosissimo e bonario, è il patrono dei pescatori e di tutta la gente di mare.

    La statua sommersa di San Francesco di Paola

    Il santo protettore di tutti i calabresi, dei fuggiti per emigrazione e di quelli rimasti per ostinazione non cessa di attrarre fedeli e devoti. Ogni anno questo onomastico è perciò uno degli appuntamenti che scandiscono la vita della Calabria. Fuori c’è la guerra, ritornano a galla paure antiche come il mondo. Nel flusso di stucchevoli banalità quotidiane, farcito del solito pastone di notizie truculente, gossip e veline emesse dai palazzi per alimentare le cronache del politichese locale, i santi spezzano la monotonia della prosa calabra di attualità.

    Il cammino della 107

    Adesso sulla statale calano le ombre, io giro le ruote per allontanarmi dal bivio del Santuario. Il pomeriggio sul Tirreno brilla dei raggi obliqui di un tramonto rossastro. Risalendo verso la Crocetta ho visto per strada un gruppo di pellegrini e devoti fare a piedi, sfidando la notte, il cammino di fede che porta qui sulle strade incasinate della 18 delle Calabrie in direzione del monastero di Paola. Lo stesso bordo trafficato dai pendolari del fine settimana sulla 107 Paola-Cosenza si trasforma così in una specie di “camino de Santiago” nostrano.

    Il giubbettino giallo catarifrangente delle soste di emergenza addosso come un saio penitenziale a scansare il risucchio delle macchine che sfrecciano. Un sacrificio vero. Una prova di fede che mi commuove e spaventa. Così per voto al frate di Paola c’è chi ancora rischia la pelle. Anche i pensieri di quelli che ci sono stati a fare visita e a chiedere grazie al “santu nuastru” restano ancora un poco incollati a mezz’aria sulla strada, come un resto di preghiera. Il vento di San Francesco li porterà fino a mare. Anche quelli miei che pure mi chiamo Francesco, e che santo non sono.

  • Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Cosenza a cinque birilli: bazziche, risse e un campione come Umberto Casaula

    Per noi giovani cosentini Umberto Casaula era un mito. Alcune sue partite nei campionati italiani, europei e mondiali rimangono impresse nella storia del biliardo. Nel 1985 diventa campione italiano nella specialità 5 birilli. Ha vinto numerosi tornei e si è battuto con campioni del calibro di Lotti, Ferro, Cifalà, Gomez, Zito, Martinelli, Belluta, Mannone e altri. Memorabile la partita del 1993 quando ad Avellino nella prima prova del mondiale vinse per 4 a 1 il grande Carlo Cifalà. Quando ancora non era entrato nel mondo dei professionisti con gli amici stavamo ore ad ammirarlo e ci colpiva soprattutto la sua umanità, cordialità ed eleganza dei suoi tiri.

    Umberto Casaula sfida e vince Carlo Cifalà nel mondiale del 1993

    Bazzica, italiana e goriziana

    È difficile ricostruire il clima di quegli anni ma quel gioco è rimasto sempre vivo nel mio cuore da spingermi a scrivere ormai vecchio una storia del biliardo pubblicata circa un mese fa dall’editore Rubbettino. Con gli amici il giorno giocavamo a calcio e la sera a bazzica, italiana e goriziana. Quel passatempo fatto di traiettorie, angoli e scontri era stregato, il roteare sul panno verde delle palle che andavano zigzagando tra una sponda e l’altra fino ad abbattere i birilli o finire in buca mi affascinava.

    Tiri eseguiti in posizioni difficili con effetti e complicate geometrie apparivano magie e il «bigliardista» un prestigiatore che non poteva nascondere la propria arte. Erano il braccio e la volontà dello sportivo a stabilire il cammino delle biglie, ma a volte avevo la sensazione che queste, come spinte da una forza nascosta, andavano oltre la volontà di chi le colpiva. Quelle sfere colorate tonde, lisce e pesanti che si urtavano creando un suono inconfondibile sembravano fatate e forze esterne influenzavano il loro apparente viaggiare logico-razionale.

    Biliardo a credito

    Eravamo appassionati del biliardo ma a volte facevamo fatica a raggranellare i soldi sufficienti per pagare il tavolo e il proprietario segnava i debiti su un quaderno nero. Per alcuni il biliardo era una vera malattia, c’era gente che giocava sino a tarda notte e, anche se la saracinesca del locale era abbassata, dentro si gareggiava fino al mattino. Ricordo che a volte arrivavano madri e padri arrabbiati perché i figli avevano marinato la scuola o non volevano che frequentassero la sala da gioco. Anche i miei genitori non erano contenti che andassi nella sala del bigliardo: dicevano che non studiavo e che quel luogo era frequentato da gente poco raccomandabile.

    In effetti ho visto tanti giovani lusingati da gente senza scrupoli di essere forti giocatori, dopo aver vinto qualche partita, finire per essere spennati. Ho assistito anche a violente risse durante sfide di bazzica per presunti imbrogli, sedate grazie all’intervento deciso del proprietario o della polizia. A bazzica si gareggiava con due palle e pallino, ciascun contendente riceveva una carta con un numero segreto la cui somma con i punti fatti con i birilli doveva raggiungere 31 e non oltrepassarla altrimenti «si sballava».

    Soprattutto nelle giornate fredde e di pioggia il biliardo era affollato di gente e i giocatori più bravi erano conosciuti con soprannomi bizzarri o legati alla loro professione. La sala era immersa nel fumo di sigarette, sigari e pipe che formava una nebbia bassa evidenziata dalle lampade che illuminavano i tavoli. Nel grande locale non si poteva parlare ad alta voce e nelle lunghe serate si sentiva solo un leggero brusio, il rumore secco delle biglie e qualche sonora bestemmia.

    Uomini eleganti e stecche intarsiate

    In occasione di incontri tra professionisti del biliardo di altre città e i nostri campioni, con in palio consistenti somme di denaro, c’era grande attesa. Fuoriclasse che conoscevamo di fama arrivavano con le loro custodie di legno da cui estraevano bellissime stecche intarsiate che sembravano fucili di precisione. Con quelle aste in mano sembravano fucilieri: avevano un’arma, erano esperti di balistica, tiravano con decisione e avevano una buona mira. Battendo la palla tenevano ferma la stecca, l’afferravano per bene dalla culatta, la ingessavano alla punta per evitare tiri a vuoto e, inchinandosi, davano un colpo alla biglia realizzando giocate magistrali.

    Prima di giocare stabilivano le regole per le scommesse, indossavano un grembiule per non sporcarsi e provavano con attenzione l’elasticità delle sponde. Durante le partite nella sala c’era un silenzio tombale interrotto solo dal rumore secco delle palle e dalla voce del bigliardiere che scandiva i punti ad alta voce dopo averli segnati nella rastrelliera. Ricordo che guardavamo incantati quegli uomini vestiti elegantemente che, dopo aver accuratamente ingessato la stecca e messo il talco sulle mani riuscivano a fare colpi inimmaginabili. Avevano giochi diversi: c’era chi cercava di fare punti a ogni tiro e chi invece si preoccupava della «rimanenza»; chi tirava d’istinto dopo una veloce occhiata al tavolo e alle palle e chi invece meditava sul tiro spostandosi lentamente da una parte all’altra del tavolo.

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    Umberto Casaula con suo figlio Aldo nella sala di biliardo che porta il suo nome

    I consigli del campione

    Guardandoli duellare mi rendevo conto che il biliardo era anche una prova di nervi. I contendenti cercavano di non esaltare le caratteristiche dell’avversario, lo costringevano a un gioco a lui non gradito, lo mettevano nella condizione di non poter mostrare ciò che sapeva fare, studiavano i modi per innervosirlo ed erano attenti a non perdere la calma nei momenti difficili aspettando il tempo opportuno per contrattaccare. Ricordo che un campione pugliese, venuto a Cosenza per sfidare Casaula, al temine di un vittorioso incontro, si fermò a parlare con noi e ci disse che giocando a biliardo bisognava non sottovalutare o sopravvalutare l’avversario e avere una grande tenacia perché, pur possedendo esperienza, visione di gioco e abilità nei tiri, senza volontà e concentrazione si andava inesorabilmente verso la sconfitta.

    Gli imprevisti sul panno verde

    In effetti accadeva che grandi fuoriclasse perdessero incontri con avversari più deboli a causa dello stato d’animo. Anche il risultato delle sfide tra campioni era imprevedibile: uno poteva perdere tutte le partite di un incontro e nel successivo vincerle. Non c’è sicurezza di vittoria al biliardo, sul tavolo non sempre accade ciò che si vuole, i tiri sono sempre gli stessi ma le biglie prendono direzioni diverse.

    Il più abile giocatore non ha il totale controllo di ciò che accade sul panno verde; pur conoscendo a memoria ogni colpo c’è qualcosa di imprevedibile che può far mutare la direzione delle palle: la rispondenza delle sponde, la pendenza di una parte del tavolo, lo sporco sulle sfere, pezzetti di gesso sul tappeto e altro. Spesso succede che un tiro è effettuato alla perfezione ma la palla che passa nel castello muove i birilli senza farli cadere o si ferma misteriosamente ai margini della buca.

    La solitudine del giocatore di biliardo

    I professionisti del biliardo non hanno tentennamenti su come eseguire un raddrizzo, un rinterzo, un rinquarto o un cinque sponde perché li hanno memorizzati, ma gli esiti di un tiro non sono mai scontati. Capitano giornate in cui ci si sente invincibili perché la palla centra sempre quello che si vuole, ma in alcune partite tutto va storto e non ci sono compagni da rimproverare o a cui chiedere consigli perché ognuno gareggia da solo. È necessario non lasciarsi andare quando i colpi non riescono nel modo desiderato e l’incontro prende una piega sfavorevole; bisogna dominare le passioni perché un fuoco tempestoso può indurre a scelte azzardate e sconsigliabili.

    Scena finale del film “Il colore dei soldi”, diretto da Martin Scorsese

     

  • La Calabria e la stampa “che conta”: storia di un pregiudizio

    La Calabria e la stampa “che conta”: storia di un pregiudizio

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    La Calabria una e trina. Trina, soprattutto, grazie al racconto delle grandi firme della stampa “che conta”. La prima Calabria, la più vecchia, è quella dei pregiudizi, che grazie all’appeal di grandissimi, come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, ha fatto scuola. Terra terribile e irredimibile. L’epigono, forse suo malgrado, di questa tradizione è Corrado Augias, che commentò, nell’immediato indomani dell’inchiesta Terre perdute, coordinata da Gratteri in persona, in maniera a dir poco dura: «Io ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile».

    https://www.facebook.com/watch/?v=463919521659331

    La seconda Calabria rievoca la Sindrome di Stoccolma: terra ostaggio delle sue classi dirigenti. Questa narrazione, forse la più recente, ha il suo capofila in Michele Santoro, che puntò le antenne di Annozero sulla classe dirigente calabrese a partire dal delitto Fortugno e ce le tenne ben dritte anche dopo, in occasione delle inchieste Why Not? e Poseidone di Luigi de Magistris.

    La terza Calabria, più simile alla seconda che alla prima, è la terra degli scandali un tanto al chilo, su cui si è esercitato negli ultimi anni Massimo Giletti, che ha allacciato una singolare sinergia col giornalismo locale, a cui ha fatto da grancassa: l’assessore corrotto, il mafioso corruttore e protervo, il pasticciaccio brutto della Sanità si trovano sempre…

    Stampa vs Calabria: in principio fu Indro

    A dirla tutta, Montanelli non si esercitò troppo sul Sud, perché la sua linea giornalistica aveva un gran successo sotto Roma, dove quella borghesia conservatrice (e a volte un po’ retriva) che amava la grande penna toscana era particolarmente consistente.
    Il mitico Indro, a cui si attribuisce tutto l’antimeridionalismo dell’universo, in realtà si teneva piuttosto abbottonato, con un cerchiobottismo simile a quello della Dc, che aveva votato a più riprese “turandosi il naso”.
    Sì, il Sud era arretrato e un po’ canaglia. Ma era anche la Patria di alcuni miti montanelliani, tra cui Giustino Fortunato: «Finché il Mezzogiorno genererà uomini così», rispose il grande giornalista a un lettore, «vale la pena di spendersi».

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    Indro Montanelli

    E la Calabria? Troppo marginale per interessare davvero qualcuno, era la terra ideale per intingere il pennino nella sostanza che il fondatore de Il Giornale prediligeva: il curaro.
    Tralasciamo alcune polemiche degli anni ’60, riportate in Calabria grande e amara (1964), il classicone di Leonida Repaci, e concentriamoci su un passaggio de L’Italia dell’Asse (1980) in cui Montanelli esprime il suo pensiero sulla Calabria mentre parla d’altro, cioè della conquista dell’Albania e del suo leader, re Zog.

    Ecco cosa scrive il giornalista toscano: «Il re Ahmed Zog, come si usa dire, “non nasceva”. Apparteneva a una dinastia di capimafia del Mathi, che sarebbe un po’ la Calabria dell’Albania, e il suo vero nome era Ahmed Zogolli». Inutile ricordare che l’Albania del ’38, uscita da poco meno di vent’anni dal dominio turco, era la zona più arretrata dei Balcani…

    La Calabria cambia, la stampa cambia

    Giusto un’avvertenza: i rapporti tra grande stampa e Calabria (e viceversa) iniziano a cambiare non appena si consolida una rete consistente di informazione regionale. Non più (e non solo) inviati e corrispondenti di testate nazionali e non più (e non solo) redazioni locali di testate che avevano fuori regione testa e cassaforte.

    Ma giornali regionali solidi, basati su reti di cronisti ramificate e consolidate sul territorio. E perciò capaci di creare continuità nell’informazione, dal livello strettamente locale al nazionale, e, a volte, di dialogare da pari con i big del giornalismo.
    Con un po’ di malignità, si può aggiungere che la crisi dell’editoria ha spinto le testate più importanti a non tralasciare nulla, Calabria inclusa, pur di fare i numeri. Soprattutto nell’era del web.

    Il perfido Bocca

    Giorgio Bocca, l’altro alfiere del pregiudizio antimeridionale, appartiene al “prima” dell’evoluzione massmediale. E, c’è da dire, ci va giù pesante.
    Le tracce del suo feeling antiterronico (e anticalabrese) si trovano in almeno tre libri. Il primo è L’Inferno. Profondo Sud, male oscuro (1992), un reportage choc che sbancò in libreria e diede filo da torcere al best seller Fatherland di Robert Harris.
    Il secondo è Il provinciale, l’autobiografia del grande giornalista piemontese, uscita sempre nel ’92. Il terzo è Aspra Calabria, ancora del ’92, in cui Bocca salva solo il procuratore Agostino Cordova.

    Giorgio Bocca

    Il Sud è male, la Calabria peggio

    Il Bocca-pensiero sulla Calabria procede per cerchi concentrici. Quello più esterno esprime un concetto: il Sud è male. Quello più interno, lo specifica: la Calabria è peggio.
    Ne Il provinciale, ad esempio, i passaggi sul Mezzogiorno sono pesantissimi.
    Eccone uno: «Passo per antimeridionale e lo sono nel senso che sono troppo vecchio per essere un’altra cosa. Il meridionalismo, la rinascita del Sud li lascio in eredità ai miei figli, ma temo che li passeranno ai nipoti. Sono quarant’anni e passa che ascolto le lagne del meridionalismo e ho capito che in quel che mi resta da vivere saranno sempre le stesse ».

    Eccone un altro: «In questi quarant’anni tutti gli altri meridioni del mondo industriale si sono tirati su le brache (…) e nessuno di questi Sud è afflitto dalla malavita organizzata che si è diffusa nel nostro, a metastasi».
    E infine: «La Mafia sarà potente, abile, invisibile, impunita, ma possibile che a nessuno o a pochissimi nel Sud sia venuta la voglia di spararle contro, di dirle basta?».
    La condanna di Bocca diventa senza appello sulla cultura. Per il grande giornalista alpino, i meridionali «se stanno giù non si liberano della retorica umanistica che non posso certo descrivere qui in due parole, ma che si riconosce come un odore di stantio, come qualcosa fuori dal mondo». Roba da far fischiare le orecchie ai vari Franco Cassano e ai loro pensieri più o meno “meridiani”…

    Giornalismo alla calabrese

    Sempre ne Il provinciale Bocca si sofferma sulla Calabria. In particolare, parla del suo incontro con l’avvocato di Saro Mammoliti: «La Mafia è come un cavallo nero, su cui salgono le zecche, i pidocchi, legulei, magistrati o avvocati che siano. Arrivo a Locri, terra di Mafia, e vado a parlare con l’avvocato Jovine, difensore di Saro Mammoliti, della grande famiglia mafiosa di Gioia Tauro, che vedo uscire dal suo ufficio».

    Mommo Piromalli
    Don Mommo Piromalli

    Più interessanti, i passaggi su Giuseppe Parrella, giornalista di Palmi, che Bocca definisce anche «di mafia». Parrella, racconta Bocca, si barcamena come può, tra carabinieri, mammasantissima e loro parenti. In particolare i Piromalli, che allora erano la ’ndrina del potentissimo don Mommo. Il ritratto è ironico, a tratti ammirato e pieno di comprensione. Parrella, per avere notizie, non esita a fare gli auguri a una Piromalli, che ha appena avuto un figlio, il quale ha ricevuto un assegno da un milione di lire da uno zio latitante. Roba inconcepibile nell’antimafia militante di oggi. Ma sicuramente comprensibile nel giornalismo degli anni ’80, molto più difficile da praticare in periferia.

    Una “normale” terra martoriata

    Dopo che Michele Santoro ha rotto il tabù, la Calabria va tranquillamente in prima serata, purché produca scandali.
    Lo sa bene Massimo Giletti, che si è divertito sadicamente a raccontare le malefatte della Sanità e della Regione. Ma a Giletti si può dare una piccola attenuante: almeno ha dato voce ai giornalisti calabresi che hanno prodotto le notizie. Non altrettanto ha fatto Mario Giordano nel suo Profugopoli (2016), in cui racconta della vicenda del centro migranti di Aprigliano riconducibile alla famiglia Morrone senza menzionare la fonte originaria…

    Mario Giordano

    A proposito di Michele Serra

    Ma ci sono giornalisti che guardano alla Calabria con pacatezza e con disincanto. È il caso di Michele Serra, che nel suo Tutti al mare (1985), racconta la speculazione sulle coste calabresi, da Scalea in giù con garbata ironia.

    Feltri, basta la (mala)parola

    Doverosa la citazione di Vittorio Feltri, non foss’altro perché si è fatto quasi radiare dall’albo (si è cancellato da sé prima) per averle sparate grosse sul Sud.
    L’ex direttore responsabile di Libero ha capitalizzato la libertà della terza età ed è andato giù duro sulla Calabria, di cui ha estremizzato i luoghi comuni negativi fino al paradosso: «Se fossi in Conte mi rivolgerei a un boss della ’ndrangheta», ha dichiarato il giornalista lumbard mentre la pandemia faceva ancora strage.
    Non serve altro. O forse sì: i politici calabresi la smettano di prenderlo sul serio e cerchino di non dargli ragione coi loro comportamenti.

    Vittorio Feltri
    Vittorio Feltri

    Scalfari non pervenuto

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    Eugenio Scalfari

    Eugenio Scalfari, originario di Vibo, di Calabria ha parlato poco. E quel poco l’ha delegato alle firme dei suoi giornali. C’è da capirlo: uno che commentava le elezioni del Papa o le crisi di governo mica poteva soffermarsi su “semplici” storie di mafia e di malaffare… Restano solo i ricordi delle estati nella terra natia. Innocui e sognanti come tutte le memorie d’infanzia.

    E domani?

    Di Calabria il web oggi parla tantissimo e i nostri governatori hanno guadagnato il diritto di essere bastonati e irrisi come tutti gli altri. Lo sa bene Agazio Loiero a cui Marco Travaglio dedicò un titolo mitico: Agazio che strazio.
    Ma la palla passa ai giornalisti calabresi, a cui tocca l’onere di passare un racconto ben fatto, degno di essere amplificato e ripetuto. In fin dei conti, il medium è sempre il messaggio…

    travaglio-stampa-calabria
    Marco Travaglio
  • Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

    Peperoncino e cipolle? Meglio il cammino dell’Abate

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    Il 26 marzo scorso ho visitato per la prima volta la chiesa di San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, in provincia di Cosenza. Si tratta di un sito immerso nel verde di un fitto bosco, raggiungibile anche in macchina, seguendo una strada stretta ma asfaltata. La maggior parte delle persone presenti quel giorno, però, ha raggiunto questo luogo bellissimo a piedi, seguendo probabilmente gli stessi sentieri percorsi dai monaci compagni e discepoli di Gioacchino da Fiore, che morì qui, il 30 marzo del 1202.

    San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta

    La moda dei cammini

    Marciare per antichi sentieri ormai va di moda. Migliaia di pellegrini si muovono ogni anno lungo la via che attraverso i Pirenei porta a Santiago de Compostela, in Spagna, oppure lungo la via Francigena, che dal Nord Europa, attraverso le Alpi e i passi appenninici, conduceva i penitenti a Roma, per pregare nelle grandi basiliche della cristianità e lucrare l’indulgenza.

    Il fatto che si stampino libri intitolati Come sedurre la cattolica sul cammino di Compostela (Castelvecchi) lascia intuire che le motivazioni di questi marciatori incalliti possono essere le più varie, non tutte riconducibili a un’esigenza religiosa.

    Dobbiamo ammettere che qualcosa del genere accadeva anche ai tempi di Dante Alighieri, quando personaggi di ogni genere si mettevano in cammino per desiderio di avventura, per sfuggire alla giustizia, per cercare un luogo migliore in cui vivere.
    Molti testi ispirati raccontano, invece, il valore del pellegrinaggio, il senso di questi viaggi che potevano durare anni, attraverso selve oscure e pericoli di ogni sorta, e trasformavano la sensibilità del pellegrino, gli spalancavano la conoscenza di altri mondi, altri stili di vita e culture materiali.

    E oggi? Prendiamo ad esempio la giornata dedicata a uno dei luoghi di Gioacchino da Fiore, un personaggio noto in tutto il mondo agli studiosi di Medioevo, citato a proposito e a sproposito da politici, rivoluzionari, agitatori e scrittori di ogni epoca, per la sua forza visionaria, per la prefigurazione di un’età della Spirito, in cui tanti hanno voluto vedere un sogno messianico e utopistico.

    Più Gioacchino da Fiore, meno peperoncino e calabriselle

    Gioacchino da Fiore è quasi certamente il calabrese più famoso di tutti i tempi. Ma nella sua terra i luoghi in cui ha vissuto e operato sono fuori dalle strade principali. Non fanno parte dell’immaginario collettivo, che può spingere gli stessi calabresi e i visitatori di questa regione sulle sue tracce. La Calabria ama presentarsi con il logo dei Bronzi di Riace, ma più prosaicamente e banalmente si racconta con le calabriselle, le cipolle, i peperoncini festivalieri e altri prodotti enogastronomici su cui si fa affidamento, per invogliare i viaggiatori a percorrere le sue strade dissestate.

    Antica iconografia che raffigura Gioacchino da Fiore

    A me i prodotti sott’olio non sembrano una motivazione sufficiente per mettersi in viaggio. Si parte per un’esigenza interiore, per cercare qualcosa, per capire una parte di sé che nascondiamo a noi stessi, a volte, per timore che ci scombussoli la vita ordinata e noiosa che conduciamo.  Possiamo anche ammettere che, durante il cammino verso Santiago de Compostela o qualsiasi altra meta, i falò serali, le chitarre e il vino per ristorarsi dalle fatiche della giornata favoriscano la reciproca attrazione e seduzione, ma si tratta sempre di un’alta e nobile necessità (questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine, un rapimento mistico e sensuale… cantava il vecchio Battiato).

    Contro le direzioni ovvie e banali

    A me la strada verso San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, ha fatto pensare che di solito, nella nostra vita, imbocchiamo quotidianamente le direzioni più ovvie e banali, che ci appaiono le più semplici e rassicuranti. Perché sono quelle più affollate, c’è sempre tanta gente e ci pare naturale ficcarci pure noi nella confusione.
    Invece gli antichi sentieri sono solitari, incutono un po’ di timore, facciamo bene ad avventurarci da soli?cNon sarebbe più normale andare a spasso sul corso oppure al centro commerciale?

    Alla fine, il 26 a Canale, ci siamo ritrovati in cinquanta persone, che non è proprio una situazione eremitica, di quelle che piacevano tanto all’abate Gioacchino. Forse vorrà dire che nel manicomio inconcludente che è la nostra vita, non siamo gli unici a pensare che bisognerebbe fermarsi, rallentare il passo, guardarsi intorno e recuperare questi luoghi incantati che, per miracolo, ancora sopravvivono in Calabria.

    La chiesa di Gioacchino diventò una stalla

    San Martino di Giove, come tanti altri monasteri, era diventato una stalla di proprietà privata. In periodo napoleonico prima e poi con l’Unità d’Italia, le leggi sul patrimonio ecclesiastico hanno espropriato molti beni della Chiesa, venduti all’asta o trasformati in edifici pubblici, caserme, uffici, scuole.

    Solo di recente questo piccolo edificio è stato recuperato e liberato dalle murature più arbitrarie, e ci appare in tutta la sua bellezza. Quest’anno Demetrio Guzzardi, editore di Editoriale Progetto 2000 e irrefrenabile animatore culturale, ha in programma di guidare le pattuglie di intrepidi camminatori a riscoprire, dopo San Martino di Giove, anche altri luoghi gioachimiti nascosti lungo quelle strade secondarie, che sembrano tagliate fuori dai circuiti più consueti.

    I luoghi di Gioacchino da Fiore in Calabria

    La Sambucina a Luzzi, che non si trova in paese, ovviamente, ma lungo la strada poco frequentata che porta in Sila. Santa Maria della Matina a San Marco Argentano, lungo la vecchia statale. Sono due luoghi uniti da una lunga storia e il 26 giugno prossimo Guzzardi propone un preoccupante tour automobilistico-pedonale, tra questi due centri della Calabria medievale. Preoccupante per me, che mi perderò di sicuro.

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    Il complesso di Santa Maria della Matina a San Marco Argentano

    E che dire della giornata del 23 luglio? Da Fontelaurato, nel comune di Fiumefreddo Bruzio, alla Badìa e a Sotterra a Paola, tre luoghi incredibili, che meriterebbero pagine e pagine di racconto, e invece hanno rischiato la distruzione totale e la cancellazione dalla memoria. La Badìa ci riporta alla storia delle Crociate, in particolare a un piccolo ordine monastico-cavalleresco, quello di Santa Maria di Valle Josaphat.

    Questi monaci e cavalieri, dopo la perdita dei luoghi santi, si riorganizzano tra la Sicilia e la Calabria, che rappresentavano una prima linea contro il mondo musulmano. All’epoca il dialogo interconfessionale non andava di moda. Cristiani e musulmani si combattevano ferocemente. Quanti libri sono stati scritti sui Templari e sulla loro tragica fine? Sicuramente conosciamo meglio le loro vicende rispetto a quelle che si sono intrecciate intorno alla Badìa. Luoghi che non hanno trovato ancora un narratore, che riesca a farli rivivere per un pubblico più vasto di quello degli storici di professione.

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    I resti dell’abbazia di Corazzo a Carlopoli

    Guzzardi da molti anni affianca al suo lavoro di editore questa missione di animatore e organizzatore, a cui si dedica con un accanimento che gli invidio (ne avrei bisogno per certe faccende mie).

    A spasso tra le rovine

    La riscoperta dei luoghi gioachimiti proseguirà, dal 20 al 27 agosto, intorno alle suggestive rovine di Corazzo, nel comune di Carlopoli (CZ). In Sila, tra i boschi più alti, dove Gioacchino amava ritirarsi per meditare e pregare. E dove ognuno di noi potrebbe avere l’occasione di passeggiare e riflettere sulla propria situazione. Lontano dai lidi affollati, dalla musica sparata al massimo, dalla spazzatura che si accumula, come ogni estate, nelle nostre marine. E non mancheranno, non mancano mai, gli articoli giornalistici sugli sversamenti di liquami a mare, ricorrenti ogni anno per la serenità e la gioia delle famiglie che ci portano i bambini.

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    L’abbazia florense di San Giovanni in Fiore

    Il bed and breakfast del pellegrino

    Un’altra vita è possibile? Non riesco a immaginarmi nei dintorni di Corazzo ad occuparmi di mucche al pascolo. I bovini mi sembrano grossi e pericolosi per i dilettanti allo sbaraglio. Non mi azzarderei ad avviare una produzione di vini dell’abate, né ad impiantare un Bed and Breakfast del pellegrino lungo uno di questi percorsi. Io mi accontento di visitarli, certi posti, e di conoscerne o immaginarne le storie.
    Ognuno dovrebbe concedersi la libertà di cercare quello di cui sente il bisogno, in un determinato momento della sua vita. Forma fisica e fidanzate, silenzio e preghiera, lontananza e anche, se capita, l’idea di candidarsi come apprendista pastore, boscaiolo, guida turistica, eremita a tempo indeterminato.

    Non possiamo portarci tutto appresso

    La Calabria medievale è lontana. Possiamo vagamente intuire come fosse, ma la nostra vita è un’altra faccenda. Il mondo in cui siamo immersi è complesso e inquietante. Per affrontarlo con cautela e sensibilità abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo. Abbiamo bisogno di aggrapparci alle nostre radici, di capire cosa custodire e cosa abbandonare, se non ci interessa più. Non possiamo avere tutto e nemmeno portarci tutto appresso; i pellegrini di una volta lo sapevano, e pure i viaggiatori di oggi sono consapevoli che il bagaglio deve essere leggero.