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  • Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

    Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

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    Terzo anno di pandemia, di nuovo a pensare alle vacanze possibili. Condizionato dal Covid e dalle relative problematiche due anni fa e poi l’estate scorsa ho iniziato a passare in rassegna le spiagge della mia infanzia, progettando di ritrovarne una adatta a un periodo di riposo. Ne ho rivisto alcune dopo decenni di reciproca indifferenza. Speravo di evitare le videochiamate pietose dei tanti connazionali confinati in quarantena a Malta, come a Mykonos o alle Baleari, imploranti soccorso dalla patria lontana. Questa umiliazione pubblica e mediatica no, non intendevo subirla.

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    Il mare di Fiumefreddo visto dal centro storico

    Due mesi sul Tirreno cosentino

    I miei genitori, da Cosenza, quando noi figli eravamo piccoli – parliamo di mezzo secolo fa – avevano preso l’abitudine di affittare un appartamento al mare. Per un mese, a volte anche per due, come si usava allora, di solito sul Tirreno cosentino. Da Amantea a Cetraro, da Guardia Piemontese a Fiumefreddo, da Fuscaldo ad Acquappesa, abbiamo vagato per molti anni, come gli ebrei nel deserto del Sinai. Gli ebrei avevano trasgredito, così racconta la Bibbia, ma noi che colpa dovevamo espiare? Cosa cercavamo, dopo aver caricato l’auto di tante masserizie, che all’epoca i padroni di casa non ritenevano di mettere a disposizione degli ospiti?

    Dune, mare, edifici abusivi

    Un’estate, forse due siamo sbarcati a Torremezzo, frazione sul mare di Falconara Albanese. Le marine calabresi si somigliavano tutte, tra le dune dal nulla spuntavano case e palazzi vicinissimi alla spiaggia. Edifici in gran parte abusivi ovviamente, proprio davanti al rilevato ferroviario, così di notte si saltava nel letto, al passaggio di ogni espresso Palermo-Milano.
    Le prime case prese in affitto dai miei non le ricordo, ero troppo piccolo. Dai racconti che ritrovo nella memoria si capisce che erano essenziali e scomode, ma ancora più ristretti erano gli alloggi dei proprietari che, pur di guadagnare qualcosa, si trasferivano in una mansarda, o presso parenti. A Torremezzo, però, eravamo già negli anni Settanta e le sistemazioni pioneristiche, per uomini duri, erano disponibili, per fortuna nostra, solo ai ritardatari incalliti.

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    Il centro storico di Falconara Albanese, Comune che comprende anche Torremezzo

    L’eparchia di Lungro arriva a Torremezzo

    Non ho trovato molte foto di queste vacanze, soprattutto le case si vedono appena. All’epoca scattare una foto richiedeva un minimo di formalità, un’occasione, un compleanno, una prima comunione, eravamo lontani dalla follia dei social.
    Quello che mi ha meravigliato, però, dopo tanti anni, parcheggiando sul lungo viale di Torremezzo, davanti ai palazzi e ai condomini scrostati dalla salsedine, è stata la scoperta di trovarmi nei confini dell’eparchia di Lungro. L’eparchia è una circoscrizione amministrativa, in uso nella chiesa orientale. Quella di Lungro è una delle due eparchie italiane, l’altra ha sede a Piana degli Albanesi, in Sicilia. Nelle due estati trascorse a Torremezzo non mi ero reso conto di dimorare in una comunità di cattolici albanesi di rito greco.

    L’eparchia di Lungro è stata istituita nel 1919, le sue comunità sono sparse lungo la valle del Crati, alcune anche fuori regione, ma i fondatori di Falconara si sono allontanati dai compatrioti fino a stabilirsi tra le montagne della catena tirrenica.
    La comunità originaria è quella di Falconara, un borgo nascosto tra le montagne, a qualche chilometro dal mare. Per non trovarsi d nuovo davanti i turchi, o piuttosto i pirati saraceni, da cui erano fuggiti intorno alla metà del Quattrocento, quando la loro terra entrò a far parte dell’Impero ottomano, la Sublime Porta.

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    Particolare del Castelluccio, nel Comune di Falconara Albanese

    La Storia mi è apparsa davanti all’improvviso, sotto le modeste sembianze di una piccola chiesa, intitolata al Santissimo Salvatore, in mezzo ad alcuni sterminati alveari abitativi dall’aspetto desolato, in abbandono. Tra le palazzine orfane di vacanzieri la chiesa era aperta e in ordine, ed era una tipica chiesa bizantina, con le icone alle pareti, i mosaici e l’iconostasi che separa la zona riservata al papas, al sacerdote, dal settore dei fedeli.

    I Balcani sul Tirreno?

    Imperdonabile non aver esplorato il territorio delle vacanze, anche se la chiesa non credo esistesse in quegli anni (su un sito arbëresh ho letto che fu edificata nel 1991). Ho scoperto anche che la parrocchia di Falconara entrò a far parte dell’eparchia in tempi recenti, durante l’episcopato a Cosenza di monsignor Enea Selis, che volle riunire quella comunità isolata alle altre comunità albanesi.
    Ma perché durante il mio soggiorno non mi ero spinto fino a Falconara? Cosa avevo da fare di importante in quella noiosa marina?

    Monsignor Selis accanto al papa in occasione dei 750 anni del Duomo di Cosenza

    Se mi fossi mosso da ragazzo avrei scoperto, molti anni prima, il fascino del mondo balcanico. Magari sarei partito subito per la Morea, in cerca dei castelli crociati e delle fortezze ottomane e veneziane. In Albania avrei ammirato prima il parco archeologico di Butrinto, bellissimo, immerso nel verde, circondato da una laguna, dove si passano in rassegna tutte le civiltà mediterranee.

    Le vacanze dei cosentini

    Il problema delle vacanze dei cosentini, a ragionarci adesso, mi appare chiaro: ci si ritrovava al mare, tutti negli stessi posti, sempre tra le stesse facce, a volte in mezzo a conoscenti, vicini di casa, parenti proprietari di seconda casa, data la nota, sfrenata passione edilizia dei miei concittadini. Quindi non ti veniva la curiosità di esplorare i luoghi, perché ti sembrava di stare sempre a Cosenza, una Cosenza con la spiaggia e il mare.

    A volte passeggiando a Guardia Piemontese, per dire, mi capitava di pensare di trovarmi in città, a via Caloprese. C’erano negozianti, parrucchieri, che in estate aprivano al mare un doppione dell’attività cittadina. Perfino i sacerdoti andavano in trasferta, a tenere d’occhio le pecorelle del gregge parrocchiale, temendo la dissolutezza e il sesso libero delle vacanze. Il massimo dell’esotismo era rappresentato da qualche famiglia di napoletani. In questa situazione non potevo pensare né all’esodo albanese né al dramma dei Valdesi massacrati a Guardia. Eravamo autoreferenziali, come si dice adesso.

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    Lo Scoglio della Regina nella marina di Guardia Piemontese (foto Alfonso Bombini 2021)

    In una marina nulla è pensato per spingerti verso la storia. Poi negli anni Settanta le marine erano una manifestazione della volontà di buttarsela alle spalle, quella storia triste, fatta di paesi isolati, di contrade senza acqua potabile e luce elettrica. Di noia e occhi sempre puntati addosso. Al mare si stava in costume, si passeggiava fino a tardi, si mangiava in modo più disordinato.

    In mezzo a tutti quei glutei esibiti senza ritegno (in molti casi sarebbe stato opportuno un velo pietoso), a quei corpi ustionati e spalmati di olio solare (un solo flacone di Coppertone appestava una spiaggia), offerti allo sguardo critico o libidinoso dei vicini di ombrellone, ognuno poteva illudersi di trovarsi nella lussureggiante Bora Bora. I locali, ovviamente con nomi evocativi, minimo Palm Beach, mandavano musica ad alto volume, tutto il giorno; che ti fregava, insomma, della storia della fondazione di Falconara?

    Torremezzo e Falconara

    Evidentemente questi saranno stati i miei colpevoli pensieri in quelle roventi estati a Torremezzo, pensieri disturbati dal fischio stridente del treno. Ora ne passano meno, di treni, mi sembra, e le folle di vacanzieri devono aver preso altre direzioni, a giudicare dall’aspetto dimesso e malconcio di molti edifici. Il mare purtroppo mi apparve sporco, in quella prima estate di pandemia, segnato da schiuma e strisce inquietanti. Peccato.

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    Ombrelloni vuoti sulla spiaggia di Torremezzo

    Ora sarebbe il momento di recuperare il filo della storia: a Falconara qualcuno si è preoccupato di studiare, raccogliere tradizioni, canti, usi della piccola comunità. In rete si trova qualche documento interessante, si rinvia a dei libri. Molto più di quello che di solito si riesce a leggere su un comune così piccolo. Bisognerebbe raccontare o inventare, nel caso, le mitiche peripezie dei fondatori. Necessita un racconto di fondazione. Si potrebbe anche prenderlo in prestito dai libri di Carmine Abate, che ne ha scritti tanti. Io ho ancora da recuperare gli altri borghi delle mie vacanze del secolo scorso, per espiare la distrazione peccaminosa degli anni giovanili.

  • Il partigiano della Sila che liberò Tirana

    Il partigiano della Sila che liberò Tirana

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    Se nessuno può cancellare le responsabilità dell’Italia fascista per la sua entrata in guerra nel 1940, nessuno può consentire che scenda l’oblio sul contributo eroico che, dopo l’8 settembre 1943, giorno della resa del Regio Esercito agli Alleati anglo-americani, i soldati italiani diedero alla liberazione di gran parte dei Paesi balcanici (Jugoslavia, Albania, Grecia) dalla occupazione nazista. A serbarne memoria concorre la vicenda di Giovanni Laurito, roglianese, nato un secolo fa (9 febbraio 1922) nella frazione silana di Saliano, combattente partigiano in Albania, che non volle arrendersi ai tedeschi e che, anzi, li combatté associandosi alle formazioni della Resistenza di quel Paese, dov’era giunto come militare di leva in forza alle truppe di invasione coloniale.

    Cent’anni da romanzo

    Un centenario, una vita da romanzo. Uno di quegli eroi, sin qui, anonimi che pure testimoniano i drammi della Seconda guerra mondiale e che, con aurea iscrizione, meritano di entrare negli annali con la forza del loro passato. Del partigiano Laurito non è solo la vicenda bellica del soldato a suscitare interesse e ammirazione, ma è anche la storia singolare dell’uomo, il vissuto del suo personale dopoguerra, che, dalla condizione di analfabeta e di autodidatta, lo portò, grazie alla sua alfieriana (nel senso del volli, e sempre volli, e fortissimamente volli) tenacia, alla irrefrenabile passione per la lettura, con risultati sorprendenti.

    Le rappresaglie dei nazisti

    Soldati del Reich in Grecia

    Tra l’8 settembre del 1943 e l’estate dell’anno successivo le truppe hitleriane, che avevano fiancheggiato quelle italiane di occupazione, in Albania, come in Jugoslavia e in Grecia, nella frustrazione della loro sconfitta, oramai ineluttabile, e della rottura dell’alleanza da parte dell’Italia, oramai irreversibile, scatenarono inaudite violenze contro le popolazioni locali e feroci rappresaglie contro i militari italiani in totale sbandamento. Che, pur decimati da deportazioni e da eccidi, come quello di Cefalonia, non mancarono di reagire.

    Partigiani all’estero

    Il loro coraggio, spinto in ardite controffensive, valse a indebolire le forze tedesche. In Grecia, tra i furiosi combattimenti ingaggiati tra ex alleati nelle isole dell’Egeo, a Corfù, a Cefalonia, i resti della Divisione Pinerolo, in azione nella Tessaglia, si unirono alle formazioni partigiane dell’Elas. Nel Montenegro, quelli delle Divisioni Venezia e Taurianense alimentarono le brigate della Divisione Garibaldi, che recarono un poderoso contributo alla guerra di liberazione.

    A Belgrado, si stagliò il valore dei battaglioni partigiani Garibaldi e Matteotti, nuclei della Divisione Italia, che, a fianco degli eserciti jugoslavo e russo, diede riconosciuto vigore alle operazioni in Slavonia fino al maggio del 1945 e alla liberazione di quelle terre. Dappertutto, fu versato sangue italiano. Come in Albania, dove le Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia e i cavalleggeri della Monferrato sostennero aspri combattimenti contro i tedeschi per poi dar vita alla Divisione Antonio Gramsci, fornendo alla insurrezione albanese determinanti rinforzi.

    La Divisione Garibaldi in Montenegro

    La liberazione dell’Albania

    Tirana, 17 novembre: la parata nel giorno della liberazione

    Nell’agosto del 1944, l’anonimo soldato di Saliano, con l’esercito in rotta, fu tra quelli che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, rischiando così, se non la fucilazione, la deportazione nell’orrore dei lager nazisti. Con altri riuscì a sfuggire alla cattura e a rifugiarsi nelle boscaglie a monte del fiume Erzen, nei pressi di Tirana, sino a raggiungere il comando clandestino della Gramsci, chiedendo d’essere aggregato e di combattere dalla parte dell’Esercito albanese di Liberazione nazionale. Inquadrato come partigiano, non si tirò indietro dalle tempeste di fuoco fino al vittorioso epilogo. Il successivo 17 novembre, a conclusione delle ultime tre settimane di continui, durissimi combattimenti, Tirana fu definitivamente liberata.

    Un sagrestano comunista

    Tornato in patria, riconosciuto ufficialmente come “Partigiano per gli Italiani” combattente all’estero dal ministero dell’Assistenza postbellica (con nota del 16 ottobre 1948 inviata al Comitato provinciale dell’Anpi di Cosenza), il reduce di guerra (ri)costruì la sua vita, con l’aiuto del parroco, che lo applicò come sagrestano nella chiesa della Madonna del Rosario. Si iscrisse al Partito comunista (Pci).

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    La lettera che certifica l’impegno da partigiano di Laurito in Albania

    Lettere al partito

    Si dedicò, febbrilmente, alla sua istruzione, divorando libri e giornali. Prediligeva testi di storia e filosofia, saggi di politica, biografie e autobiografie delle personalità storiche che maggiormente lo affascinavano. Maturò, via via, la sua acerba confessione politica di puro comunista sino a farne un credo integralista, una fideistica ragione di vita.

    La esprimeva in fluviali lettere, indirizzate ai leader del Pci, un po’ per complimentarsi quando sentiva di farlo, un po’ per dispensare consigli e proposte, molto per richiamarli alla coerenza con i dettami del marxismo. Non pare ricevesse risposte, ma lui si sentiva appagato per il semplice fatto di aver detto la sua e di avere assolto i canoni della sua ortodossia.

    La biblioteca di un ex analfabeta

    Di frequente, nei pomeriggi d’estate, i paesani lo vedevano seduto sui gradini esterni all’ombra di qualche casa, al centro del borgo, con la testa china, concentrato nella lettura e pronto a compulsare uno dei vocabolari della sua ricca collezione, alla quale non mancavano dizionari dei sinonimi e contrari.

    Alcuni libri della biblioteca personale di Giovanni Laurito

    Nella biblioteca domestica dell’anziano partigiano tuttora campeggiano, tra i tanti altri, libri su Marx, su Lenin e sulla Rivoluzione d’ottobre, sul Risorgimento e, persino, un testo della Costituzione cinese; scritti di Rousseau (Origini della disuguaglianza), Stuart Mill (“Saggi sulla religione”), Antonio Labriola (“Lettere a Engels”), Antonio Gramsci (“Americanismo e fordismo”), Aleksandr Sergeevic Puskin (“Storia di Pugaciov”); Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”), Giuseppe Garibaldi (“Lettere”).

    Non mancano ritagli di giornale, tra i tanti, tutti significativi dei suoi interessi e della sua sensibilità politica: “La discussa eredità di Mao” (L’Unità, 23 settembre 1979); “Tartassati da uno Stato spendaccione” (Gazzetta del Sud, 14 febbraio 1988); “La ritardata notifica di provvedimenti cautelari provocherà l’esodo dei boss del maxiprocesso” (Gazzetta del sud, 3 giugno 1988).

    Il compleanno di Giovanni Laurito festeggiato con gli altri ospiti della casa di riposo di Malito

    Piuttosto restìo a raccontare il suo passato, Laurito ha dovuto compiere cent’anni (festeggiatissimi nella casa di riposo di Malito, dove da anni si trova), perché venisse fuori la trama d’una esistenza, la sua, votata alla più ferma aderenza alle proprie idee e battagliata, su più fronti, sempre in lotta di liberazione, prima, dalla tirannia, poi, dalla ignoranza. Del Partito comunista continua a sentirsi «militante e portabandiera». Nella sua quadratura culturale, gli viene facile conciliare cattolicesimo e marxismo, con radicale persuasione. «La mia idea – taglia corto – è stata ed è questa. Non la cambio proprio ora, no!».

  • Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

    Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

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    Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.

    Il 25 aprile inconsapevole

    Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
    Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:

    Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.

    Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.

    Le bombe alleate

    Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
    Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.

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    Cosenza sotto i bombardamenti di fine estate 1943

    Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).

    Liberata e stuprata

    Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.

    A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.

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    Militari marocchini inquadrati nell’esercito francese, accampati nei pressi di Monte Cassino

    Le marocchinate

    Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.

    Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.

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    Manifesto della propaganda bellica contro i bombardamenti delle Nazioni Unite del 1943

    Gramsci, il partigiano postdatato

    Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.

    È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.

    Fascisti e antifascisti

    Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
    Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.

    Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».

    La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile

    E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.

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    Il calabrese Francesco Misiano, deputato comunista. Malmenato ripetutamente dai fascisti, morto in Russia sotto le purghe staliniane, dimenticato in Italia dai comunisti di Togliatti

    Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.

    Guerra e pace

    Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.

    Cosenza, il quartiere delle Paparelle e di Colle Triglio negli anni ‘20/’30 del Novecento (da L.I. Fragale, Microstoria di Calabria Citeriore e di Cosenza, 2016)

     

  • STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

    STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

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    Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…

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    Confini…

    L’exclave stritolata da tre paesi 

    C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedere un’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…

    La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.

    Terra di exclavi

    Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.

    Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.

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    La chiesa madre di Oriolo

    Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschiin parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.

    Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.

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    Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi

    Il dito di San Francesco di Paola

    Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).

    Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.

    Tombe e reperti

    E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).

    Peste e rivoluzione ad Oriolo

    E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.

    I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.

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    Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo

    Caduta libera

    Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.

    Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)

    E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.

    Oriolo e i cimiteri

    Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano (nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.

    Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.

    Una piccola Sila jonica

    Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.

    E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri
    Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?

     

  • La danza di Scanderbeg

    La danza di Scanderbeg

    Qualcuno si spinge fino al Ponte del diavolo. A piedi i più temerari, in sella a vecchi fuoristrada Iveco i meno abituati alle insidie della salita. Sono le prime ore del pomeriggio di un martedì che a Civita e nelle altre comunità dell’Arbëria  ha un significato particolare per le Vallje. Come ogni anno, dopo la Pasquetta, queste antichissime danze segnano il calendario dei paesi albanofoni. Senza la minima tentazione di chiamarli borghi.

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    Vallje a Civita, nel cuore del Pollino (foto Alfonso Bombini 2022)

     

    L’origine delle Vallje non si perde nella notte dei tempi. Nascono per rinsaldare quel legame profondo tra l’Arbëria, la sua storia, la madrepatria. E rievocano un episodio particolare con la forza di diventare un mito fondativo: la vittoria del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg sui turchi nella città di Kruja. Era il 24 aprile 1467. Anche allora era il primo martedì dopo Pasqua.

    Scanderbeg è l’icona più forte in possesso degli albanesi d’Occidente. Al pari della bandiera rossa con l’aquila nera. Immancabile anche ieri a Civita (Çifti). Al lato del palco, forse 3×6, ha accolto il Presidente della Repubblica d’Albania, Ilir Meta.

    Vallje a Civita: da tradizione d’Arbëria a festival del folklore

    C’è qualcosa di immutabile e al contempo rivoluzionario nella cultura di questo popolo, come ricorda lo scrittore Carmine Abate da Carfizzi. Due anni di fermo non hanno fiaccato la voglia di riportare in vita tradizioni così radicate. La pandemia si è fatta sentire e continua a rosicchiare tempo e destini. Ieri il ritorno della sfera pubblica. In una piazza militarizzata con transenne ovunque.

    Misure di sicurezza per garantire protezione a Ilir Meta. Un paradosso difficile da non notare: danze circolari hanno da sempre avvolto autoctoni e forestieri, adesso sono diventate uno spettacolo da festival del folklore. Con un copione imposto. Va bene lo stesso. Ma gli occhi di chi ne ha viste tante tradiscono il disappunto per un rito ormai confinato a beneficio di smartphone e fotografi veri o improvvisati con gli immancabili teleobiettivi parabellum. Quasi a volere entrare dentro il corpo di una comunità. Che invece si lascia attraversare allargando lo sguardo.

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    Il presidente della Repubblica albanese, Iril Meta, in visita a Civita (foto Alfonso Bombini 2022)

    Da San Marzano a Civita

    Ci si ritrova un po’ tutti in piazza, calabresi e non. Persino “Katundi Joni”, gruppo proveniente da San Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto. Una città meridiana più vicina del capoluogo Catanzaro al piccolo centro del Pollino. Più vicina non solo su Google maps.
    Ne fa parte la signora Carmela. Per la prima volta partecipa alle Vallje. Ma in qualche modo ha un profilo levantino come le stesse Calabrie di quassù. Canta a squarciagola e balla insieme ai suoi compaesani. In Puglia organizza rappresentazioni teatrali rigorosamente in lingua arbëreshë.

    Mancano fiumi di anice

    Pochi metri più dietro qualcuno chiama: «Professo’!». Si gira un signore anziano in camicia bianca e cravatta rossa. Uno dei pochi a sfidare una primavera mascherata da quasi inverno. Inizia a intonare canti, accompagnato da un organetto e un tamburo. Lo suona un tipo coi baffi che sembra un gitano dei film di Emir Kusturica. Vengono da Cerzeto e poco dopo li raggiunge pure il sindaco Rizzo. Nemmeno lui vuole perdersi rito e presidente Meta. Manca l’anice che invece nella vallja “eretica” e carnevalesca di Cervicati scorre a fiumi.

     

    Civita, per le Vallje ecco gli stranieri in Arbëria

    Gli occhi di giovani e meno giovani si posano su un cappello rosso che fa pendant col rossetto. Armata di ballerine ai piedi, sorride e gira video con il cellulare. Quel che resta delle intenzioni cariche di testosterone vittorioso sul colesterolo postpasquale si riversa su di lei. È inglese.

    Non mancano olandesi con figli piccoli, francesi e tedeschi a loro agio in t-shirt. Senza il bisogno di abbigliamento tecnico comprato nella non lontanissima Decathlon di Corigliano-Rossano. La tragedia del Raganello è alle spalle, non il ricordo delle vittime. Qui si viene volentieri. Case Kodra e buon cibo. Gente ospitale.

    Per fortuna la fisiologica passerella della politica non ha ammorbato troppo il pomeriggio di Civita. Tutti hanno già dato al mattino. Tributando saluti a effendi Iril Meta. Adesso il sole taglia queste montagne alle spalle. Il mare si concede ancora alla vista. L’organetto accompagna per l’ultima volta le Vallje di Çifti.

     

  • Sette note in nero: la Pasquetta di sangue di Ciccio Fred Scotti

    Sette note in nero: la Pasquetta di sangue di Ciccio Fred Scotti

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    È notte fonda. Sono le prime ore del 13 aprile 1971. Ciccio Scarpelli è nel vecchio pronto soccorso dell’Annunziata di Cosenza, dove l’ha portato un operaio a bordo del suo furgone. L’uomo, un 37enne grande e grosso, è gravemente ferito da quattro proiettili.
    « Ci’, chin’è statu?», Ciccio chi è stato?, gli chiede un infermiere che lo conosce. «’Nu fissa», uno scemo, un povero coglione, risponde l’omone agonizzante.

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    La tomba di Ciccio Scarpelli, alias Fred Scotti

    Ciccio Scarpelli non vedrà l’alba. Operato d’urgenza, spira alle 6,15 del mattino. «Il ganzo di malavita era stato ucciso dallo scemo del quartiere», commenta Paride Leporace nel suo Cosangeles (Cosenza, Pellegrini 2021), in cui rievoca la vicenda.
    Questo ganzo, a modo suo, era una celebrità: molti cosentini ne ascoltavano gli stornelli e le tarantelle con cui si esibiva nelle bettole o alle fiere. I più lo conoscevano col suo nome d’arte: Fred Scotti.

    La riscoperta di Fred Scotti

    Confinato a lungo nelle cronache nere e nelle leggende metropolitane, Fred Scotti riemerge all’inizio del millennio grazie all’iniziativa di Pias Germany, un’etichetta indipendente tedesca, che macina di tutto: dall’alt rock al folk. L’iniziativa è furbesca e mescola ambizioni commerciali e intenzioni colte: la riscoperta degli antichi canti della malavita calabrese. Infatti, grazie a questa trovata, la label ha venduto oltre centomila album agli italiani emigrati in Germania.

    La copertina de “La musica della mafia”

    La Pias ha pubblicato, tra il 2000 e il 2009, quattro compilation che raccolgono i classici di questo repertorio.
    Nel primo cd, La musica della mafia vol I-Il canto di malavita, sono contenute due canzoni di Fred Scotti: Tarantella guappa e Canto di carcerato.
    Un breve passaggio delle note di commento all’album, curate da Goffredo Plastino, docente di musicologia a Newcastle, si sofferma sul cantautore cosentino: «Molto curiosa è la storia del più grosso interprete del canto di carcerato Ciccio Scarpelli alias Fred Scotti, che finì ammazzato il 13 aprile del 1971, per aver molestato la donna di un mafioso».

    È quanto basta per suggerire un parallelismo tra Scotti e una grande leggenda del blues: Robert Johnson, che morì in circostanze non chiarite.
    In realtà, la morte di Scotti ha pochi lati oscuri. E la malavita non c’entra.

    Pasquetta di sangue

    Torniamo indietro e a Cosenza. È quasi la mezzanotte del 12 aprile 1971. Sono le ultime ore della Pasquetta di quell’anno e la città è semivuota.
    Francesco Scarpelli è al circolo Enal, una specie di cantina, del rione Massa, una zona popolare del centro storico che sfocia nella piazza Spirito Santo. Già alticcio, Scarpelli beve una birra dopo l’altra, che accompagna con sarde salate.

    In quel momento, entra nel locale Giuseppe Bruni, un fruttivendolo. L’uomo, come sempre, chiede al gestore se ha degli avanzi da dare al maiale. Scarpelli e Bruni si conoscono e sono l’uno l’opposto dell’altro: corpulento e forzuto il cantautore, mingherlino e remissivo l’ortolano. Proprio questa differenza rende Bruni la vittima ideale delle burle di Scotti, che a volte sfociano in gesti di prepotenza violenta.

    La rissa fatale

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    Ciccio Fred Scotti

    È così anche quella sera: Scarpelli inizia a prendere in giro il malcapitato e lo fa ruzzolare a terra. Bruni ingoia amaro e cerca di non provocare l’omone, ormai vistosamente ubriaco. Scarpelli, che ha perso il controllo e la lucidità, scivola e si lacera il pantalone alle ginocchia.
    «’ngulacchitemmuartu! Mò m’è pagare i cavuzi, unn’ha capì, oi luardu!» (ora mi devi risarcire, sporcaccione che non sei altro), urla Scarpelli al malcapitato. È l’ennesima prepotenza.

    Bruni prende tempo: fammi andare a casa a prendere i soldi. Poi prega il gestore di accompagnarlo, perché ha paura.
    Quando il fruttivendolo e l’oste arrivano a destinazione, trovano Scarpelli davanti all’uscio, impaziente e ancora più arrabbiato. La colluttazione riprende più violenta.
    Le urla richiamano la moglie di Bruni, che tenta a sua volta di separare i due. Ma Scarpelli è incontenibile e picchia la donna.
    Terrorizzato ed esasperato, Bruni estrae una pistola calibro 38 e spara al torace dell’uomo.

    La fuga e l’agonia

    A questo punto, Bruni si dilegua nei vicoli della città vecchia. Scarpelli, invece, si rialza e si dirige verso il Lungo Crati. Urla per il dolore, ma la sua fibra robusta ancora non cede.
    Quest’agonia tragica è una scena già vista: ricorda la morte di Francesco Giuseppucci detto Er Negro, il capo della Banda della Magliana, che arrivò da solo al pronto soccorso, sebbene ferito a morte.
    Ma Scarpelli non è solo: l’oste lo segue e cerca aiuto, finché, appunto, non si ferma l’operaio che lo porta in Ospedale.

    Fred Scotti e il leone

    Nato nel 1933 e cresciuto nei vicoli della Massa, Ciccio Scarpelli è la classica persona “nota” alle forze dell’ordine.
    Entra ed esce dal vecchio carcere di Colle Triglio per piccoli reati: rissa, disturbo della quiete pubblica e ferimenti. Tutto ciò lo qualifica come piccolo delinquente e gli crea una fama da duro negli ambienti di quella malavita che ancora non è mafia. Proprio in galera compone il Canto del carcerato.
    Quando è a piede libero, lavora come operaio al mattatoio comunale e fa anche il custode della Villa Vecchia.

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    Fred Scotti e il leone della Villa comunale

    Quest’ultima attività è alla base di un aneddoto. Scarpelli si prendeva cura di un vecchio leone abbandonato da un circo e chiuso in una gabbia proprio all’ingresso della Villa. E Scarpelli si divertiva con l’animale: spesso gli infilava una mano in bocca senza alcun pericolo, perché il felino era praticamente sdentato.
    Da questo gioco, probabilmente deriva un detto cosentino: “Ammucca liù”, tuttora usato per dare del fesso al prossimo.

    La passione per la musica

    Con altrettanta probabilità, il nomignolo Fred Scotti fu appioppato a Scarpelli dai ragazzi della Cosenza di allora, ispirati dalla fama dell’artista di colore Freddie Scott, diventato una star con la sua Hey Girl.

    Il cantautore americano Freddie Scott

    Il paragone è ingeneroso e un po’ bislacco. Ma ha funzionato sin troppo: non c’è celebrità senza nomignoli e Scarpelli ebbe il suo.
    Lo si vedeva spesso esibirsi nelle bettole di Cosenza con la chitarra a tracolla e riuscì a incidere alcune canzoni, arrangiate dal maestro Luigi Pisciotta, un musicista di Luzzi.

    L’ultima leggenda su Fred Scotti

    La tragica morte è alla base di un altro aneddoto, che sembra una nemesi.
    Eccolo: in piena agonia e in attesa di essere operato, Scotti era stato sistemato in corsia. I suoi vicini di letto sarebbero stati dei malavitosi, ricoverati in seguito a una sparatoria svoltasi alcuni giorni prima davanti alla vecchia stazione ferroviaria, alle spalle di Piazza dei Bruzi.
    Tra questi, un certo Pasquale Garofalo, che Scarpelli aveva sfregiato qualche anno prima.
    “Ucciso da una mano crudele”, recita la scritta sulla lapide di Scarpelli al cimitero di Cosenza. Già: la crudeltà di cui solo le vittime esasperate possono essere capaci.

  • Così fan tutti: una Calabria malata di parentopoli

    Così fan tutti: una Calabria malata di parentopoli

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    La recente polemica sulla mini parentopoli alla Provincia di Cosenza fa quasi tenerezza.
    Rispetto a decenni di nepotismi e comparaggi vari, praticati a tutti i livelli (e sempre intensivamente) non dà quasi nell’occhio che la presidente Rosaria Succurro abbia scelto come consulente suo marito Marco Ambrogio.

    Al riguardo, è arrivato puntuale il richiamo “storico” a Egidio Masella, ex assessore regionale di Rifondazione comunista, che  fu costretto a dimettersi all’inizio dell’era Loiero per aver tentato di assumere sua moglie, Lucia Apreda, nella propria struttura.

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    Marco Ambrogio e Rosaria Succurro

    Un caso da manuale

    Masella – che per quella vicenda ha subito un processo da cui fu prosciolto nel 2012 – ha avuto una menzione d’onore nientemeno che dalla Treccani, che cita la sua vicenda per chiarire il termine Parentopoli.
    Ma anche la storia dell’ex assessore rifondarolo risulta soft, se paragonata alla prassi (non solo) calabrese.

    Maledette telecamere

    Gli italiani si accorsero della Calabria grazie ad Anno Zero, la trasmissione di Michele Santoro, che immortalò il Consiglio regionale quando il cadavere di Francesco Fortugno era ancora caldo.
    «’u cumpari dù cumpari è tu cumpari», il compare del compare è tuo compare, disse Franco Morelli, ex capo di gabinetto di Giuseppe Chiaravalloti e allora consigliere in quota An, ripreso cheek to cheek con Domenico Crea, appena subentrato in Consiglio al posto di Fortugno. Oggi i due valgono assieme circa quindici anni. Di galera: a tanto ammontano le condanne ricevute per concorso esterno in associazione mafiosa.
    Ciò non toglie che allora avessero ragione: la Calabria funziona proprio come diceva Morelli.

    Il quinquennio di Chiaravalloti fu il regno di Bengodi, grazie al fatto che erano consentiti i cosiddetti “monogruppi”, cioè gruppi costituiti da un solo consigliere. Ciascun monogruppo poteva avere la sua struttura, composta di sette collaboratori al massimo, per un totale di 180 portaborse, con stipendi che andavano da un minimo di circa 1.700 euro netti a un massimo di 5mila e rotti lordi al mese.
    Di questi 180, raccontano alcuni ex funzionari, almeno 32 erano parenti diretti dei consiglieri.

    La “legge Masella”

    Questo andazzo, moralmente riprovevole, era tuttavia a norma di legge. L’affaire “Masella” costrinse la Regione a prendere provvedimenti seri.
    Il principale fu la legge regionale 16 del 22 novembre 2005, che introduceva una serie di incompatibilità per l’assunzione nelle strutture consiliari, tra cui il rapporto di parentela e affinità fino al terzo grado tra l’aspirante portaborse e il suo “patrono”.
    Con questa legge, la Calabria è stata la prima Regione a dotarsi di norme “antiparenti”. Un record doveroso, conferma oggi Peppe Bova, all’epoca presidente del Consiglio in quota Ds: «Eravamo giunti al limite e dovevamo dare un segnale forte».

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    Mario Pirillo è stato assessore regionale ed europarlamentare

    Album di famiglia

    Ma chi erano i consiglieri nepotisti? Dati i numeri, quasi tutti e forse menzionarne solo qualcuno significherebbe far torto agli altri.
    L’amministrazione Chiaravalloti si segnala anche per il famigerato Concorsone del 2001, destinato ai funzionari di partito. Tra gli illustri assunti, c’è (oltre al plurimenzionato Carlo Guccione), Salvatore Pirillo, ingegnere e figlio di Mario, big amanteano della Dc, transitato nella Margherita e poi nel Pd, assessore all’Agricoltura dell’era Loiero e poi europarlamentare.

    Mario & Giulio: cuori di padre

    Salvatore Pirillo emerse agli onori della cronaca nel 2010, quando Giulio Serra, consigliere di centrodestra dell’era Scopelliti, lo volle come suo collaboratore. In cambio, Pirillo senior assunse come propria collaboratrice, Roberta Pia Serra, manco a dirlo la figlia di Giulio.
    Ma Salvatore Pirillo non è solo un ingegnere. Infatti, ha ereditato da papà Mario la passione per la politica: è stato segretario del circolo Pd della “sua” Amantea nel 2014.

    Fedele… alla sua linea

    Nel caso di Luigi Fedele – assessore regionale durante l’amministrazione Caligiuri, poi presidente del Consiglio nell’era Chiaravalloti, infine assessore in quella Scopelliti – e finito nei guai per Rimborsopoli – più che di nepotismo si dovrebbe parlare di “compresenza”.

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    Luigi Fedele

    Infatti, suo fratello Giovanni, avvocato ed ex sindaco di Sant’Eufemia di Aspromonte, è entrato in Regione nel 2000 come collaboratore esperto della presidenza del Consiglio. Poi è diventato capo della medesima struttura fino al 2005. Ed è rimasto a Palazzo Campanella dove, da circa un decennio, è dirigente di settore.

    Gianni Nucera: l’asso pigliatutto

    Il recordman potrebbe essere Gianni Nucera, ex big dell’Udc. Nella sua struttura, all’inizio dell’era Loiero, c’erano sua moglie Felicia Pensabene e i figli Carmela e Francesco.
    Per evitare lo tsunami che allora travolgeva Masella, Nucera azzerò la struttura. Ma la famiglia può essere anche allargata: Nucera è cognato di Giuseppe Suraci, padre di Grazia Suraci, anche lei collaboratrice del consiglio regionale e moglie dell’ex assessore regionale Antonino De Gaetano, poi finito nei guai per l’inchiesta Erga Omnes.
    Grazia ha una sorella, Giuseppina Suraci, che ha collaborato con Antonio Billari, allievo di De Gaetano e consigliere regionale nell’era Santelli.

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    Maurizio Priolo, superburocrate della Regione Calabria

    Maurizio & Stefano Priolo: Regione di famiglia

    Non si può, a questo punto, passare sotto silenzio la vicenda della famiglia Priolo. Stefano Priolo, il padre, è stato consigliere nella Prima Repubblica. Attualmente presidente dell’Associazione ex consiglieri regionali, Priolo sr. passerà alla storia per la sua battaglia contro la riduzione dei vitalizi.

    Suo figlio Maurizio è un superburocrate della Regione, in cui è entrato senza concorso. Al momento, è impegnato in un braccio di ferro giudiziario contro Maria Stefania Lauria, che ha preso il suo ruolo, incluso il lucrosissimo stipendio a Palazzo Campanella…

    Sviluppo Italia: il parentificio

    Chiediamo scusa ai consiglieri regionali non menzionati (rimedieremo quanto prima) e passiamo all’over the top: l’agenzia Sviluppo Italia, che in Calabria pullulava di nomi eccellenti.
    Ne citiamo solo qualcuno: Paola Santelli, sorella minore della compianta Jole, Cecilia Rhodio, la figlia di Guido, presidente di Regione negli anni ruggenti della Dc.
    Sempre a proposito di notabili Dc: come non ricordare Luigi Camo, figlio dell’ex senatore scudocrociato Geppino? Ma faremmo un torto maggiore se non citassimo Cristiana Miceli, moglie di Geppino.

    https://icalabresi.it/fatti/regione-calabria-la-guerra-dei-mandarini-per-la-poltrona-da-240mila-euro/
    Roberto Occhiuto

    La fine della Balena Bianca non comportò la fine delle relative pratiche: infatti, in Sviluppo Italia figuravano Giada Fedele, ex moglie di Roberto Occhiuto, e Giovanna Campanaro, nipote della compianta Annamaria Nucci, ex deputata ed ex assessora al Bilancio di Cosenza nell’era Perugini.
    Non potevano mancare i Gentile: al riguardo, figurano nella lista Sandro Mazzuca, nipote di Pino Gentile, e sua moglie Fausta D’Ambrosio.
    Sviluppo Italia andò in liquidazione nell’era Loiero. Che fine hanno fatto i dipendenti (in totale 180)? Assorbiti a vario titolo dalla Regione e da altri enti.

    Così fan tutti

    Sul familismo calabrese la classe politica nazionale ha puntato poco il dito, anche perché ciascuno ha i suoi peccati. Certo è che non può fare la morale a nessuno la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che quando era sottosegretaria della Presidenza del Consiglio nominò sua consulente la figlia Ludovica.
    Tantomeno può farla Salvini, che si trovò agli onori delle cronache a metà dello scorso decennio perché la sua compagna fu assunta dalla Regione Lombardia, allora egemonizzata dalla Lega.

    Per tornare in Calabria

    «Allora, uno non può lavorare se è figlio di qualcuno?», si chiese attonito davanti alla stampa Umberto De Rose, lo stampatore coinvolto nell’Ora Gate, a proposito di Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino Gentile.

    Umberto De Rose

    Andrea era finito nel mirino degli inquirenti per alcune consulenze ricevute dall’Asp di Cosenza. A dirla tutta, nella parentopoli gentiliana era coinvolta anche Lory Gentile, la sorella di Andrea, che aveva lavorato per Fincalabra, diretta all’epoca dallo stesso De Rose, condannato per questo motivo dalla Corte dei Conti.

    A questo punto è doverosa una precisazione: non abbiamo menzionato i figli dei politici che fanno politica perché i rampolli illustri hanno almeno l’onere formale di procacciarsi i voti. Vale per Katya Gentile, la figlia di Pino, e per il citato Andrea.

    Parentopoli sanitaria

    Anche fuori dalla politica c’è chi ha fatto qualcosa.
    Ad esempio, l’ex commissaria straordinaria dell’Asp di Cosenza Daniela Saitta, finita nella bufera per aver dato una consulenza a sua figlia, Cristina Di Lazzaro.

    Incarnato family: un apostrofo rosa

    Si è parlato, a proposito dell’attuale amministrazione cosentina di Franz Caruso, di un curioso nepotismo alla rovescia, grazie al quale Luigi Incarnato è diventato capo di Gabinetto di Caruso dopo che sua figlia Pina è stata eletta consigliera (e poi nominata assessora) nell’attuale maggioranza.

    https://icalabresi.it/fatti/regione-calabria-la-guerra-dei-mandarini-per-la-poltrona-da-240mila-euro/
    Pina Incarnato

    Il caso è borderline, sia perché Incarnato fa il capo di Gabinetto gratis sia perché è stato uno degli organizzatori della coalizione di centrosinistra.
    Eppure la parentela non è più stretta per un soffio: Incarnato e Caruso, da sempre assieme nel Psi, sono stati a lungo consuoceri, perché Pina è la ex fidanzata del figlio del sindaco…
    Chi trova un amico trova un tesoro. Ma chi ha un parente trova di più.

  • Non solo Affruntata, riti e polemiche della Settimana Santa in Calabria

    Non solo Affruntata, riti e polemiche della Settimana Santa in Calabria

    Come le liturgie laiche di ogni giorno, anche i riti “santi” hanno subìto con la pandemia una sospensione e non saranno certamente più gli stessi. Ora, dopo due anni di stop, stanno per riprendere. Ma sono già al centro di decisioni discutibili e immancabili polemiche. È una questione di simboli, soprattutto, e di sentimenti. I riti della Settimana Santa in Calabria ne sono pieni. Sono tantissimi e chi ci crede li vive con una dose di pathos a volte eccessiva, ma direttamente proporzionale allo scetticismo – non di rado fondato sul pregiudizio – di chi non ci crede.

    Processione a San Luca (foto Angelo Maggio 2004)

    Tra fede e teatralità, le manifestazioni religiose pubbliche sono sempre state occasione per definire e ribadire rapporti di potere reali. Da ben prima che esistesse la ‘ndrangheta, che ne ha poi fatto uso per ostentare il suo dominio. E questi riti sono anche occasioni in cui, attraverso la drammatizzazione, le comunità mettono in scena se stesse, rivelando dinamiche interne che normalmente sono nascoste, tacite o sopite.

    Affruntata di Calabria

    Uno dei riti più diffusi, nella Calabria centrale e meridionale, è quello delle Affruntate. Tra Catanzarese, Vibonese e Reggino ce ne sono diverse con varianti notevoli. Cambiano nomi e dettagli di contesto: Cumprunta, Cunfruntata, Svilata, ‘Ncrinata a Dasà (dove si fa il martedì, mentre nella vicina Arena il lunedì). A Bagnara invece pare fosse l’unica festa in cui le due congreghe non litigavano. Ma i protagonisti del rito sono quasi sempre gli stessi: i simulacri della Madonna Addolorata, di San Giovanni evangelista e del Cristo risorto, a cui in alcuni paesi si aggiungono altre figure evangeliche, come la Maddalena o gli angeli.

    È la rappresentazione dell’incontro, preannunciato da San Giovanni, tra la Madre e il Figlio resuscitato. Con una forte componente simbolica che richiama la dinamica tra ordine divino e umano, la lotta tra la morte e la vita. Il rito è probabilmente collegabile alle “sacre rappresentazioni” del Medioevo e del Cinquecento, anche se in molti centri è arrivato nella seconda metà dell’Ottocento. Vi si riscontrano analogie con le liturgie della Settimana Santa della Sicilia, di Malta e di alcune regioni della Spagna.

    Più di tre secoli fa uno dei più noti e accreditati storici della Calabria seicentesca, Padre Giovanni Fiore da Cropani, raccontava stupito in Della Calabria Illustrata come, la domenica di Pasqua, «si accresce la festa nella città di Gerace con una processione di mattina col concorso di quasi tutta la città, e l’uno e l’altro clero secolare e regolare, nella quale con mirabile artificio s’incontrano insieme la Vergine da lutto con Cristo Sagramentato: al cui incontro svestita la Madre de’ suoi lutti, adora il suo carissimo Figliuolo: incontro qual riempie di molta tenerezza d’affetto i circostanti».

    Vangeli canonici e apocrifi

    Fiore da Cropani è stato citato dallo studioso e missionario scalabriniano Maffeo Pretto che, con La pietà popolare in Calabria, ha tentato una ricostruzione resa difficile dall’impossibilità «di tracciare una storia documentata» dell’Affruntata. I vangeli canonici, infatti, non fanno riferimento all’incontro di Cristo risorto con la Madre. Se ne fa invece menzione nei vangeli apocrifi. Pretto cita, in particolare, il Vangelo di Gamaliele – e poi c’è la liturgia pasquale bizantina in cui ricorre la seconda annunciazione. Infine Pretto ricorda l’uso dei gesuiti di tenere delle recite nelle piazze durante le processioni, chiedendosi se l’Affruntata non sia sorta in tale contesto.

    È certamente fondamentale il ruolo dei portantini. Sono loro a dover raccontare, unicamente con i gesti perché si tratta di una processione “muta”, l’ansia dell’attesa, l’incredulità iniziale, la “pasqua” che esplode quando Maria viene “svelata” dal manto nero e si mostra nel bianco (o azzurro) della Resurrezione.

    Affruntata: la processione annullata dal vescovo a Stefanaconi e Sant’Onofrio

    Sant’Onofrio e Stefanaconi, due piccoli centri alle porte di Vibo, sono finiti nel 2014 sulle prime pagine nazionali perché le autorità civili decisero, a causa della presenza di presunti affiliati alle ‘ndrine tra i portatori delle statue, di affidare questo compito ai volontari della Protezione civile. Decisione accettata, malvolentieri, dai fedeli di Stefanaconi. Rigettata, invece, dalla comunità di Sant’Onofrio che, d’accordo con il vescovo e il parroco dell’epoca, preferì annullare del tutto la processione.

    L’Affruntata “replicata” in Piemonte 

    Non era mai successo prima, mentre nel 2010, sempre a Sant’Onofrio, il rito subì un rinvio di una settimana dopo che la porta di casa del priore dell’arciconfraternita che lo organizza era stata presa a pistolettate. Il pentito Andrea Mantella racconta che l’Affruntata si faceva anche a Carmagnola perché lì sarebbe stata attiva una succursale piemontese del clan Bonavota. Proprio un loro uomo, in passato, avrebbe presieduto il comitato organizzatore. La comunità santonofrese si è però poi riappropriata della sua tradizione. Ora sembra risanata rispetto alle vicende negative degli anni passati.

    La presenza delle cosche nelle processioni

    Al di là dei singoli casi, il fenomeno a cui ricondurle non è certamente nuovo. La ‘ndrangheta ha affermato la sua forza solo nel secolo scorso. E la presenza delle cosche in questi riti non è che il riflesso del loro dominio reale sul territorio. Le manifestazioni di religiosità popolare, invece, detengono un potenziale “propagandistico” che i potenti di turno sfruttano da sempre per manifestare la propria superiorità. La spiritualità, anche nelle sue manifestazioni folkloriche è dunque, storicamente, un vero e proprio instrumentum regni.

    La “missa alla ‘mberza” a Serra San Bruno

    Un elemento costitutivo di certi riti è poi la loro fisicità. A Serra San Bruno, per esempio, dopo una funzione chiamata missa alla ‘mberza – non una vera e propria messa, bensì una liturgia in cui all’adorazione della croce seguono le letture e l’Eucaristia – il Venerdì Santo c’è il rito della Schiovazziuoni. Si tratta della rappresentazione della deposizione di Cristo morto. I confratelli dell’arciconfraternita dell’Addolorata liberano materialmente dai chiodi la stautua e la depongono dalla croce. Adgiano poi Cristo sulla naca, che ogni anno ha un allestimento ornamentale diverso da cui dipende molto del prestigio del priore in carica, e lo portano in processione il sabato mattina.

    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Stop ai Vattienti di Nocera Terinese

    Ancora più corporea è la tradizione dei Vattienti di Nocera Terinese – simile ai Battenti di Verbicaro – la cui origine si fa risalire almeno agli inizi del XVII secolo. Un corteo di uomini segue la statua raffigurante la madre di Cristo e alcuni di loro si flagellano le gambe con il “cardo” e la “rosa”, pezzi di sughero su cui si conficcano dei vetri. I vattienti «inevitabilmente iniziano a sanguinare e con il sangue vengono macchiate le mura e le porte delle case attraversate dalla processione».

    Non sono parole di uno storico locale. È un passaggio dell’ordinanza dei commissari che guidano il Comune di Nocera Terinese. Un Comune sciolto per mafia dopo l’inchiesta “Alibante”. I commissari hanno vietato il rito valutandone le modalità «in assoluto contrasto con le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e salubrità dell’ambiente, unitamente alla notoria attrazione alla manifestazione di un considerevole flusso di persone».

    Si può immaginare il disappunto della comunità che deve rinunciare alla cruenta tradizione anche quando lo stato di emergenza Covid si è concluso. È però nelle prerogative dei commissari – che assumono le competenze di sindaco, giunta e consiglio – prendere simili decisioni. E si può immaginare anche quanto un ligio funzionario prefettizio possa essere poco sensibile – e poco propenso ad assumersene la responsabilità – alle dinamiche collettive che stanno davanti e dietro al rito, nonché alle relazioni che vi si intrecciano intorno.

    Il dolce lungo 500 metri a Siderno

    A Siderno, riporta il Reggino.it, a causa dei contagi da Covid sono saltate tutte le celebrazioni civili e religiose, compresa la preparazione della Sguta di Pasquetta, un dolce che nella città della Locride ha raggiunto nel 2019 il record di lunghezza: 537 metri e 92 centimetri certificati da un notaio, con conferma di un posto nel Guinness dei primati. A Caulonia invece l’arciconfraternita dell’Immacolata ha deciso di non far portare le “sue” statue in processione perché la chiesa ricade in un’area interdetta per rischio idrogeologico e l’accordo col Comune per un «corridoio sicuro» è saltato.

    Il vescovo di Cosenza contro «balletti di statue e santi»

    Fede e potere, insomma, non sempre vanno a braccetto. E ci vuole una buona dose di coraggio per chi nella Chiesa – e sono in molti anche nelle alte sfere – cerca di lasciarsi alle spalle alcune usanze dai contorni piuttosto pagani. Certamente ne ha avuto parecchio un prete siciliano, il parroco di Ribera Antonio Nuara. Ha proposto su Facebook di «abolire tutte le processioni» che si svolgono dalle sue parti. Forse più facile la provocazione dell’arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano, Francescantonio Nolè, che intervistato da LaC ha sentenziato – evidentemente con qualche ragione – che «la fede vera non ha bisogno di balletti tra statue dei santi». Nel suo territorio però non si segnalano Affruntate.

  • I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    I Bronzi di Riace saranno candidati a Patrimonio dell’Unesco

    Patrimonio dell’Unesco. Proprio come il Centro Storico di Roma. O Venezia e la sua laguna. O i Sassi di Matera, i Trulli di Albero Bello, la Costiera Amalfitana, le Dolomiti, i Portici di Bologna, solo per rimanere in Italia. E per menzionare solo alcuni esempi. Anche i Bronzi di Riace potrebbero diventare Patrimonio dell’Umanità.

    L’annuncio è avvenuto proprio nel corso della conferenza stampa con cui il Comitato Interistituzionale presieduto dalla Regione Calabria ha presentato il logo e le iniziative per il cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi di Riace.

    Il logo per i 50 anni

    Sfondo azzurro. Proprio come quel mare dove vennero ritrovati, ormai quasi 50 anni fa. Era il 16 agosto del 1972. Oggi il Comitato interistituzionale ha presentato il logo che accompagnerà le numerose iniziative, sul territorio e fuori dalla Calabria, che dovranno celebrare la straordinaria scoperta. Nella parte centrale campeggia la scritta “Bronzi 50”, con i numeri in colore oro.

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    Il logo realizzato per celebrare l’anniversario

    «I Bronzi sono un patrimonio su cui intendiamo lavorare molto per irrobustire l’immagine della Calabria nel mondo. Ed è anche un’occasione per fare squadra con il MaRc, la Città Metropolitana, di modo che la cultura sia tra i cardini del riscatto economico del nostro contesto. E i Bronzi, senza dubbio, hanno uno straordinario effetto trainante», ha detto la vicepresidente Princi.

    Il Tavolo di coordinamento

    La Regione mette così a tacere le tante critiche fin qui giunte circa i ritardi nella preparazione delle iniziative atte non solo a ricordare, ma, soprattutto, a far conoscere i due Guerrieri e la loro storia millenaria.

    A coordinare il Comitato e il tavolo della presentazione, la vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi. Ma sono numerosi gli enti coinvolti: il Comune e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, il Comune di Riace, la Camera di Commercio e l’Università di Reggio Calabria, il Ministero della Cultura e la Sovrintendenza Regionale dei Beni Archeologici.

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    La conferenza stampa di oggi per presentare le iniziative in programma

    I Bronzi di Riace Patrimonio dell’Unesco?

    Il Comitato, infatti, ha elaborato un Piano di promozione, comunicazione ed eventi internazionali, che si concluderanno nel mese di dicembre 2022. Programmati eventi dedicati ai Bronzi di Riace in Texas, Inghilterra, Germania, Francia, con il coinvolgimento delle Camere di commercio estere e delle Ambasciate.

    I due Bronzi, di età riconducibile al V secolo a.C., sono custoditi al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Ma solo raramente sono riusciti ad avere la ribalta meritata. Ora, però, la Regione vuole pensare e agire in grande: «L’anniversario del 50esimo del ritrovamento dei Bronzi di Riace rappresenta una grande opportunità, una vetrina importante per la promozione culturale e turistica della Calabria. Proprio per questo stiamo lavorando affinché le due statue diventino Patrimonio mondiale Unesco», ha detto Princi.

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    Carmelo Malacrino

    Per il direttore del Museo nazionale, Carmelo Malacrino, «si tratta di una occasione irripetibile per rilanciare i Bronzi». Melacrino ha confermato che anche per la prossima stagione estiva, il Museo tornerà ad ospitare, dalle ore 20 alle 23, incontri, concerti e approfondimenti culturali.

    Le iniziative

    Mostre, convegni, incontri, promozione dentro e fuori dal territorio. Ma, soprattutto, l’obiettivo di far conoscere il più possibile i due guerrieri fuori dalla regione. La Cittadella ha già predisposto la proiezione delle statue dei Guerrieri sui video-wall di importanti stazioni ferroviarie, come quelle di Milano e Roma, ma anche sugli schermi degli aeroporti italiani. Tutto dovrebbe partire da maggio e andare fino a dicembre, per far parlare delle statue per tutta la durata del 2022.

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    L’ingresso della Stazione di Roma Termini

    Su questa linea si inquadra anche la partnership con il Giro d’Italia di ciclismo, che partirà a maggio, e con il Salone del Libro di Torino, che si terrà dal 19 al 23 dello stesso mese. Celebrazioni che si dovrebbe concludere a dicembre con l’opera lirica capolavoro di Francesco Cilea, Adriana Lecovreur. Interpreti principali: Maria Agresta, reduce dalla Scala di Milano con la stessa opera, e Michele Fabiano, tenore di fama internazionale, peraltro originario di Scilla.

    Il problema dei trasporti

    Mai del tutto valorizzati. E, proprio per questo, in passato da più parti si sollevò la proposta di spostare i Bronzi, di portarli in giro per il mondo. Il Comitato interistituzionale ha un’altra idea: «I Bronzi devono rimanere al Museo Archeologico di Reggio Calabria». Lo hanno detto sostanzialmente tutti: la stessa Princi, ma anche Malacrino e il sindaco di Riace, Antonio Trifoli. Quindi, dev’essere il mondo a recarsi a Reggio Calabria per ammirare due opere uniche.

    Aeroporto Minniti, la cenerentola degli scali calabresi
    Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti

    Ciò che preoccupa, però, è l’isolamento della regione. I potenziali turisti potrebbero essere scoraggiati dalla difficoltà di raggiungere la Calabria e dai prezzi assai esosi per atterrare a Reggio Calabria. Sul tema degli aeroporti, Princi ha rivendicato il lavoro svolto dalla Giunta Regionale presieduta da Roberto Occhiuto con l’acquisizione del 70% delle quote della Sacal. Attraverso questo passaggio, la vicepresidente della Regione è convinta che già nel breve periodo si possa arrivare a eliminare le limitazioni che hanno fin qui frenato lo sviluppo dell’Aeroporto dello Stretto, con l’arrivo, per esempio, delle compagnie low cost.

    La vicepresidente della Regione, ancora, ha reso noto la proposta di «pacchetti turistici integrati e mirati per le scuole, dedicati ai Bronzi, con il coinvolgimento dell’imprenditoria locale». Oltre un milione di euro per gli istituti scolastici con meta privilegiata la Città Metropolitana di Reggio Calabria.

    Le attività economiche

    Il presidente della Camera di Commercio, Antonino Tramontana, ha reso noto che «all’interno dei pacchetti turistici programmati, con soste da una a tre settimane, con l’impegno dei ristoratori, saranno offerti piatti gastronomici in sintonia con l’evento. Un menù tipico della nostra provincia, accompagnato da cocktail, vini tipici e una birra di produzione locale fatta col nostro grano e il bergamotto».

    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Sono 20 gli itinerari di varia durata, resi già disponibili, dedicati ai Bronzi di Riace e finalizzati a far conoscere le grandi ricchezze culturali, naturalistiche ed enogastronomiche del territorio reggino. Il presidente Tramontana ha annunciato che diversi chef e diversi barman stanno già lavorando per creare dei menù tipici del territorio e dei cocktail dedicati al cinquantennale del ritrovamento dei Bronzi. Così come è in atto il coinvolgimento delle aziende vinicole e dei birrifici. «Le attività ristorative saranno invitate a promuovere anche la somministrazione di preparazioni enogastronomiche identitarie del territorio, dedicate all’evento», dice ancora Tramontana.

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  • I “subburchi” e la Pasqua: dai giardini di Adone a quelli di Cristo

    I “subburchi” e la Pasqua: dai giardini di Adone a quelli di Cristo

    Ricordo che a Pasqua con gli amici giravamo nelle chiese cosentine per i subburchi. Dovevamo vederne almeno tre e comunque in numero dispari. I preti ci dicevano che quei semi di grano cresciuti al buio simboleggiavano la morte di Gesù e, una volta germogliati e diventati biondo-oro, rappresentavano la sua resurrezione. Le nostre mamme, prima del periodo pasquale, seminavano grano, lenticchie, cicerchie e ceci dentro piatti o ciotole che conservavano al buio e bagnavano ogni due giorni.

    La tradizione dei subburchi

    Le piantine, una volta cresciute, legate con nastri di vario colore e adornate di fiori, venivano portate in chiesa il giovedì e poste accanto all’immagine di Cristo morto. Il Venerdì Santo, il più triste della Settimana Santa, gli altari erano spogliati dei paramenti e le immagini sacre coperte da un panno nero. Il mattino di Pasqua, al termine della messa, le donne portavano via il «grano santo» e lo piantavano negli orti o lo regalavano alle vicine come buon augurio.

    Il dio del grano e quello dei cattolici

    Anche le donne greche durante le Adonie seminavano grano, legumi e fiori nei vasi di terracotta. Cresciute le piantine, le ponevano accanto alle immagini di Adone morto. Al termine delle celebrazioni, prendevano i vasi con i germogli ormai appassiti e li gettavano nelle fonti d’acqua insieme alle statuette del dio. Secondo Frazer, Adone, che in lingua semitica significa «Signore», come altre divinità orientali che morivano e resuscitavano, era un dio del grano e della vegetazione. Le Adonie erano destinate a promuovere la crescita o il rinvigorimento della vegetazione secondo il principio della magia imitativa: riproducendo la vita delle messi, i contadini pensavano di assicurarsi un buon raccolto.

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    John Reinhard Weguelin, “I Giardini di Adone” (1888)

    La rapida germinazione del grano e dell’orzo nei «giardini di Adone» aveva lo scopo di far crescere i cereali, così come buttare i «giardini» con le statuette del dio nell’acqua propiziavano la pioggia fertilizzatrice. I «giardini di Adone» erano dunque una ritualità misterica sperimentata per incoraggiare la crescita della vegetazione, rappresentavano il risveglio primaverile della natura dal sonno invernale.

    Subburchi come le Adonie? C’è chi dice no

    Questa interpretazione, tuttavia, non trova tutti d’accordo. Detienne, ad esempio, osserva che le Adonie si celebravano in estate e non in primavera, e cioè nei giorni della canicola e dell’aridità. I «giardini» verdeggianti e vivaci non rappresentavano rinascita e vita, ma morte e desolazione. Il rigoglio era illusorio, rivelava l’impotenza a fruttificare: appena verdi, infatti, le piantine inaridivano velocemente sotto il calore del sole estivo. Al termine della ritualità, inoltre, le donne gettavano i vasi e il contenuto nell’acqua fredda delle sorgenti o nel mare infecondo.

    Adone era un adolescente precoce ma impotente e improduttivo, un seduttore straordinario ma sterile ed effeminato, in definitiva non un dio della vegetazione ma della sterilità. Detienne aggiunge che nel rituale greco le piantine stavano in piccoli recipienti, non nella vasta terra nutrice; godevano del solo periodo della canicola, non della maturazione lenta e naturale; avevano un ciclo di otto giorni, non di otto mesi (il tempo che intercorre tra semina e mietitura). Senza maturità, radici e frutti, con la loro rapida e illusoria fioritura, i giardini infecondi erano agli antipodi dell’agricoltura.

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    Marcel Detienne

    Affinità e divergenze tra i due culti

    Frazer sostiene invece che la ritualità dei Sepolcri, praticata soprattutto in Calabria e Sicilia, era la continuazione sotto diverso nome del culto di Adone. Secondo lo studioso, i drammi sacri erano sopravvissuti in queste regioni perché colpivano l’immaginazione e toccavano i sentimenti di una «razza», quella meridionale, disponibile per temperamento (a differenza di quella teutonica) verso le cerimonie caratterizzate da pompa e magnificenza. La Chiesa, con grande abilità, soprattutto per celebrazioni come quella del Cristo morto e resuscitato, aveva innestato la fede cristiana sul «vecchio tronco» del paganesimo.

    subburchi

    La somiglianza tra i «giardini di Adone» e i «sepolcri di Cristo» è indiscutibile, ma la filiazione diretta è tutt’altro che scontata. Indubbiamente i «Giardini di Gesù», ancora oggi allestiti dalle donne in occasione del Venerdì Santo, ricordano i «Giardini di Adone». Ma fra le due ritualità esistono più differenze che somiglianze. La festa delle Adonie si svolge nelle abitazioni private mentre quella della Pasqua nelle chiese; la prima si evolve in un clima sregolato e indecente, la seconda in un clima sommesso e solenne; l’una si caratterizza per la libertà sessuale, l’altra per la continenza; la prima è all’insegna di abbuffate e allegre bevute, la seconda del digiuno e della sobrietà; la prima è una festa allegra e rumorosa delle cortigiane, la seconda il rito luttuoso e angosciante delle madri.

    L’importanza della memoria e dell’oblio

    Bisogna studiare con attenzione le tradizioni folkloriche e soprattutto non sopravvalutare la «memoria collettiva». L’uomo ha bisogno dell’oblio come della memoria, ha necessità di dimenticare come di ricordare. A volte ha cattiva memoria e dimentica, a volte inventa, a volte ricorda i minimi particolari, a volte accade che alcune credenze rimaste nell’ombra si ridestano e ritornano a galla. Spesso si parla della «memoria collettiva» come di un organismo dotato di una psiche comune, di un qualcosa che contiene tutti i ricordi. In realtà capita spesso che gruppi di individui, a volte intenzionalmente, non trasmettono quanto conoscono alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano mentre di altri si perda traccia.

    Non esiste un mondo statico, la realtà è in continuo movimento, le società sono sottoposte sempre a nuovi condizionamenti culturali e materiali. Una ritualità che si richiama a un evento mitico, se non trova un equilibrio nelle sue molteplici funzioni e se viene meno quel flusso di informazioni e credenze tramandate da una cultura all’altra, può anche avere fine. Quando un mito non è più un elemento vitale per una comunità cessa di esistere. Ci sono miti che si modificano, perdono di senso, appaiono e scompaiono, riaffiorano in altri miti.

    Vecchie e nuovi miti

    A volte alcuni miti sembrano simili tra loro, ma lo sono solo apparentemente. Capita che l’uomo utilizzi vecchi miti dando ad essi significati nuovi o riempia nuovi miti di significati vecchi. Come ogni cosa, i miti nascono e muoiono. Per non rischiare di fare generalizzazioni bisogna bisogna inquadrare le tradizioni popolari nel tempo in cui nascono e si sviluppano. La cultura muta continuamente, la produzione delle idee è direttamente intrecciata all’attività e alle relazioni materiali. Le tradizioni popolari non si sottraggono ai mutamenti sociali e alla dinamica delle forze creative umane: esse, come direbbe Mauss, sono un fatto sociale totale, investono tutti gli ambiti della vita dell’uomo e coinvolgono la società nei suoi molteplici aspetti.