Tag: storia

  • Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    Conti in rosso e luci ovunque: il primo grande crack di Cosenza

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
    Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011.
    Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.

    Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
    «Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
    Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.

    Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito

    Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
    Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
    Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.

    ponte-alarico-dissesto
    Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale

    Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
    Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.

    Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
    È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.

    Inciucio d’epoca tra destra e sinistra

    dissesto-cosenza-primo-grande-debito-illuminazione-pubblica
    Luigi Miceli

    Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.

    Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
    Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.

    Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza

    dissesto-cosenza-primo-grande-debito-illuminazione-pubblica
    Pietro De Roberto

    Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
    Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
    Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
    Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.

    A.A.A. sindaco cercasi

    Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
    Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.

    Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco.
    Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
    Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.

    Alimena sindaco

    Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli.
    Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.

    Bernardino-Alimena-1861-1915
    Bernardino Alimena

    Il  prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
    Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno.
    A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.

    Dissesto, luminarie e lampioni

    In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.

    Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune.
    Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
    Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.

  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

    palazzo-Tarsia-Sanseverino-canna
    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
    canna-iscrizione
    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

    canna-palazzo-crivelli-petrelli
    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni
  • Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Pisanò: il fascista che impallinò Mancini

    Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
    La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.

    mancini-impallinato-da-fascista
    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Mancini lascia la segreteria del Psi

    Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
    Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.

    Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
    Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
    Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.

    mancini-impallinato-da-fascista
    Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini

    Il Candido: storia di un giornale “contro”

    Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.

    Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.

    Giacomo Mancini: il superministro calabrese

    Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
    I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.

    Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.

    Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista

    Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
    Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
    Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.

    Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behind italiana.
    Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.

    Il fascista e i servizi segreti

    Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
    Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.

    Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».

    Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.

    mancini-impallinato-da-fascista
    Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido

    La campagna stampa di Pisanò contro Mancini

    L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
    L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.

    Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
    La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.

    Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista

    Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
    Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
    Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».

    Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
    Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».

    I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.

    In galera

    Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
    Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).

    Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
    La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
    Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.

    Pisanò anticipa Tangentopoli

    Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
    Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
    L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
    Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.

    mancini-impallinato-da-fascista
    Eugenio Cefis

    Gli utilizzatori

    In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
    Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.

    Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.

    Compagni coltelli

    Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
    Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.

    Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candido andò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
    Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.

    mancini-impallinato-da-fascista
    Cecchino Principe in un comizio d’epoca

    Fine della storia

    L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
    L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…

  • Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

    Ferramonti: se la memoria diventa pop servono libri alla Capogreco

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Quando si vuol dare un esempio di cultura pop, si fa ricorso alla maglietta con il volto di Che Guevara. Per dire che tutti la indossano, senza sapere niente di preciso sulle vicende del mitico personaggio effigiato. L’industria culturale fagocita ogni evento, pure il più tragico, se lo ritiene funzionale alla sua incessante attività.
    Anche la Shoah non è sfuggita a questo destino, lo dimostrano innumerevoli film, docufilm, libri, spettacoli teatrali e convegni sfornati, in ogni angolo del pianeta, per narrarla a ogni sensibilità, a un pubblico sempre più vasto e vario. Con contorno di libri che analizzano il fenomeno: Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo 2016). Ci sembra di conoscere meglio eventi così tragici, proprio perché vengono manipolati e commercializzati.

    Ferramonti-se-memoria-diventa-pop-servono-libri-Capogreco-i-calabresi
    Quel che resta del campo di Ferramonti

    Ferramonti e cultura pop

    E in Calabria come va con questo tipo di pop? In Calabria abbiamo Ferramonti.
    Nel 1982 Gaetano Cingari pubblica la Storia della Calabria dall’Unità a oggi (Laterza), che si chiude con una panoramica sugli anni Sessanta e la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Scorrendo l’indice dei luoghi citati nel volume, tra Feroleto e Ferruzzano, non c’è Ferramonti.
    Oggi certamente tutti sanno che a Ferramonti, nel comune di Tarsia, in provincia di Cosenza, sorse, tra il 1940 e il 1943, il più grande campo di internamento fascista, costruito in vista della guerra, per rinchiudervi gli ebrei stranieri presenti in Italia.

    Sarebbe più corretto dire che tanti hanno un’idea, magari confusa, dell’esistenza di questo luogo e di quello che è accaduto in Italia, dal 1938 in poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali. Confondendo fascismo e nazismo, discriminazione e sterminio, razzismo e antisemitismo. Come avviene quando un fenomeno diventa popolare, pop, come le magliette con la faccia di Che Guevara. Dunque il campo di Ferramonti in questi quarant’anni è entrato a far parte della cultura pop.

    Ferramonti: il caso editoriale di Capogreco

    Ma cerchiamo di andare con ordine: la storia di Ferramonti e dei suoi internati è stata ricostruita, per la prima volta in un saggio organico, da Carlo Spartaco Capogreco: Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, edito a Firenze, da La Giuntina, nel 1987. La pubblicazione di questo studio segna un punto di svolta. E a questo libro fanno riferimento tutti gli altri venuti dopo, sull’internamento fascista e sul carattere repressivo, autoritario, di questo regime, sugli strumenti che mette in atto per schiacciare ogni opposizione, dal confino ai campi.

    Sono trascorsi trentacinque anni dalla sua pubblicazione, in questo periodo sono accadute molte cose che sono riconducibili al caso editoriale rappresentato da Ferramonti, al dibattito sviluppatosi successivamente. Dopo Ferramonti Capogreco ha pubblicato molti altri contributi, frutto di anni di ricerche, e ha portato avanti delle iniziative che hanno inciso sul dibattito politico e culturale.

    ferramonti-se-memoria-diventa-pop-servono-libri-capogreco
    Carlo Spartaco Capogreco, storico e presidente della Fondazione Ferramonti

    Gli alleati liberano Ferramonti

    Capogreco insiste, in ogni suo intervento, sulla questione che il campo di Ferramonti va inquadrato nell’ambito di un regime, un lungo periodo che va dal 1922 alle date cruciali, fatidiche, del 25 luglio 1943, e poi dell’8 settembre 1943. Il campo di Ferramonti viene liberato dagli Alleati nel settembre 1943, ma verrà utilizzato anche dopo, ad esempio da gruppi di ebrei in attesa di partire per la Palestina, dove sorgerà lo stato d’Israele. A ottobre del 1943 i tedeschi a Roma rastrellano oltre mille ebrei nel ghetto, e conducono operazioni simili nella parte d’Italia che controllano, assieme ai fascisti della Repubblica di Salò, ma intanto Ferramonti e i suoi internati sono al sicuro, nella parte d’Italia occupata dagli Alleati.

    La memoria pop della grande tragedia

    Difficile riassumere questi trentacinque anni: Capogreco ha dato vita, nel 1988, alla Fondazione Ferramonti, che ha svolto un ruolo importante sui temi della memoria, con una serie di convegni e di iniziative di ampio respiro, come il convegno del 24 e 25 aprile 1995, I luoghi della memoria: un contributo essenziale al dibattito pubblico, da allora sempre vivo in Italia, sul modo di intendere la memoria e la salvaguardia dei luoghi legati a questo tema.

    Alcuni di questi campi o edifici utilizzati per l’internamento sono stati riconsiderati, recuperati, salvaguardati. In qualche caso sono diventati oggetto di periodici pellegrinaggi. Una forma nuova di turismo culturale. Il recupero della memoria si attua anche attraverso tali forme di fruizione. Con l’inevitabile considerazione che il turismo di massa dei tempi nostri non è il Grand Tour dei ricchi europei del Settecento e dell’Ottocento. Dunque le comitive in magliette sgargianti e lattine al seguito, in marcia attraverso i campi di internamento trasformati in musei, suscitano a volte dei dubbi sul modo in cui viene intesa e consumata la memoria nella nostra società.

    ferramonti-se-memoria-diventa-pop-servono-libri-capogreco
    Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici

    Una miniera inesauribile di storie 

    La documentazione cartacea, fotografica, memorialistica ed epistolare è imponente, sia quella custodita negli archivi di Stato, sia quella raccolta negli istituti di storia della Resistenza e nelle fondazioni, nei musei della memoria.
    Da ogni parte del mondo, gli internati di Ferramonti hanno inviato o consegnato a Capogreco molte testimonianze e dati relativi al periodo di internamento. Una miniera inesauribile di storie e di piste di ricerca. Un materiale che potrebbe facilitare un recupero memoriale, in Calabria, nei piccoli comuni isolati, ritenuti dal regime fascista terra ideale per confinarvi oppositori e persone da controllare, su cui ci sarebbe tanto da raccontare.

    Ad esempio, Capogreco ha seguito a lungo le tracce di Ernst Bernhard, medico e psichiatra tedesco di fama internazionale, di famiglia ebraica, internato a Ferramonti, rilasciato dal campo per intervento di un influente accademico italiano, suo amico, e inviato per alcuni mesi in “internamento libero” – così lo chiamavano i fantasiosi burocrati del tempo – nel comune di Lago, a 30 chilometri da Cosenza. Unica traccia, una cartolina postale inviata dallo stesso Bernhard, dove si vede la casa che gli era stata assegnata. La casa non c’è più, ma potrebbero emergere altri documenti su questi mesi.

    ferramonti-se-memoria-diventa-pop-servono-libri-capogreco-i-calabresi
    Internati a Ferramonti

    Il Giorno della memoria

    Un altro esempio, il giovane studioso di musicologia Raffaele Deluca di recente ha pubblicato un volume dedicato ai musicisti e compositori internati a Ferramonti e negli altri campi fascisti: Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell’Italia fascista, Mimesis, 2019. Un lavoro che aiuta a comprendere le infinite possibilità di ricerca offerte da questi archivi.
    Nel frattempo sono accadute tante altre cose, ad esempio la Legge 211 del 20 luglio 2000, istitutiva in Italia del Giorno della Memoria. Dopo venti anni si sta discutendo apertamente e senza remore dei rischi connessi a queste celebrazioni. Potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto agli intenti dei promotori della legge. Vedi la questione del pop.

    Ferramonti non era governato da italiani bonari

    Per quanto riguarda Ferramonti e gli altri campi fascisti, si è ingenerata qualche confusione rispetto alla macchina di distruzione allestita dalla Germania nazista. Sono due sistemi diversi, nati per scopi diversi. Almeno fino all’8 settembre 1943 e alla divisione dell’Italia, da una parte l’esercito tedesco, dall’altra gli Alleati.
    Quindi bisogna studiare la storia, prima di avventurarsi a discettare di campi e di antisemitismo. Per non incorrere nella grossolana semplificazione che capita ancora di ascoltare, che vuole presentare Ferramonti come un luogo fuori dal tempo, allestito e governato da italiani bonari, paciosi, contrapposto ad altri luoghi più inquietanti, gestiti da tedeschi cattivi.

    ferramonti-se-memoria-diventa-pop-servono-libri-capogreco
    Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti

    La parziale distruzione del campo per fare spazio all’autostrada

    Parlare di Ferramonti significa ricordare la parziale distruzione di ciò che rimaneva del perimetro del campo. Anche a causa dei lavori di ampliamento dell’autostrada che lo costeggia. Una volta tanto non è una vicenda calabrese; in ogni parte d’Italia molti luoghi di confino e di internamento sono stati cancellati, per l’incuria, per fare spazio a speculazioni edilizie, per semplice indifferenza. Capogreco ne ha raccolto le tracce ne I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004. Un repertorio di luoghi di oppressione e di violenza, le cui vicende sono spesso ignote anche alle persone che vivono accanto a questi siti storici.

    Il prefetto che fa lezioni di storia

    Intanto la cultura pop fiorisce pure da noi, al Sud. Mi sono trovato in uno dei tanti convegni per il Giorno della Memoria, qualche anno fa, dove il prefetto, proprio Sua Eccellenza il Prefetto, come si scriveva una volta, ha dominato la scena. Prima ha scoperto una targa, distribuendo riconoscimenti di Giusto d’Israele a destra e a manca, con buona pace dell’istituzione israeliana a ciò deputata.

    Poi, davanti a una platea di eleganti signore, come si usa nel Sud, ha preso in mano il microfono e si è lanciato in una lezione di storia (ormai è assodato che chiunque può parlare di Shoah) che ha fatto rizzare i capelli in testa agli storici presenti, esautorati d’autorità, come solo un prefetto sa fare. Poi il prefetto, sazio, ha ceduto il microfono a un giovane sacerdote, che si è lanciato a sua volta in un intervento dai toni transreligiosi, ecumenici, buddistici-panteistici. Solo dopo è stato il turno di un rabbino, scovato sempre dal prefetto. Un autentico rabbino che, a onor del vero, almeno ha fatto un intervento da rabbino. Fine del convegno. Molti complimenti al prefetto da parte delle eleganti signore presenti.

    E Capogreco? Continua a fare ricerca (insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria), e a relazionarsi, attraverso i suoi libri, con gli studiosi di ogni parte del mondo, sui temi dell’internamento e della memoria. Cercando di sfuggire agli agguati del pop.

  • Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

    Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Un documento notarile estratto dagli archivi mette in luce aspetti particolari della quotidianità della corte baronale che abitava il castello di Paola a fine Cinquecento.
    La città di San Francesco è, all’epoca, un centro portuale molto attivo dell’alto Tirreno cosentino, infeudato sin dal 1496 alla casa Spinelli, tra le più influenti e potenti dinastie del Regno di Napoli.
    La parabola di questo casato iniziò nella prima metà del XVI secolo, col matrimonio tra una Spinelli dei marchesi di Castrovillari, baroni di Fuscaldo e della Civitas Paulae, e il Vicerè spagnolo Pedro de Toledo.

    castello-spinelli
    Il castello dei baroni Spinelli in una stampa d’epoca

    Il castello degli Spinelli: da forte a dimora deluxe

    Paola, col suo castello e coi suoi 4.000 abitanti (quando Cosenza ne contava 10.000 e Amantea 3.000) divenne la capitale dei numerosi feudi Spinelli in Calabria.
    Nato nel periodo normanno-svevo con funzioni militari e difensive, il castello di Paola si era trasformato in palazzo signorile, che sin dalla seconda metà del XVI sec. «somministra sontuosa dimora» al signore feudale e alla sua corte.

    Un indizio singolare della vita a dir poco dispendiosa dei baroni è fornito anche un secolo dopo dall’importo della spesa per l’allevamento di ben «70 bracchi nella Canatteria» del castello. Il mantenimento della muta di caccia di pregiati bracchi degli Spinelli necessitava nel 1693 una somma che sorpassava i «due mila ducati annui» (un ducato napoletano si stima avesse il potere di acquisto di circa 50 euro attuali).

    castello-spinelli-paola-mangiava-parmigiano
    Costosi e pregiati: bracchi da caccia

    Le ricchezze nel castello

    Altri elementi importanti per ricostruire il tenore di vita possono essere acquisiti da un rogito del 1551 (7 agosto) stilato dal notaio Angelo Desiderio di Cosenza.
    Il documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è un «Inventario del Castello di Paola e degli arredi in esso contenuti».
    Il castello, come appare dalla descrizione che ne fa il rogito, era composto da più piani abitativi. Il piano nobile era in basso. Nella «sala subtana» e in una «camera grande» erano situati invece gli spazi di rappresentanza, le camere da letto e alcuni «magazzeni».

    Nei magazzini si trovavano stipate, fra le altre «massarizie, quattro pezze di panni nigri di arbascio […] item un materazzo piccolo», e non mancano oggetti alla rinfusa e strumenti disparati della vita quotidiana, come «una pala di ferro […] item una sella foderata di velluto […] item quattro baliggi di cojro, due grandi e due piccole […] item venti candele di cera […] item due redini di cavallo».

    A tavola con gli Spinelli

    castello-spinelli-paola-mangiava-parmigiano
    Antica tavola nobiliare

    Il notaio passa alla descrizione di un cospicuo elenco di suppellettili di valore, oggetti di uso comune e utensili, arredi e vestiario, ma anche di molte provviste e alimenti che danno una idea concreta e reale dell’esistenza lussuosa condotta dai signori di Paola nel XVI secolo.
    A partire dal “superfluo” – e soprattutto dall’abbondanza di carni, vino, provviste e alimenti pregiati di cui vivono i pochi facoltosi e i privilegiati della corte feudale – è possibile restituire una immagine realistica di un’esistenza priva di angustie e ben lontana dagli assilli del quotidiano.

    Apprendiamo così che «nelle stanze de supra», si trovano «altri magazzeni» per le derrate e «le cucine», con la «stanza del forno, il cellaro, et la dispensa con vittuvaglie diverse». Fra le vettovaglie e gli alimenti conservati in dispensa, compaiono anche molti alimenti ricchi: «due pezzi di carne salata, item lardo […] item suppréssate […] item una pezza di caso palmeggiano».

    Neve ’e Parma: un formaggio speciale

    La diffusione del «caso palmeggiano» alle latitudini calabresi e la presenza di questo insolito formaggio padano sulle ricche mense degli Spinelli, è una rara eccezione gastronomica che infrange le rigide consuetudini alimentari della Calabria del Cinquecento. La regione, all’epoca, era grande esportatrice di formaggi ovini in tutto il Mediterraneo. E la dieta popolare era poverissima: cacio pecorino è praticamente la fonte esclusiva di proteine e grassi animali a buon mercato per i ceti meno abbienti.

    Tuttavia, va ricordato che nel primo Cinquecento il parmigiano era noto nel Mezzogiorno. A Napoli lo vendevano gli ambulanti, persino nella versione grattugiata. In tal caso, era conosciuto col nomignolo di «Neve ’e Parma» (neve di Parma).
    Evidentemente, l’abitudine partenopea di usare il «caso palmeggiano» sui maccheroni, era diffusa tra i ricchi e quindi condivisa anche sulle mense della corte Spinelli.

    castello-spinelli-paola-mangiava-parmigiano
    Il signore della tavola: il parmigiano

    Grattacaso, saponi e altri lussi del castello

    Lo conferma lo stesso inventario del 1551, che ci fa scoprire assieme alla preziosa forma di «caso palmeggiano», anche il corredo di utensili da cucina che ne completava l’uso.
    Infatti, nei magazzini del castello, si trovano «due grattacaso de ferro, una grande et una piccola».

    Seguono altri rari beni di consumo. Tra questi, notevole indizio di abitudini igieniche non comuni per quei tempi, la presenza di una cassa di sapone.
    Non mancano i pezzi pregiati: nelle camere da letto scopriamo uno «sproviero di raso giallo guarnito di velluto carmosino misto a bianco et frangie […] item un altro sproviero di seta bianca con passamano et frangie di seta carmosina e bianca […] item due segge guarnite di velluto verde […] item due altre segge guarnite di velluto verde […] item la lettiga guarnita di raso con dentro due cuscini di velluto carmosino».

    Il guardaroba degli Spinelli

    Il guardaroba personale dei signori era costituito da una profusione di vesti e stoffe di lusso, con applicazioni «di frangie di seta verde e oro […] item velluto carmosino […] item seta bianca con passamano».
    Il civettuolo guardaroba personale della castellana di Paola, oltre alle molte guarnizioni di «veste complete», i capi di velluto, seta e raso, non manca di completarsi anche con «pelli di martore […] item pelli di lontra». Mentre fra gli addobbi molte delle telerie «sono di oro; item due misali grandi, item quattro altri misali».

    La cappella privata degli Spinelli

    Fra le non poche suppellettili in oro nell’elenco si contano ben «undici candelieri piccoli», ma anche un oggetto curioso e decisamente superfluo come un «collare di cane arrecamato di oro matto».
    Fra i preziosi e gli oggetti d’arte in possesso dei signori di Paola nel 1551 si trovano inventariati fra gli altri «un calice d’argento, item una patena d’argento, item un madonna d’argento». L’inventario fra le gioie conta ancora «molti scrigni con oggetti preziosi […] item reliquiari».
    Inoltre paramenti sacri e indumenti ecclesiastici completano un quadro di ricchezza di tutto rispetto, probabilmente senza pari anche fra le residenze di altre potenti case feudali della Calabria dell’epoca, come i Sanseverino, i Carafa o i Ruffo.

    Un ospite speciale: l’abate Pacichelli

    Anche dalla vivace descrizione che fa del castello Spinelli di Paola l’abate romano Giovan Battista Pacichelli, sceso a Paola nel 1693, è possibile ricavare un quadro di riferimento attendibile, seppure limitato al solo campione nobiliare, per certi aspetti della vita materiale.
    Il prelato romano annotando nella sua descrizione gli aspetti funzionali e la fisionomia costruttiva del castello Spinelli, descrive una ricca magione. Esso era «partito di più quarti […] e assai commodo», dotato all’ingresso di «un cavalcatore assai largo» e ben illuminato da diverse «fenestre». L’acqua vi veniva condotta per mezzo di un acquedotto di «acqua perenne».
    Il castello disponeva anche di una affollata scuderia attrezzata per ben «60 cavalli, e più muli».

    Più che una fortificazione militare (la piazzaforte era difesa oramai solo da «qualche cannone di ferro», tra cui uno «crepato»), il religioso racconta un lussuoso palazzo signorile con pochi eguali.
    Il visitatore fu condotto «a veder le suppellettili» che impreziosivano il palazzo feudale. Nelle stanze superiori ai trovavano «de tappeti, e de Quadri, scrittori ed altro; una bella tela dipinta da un Forastiero nel volto di un Camerone». La «Cappella nobiliare» esistente all’interno del palazzo era decorata invece con un «Choretto».

    Le meraviglie del castello Spinelli

    Agli occhi del prelato romano, il castello Spinelli sembrava una vera e propria scatola delle meraviglie. Anche la distribuzione e l’organizzazione interna degli ambienti e delle numerose stanze in cui il grande castello si dipanava, assumono una precisa funzione ed un significato ideologico e culturale non trascurabile.
    L’articolata distribuzione degli ambienti e la differenziazione degli spazi abitativi è – come afferma Braudel per la società dell’ancien régime – esclusivo «priviligio dei signori». Un privilegio insostituibile poiché conferma lo status dei potenti, rendendo l’idea e l’immagine della magnificenza e del potere immediatamente percettibili a tutti (molto spazio e molto lusso domestico, molto potere).

    Gli ambienti di servizio del palazzo – «le stanze di sopra» – con le cucine, il «cellaro», i magazzini e le dispense, risultano ben distinti e defilati dagli altri ambienti in basso, al piano nobile, dove invece si svolgeva la vita domestica della piccola corte, che abitava gli ambienti di rappresentanza costituiti dalle numerose stanze «subtane» e si ritrovava nei «due tinelli» comuni situati «nella camera grande». Questi ambienti, riccamente arredati, di solito ospitavano, secondo la descrizione dell’abate Pacichelli, «corte nobile di molti cavalieri, officiali e inferiore servitù».

    L’ufficio del signore

    Fra queste stanze, il potente principe Spinelli aveva un suo spazio privato. Era un luogo ben riposto e discreto, necessario all’esercizio privato del potere del principe: la «stanza detta de Burrello». Il «Burrello», ove il signore di Paola riceve i suoi ospiti, prende le decisioni più riservate e disbriga le pratiche del potere, è appunto una sorta di gabinetto politico.
    L’espressione «de Burrello» che compare nel citato inventario del 1551 allude infatti ad una evidente corruzione della parola francese bureau.

    A pranzo dai gesuiti

    Pacichelli descrive infine in toni entusiastici i cibi e le portate di un banchetto servito in suo onore dai Padri Gesuiti del Collegio di Paola, presso cui fu ospite. In questo frangente, l’abate celebra fra le pietanze il gusto delle «prede di pesce esquisito» che gli furono servite. E ancora riferisce che «nel desinare con le carni più scelte fu copia di fravola, di limoni e di frutti: et alla cena più specie di pesce». Un banchetto raffinato e sontuoso, esaltato dalla «abbondanza de perfettissimi vini e delicatissimi frutti». Come dire il lusso dei ricchi, i privilegi di nobili e clero.

  • STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».

    Darwin a Belvedere

    Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
    Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.

    Un Belvedere anche senza mare

    Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).

    belvedere-darwin-sulla-spiaggia-cliniche-sentieri-montagna-i-calabresi
    Belvedere Marittimo e la sua spiaggia

    D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.

    “La Carrera del Diavolo”

    Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.

    grotta-della-monaca-la-miniera-piu-antica-deuropa-e-in-calabria
    L’ingresso della Grotta della monaca

    Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.

    Fantasmi a Belvedere

    Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
    A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.

    Le masserie abbandonate

    Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.

    Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.

    belvedere-darwin-sulla-spiaggia-cliniche-sentieri-montagna-i-calabresi
    Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia

    Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.

    Le villette col pianoforte in giardino

    C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.

    belvedere-darwin-sulla-spiaggia-cliniche-sentieri-montagna-i-calabresi
    Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone

    La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.

    Stracalabria tra porcili, vacche e vino 

    Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.

    belvedere-darwin-sulla-spiaggia-cliniche-sentieri-montagna-i-calabresi
    L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)

    Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.

    Neve a Belvedere

    Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.

    belvedere-darwin-sulla-spiaggia-cliniche-sentieri-montagna-i-calabresi
    Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)

    Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.

    La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.

    Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari

    Monte Cannitello brucia

    E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?

     

  • Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    La storia della Società dei Santi, setta religiosa sviluppatasi a Bocchigliero nella metà dell’Ottocento, è sintomatica della complessità della religiosità popolare. Tutto ha origine con l’apparizione dell’Arcangelo Michele a un paesano che annuncia l’avvento di un nuovo mondo. Molti contadini, suggestionati dalla visione, si organizzano per attendere la venuta del Messia e dichiarano la nascita di una nuova religione in contrasto con quella predicata da preti corrotti e simoniaci.

    bocchigliero-asceti-o-libertini-la-societa-dei-santi-e-il-messia-calabrese-i-calabresi
    L’iconografia classica di San Michele Arcangelo

    Predicare tutti, predicare ovunque

    In nome delle verità antiche, i Santi si rivolgono al tempo in cui la Chiesa era essenzialmente laica e i predicatori avevano un rapporto diretto con Dio. Matteo Renzo, Gabriele Donnici e la giovane Rachela Berardi sono ispirati direttamente dal Padre Eterno e le loro parole danno speranza, pacificano le anime inquiete e infondono una grande serenità. I Santi professano la predicazione libera di tutti e non ritengono necessario riunirsi nei luoghi consacrati poiché Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.

    Il profeta Matteo Renzo, come Gioacchino da Fiore, evoca l’andamento delle stagioni, il cielo e il mare, il giorno e la notte. Per simboleggiare la miseria cita l’inverno, periodo in cui gli uomini non lavorano e soffrono il freddo e la fame; per dare l’idea del benessere e della felicità, parla dell’estate, tempo dei raccolti e dei benefici raggi del sole. Come Gioacchino, pensa all’avvento di un nuovo mondo, alla nascita di uomini eletti e alla venuta di un novello Messia che sarebbe nato proprio a Bocchigliero, tra gli adepti della setta.

    bocchigliero-asceti-o-libertini-la-societa-dei-santi-e-il-messia-calabrese-i-calabresi
    Uno scatto di Franco Pinna presente nel libro di Ernesto De Martino sul rito della “coricata” (1959)

    Il Messia a Bocchigliero

    Il messia dei Santi somiglia a quello che aspettano gli Ebrei, popolo in cui si riconoscono, forse perché analoghe sono le attese per la realizzazione delle promesse di giustizia. E perché, come loro, oppressi e umiliati, cercano di riscattare la propria sottomissione sociale, politica e culturale. È probabile che la loro propensione per il giudaismo sia retaggio della presenza degli Ebrei in quel paese che, secondo Padula, porta un nome di chiara origine semitica. È interessante notare come molti adepti della setta si chiamino Matteo, Mosè, Giuditta, Rachele, Daniele, Giacobbe, Samuele, Giosuè, Ezechiele, Davide, Abramo, Gabriele e Abele.

    Nell’attesa del Messia, i Santi auspicavano la nascita di un movimento religioso nuovo, quello dei Secolari, simile ai Santi Crociferi e alla Milizia dello Spirito Santo, profetizzati secoli prima da San Francesco di Paola. Gli adepti cominciano a vivere una vita da asceti, a mortificare il corpo e a praticare penitenze estenuanti. Si racconta che alcuni, con le braccia legate da funi, in bocca l’assenzio e in capo una corona di spine, si esponessero al freddo e al vento e praticassero rigorosi digiuni.

    bocchigliero-asceti-o-libertini-la-societa-dei-santi-e-il-messia-calabrese-i-calabresi
    L’altopiano silano (foto di Franco Pinna 1959 tratta dal libro di Ernesto De Martino sulla “coricata”)

    La coricata

    Le penitenze non erano, però, sufficienti per la completa purificazione dei mali che abitavano nell’uomo: ira, ingordigia, avarizia, superbia e, soprattutto, lussuria. Il desiderio di purificare anima e corpo, spinge gli adepti della setta a teorizzare rigide forme di mortificazione carnale, a considerare il sesso come degradante e la verginità come fonte di santità. Essi iniziano a praticare il rito della coricata: per una intera notte uomini e donne nudi uniscono gli ombelichi – accucchiamu villicu e villico – e tentano di non eccitarsi per sconfiggere il diavolo – ppè scattare lu malu nimicu.

    L’idea che ispira questo tipo di prova è semplice: il corpo dell’uomo è per natura corruttibile in quanto opera e proprietà di Satana, mentre l’anima è puro spirito incorruttibile perché opera e proprietà di Dio. Dio ha creato lo spirito e Satana la materia per imprigionarlo. I Santi credono, dunque, che per raggiungere la più completa purificazione bisogna liberarsi da ogni soggezione dalla materia; ottenendo la purezza e superando le differenze irriducibili come maschio e femmina, sarebbero diventati santi e ricongiungendosi a Dio avrebbero conquistato la vita eterna. Il nocciolo del loro impianto religioso è di natura gnostica: il corpo inteso come prigione dell’anima. Solo attraverso il distacco dai piaceri materiali e la mortificazione del corpo si giunge alla conoscenza e alla perfezione.

    Asceti a Bocchigliero

    È difficile stabilire come e quando il rito della coricata sia maturato nella setta. Può darsi che tale ritualità si sviluppò da aneddoti raccontati dai preti sulla vita di asceti, per esempio quello ricorrente della tentazione del demonio che si presenta sotto forma di avvenente fanciulla: San Francesco d’Assisi, per spegnere gli ardori sessuali, si rotolò nudo nella neve, San Francesco di Paola si immerse nelle freddissime acque del torrente Isca.

    La ritualità della coricata è una radicalizzazione di metodi già sperimentati dai cristiani per resistere alla tentazione della carne. Secoli addietro alcuni fedeli si erano allontanati dalla comunità per vivere nel deserto o nei conventi, dove la battaglia contro fame e sete sarebbe stata molto più dura di quella contro il sesso. Per i Santi di Bocchigliero un rigido regime di vita o la solitudine estrema non sono sufficienti a frenare la passione carnale. Così, come gli Encratiti, praticano l’astinenza collettiva, in modo che l’individuo, sentendosi parte del gruppo, sia spinto ed aiutato ad osservare la castità.

    bocchigliero-asceti-o-libertini-la-societa-dei-santi-e-il-messia-calabrese-i-calabresi
    Campanacci: le foto di Franco Pinna accompagnano il testo dell’antropologo Ernesto De Martino “La Sila, Roma, Lea 1959. Il rito della coricata”.

    Il figlio di San Giuseppe

    I Santi furono accusati di vivere nel peccato poiché, con la scusa di sottoporsi a prove erotiche per raggiungere la purezza, praticavano il libero amore e la promiscuità sessuale. Fra le donne che rimasero incinte c’era la più stimata della setta, Maria Giuseppa Berardi e il padre del bambino era Matteo Renzo, detto san Giuseppe, colui che prima di ogni altro era riuscito ad ottenere il distacco dello spirito dal corpo. La giovane chiese all’amante di riparare l’onore perduto e di riconoscere il figlio, ma egli acconsentì solo dopo le minacce dei parenti di lei.

    Le vergini di Bocchigliero

    Non possiamo escludere che il rito della coricata o la convinzione che il messia dovesse nascere da una donna della setta fossero delle trovate per avere rapporti liberi. Tra la popolazione di Bocchigliero era diffusa la credenza che con la pietra agave, o pumiciosa, fosse possibile restituire la verginità alle donne e che consumare il matrimonio prima di sposarsi non fosse peccato perché il diavolo possedeva tutte le vergini in procinto di prendere marito.

    Si trattava di stratagemmi per aggirare codici morali che impedivano i rapporti prematrimoniali o frutto di superstizioni radicate nella mentalità collettiva? Non abbiamo motivo di dubitare che la gente credesse sinceramente che il demonio deflorasse le fanciulle: in paese non c’era abitazione senza un’immagine apotropaica utile a scacciare gli spiriti maligni. Preti e laici accusavano i Santi di imprigionare il Diavolo che si trasformava in un gatto nero o in una bella donna, ma diversi religiosi erano specializzati nell’esorcizzarlo.

    bocchigliero-asceti-o-libertini-la-societa-dei-santi-e-il-messia-calabrese-i-calabresi
    Strade e volti in Sila alla fine degli anni ’50: foto di Franco Pinna

    La Madonna carcerata

    Le magie, le credenze, il delirio, l’autoesaltazione e la bizzarria dei Santi, denunciate come tali dai loro nemici, erano il risultato di una cultura religiosa antichissima, sopravvissuta nella comunità di Bocchigliero con la complicità della stessa Chiesa. In occasione della festa in onore della Madonna de Jesu, che si svolgeva due volte all’anno, la chiesetta della Riforma era affollata di gente che con devozione portava «mai», accendeva candele e lampade ad olio, cantava e salmodiava rosari, strisciava in ginocchio fino all’altare.

    In occasione di tormente di neve, alluvioni o siccità, la stessa Madonna veniva, però, immediatamente trasferita dal suo altare e «carcerata» nella chiesa madre affinché allontanasse i pericoli dalla comunità. Il termine carcerare sta ad indicare proprio l’intenzione degli abitanti: la Vergine era prigioniera e restava lontana dalla sua chiesa sino a quando non avesse esaudito ciò che il popolo pretendeva. Grandi feste e grande devozione per la Madonna, dunque, ma anche disappunto e vendetta nel caso che non si comportasse adeguatamente!

  • Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    A Carfizzi, appena 506 abitanti tra la Sila crotonese e la costa jonica, la storia, anche quella contemporanea, sfocia nella leggenda.
    A Carfizzi, che sorge su una collina a poco più di 500 metri sul livello del mare, c’è un’ulteriore altura, la Montagnella, in cui confluiscono tre sentieri, che partono dal centro del paesino e dalle vicine Pallagorio e San Nicola dell’Alto.

    primo-maggio-carfizzi-storia-piu-antica-lotta-contadina-calabria
    Bandiere rosse sventolano sulla Montagnella di Carfizzi negli anni ’70

    Sono tre comuni arbëreshë dalla demografia ridotta al minimo dall’emigrazione. E tuttavia, hanno una memoria importante.

    Carfizzi: avanguardia contadina

    Le comunità albanesi di Calabria hanno una vocazione particolare: essersi trovate in prima linea in tutte le grandi trasformazioni storiche. Fu così per il Risorgimento e per il fascismo. Ma anche per l’antifascismo.
    A riprova che nella Calabria contemporanea povera e arretrata ci fu sempre chi desiderò un futuro diverso. Ma gli arbëreshë, forse, lo desiderarono di più.
    Ed ecco che il primo maggio 1919 si svolse proprio sulla Montagnella di Carfizzi la prima lotta pubblica dei contadini, in perfetta sincronia con quanto avveniva al Nord in quegli stessi anni di crisi profonda e in anticipo o quasi sul resto del Mezzogiorno.

    Pasquale Tassone: il dottor Lavoro

    Si potrebbero riempire interi tomi sulle condizioni dei braccianti agricoli calabresi a cavallo tra XIX e XX secolo.
    Terribile ovunque, la vita dei contadini non proprietari era pessima nel Crotonese, dove il latifondo aveva resistito a tutti: francesi, Borbone e liberali.
    E c’era di peggio: il livello di vita dei minatori. La parola chiave di questa situazione, che rispecchiava alla perfezione gli schemi marxisti, è: sfruttamento.

    primo-maggio-carfizzi-storia-piu-antica-lotta-contadina-calabria
    L’urna di famiglia di Pasquale Tassone

    Erano senz’altro una forma di sfruttamento, a tratti odiosa, le 12 ore al giorno di lavoro nei campi di Carfizzi e Pallagorio e nelle zolfatare di San Nicola per compensi da fame.
    La prima protesta, pacifica, fu organizzata da Pasquale Tassone, medico e sottufficiale del Regio Esercito, fresco reduce della Grande Guerra e si svolse, appunto, il primo maggio del 1919.

    Tassone, di idee socialiste come molti esponenti della borghesia emergente dell’epoca, riuscì a organizzare i lavoratori per dare il via a una serie di manifestazioni dal forte simbolismo. L’unità tra operai e contadini, tanto predicata da Gramsci (un altro albanofono illustre), si realizzava anche nella Calabria profonda, in occasione del primo maggio.
    In perfetta coerenza con le proprie idee, il medico operaio divenne antifascista. E forse pagò con la vita la sua scelta e le sue lotte: morì per un colpo di fucile ricevuto in circostanze mai chiarite il 12 dicembre del 1935.

    Carfizzi e non solo: storia della manifestazione

    Il primo maggio “albanese” subì, va da sé, un’interruzione durante il Ventennio.
    Ma anche a questo riguardo, non mancano le leggende metropolitane: c’è chi sostiene che i braccianti e gli operai della zona abbiano continuato a celebrare di nascosto la festa dei lavoratori sulla Montagnella, magari approfittando della tolleranza dei notabili locali.

    Tuttavia, il primo maggio della Montagnella riprende alla grande solo a partire dal 1946, quando l’amministrazione dell’Amgot (il governo militare alleato), non proprio favorevole alle manifestazioni operaie, lascia il territorio alle contese tra la Dc e il Fronte popolare.

    primo-maggio-carfizzi-storia-piu-antica-lotta-contadina-calabria
    Contadini in marcia nel Crotonese

    La ripresa, raccontano le poche fonti d’epoca, avvenne in grande stile, con tre grossi cortei che invasero pacificamente la Montagnella per celebrare la prima vera Festa dei lavoratori del dopoguerra.

    Da allora in avanti, il copione di questo Primo maggio arbëresh è rimasto più o meno invariato: il raduno sulla cima dell’altura, l’immancabile comizio dei “forestieri”, cioè dei dirigenti sindacali della “triplice”, regionali e non solo, e poi la festa.
    Ma negli anni ’40 il clima era tutt’altro che allegro e il sindacato non era affatto “imborghesito”, come oggi.

    Disordini e tragedie: Giuditta Levato

    giuditta-levato
    Giuditta Levato

    La fine della guerra aveva riacceso le vecchie tensioni sociali, calmierate dal fascismo col classico “bastone e carota” tipico delle dittature.
    La legge Gullo, in particolare, aveva rilanciato le speranze dei braccianti di poter diventare proprietari, vivere del proprio e non più sotto padrone.
    La questione delle terre, irrisolta dai tempi delle Due Sicilie, riesplose con le occupazioni dei contadini.
    La morte tragica di Giuditta Levato, colpita a morte da una fucilata a Sellia Marina durante una protesta contro il barone Mazza, chiuse in maniera tragica il 1946.
    Ma il peggio doveva arrivare.

    Arresti e strage: Carfizzi e Melissa

    Nel 1949 la borghesia italiana tira un sospiro di sollievo: la Dc ha vinto le Politiche dell’anno prima e l’Italia resta a Ovest.
    Tuttavia, le tensioni restano altissime, in particolare sulle coste orientali della Calabria, dove si verifica un’imponente manifestazione di massa: circa 14mila contadini occupano le terre abbandonata o “usurpate” dai vecchi notabili, trasformatisi da feudatari in latifondisti.
    Più che rivoluzionaria, la pretesa dei braccianti è legalitaria: il rispetto delle norme della legge Gullo, su cui la Dc, all’epoca vicina ai terrieri, era piuttosto “tiepida”.

    strage-melissa
    Il ricordo delle vittime della strage di Melissa

    In questo contesto, in cui la fobia anticomunista giustifica le strette autoritarie, sedici contadini di Carfizzi vengono arrestati. La loro colpa? Aver partecipato a una manifestazione per l’occupazione delle terre.
    Ma la tragedia vera e propria avviene a Melissa, per la precisione nel feudo Fragalà, di cui il maggiore proprietario è il barone Luigi Berlingieri.

    Ottobre di sangue

    Su questo feudo c’è una contesa antica. I napoleonici ne avevano assegnato metà al demanio. Tuttavia, gli ex feudatari avevano di fatto “usurpato” la parte pubblica, destinata ai contadini poveri. E questa situazione si era protratta fino alla legge Gullo.
    L’esplosione delle proteste spinge i dirigenti calabresi della Dc a chiedere aiuto a Roma, in particolare al Ministero dell’interno, presieduto da Mario Scelba, un duro animato da un anticomunismo a prova di bomba.
    Scelba invia i reparti della Celere, il corpo di polizia antiguerriglia di fresca costituzione. Uno di questi reparti si stabilisce proprio a Melissa, dove la tensione tra i contadini e il barone Berlingieri è alle stelle.

    cuore-scelba
    La storica prima pagina che il settimanale satirico Cuore dedicò alla morte dell’ex ministro Scelba

    Il 29 ottobre, la tragedia: i celerini caricano la folla dei manifestanti. E sparano ad altezza uomo: prima proiettili di legno, poi quelli veri.
    Nel parapiglia, restano colpiti 18 contadini. Due di loro muoiono sul colpo: sono il 30enne Francesco Nigro e il 15enne Giovanni Zito.
    Angelina Mauro, una ragazza di 23 anni, viene soccorsa. Ma inutilmente: morirà poco dopo per le ferite ricevute.

    Il primo maggio borghese

    In memoria di quella tragedia, a Carfizzi l’artista Antonio Cersosimo ha realizzato nel 1998 il “Monumento al I maggio” una scultura in marmo che svetta in cima alla Montagnella.
    I tempi sono cambiati per fortuna, e la miseria da cui sono scaturite quelle tragedie è un ricordo.

    primo-maggio-carfizzi-storia-piu-antica-lotta-contadina-calabria
    Il monumento sulla Montagnella

    La Montagnella del 2022, riprende dopo due anni di interruzione dovuta alla pandemia, con un tema antico: la sicurezza sul lavoro, affrontato da Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Calabria, Santo Biondo, il suo omologo della Uil, Giuseppe De Tursi e Rossella Napolano, dirigenti della Cisl della Calabria centrale. A chiudere, il concerto di Eugenio Bennato, un habitué di queste iniziative.
    A 104 anni di distanza dalla prima Montagnella il lavoro resta un’emergenza, con ben altre tragedie.

  • BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

    BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La liquirizia di Calabria è uno di quei prodotti che non temono confronti. Aromatizzata o in purezza, dura al pari dei sassi, gommosa oppure in polvere, la liquirizia calabrese fa oggi sfoggio di sé da New York a Dubai, “regina” di aeroporti e stazioni. La propongono a prezzi anche decuplicati rispetto all’origine. D’altronde è indiscutibilmente “oro nero”. E, in quanto tale, cela una storia grandiosa, avvincente però amara, nonostante le scene accattivanti stampigliate sulle confezioni dal gusto retro.

    La liquirizia dell’abate

    Per la sua capacità di radicarsi selvaggiamente su terreni complicati, ma anche per la mole di quattrini che fruttava ai latifondisti-produttori una volta lavorata, la radice di Glycyrrhiza glabra stava sempre tra le mascelle e nelle cronache dei molti viaggiatori stranieri che attraversarono la Calabria negli ultimi secoli. Probabilmente il “testimonial” più autorevole è l’abate de Saint-Non, che in Voyage pittoresque… s’insinuò insieme a un drappello d’intellettuali francesi nei conci di liquirizia di Corigliano.

    liquirizia-concio-corigliano
    Vue d’une Fabrique de Reglisse à Corigliano. Incisione dall’opera di Saint-Non, 1786

    Da questa esperienza fatta nel 1778 ricavò un’incisione raffigurante l’interno di un concio, rappresentato come un antro oscuro nel quale bollivano enormi caccavi contenenti radici di liquirizia semilavorate. Tutt’intorno, tra i fumi prodotti dalla bollitura, i lavoratori erano intenti a spaccare la legna, attizzare il fuoco, mescolare, trasportare…

    Come gli schiavi delle Antille

    Ogni concio era un cosmo a sé stante. Impiegava gente addetta alle mansioni più disparate tanto da dare l’idea di un vero e proprio centro abitato: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese». È il solito autore de Il Bruzio, Vincenzo Padula, ad accompagnarci in un viaggio alle radici di una “bottega oscura” per davvero.

    Per sei mesi l’anno, da novembre/dicembre fino a maggio, uomini e donne lavoravano duramente giorno e notte, e le paghe variavano in base alla mansione. Mentre il “capoconcaro” poteva superare le 50 lire al mese, i “concari” e i “molinari” non raggiungevano le 30 lire. Una lira al giorno per un lavoro del quale, sempre secondo Padula, «l’inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille». Alla modesta paga giornaliera si aggiungeva poi il vitto: quattro chili di olio «per lume e condimento» e una mancia di sei chili di «carne porcina al Carnevale».

    Niente mance per le donne

    L’avarizia dei proprietari aveva tolto ai lavoratori i due barili di vino che si concedevano all’apertura del concio e altre mance «a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due di maccheroni, ed a Pasqua un chilogramma di carne di agnello».

    Alle donne, neanche a dirlo, toccava la condizione peggiore. Alle impastatrici, ad esempio, non spettava alcuna mancia. Spesso le donne giungevano ai conci insieme ai padri o ai mariti, altre volte erano «avventuriere». I “concari”, infatti, arrivavano da luoghi lontani e trasferivano lì l’intera famiglia, compresi asini, gatti e galline. Era invece “bandito” portare i maiali. Il lavoro delle impastatrici consisteva nel rimescolare con i polsi la pasta di liquirizia bollente su di un tavolo, ungendosi le mani con dell’olio per non scottarsi e cercando di fare arrivare la pasta alla giusta consistenza.

    Il concio è un lutto

    A differenza di altri lavori, nel concio non era permesso ridere e cantare. «Il Concio è un lutto», dichiarava a Padula una giovane impastatrice di Longobucco. Donne e uomini vi vivevano separati, anche se sposati: «Qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa». Trovarsi fuori all’orario di chiusura del concio, infatti, impediva di farvi rientro fino alla mattina dopo, e al rientro si doveva pagare una ammenda. La situazione era quasi inumana e i fattori facevano il bello e il cattivo tempo. Ma in molti, soprattutto tra i braccianti che nella stagione invernale vedevano scarseggiare il proprio lavoro, erano disposti a spostarsi anche di decine di chilometri pur di guadagnare qualcosa.

    liquirizia-compagna
    Corigliano, concio di liquirizia dei baroni Compagna. Foto Fb ‘Centro Storico Corigliano’

    Gli abitanti dei Casali di Cosenza, ad esempio, lasciavano i propri luoghi per recarsi a lavorare nei conci, non senza difficoltà. Non si stupiva perciò il letterato di Acri che in molti non vedessero l’ora che arrivasse la bella stagione «per pigliare il mestiere del brigante, o del manutengolo». Anzi, lo stesso Padula invitava i padroni ad avere atteggiamenti più umani: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far così inumano governo della povera gente, e poi gridate, ché ne avete ben d’onte, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».

    Non solo Jonio: la liquirizia in Calabria

    Le radici di questa pianta si sviluppavano anche spontaneamente «in terreni pliocenici e quaternari», in particolare sul versante ionico della valle del Crati, del Neto e nel Marchesato fino al fiume Alli. Il circondario di Rossano, con la «vasta pianura volta a tramontana tra Corigliano e Rossano» la faceva da padrona. Ma la pianta era diffusa anche nei territori di Terranova da Sibari, Malvito, Cassano, Spezzano Albanese. Anche in provincia di Reggio Calabria si poteva trovare nei terreni incolti.

    san-lorenzo-concio
    Concio dei Longo a San Lorenzo del Vallo. Foto pagina Fb ‘La Peschiera’

    Durante l’Ottocento i conci si moltiplicarono e le condizioni di lavoro conobbero un miglioramento. Tra gli stabilimenti più importanti si confermavano quelli di Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, e quelli di Rossano e Corigliano. Fabbriche di pasta di liquirizia a fine secolo si trovavano anche a Castrovillari, Altomonte, Fagnano Castello, Bisignano, Cassano, Cervicati, Cerchiara, San Lorenzo del Vallo, quasi tutte legate allo spirito imprenditoriale delle famiglie facoltose.

    Le fabbriche di liquirizia

    Nel 1894, secondo i dati forniti da Giovanni Sole, nella provincia di Cosenza erano operative 9 fabbriche di liquirizia. Ben tre erano a Corigliano, di proprietà del principe Nicola Gaetani, del barone Francesco Compagna e di Guglielmo Tocci. Mosse da motori a vapori o idraulici, tutte e tre producevano quasi duemila quintali di liquirizia all’anno e impiegavano 193 operai. A Rossano erano presenti le fabbriche di Giuseppe Amarelli, che da sola dava lavoro a 66 operai, di Giuseppe Martucci e di Gennaro Labonia. A Cerchiara era attivo l’opificio del principe Pignatelli, a San Lorenzo del Vallo quello di Giulio Longo e a Rende quello di Tommaso Zagarese.

    liquirizia-zagarese
    La fabbrica di liquirizia Zagarese a Rende. Foto gruppo “Il Senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Meritano una menzione le due fabbriche esistenti in provincia di Reggio a metà Ottocento. Una a Gioiosa, del signor Macrì, e una a Stignano, del signor Baracca. Lavoravano la liquirizia che cresceva spontanea nei territori di Bianco, Bovalino e Riace, dove per la raccolta spesso giungevano «vanghieri cosentini».

    Regalìzia

    liquirizia-zagarese-marchio
    Archivio Centrale dello Stato, Roma. Marchio liquirizia Zagarese, 1956

    È interessante notare come la liquirizia calabrese venisse soprattutto esportata, mentre a livello locale la regalìzia, come veniva chiamata in dialetto, era consumata pochissimo, salvo qualche panetto che veniva comprato dai ragazzi come «ghiottoneria» e dagli «infermi per espettorante». All’estero era molto ricercata, invece, in Inghilterra, Germania, Belgio, Austria, Ungheria e perfino in Russia e Olanda.
    Nota dolente restavano i trasporti. Il barone Compagna di Corigliano beneficiava di tariffe ferroviarie speciali per il trasporto del suo “sugo di liquirizia” da Taranto a Napoli. Ciò voleva dire che dai conci di Corigliano il prodotto doveva giungere con altri sistemi fino a Taranto.

    Ancora agli inizi del ‘900, comunque, la coltivazione e lavorazione della liquirizia costituiva in provincia di Cosenza una discreta fonte di reddito. Dai dati di una inchiesta del 1908, ad esempio, si ricava che, lasciando la radice a dimora per più anni, da un ettaro si potevano ricavare tra i 300 e i 500 quintali di radici grezze.

    Liquirizia: dall’oscurità al grande schermo

    Delle diverse fabbriche di liquirizia operanti in Calabria, solo in poche riuscirono a superare le peripezie del secondo dopoguerra. Se la Zagarese di Rende oggi opera col nome di Nature Med, altre piccole aziende lavorano e commercializzano il prodotto. Da alcuni anni le imprese del settore hanno costituito il Consorzio di Tutela della Liquirizia di Calabria Dop.

    amarelli-museo-liquirizia
    Interno del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli, Rossano

    La regina indiscussa rimane tuttora la secolare Amarelli di Rossano, la cui epopea familiare e imprenditoriale legata alla liquirizia smerciata (e apprezzata) in tutto il mondo è raccontata nel docu-film Radici presentato nei giorni scorsi al Cinema Citrigno di Cosenza: «Un viaggio reale, in automobile con due amici, che poi si è trasformato in un viaggio nel tempo. E a guidarci è stata proprio la liquirizia. Così, seguendo i solchi segnati nel terreno dai rizomi, attraversiamo secoli di storia, di arte, di cultura, nella terra indissolubilmente legata alle dolci radici sotterranee: la Calabria ferox. Radici come rami sotterranei. Radici come origini di una terra sempre da riscoprire» ha dichiarato il registra Fabrizio Bancale.

    La locandina del film-documentario “Radici” di Fabrizio Bancale
  • MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

    MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Alle sei del pomeriggio una quindicina di ventenni, in cerchio, discute animatamente in un magazzino di via Rivocati. Non parlano dell’ultimo trend di TikTok né della mise di Damiano dei Maneskin e nemmeno di chi vincerà lo scudetto, ma molto probabilmente della crisi russo-ucraina. È la federazione dei giovani comunisti: il che sarebbe già una notizia se non fosse che tutto ciò accade in uno dei quartieri più marginali eppure – o forse, proprio per questo – affascinanti della città.

    Era il cuore della “Cosenza città di provincia”, ma con cinque cinema, raccontata da Stefano Rodotà, che proprio in questo quartiere, nel palazzone nobiliare di via Sertorio Quattromani, crebbe e maturò prima del grande salto a Roma.

    I ragazzi della Federazione dei giovani comunisti animano il dibattito pubblico del quartiere (foto Alfonso Bombini 2022)

    Prologo. Tre fiere: il commercio nel dna del quartiere

    “Fino a tutto il 1300 e il primo quarto del 1400 Cosenza non superò le sponde dei due fiumi tranne che con il borgo dei Rivocati al di là del Busento, a nord, nella zona pianeggiante occidentale”, scriveva Enzo Stancati nel primo dei quattro volumi di Cosenza nei suoi quartieri (Luigi Pellegrini editore, 2007): nel Duecento, dal 21 settembre al 9 ottobre vi si teneva la fiera annuale dei santi Matteo e DionigiFederico II elesse nel 1234 Cosenza una delle sette sedi delle esposizioni generali del regno con Sulmona, Lucera, Capua, Bari, Taranto e Reggio – con lana e oreficeria tra i prodotti in vendita e soprattutto seta (qui “si stabiliva il prezzo del prodotto che poi veniva accettato dalle altre fiere”).

    Già nel 1416 era il luogo della fiera della Maddalena (iniziava il 22 luglio e durava 15 giorni), poco dopo il convento dei Domenicani – dove transiterà Tommaso Campanella – contribuirà a farne abitato popolare in espansione, tra commercianti e artigiani, ortolani e fornaciai “insediati a debita distanza dai cittadini più abbienti, accanto all’acqua del fiume necessaria al loro lavoro”.
    Una terza fiera stagionale (Annunziata, dal toponimo della piana oggi ereditato dall’ospedale) “accordata da Filippo II con un privilegio del 4 agosto 1555 (…) in base a un documento del 1839 (…) si svolgeva in un solo giorno, il 25 marzo, in piazza San Domenico”.

    Perché Rivocati?

    Il compianto storico di Lago racconta anche che questo “quartiere suburbano” era “collegato al nucleo urbano dal ponte – poi appunto detto “delli Rivocati” – che immetteva direttamente in città mediante l’antica via consolare (oggi corso Mazzini, ovvero isola pedonale, ndr). Nella zona (…) si rinvennero nel 1840 i resti di un pilone di ponte romano, forse un secondo ponte sul Busento, che aggirava l’abitato e, circuendo il Pancrazio, conduceva forse a Portapiana”.

    Le tracce romane si ritroverebbero anche nella conformazione ortogonale delle strade, con via Rivocati asse principale e viale dei Platani e Viaròcciolo – oggi rispettivamente corso Umberto I e via Piave – assi paralleli procedendo verso nord.
    E l’etimologia dei “Rivucati”? Vexata quaestio: dialettizzazione di “ad rivum casae” (umili casupole a ridosso del fiume) o toponimo riferibile alla “revoca” della decisione di un feudatario limitrofo, tra XII e XIII secolo, di negare la concessione abitativa ai cosentini in questo lembo demaniale e non infeudato?

    rivocati-massoni-e-comunisti-cibo-cultura-e-atelier-nel-cuore-di-cosenza
    La statua dedicata a Lucio Battisti (foto Alfonso Bombini 2022)

    1. Dal puttan-tour ai servizi segreti

    Corsi e ricorsi: Stancati cita cronache del 1891 che riportano “reclami per la nettezza urbana trascurata” mentre “nel 1893 si lamentavano schiamazzi notturni e indecenza igienica”.
    Quegli stessi “Rivucati”, un secolo fa zona di cantine e accoltellamenti ma anche bagni nel Busento non ancora irreggimentato, oggi cercano una nuova identità: una spinta arriva dalla recente intitolazione a Battisti dei “giardini di Lucio”, con tanto di accenti sbagliati nei titoli riportati sulla scultura bifronte inaugurata da Mogol, ma un primo segnale di agognata renaissance – l’ennesima, dopo i bombardamenti e il degrado sempre dietro l’angolo, letteralmente – si era avuto già con l’inaugurazione in pompa magna del “distretto di cybersecurity” nella vecchia e sontuosa sede delle Poste, alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi (era il 2015).

    Una raccolta di foto e stampe tratte dal gruppo Fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”

     

    Fu allora che arriat’ii poste virò da toponimo di pecorecce iniziazioni sessuali perlopiù verbali a polo di alta tecnologia con una spruzzata di servizi segreti. Un mood da spy story reso ancora più attuale, qualche giorno fa, dall’ufficializzazione della destinazione d’uso del palazzotto liberty di via Trento restaurato alla grande nell’ultimo anno e sul cui ingresso – incastonato tra due alti cipressi appena posti – troneggia finalmente, dopo iniziali chiacchiericci e segreti di Pulcinella finali, la scritta Grande Oriente d’Italia. Il mega-tempio massonico a un paio di metri dal palazzo comunale. Giusto per titillare le battutine dei detrattori del neo-sindaco Franz Caruso esponente di spicco proprio del Goi — dìciche.

     

    2. Il vecchio che resiste al brutto modernista

    Il tappeto multicolor di piazza Riforma che in pieno stile-Penelope dell’evo occhiutiano (scascia e conza, scascia e conza…) se ne sta già venendo via, è il segno dei tempi: ricorda la pavimentazione stradale attorno a piazza Bilotti, che si sfonda in virtù di implacabili leggi di obsolescenza simili a quelle che regolano la durata dei frigoriferi: con la differenza che quei blocchi di pietra si sfondano e vanno cambiati ogni 2, 3 mesi mentre l’elettrodomestico almeno a dieci anni ci arriva.

    Ai Rivocati, al contrario, alcuni manufatti resistono agli anni, alle intemperie e al cemento che avanza sbranando le antiche vestigia: da decenni abbevera i viandanti, per esempio, la fontanella resa iconica da uno scatto in b/n del compianto Fabio Aroni, zampillo che in un angolo della fu via Montello (oggi Davide Andreotti, storico) con via Pasubio serviva gli espositori del fu mercatino ortofrutticolo oggi rimpiazzato da uffici di nuovissima costruzione dell’Azienda ospedaliera e altro.
    È invece sparita da un paio d’anni la targa Cristiani Banane – altrettanto iconica – che svettava qualche metro più avanti. Era il quartiere dei commerci, qualcuno dei quali è oggi rimasto, come vedremo. Palazzoni moderni sono entrati a gamba tesa, con esiti alterni, tra i vecchi palazzi sventrati dalle bombe del 1943.

    3. Cultura, in attesa del pubblico il privato si organizza

    Il cine-teatro Italia Tieri, una delle strutture cittadine in cerca di identità, è il fulcro di una zona che galleggia tra innovazione e abbandono: proprio davanti all’ex Gil, edificio figlio del Ventennio, ecco il Centro di Salute mentale: non proprio l’Eden per chi ha bisogno di cure.
    Attorno, accanto ad altri poli istituzionali come la Casa della Musica collegata al conservatorio Giacomantonio, non mancano le nuove iniziative private: sta per partire l’Atelier AC (iniziali di Adele Ceraudo, artista cosentina celebrata anche oltre i confini calabresi) su corso Umberto; alle spalle, sullo stesso isolato, c’è quello di un’altra artista: Luigia Granata (via Davide Andreotti 23).

    Il cine-teatro Tieri diventato rifugio per i senzatetto

    Sul lato opposto della strada, in pochi metri sullo stesso marciapiede troverete le officine visuali “Ovo” di Andrea Gallo e la sede della Fgci e, a breve, la nuova sede della casa editrice Coessenza, già galleria d’arte Vertigo dove una ventina di anni fa trovarono nuova collocazione e linfa gli esponenti del “Laboratorio delle due anime” raccontato da Concetta Guido nell’omonimo libro edito da Le Nuvole (2001).

    La targa che ricorda lo scrittore Nicola Misasi

    Un passaggio poco prima della casa in cui visse Nicola Misasi “illustre scrittore calabrese” (1850-1923) conduce nella sede di Tecne, lo studio musicale di Costantino Rizzuti, cerebrale sperimentatore di suoni.
    Sono tutti soggetti che operano con dedizione e nel silenzio ma meriterebbero qualche attenzione.

    4. Negozi: chi ha chiuso e chi resiste reinventandosi

    Se il mitologico Cimbalino, cantato anche da Totonno Chiappetta, ha chiuso poco prima del traguardo delle 70 candeline (le avrebbe spente l’anno prossimo), come pure il salone del barbiere presente poco distante dal 1955, altre insegne storiche come Montalto sport (dal 1937) si sono reinventate adeguandosi, in questo caso, al mercato delle bici elettriche.

    Poco lontano, il negozio di cordami Mazzuca – tempio degli imbottigliatori e dei preparatori di conserve – ha ceduto il posto a un ristorante (CalaBry, via Sertorio Quatromani / piazza Tommaso Campanella) mentre si sente anche la mancanza della bancarella-cappelleria all’innesto nord del ponte Mario Martire.
    Fratelli Bruni (via Trento 7) è un’insegna che in questo 2022 festeggia i 130 anni. Un altro Bruni (corso Umberto, di fronte al Gran Caffè Renzelli) si vanta ancora oggi di essere l’unico concessionario di Borsalino. Insegna vintage che fa il paio con il lezioso lettering della cartoleria Morano, un civico prima.

    Caso a parte Scarpelli, che dal 1946 a oggi si è trasformata da bottega di quartiere – carattere che ancora conserva per la clientela autoctona – a tappa gourmand, tra cantina sconfinata e prodotti localissimi o internazionali di fascia altissima. Nell’arco di tre quarti di secolo ha annesso locali su locali creando infine un isolato interamente dedicato al gusto. Degno dirimpettaio il rivenditore di sale Borrelli, che non rinnega il piccolo spaccio accanto alla presenza nella grande distribuzione. Ma qui siamo già entrati di diritto in zona cibo.

    5. I Rivocati a tavola (da 10 euro in su)

    Nel quartiere bifronte potrete concedervi una tappa cosentinissima dal crapàro (trattoria Miseria e Nobiltà, largo dei Visigoti / Lungobusento Tripoli) e da Grandinetti (via Sertorio Quattromani 32, dove la leggenda vuole che il conto sia sempre di 10 euro) oppure una serata super-chic nel neonato Fellini (via Trento 15), dove se siete fortunati trovate anche la musica dal vivo.
    Negli anni novanta la rosticceria Reda, a gestione familiare, sfornava – si fa per dire: era tutto frittissimo – panzerotti a ciclo continuo: adesso i locali sono tra i tanti della zona in affitto.

    È però questa tutta una zona a tale vocazione gastronomica che potrete trovare ristoranti anche in due civici attigui (è il caso de Il paesello e A gulìa, su via Rivocati 95 e 91) oppure uno di fronte all’altro (Tina Pica e Osteria gemelli Tucci al 104 e 102).
    Da segnalare infine due presenze, una storica e una recentissima: EnoBruzia, l’apprezzato spaccio di vini di Lattarico per tutti gusti e le tasche, e il panificio l’Aurora, punto vendita dell’azienda Carelli che evidentemente ha intuito la vocazione di un quartiere vecchio 800 anni eppure dinamico come pochi altri. Il quartiere dei fornai e delle fiere.

    Silverio Tucci, chef dell’omonima osteria nel quartiere Rivocati

    COSA VEDERE

    Il giardino della Banca d’Italia (corso Umberto) curato nei minimi dettagli davanti a un edificio maestoso ma vuoto è uno dei simboli della città sospesa tra inespresse potenzialità e triste realtà.

    DOVE COMPRARE

    Siamo nel quadrilatero compreso tra il Renzelli a due passi dal municipio (assolutamente da provare la varchiglia) e la bottega delle meraviglie di Scarpelli: bisogna solo scegliere.

    DOVE MANGIARE

    Anche in questo caso tocca solo scegliere: consigliamo un tuffo nella cosentinità del crapàro o di Grandinetti, ma anche il pesce dell’osteria dei gemelli Tucci.

    (1. continua)