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  • Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Un giro del mondo e tanti guai, tra l’amore e l’anarchia. Li ha vissuti Giacomo Bottino, un operaio nato a Paola nel 1897 e poi emigrato, giovanissimo, a San Paolo del Brasile.
    Sulle rotte dell’emigrazione transoceanica, Giacomo incontra la sua prima, grande passione: la politica.
    A inizio XX secolo, essere socialisti non è facile. Ma essere anarchici può essere peggio: significa fare concorrenza a sinistra ai compagni dell’Internazionale, già in fase di divisione tra socialismo e comunismo. E significa, ovviamente, finire nel mirino delle autorità quasi in completo isolamento politico.
    Che è poi quel che accade a Bottino.

    Stuccatore a Formia

    In Brasile Bottino non ha solo conosciuto l’anarchismo, ma ha anche imparato un mestiere: fa lo stuccatore ed è abbastanza apprezzato.
    Nel 1921 si trova a Formia, dove si divide tra il lavoro e l’attività politica. E dove non ci mette molto a farsi schedare.

    Una copia d’epoca di Umanità Nova

    Infatti, Giacomo si dedica a un’intensa propaganda tra i muratori e i ferrovieri, in maggioranza comunisti, ai quali distribuisce Umanità Nova, la mitica rivista fondata e diretta da Errico Malatesta, dapprima a Milano e poi a Roma, dove il giornale e il suo fondatore sono costretti a trasferirsi perché i fascisti ne avevano incendiato la sede per rappresaglia in seguito alla strage dell’hotel Diana, attribuita agli anarchici.
    Bottino frequenta Malatesta e proprio a casa del guru dell’Internazionale Anarchica conosce l’altra sua grande passione: Ida Scarselli.

    Una famiglia pericolosa votata all’anarchia

    Bella, alta mora e un po’ robusta (e, aggiungerà qualche anno dopo un anonimo verbale di polizia, «dall’aria simpatica») Ida è coetanea di Giacomo.
    Ma in quanto a passione anarchica sembra tre volte più anziana: fa parte di una famiglia toscana di sette fratelli (oltre a lei, Oscar, Ferruccio, Egisto, Tito, Leda e Ines), tutti anarchici e tutti pericolosi.

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    Ida Scarselli

    Il 28 febbraio 1921 gli Scarselli si fanno (a dir poco…) notare a Certaldo, in provincia di Firenze, dove partecipano a un durissimo scontro di piazza con le Forse dell’ordine e i fascisti, giunti a dare manforte.
    Ferruccio, il fratello maggiore, resta ucciso. Oscar, affetto da una vistosa zoppia, si dà alla macchia e fonda un suo gruppo: la Banda dello Zoppo. Poi scappa all’estero, gira mezza Europa e alla fine si rifugia in Urss, assieme a suo fratello Tito.
    Egisto passa guai peggiori: arrestato subito dopo i disordini, si becca vent’anni di condanna. Ida, invece, viene arrestata e processata a Roma. Ma sarà assolta nel 1925 per insufficienza di prove.

    Propaganda e anarchia: il primo guaio di Giacomo

    Con questo popò d’esempio, Giacomo non ci mette molto a ficcarsi nel suo primo guaio serio.
    Nel 1922 si trasferisce a Roma per stare vicino a Ida.
    Il 24 aprile di quell’anno, Bottino si fa beccare dalla Polizia mentre volantina tra i soldati per incitarli alla diserzione. Viene arrestato e finisce sotto processo per propaganda sovversiva. Lo salva l’insufficienza di prove.
    Ma i problemi veri sono solo all’inizio.

    Una lettera maledetta

    Il 27 novembre 1926 la censura intercetta una lettera indirizzata a Giacomo, che nel frattempo convive a Roma con Ida.
    Gliel’ha spedita suo cognato Oscar dal Belgio e sembra scritta apposta per far infuriare i fascisti: dentro c’è tutto quello che un fuoriuscito può pensare del duce.

    Errico Malatesta, il guru dell’Internazionale anarchica

    Le autorità iniziano a scavare nelle vite di Giacomo e Ida e trovano abbastanza elementi per considerarli non più dei “semplici” antifascisti, ma addirittura dei cospiratori.
    A questo punto scatta il confino di pubblica sicurezza. Per sottrarvisi, Giacomo scappa a Messina. Ma la fuga dura poco, perché i carabinieri lo beccano il 13 febbraio 1927.
    A questo punto il confino a Lipari dovrebbe essere una certezza, per lui.
    Ma il regime la pensa diversamente: la pratica di Giacomo e Ida è passata, nel frattempo, al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

    La galera e il confino 

    I due anarchici non sono più un affare delle prefetture, ma sono diventati di competenza dell’Ovra, la famigerata polizia fascista, che li ritiene parte del Soccorso Rosso internazionale, dopo aver scoperto le attività di Ida in favore dei detenuti politici.
    Giacomo è rispedito a Roma il 20 marzo 1927 e subisce un processo per direttissima assieme alla sua compagna.
    La condanna, inevitabile, è una mazzata per entrambi: tre anni di carcere, tre di sorveglianza e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici a lui; due anni e mezzo di carcere, tre di sorveglianza più l’interdizione a lei.
    Ma l’amore vince ancora su tutto. E stavolta, galeotto è proprio il fascismo.

    Il matrimonio e il ritorno in Calabria

    Giacomo esce di galera il 19 marzo 1930, ma le autorità lo trattengono e lo spediscono al confino a Ponza. Qui ritrova Ida e, finalmente, la sposa Scontata del tutto la pena, Giacomo fa ritorno in Calabria nel ’32, dove porta con sé Ida e i loro tre figli.
    Dapprima la famiglia Bottino si stabilisce a Paola, dove Giacomo chiede, invano, alla Questura di Cosenza un passaporto verso il Brasile, per sé, per la moglie e per una figlia.
    Poi la coppia si trasferisce nel capoluogo, dove lui lavora come stuccatore nel cantiere del Palazzo degli Uffici.

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    La Scarselli e Bottino (a destra)

    Li raggiunge il cognato Egisto, nel frattempo uscito di galera grazie all’amnistia concessa dal regime per celebrare il suo decennale. Giacomo, con tre figli a carico, si dà la classica calmata e lavora duro. Anche Egisto si dà da fare come muratore nel medesimo cantiere del cognato. Tuttavia, non perde la passione politica e il vizio della propaganda. Resiste finché può a Cosenza e poi prova a scappare all’estero. Ma la polizia di confine lo ferma il 18 febbraio 1938 a Ventimiglia, assieme a un antifascista cosentino: Edoardo Vencia di Pedace.

    Nel Brasile dei golpisti

    La fine della guerra e del fascismo non significa la pace per la famiglia Bottino. Evidentemente, l’Italia di Mario Scelba, per anarchici come loro, non è più sicura di quella del ventennio.
    Il 19 gennaio 1947 Giacomo, Ida e i tre figli si trasferiscono in Brasile, per la precisione a Niteròi, una città costiera dello Stato di Rio de Janeiro.

    Il visto di residenza brasiliano di Ida Scarselli

    L’approdo in America Latina è la classica brace dopo la padella: nel 1964 i militari cacciano con un golpe il presidente João Goulart e instaurano la dittatura che durerà per i ventun anni successivi.

    Fine della storia

    Da questo momento in poi, Giacomo, di cui sono note anche in Brasile le simpatie politiche, finisce nel mirino della polizia e subisce le angherie di un vicino di casa, evidentemente legato al regime.
    Quest’ultimo minaccia Giacomo più volte e lo denuncia ai militari. Non pago, arriva a sparare all’italiano e lo uccide. È il 14 settembre 1970.
    Ida muore il 22 ottobre 1989, a novantadue anni suonati. E vanta un primato singolare: è stata la prima donna condannata da un Tribunale fascista. Per questo merito, lo Stato italiano le ha riconosciuto la pensione e la reversibilità di Giacomo.

  • Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Non esiste “bottega” più oscura della produzione del carbone: lavoro gravoso, d’altura, e poco visibile. Ciononostante il mestiere di carbonaio e il prodotto del suo lavoro erano parte integrante della vita quotidiana di alcune comunità calabresi. Su quest’attività calava inoltre un alone di mistero: sarà per questo che ai carbonai e al loro mondo si ispirò la società segreta della Carboneria, nata agli inizi dell’Ottocento nel Regno di Napoli?

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    Carbonaie in un’incisione del Dizionario delle arti e de’ mestieri di Griselini del 1769

    Operai da fuori regione per il Carbone calabrese

    Agli inizi del Novecento la produzione del carbone era ancora una delle maggiori industrie forestali della regione. Ma, inutile dirlo, il tutto veniva portato avanti seguendo tecniche tradizionali e metodi primitivi. La quantità di carbone ricavata per ogni quintale di legna era molto limitata: «Pel faggio si ammette comunemente necessaria una quantità di circa 6 quintali di legna stagionata per averne uno di carbone, e per la quercia 5 quintali». Il rendimento era dunque del 16% nel primo caso e del 20% nel secondo. E la causa, secondo Nino Taruffi, era dovuta alla lavorazione all’aperto, mentre la carbonizzazione in forni chiusi avrebbe potuto portare il rendimento fino al 25/27%.

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    La legna da trasformare in carbone tra le Serre vibonesi (foto Mario Greco 2015)

    Nonostante ciò si trattava di un settore vivace e che richiamava anche lavoratori da fuori regione, come i 40 carbonai del circondario di Catania che giunsero nel Catanzarese nell’ottobre 1905 per tornare in patria a febbraio dell’anno successivo. Nel Reggino, nello stesso periodo, si mobilitavano tra gli 80 e i 100 carbonai della provincia. L’industria del carbone nel Reggino aveva meno forza rispetto alle altre province, ma già dalla fine dell’Ottocento faceva eccezione il distretto di Palmi, da dove «se ne esporta una notevole quantità per la Sicilia, ed i punti principali di smercio sono i comuni di Gioia Tauro e Bagnara».

    Gli ultimi uomini del fuoco e del carbone

    In genere veniva utilizzato per la carbonizzazione «molto del legname grosso di specie diverse e tutto il legname di sfrido nella fattura di tavole e traverse». I tagli avvenivano spesso in modo indiscriminato. Perfino molti alberi di sughero «vennero devastati per averne carbone e corteccia da concia».

    Ma ciò che gli osservatori di fuori regione avevano già rilevato più di un secolo fa circa la deforestazione della Sila avrebbe interessato poco gli speculatori. Il problema non era certo dovuto ai soli carbonai ma, come riporta lo scrittore Saverio Strati in un suo articolo del 1961, erano questi a pagarne lo scotto cadendo sotto la scure del pregiudizio: «Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra».

    Fuoco e pagliaio

    Le condizioni di lavoro erano durissime. Le difficoltà iniziavano con l’approvvigionamento della legna. Il carbonaio riceveva in consegna un pezzo di bosco da un appaltatore e doveva obbligarsi a consegnare un dato quantitativo di carbone a un determinato prezzo e in un tempo stabilito.

    Giunto sul posto, si preparava lo spiazzo per le carbonaie. Come prima cosa, si tirava su il pagliaio, che per molte settimane sarebbe stata l’abitazione del carbonaio, e spesso anche della sua famiglia, bambini compresi.

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    Il “pagliaro” con i carbonai e le loro famiglie

    Una casa «incerta come la loro esistenza», dice ancora Strati: «Coprono di rami d’elce, le cui foglie sono più dure che quelle della quercia, il pagliaio, e poi di terra pressata. Per letto rami frondosi, o felci secche. In un lato tre grosse pietre messe a modo di fornace, per contenere il fuoco, che d’inverno è sempre acceso».

    Il fuoco va “civato

    Poi iniziava la parte più delicata. Dopo aver tagliato, trasportato e raccolto la legna, bisognava sistemarla in forma circolare per realizzare la carbonaia, mettendo in basso i ceppi più grossi e man mano la legna più minuta. Al centro si lasciava una bocca circolare da servire per accendere il fuoco e per far fuoriuscire il fumo. Il tutto veniva ricoperto di terra. La combustione all’interno doveva avvenire senza fiamma, altrimenti la legna si sarebbe trasformata in cenere. Una grande perdita per il carbonaio.

    Il piccolo vulcano che ne nasceva andava controllato e “civàto, cibato, inserendo dal buco in alto nuova legna per mantenere il fuoco. Non meno faticosa era la fase di “scarico”. Sulla carbonaia si buttava tanta acqua e infine, rompendo il guscio di terra compattata, il carbone estratto doveva essere poi trasportato fino a valle con muli o, più spesso, a spalle.

    Carbone e ferriere nelle Serre calabresi

    Le selvagge e impenetrabili foreste delle Serre calabresi hanno fornito da sempre legname per le sporadiche ma significative attività metallurgiche, attestate in regione sin dal XI secolo. Ricca di legname e di acqua, la regione delle Serre ha visto nascere nella seconda metà del Settecento le ferriere di Mongiana prima poi quelle di Ferdinandea (oggi frazione di Stilo). Qui oltre ai minatori, ai fonditori e ai mulattieri trovavano spazio centinaia di uomini dediti alla produzione di carbone dal legno per alimentare queste industrie sempre bisognose di combustibile. Chiuse le ferriere, la produzione di carbone di legna continuò a rappresentare il sostentamento per un intero paese.

    Vivere di bosco

    Nella seconda metà dell’800 la popolazione del territorio di Serra San Bruno «vive pei boschi» e «se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione di massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza». Lo si trova scritto in un numero della “Nuova Rivista Forestale” del 1886. In realtà una migrazione massiccia c’era già stata quando, dopo la chiusura della fabbrica di Mongiana, quasi tutti gli armaioli e gli artigiani del ferro che dimoravano a Serra San Bruno partirono alla volta di Terni, allettati da un impiego sicuro.

    L’ondata migratoria spopolò il paese, in cui rimasero oltre ai bovari solo segatori, accettaioli e carbonai. Ma agricoltura e pastorizia garantivano a quelle genti la sussistenza soltanto per due mesi l’anno. Così la sussistenza famigliare era legata unicamente ai cosiddetti “lavori del bosco”: abbattimento degli alberi, taglio dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura dello stesso.

    Affari di famiglia

    I lavori boschivi si praticavano per contratto a «tanto al pezzo». In particolare, per il carbone si parlava di “tanto al cantaro” (85 chilogrammi). I carbonai di Serra San Bruno, al pari degli accettaiuoli, non formavano squadre di venti operai sotto la direzione di un capo e una mensa comune come avveniva nelle zone alpine, ma «le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia».

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    Gli ultimi carbonai di Calabria a Serra San Bruno (foto Mario Greco 2015)

    Gli ultimi carbonai di Calabria

    Ad assumere le lavorazioni erano di solito i carbonai «più anziani od intelligenti» che ovviamente tenevano per loro una percentuale relativa «alle loro particolari prestazione e responsabilità». Nella grande filiera del legno da carbone, i carbonai entravano in gioco subito dopo gli accettaiuoli. Preparata la legna e composta la carbonaia, i carbonai vi appiccavano il fuoco secondo il “metodo tedesco”, vale a dire dalla sommità di quest’ultima.

    Esclusi i mesi di «gran neve», la produzione del carbone dal legno d’abete o di faggio si protraeva per tutto l’anno. Oggi nelle contrade di Spadola l’attività di produzione del carbone secondo il metodo tradizionale è ancora praticata dalla famiglia Vellone e suscita la curiosità di studiosi e fotografi. Come Mario Greco, il cui reportage ha conquistato le pagine di La Repubblica.

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    Carbonai del Vibonese (foto Mario Greco 2015)

    «Costano meno le donne dei muli per il trasporto del Carbone»

    Il trasporto del carbone prodotto avveniva di norma a trazione animale, specialmente per mezzo di muli e somari. Anche se, come afferma Agostino Lunardoni sulla stessa rivista, «le donne fanno la concorrenza ai primi». Lo studioso stimava per il territorio di Serra San Bruno «da 700 a 800 povere contadine occupate esclusivamente al trasporto della legna da fuoco e del carbone, sia per loro uso sia per vendere». Ovviamente il loro guadagno era misero e oscillante dai 50 ai 70 centesimi al giorno.

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    Le portatrici di carbone nella foresta di Ferdinandea nel 1908

    Leonello De Nobili, nel suo studio sull’emigrazione in Calabria, nel 1908 afferma di non poter dimenticare «due donne che mi apparvero come anime dannate nella folta boscaglia di Ferdinandea, dileguarsi sotto il peso di enormi carichi di carbone (40 kg) che portavano, così sulla testa, fino a Serra San Bruno (circa 10 miglia) per la mercede di 50 centesimi». «Perché non adoperare i muli?», chiese quindi a un taglialegna, che rispose candidamente: «Costano meno le donne». Oltre alle fatiche del lavoro, le trasportatrici erano esposte a diverse forme di violenza.

    Elisabetta donna ribelle

    In Storia dello stupro e di donne ribelli, lo storico Enzo Ciconte narra la storia di Elisabetta. Era una giovane carbonaia che nel 1888 aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un giovane di Serra San Bruno. «La rapirò nel bosco quando di notte andrà pel trasporto di carboni» affermò il giovane rifiutato che «avendo pensiero di sposarla cercava obbligarla con oscenità».

    Un giorno mentre trasportava carbone insieme ad alcune compagne nei boschi secolari intorno alla Certosa, Elisabetta si trovò di fronte il giovane malintenzionato che «con la scure fece allontanare le altre e gittandola a terra le disse: o vuoi o non vuoi ti devo togliere l’onore ed Elisabetta gridando rispondeva: mi ammazzi ma non cedo». Fortunatamente l’accorrere di altre persone impedì all’uomo di usarle violenza.

    Carbonari e briganti

    Le buone maniere, in ogni caso, non erano certo la prassi. Nei boschi i carbonai non erano liberi di scegliere il luogo dove tagliare e impiantare le proprie cravunère. E oltre ai vincoli contrattuali e di proprietà intervenivano fattori “esterni” a condizionare il lavoro e la vita di questi lavoratori. Come noto, nei boschi silani a cavallo dell’Unità d’Italia i briganti facevano il bello e il cattivo tempo. Avendo interesse a che ampie porzioni di foresta facessero loro da nascondiglio, condizionavano la scelta dei luoghi dove impiantare le carbonaie, non senza ricorrere ad avvertimenti e violenze.

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    Carbonaio in Sila negli anni ’70, Dal volume “Serra Pedace nel mirino. Click sul passato”

    Come avvenne nel novembre 1864, quando alcuni carbonai di Piane (Francesco Guzzo, Pietro Prete, Salvatore Esposito e Antonio Pellegrino) intenti a far carboni nella contrada silana di Acqua del Corvo, si imbatterono in «otto individui armati di fucili a due colpi e di revolver» che uscendo dal bosco iniziarono prima a percuoterli e poi a sparare, uccidendone tre. Scrive Padula che «gli uccisori fossero briganti della banda di Francesco Albi della provincia di Catanzaro», e che dopo il fatto si spostarono in contrada Quaresima dove spararono a un altro carbonaio di Piane, Antonio Arcuri.

    Qualche anno dopo le uccisioni dei carbonai da parte dei briganti divennero oggetto di dibattito parlamentare grazie al senatore Guicciardi, già prefetto di Cosenza, che intervenendo a proposito di una legge sulla Sila ricordava che i briganti «in diverse occasioni commisero uccisioni di carbonai, perché questi non vollero limitarsi a fare il carbone nelle località e nella misura che loro era prescritta. I carbonai poi, difficilmente disobbedivano a tali prescrizioni perché l’autorità non aveva modo né di tenerli costantemente protetti, né di garantirli contro l’audacia dei briganti, i cui fatti crudeli e le cui sommarie esecuzioni incutevano un terrore a cui nessuno sapeva sottrarsi».

    Da Serra San Bruno a Serra Pedace

    Le tracce lasciate dal carbone ci conducono a Serra Pedace, uno degli storici Casali di Cosenza. Vista la vicinanza dei boschi silani, qui quello del cravunàru era uno dei mestieri più diffusi. Nella bella stagione gli uomini si spostavano per settimane nei boschi per attendere alle “cravunère”. Sistemavano le “catine” di tronchi disposti in forma circolare. Coprivano il tutto con le “tife” di terra, “civàndo” la carbonaia introducendo man mano la legna dallavùcca per raggiungere la combustione ottimale.

    Per la festa di San Donato

    Alla fine del duro lavoro il carbone era trasportato, a spalle o con i “traini”, in paese o a Cosenza per essere venduto. Non di rado a spostarsi erano intere famiglie. E la vita del paese rimaneva quasi come congelata, per riprendere normalmente al ritorno dei carbonari dai monti. La festa patronale di San Donato era fissata annualmente la seconda domenica d’ottobre. In questo modo potevano partecipare coloro che nei mesi estivi erano lontani dal paese. Rappresentava così molto più che una semplice celebrazione religiosa.

    E proprio la festa patronale segna in paese il mutare dei tempi. Gli ultimi carbonai sono scomparsi e non c’è più necessità di recarsi in Sila per lungo tempo nei mesi estivi. Anzi, l’estate è divenuta, come ovunque, un momento di ritorno al paese per i molti che lo hanno lasciato, e da alcuni decenni la festa è stata spostata ad agosto.

  • Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

    Il tuono prima della tempesta: i pistoleri della Villa Vecchia

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    A volte la violenza si percepisce nell’aria, che si satura fin quasi a esplodere.
    Nella Cosenza del ’77 è proprio così: la violenza politica degli anni di piombo inizia pian pano a evaporare.
    Quella della malavita, invece, è in crescendo.
    È il pomeriggio del 23 gennaio. Mancano poco più di undici mesi alla morte cruenta di Luigi Palermo, detto ’u Zorru, il mitico capo della mala locale, erede dell’altrettanto mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu.
    Sono passate da poco le quattordici e Francesco Fotino, appuntato di polizia che presidia la guardiola della vecchia prefettura (che oggi è diventata la sede della Provincia), sente alcuni spari e delle urla.

    Un duello di malavita alla Villa Vecchia

    I rumori provengono dalla Villa Vecchia, l’ex regno di Ciccio Scarpelli, alias Ciccio Fred Scotti, ex custode della struttura comunale e celebre per essere stato uno dei primissimi cantanti di malavita calabresi.
    Fotino si precipita fuori e nota uno spettacolo agghiacciante: un ragazzo cerca di trascinare a spalla un coetaneo gravemente ferito a una gamba. Quest’ultimo si chiama Giuseppe Castiglia e ha 21 anni. Ma gli amici lo chiamano Nuccio.
    Il poliziotto urla l’alt e poi spara un colpo di avvertimento in aria.

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    Fred Scotti e il leone della Villa comunale

    Il soccorritore molla Castiglia e scappa. Fotino rientra di fretta e furia nella guardiola e chiama il 113 per avere rinforzi. Poi va alla Villa Vecchia.
    Lo spettacolo, stavolta, è peggiore: un altro giovane riverso per terra, davanti al cancello della Villa. Ha una grossa macchia di sangue all’altezza del cuore. Si chiama Carlo Mussari, ha 25 anni e anche lui ha il suo bravo nomignolo: Dipignano.
    Per Mussari non c’è niente da fare: un proiettile gli ha attraversato il torace da parte a parte e i soccorritori lo trovano già cadavere.

    Il soccorso inutile e la morte

    Qualche speranza in più ci sarebbe per Nuccio: i suoi amici lo caricano su una Mini Minor Cooper 1300 e tentano di portarlo in Ospedale.
    Alla tragedia si aggiunge la sfortuna: l’auto è a rosso fisso e si pianta all’imbocco del ponte Mancini, che collega Cosenza Vecchia all’Ospedale.
    I soccorritori se la danno a gambe e abbandonano Castiglia, ormai agonizzante, per la seconda volta.

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    Una mitica Gazzella degli anni ’70

    Anche l’arrivo di una volante della Polizia è inutile: gli agenti trasbordano il ferito e cercano di arrivare al Pronto Soccorso. Ma Nuccio è gravissimo, perché il proiettile gli ha reciso l’arteria femorale e fermare l’emorragia è impossibile. Il ragazzo arriva a destinazione già cadavere.

    Le indagini sul duello, in tre sotto torchio

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    Il boss Franco Perna

    La prima pista degli inquirenti porta ad Alfredo Andretti. Questa pista parte dalla Mini Minor usata per soccorrere Nuccio, che appartiene alla sorella di Andretti.
    Tra l’altro, i poliziotti hanno trovato dentro l’auto delle prove non proprio trascurabili: i documenti di Castiglia, una pallottola calibro 7,65, una bottiglia di brandy e un paio di guanti in pelle marrone. Quanto basta ad Alfredo Serafini, il procuratore incaricato delle indagini, per fermare Andretti con l’accusa di concorso in omicidio.
    Inoltre, spuntano dei testimoni, tuttora sconosciuti, e un’altra prova: un caricatore Mauser trovato in una tasca di Dipignano.
    I questurini fermano altre due persone: Salvatore Pati, che all’epoca ha 26 anni, e Antonio Musacco, che ne ha 30.

    La prova che manca e l’antefatto

    Anche per loro due l’accusa è di concorso in omicidio. Ma a loro carico c’è una sola certezza: aver soccorso (e poi mollato) Nuccio.
    Ma il guanto di paraffina, negativo per tutti e tre gli indagati, toglie ogni dubbio: gli unici pistoleri di quel maledetto 23 gennaio ’77 sarebbero stati Nuccio e Dipignano.
    La sera prima, infatti, Castiglia ha litigato col cognato di Mussari e lo ha preso a schiaffi. I due, quindi si sarebbero dati appuntamento davanti alla Villa Vecchia, anche coi relativi compari, per chiarirsi.
    Ma le cose avrebbero preso un’altra piega: anziché “appaciarsi”, Castiglia e Mussari si sarebbero insultati e poi presi a revolverate a vicenda.
    Un duello violento, tipico di certa mala cosentina, finito male.

    I compari

    Il doppio omicidio della Villa Vecchia è la prima occasione in cui Andretti, Pati e Musacco compaiono nelle cronache giudiziarie. Ma i loro sono nomi destinati a tornare. Vediamo come. Andretti, considerato affiliato del boss Franchino Perna, sarà ucciso nel 1985 per un regolamento di conti. Qualche anno dopo, il pentito Roberto Pagano lo accuserà dell’omicidio dell’imprenditore Mario Dodaro. Musacco finisce in vari procedimenti, tutti dovuti a presunti fatti di mafia, a partire dal celebre maxiprocesso “Garden”.
    Stesso discorso per Salvatore Pati.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    «Eravamo “grattisti”, siamo diventati “sgarristi”». Con quest’efficace espressione, il boss pentito Franco Pino racconta la trasformazione della criminalità cosentina da malavita in mafia.
    Violenti, a volte in maniera vistosa e stupida (come Castiglia e Mussari, appunto), i giovani leoni di una certa Cosenza si preparavano, ognuno a modo suo, al salto di qualità che sarebbe arrivato proprio alla fine del ’77.
    Ma questa è un’altra storia…

  • Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    MMXXII 800 anni di storia e devozione è il nuovo progetto realizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in occasione degli 800 anni della consacrazione della Cattedrale dell’Assunta. La presentazione del percorso multimediale – che sarà inserito e fruibile all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano – si terrà venerdì 27 maggio 2022 alle ore 10:30 presso il duomo di Cosenza alla presenza di monsignor Nolè. Al termine, si proseguirà a Villa Rendano con l’apertura delle sale del museo.

    Il duomo di Cosenza dentro Villa Rendano

    Straordinariamente, per il Museo Consentia Itinera, si prevede una nuova Notte dei Musei al costo simbolico di 1 Euro per vivere la straordinaria emozione della costruzione e delle trasformazioni della nostra Cattedrale di Cosenza. Il museo che ha sede nella celebre dimora del musicista Alfonso Rendano – impegnato nella riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario – partecipa con orgoglio alle celebrazioni per gli 800 anni dalla consacrazione della Cattedrale, rafforzando la propria offerta culturale.

    Villa Rendano

    Sette sale sulla storia del Duomo

    La mostra digitale MMXXII 800 anni di storia e devozione è un viaggio immersivo nelle sette sale del museo che racconta la storia pluricentenaria della Cattedrale di Cosenza: si ripercorrono i momenti salienti in cui i fedeli e i religiosi hanno edificato, restaurato e abbellito il cuore pulsante della città; la donazione della Stauroteca da parte di Federico II e un’approfondita analisi e ricostruzione 3D come non si è mai stata vista; le funzioni devozionali e artistiche della Cappella della Madonna del Pilerio con una particolare attenzione all’icona della Madonna restituita alle sue origini duecentesche; i monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico II di Hohenstaufen e le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento; infine, le trasformazioni della facciata nel corso del XIX e XX secolo.

    Una mostra ma non solo

    La mostra multimediale sarà fruibile in maniera permanente nelle sale del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano e in alcune parti sarà scaricabile tramite Qr code presente nella Cappella della Madonna del Pilerio e nel Museo Diocesano in prossimità della Stauroteca. Così come gli altri percorsi multimediali, anche questo sulla cattedrale di Cosenza sarà corredato da uno specifico piano educativo comprendente attività rivolte a famiglie, scolaresche, pubblici con esigenze speciali e alla comunità intera.

  • Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Scriveva George Gissing, romanziere vittoriano e viaggiatore in Calabria nel 1897: «È stato davvero un peccato non aver potuto portare con me nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case quasi come a Napoli».

    Le ricche dimore dei nobili e dei possidenti calabresi di un secolo fa erano per i viaggiatori colti mete ambite, almeno quanto musei e siti archeologici. E Gissing, impossibilitato a visitare le case più eleganti dei suoi ospiti crotonesi a causa di una febbre polmonare, chiede al dottor Riccardo Sculco, esponente della borghesia cittadina, di descrivergli le ville e le ricche dimore che le famiglie nobili crotonesi possedevano nei pressi delle rovine del Tempio di Hera Lacinia.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    «Il dottor Sculco – riporta il viaggiatore – fece del suo meglio per descrivermi il paesaggio del Capo Naù. Quelle piccole macchie bianche che avevo intravisto col binocolo all’estremità del promontorio erano eleganti ville e storiche dimore, occupate d’estate dai ricchi nobili e dalle famiglie agiate di Cotrone. Il Dottore stesso ne possedeva una lì sul promontorio. Una villa di campagna che era appartenuta a suo padre prima di lui. Alcuni dei primi ricordi della sua infanzia erano appunto legati a quel luogo sul Capo Naù: quando aveva nozioni importanti da imparare a memoria, era solito ripeterle camminando intorno alla grande colonna. Nel giardino della sua villa si divertiva a volte a scavare. Pochi colpi di vanga bastavano a tirare fuori qualche preziosa reliquia dell’antichità».

    Porte aperte per un tuffo nella storia

    Anche in Calabria il più grande museo diffuso d’Italia, quello delle dimore storiche, riapre in questi giorni le sue porte gratuitamente. Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, quest’anno alla sua XII edizione. Saranno visitabili gratuitamente centinaia di luoghi esclusivi come castelli, rocche, ville, parchi e giardini, in un’immersione nella storia che rende ancora oggi il nostro Paese identificabile nel mondo e che potrebbe costituirne il perno dello sviluppo sostenibile a lungo termine.

    Dopo questo lungo periodo di restrizioni, possiamo approfittare oggi di un’importante occasione di cultura e di conoscenza, e riscoprire grandi tesori, in luoghi a noi prossimi, città e paesi. Sarà possibile rivivere così l’emozione del Grand Tour e visitare, a distanza di secoli, custoditi e offerti per la prima volta al pubblico, i luoghi più segreti, affascinanti e meno noti della nostra regione, per ammirare più da vicino oltre a grandi bellezze architettoniche, la storia, i beni culturali e brani del paesaggio tra i più belli e significativi della Calabria.

    Anche in Calabria le dimore storiche dell’ADSI, veri e propri musei e case della memoria, rappresentano un patrimonio vasto ed diversificato, diffuso in quasi tutte le città e centri minori della nostra regione, tra dimore e palazzi nobiliari, castelli, fortificazioni, ma anche ville di campagna, giardini, tenute agricole, insediamenti storici e produttivi, costruzioni di particolare pregio architettonico e artistico. Esse caratterizzano da secoli con la loro presenza la fisionomia dei centri abitati piccoli e grandi della Calabria.

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    Il Castello Gallelli a Badolato (CZ)

    Le dimore storiche in Italia

    Quello delle dimore storiche è un patrimonio di immenso valore sociale, culturale ed economico, spesso oscurato a scapito delle nuove generazioni. Distribuito in tutto il Paese, le dimore storiche per quasi l’80% si trovano insediate in aree periferiche ai grandi centri urbani e in provincia. Secondo l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, esso costituisce ben il 17% del totale dei beni culturali in Italia. Il 54% di questi siti si colloca proprio nei centri con meno di 20.000 abitanti e, di questi, il 29% nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Le oltre 9.000 dimore hanno generato, già prima della pandemia, ben 45 milioni di visitatori. Da qui può passare quindi la ripartenza culturale, sociale ed economica nei centri urbani e nelle aree interne più svantaggiate del Paese.

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    Trastevere (Roma), l’interno dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione

    In Calabria oltre 150 siti

    Ognuno di questi insediamenti ha infatti una sua precisa identità e caratteri di unicità, per via della sua storia, per il suo valore culturale, per lo stretto legame con l’ambiente antropologico, per la natura e il paesaggio che caratterizzano i diversi territori locali. Da qualche anno anche nella nostra regione, l’insieme di questo importante giacimento si identifica nella rete associativa dell’ADSI Calabria (sezione regionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane).

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    Palazzo Sanseverino a Marcellinara

    Nata nel 1977, l’ADSI conta circa 4.500 soci in tutta Italia. Già più di 150 i siti in Calabria rappresentativi della complessità storica, della cultura, delle tradizioni e del paesaggio che identificano nella nostra regione una preziosa memoria di beni architettonici, di storia, di arte, di conoscenze e saperi originali, con le innumerevoli rarità cultuali e naturalistiche che si nascondono da secoli tra le antiche mura di queste dimore e tra i viali del loro giardini.

    Le opportunità per il turismo e il lavoro

    La valorizzazione delle dimore storiche offre anche nuove opportunità ai mestieri antichi della cura e dell’arte, alle professioni artigiane, a restauratori e giardinieri. Figure che già affiancano di necessità i proprietari-custodi, senza i quali non sarebbe possibile la manutenzione delle dimore, degli oggetti d’arte, dei giardini, delle bellezze e delle rarità che rendono unici e irripetibili questi beni. I lavori di cura e restauro delle dimore contribuiscono inoltre al recupero e al decoro degli spazi pubblici, delle vie, delle piazze, delle contrade antiche nelle quali le dimore si trovano insediate da secoli.

    Aumentano così le capacità d’attrazione di un turismo sostenibile e la qualità di vita delle comunità locali e dei territori di cui questi complessi monumentali costituiscono spesso il principale elemento di interesse e di attrazione, alimentando la filiera delle attività legate al turismo e alle nuove professioni dei beni culturali, che già vantano un significativo numero di laureati formati all’interno delle nostre università e Accademie di Belle Arti.

    Dimore storiche, un progetto targato Calabria

    L’ADSI Calabria, con un proprio progetto pilota di interesse nazionale (a cui di recente ha fatto seguito anche l’adozione dello stesso da parte della Conferenza nazionale dei presidenti e dei direttori delle Accademie delle Belle arti d’Italia, hanno siglato un accordo proprio col fine di valorizzare il patrimonio culturale privato delle dimore storiche calabresi).

    «Il progetto Ritratto di Dimora, prevede di documentare e raccontare con immagini e restituzioni artistiche dal vero altrettanti “ritratti” delle dimore storiche calabresi associate all’ADSI, disvelando così un patrimonio di grande valore per tutta la collettività, che amplia la fruizione delle bellezze della nostra regione, stavolta prima in questa originale proposta culturale adottata nel nostro Paese, di cui le dimore e gli edifici storici calabresi costituiscono una parte fondamentale», ha dichiarato Gianludovico de Martino, vicepresidente di ADSI Nazionale e presidente di ADSI Calabria.

    Una stanza di Palazzo Carratelli

    Ritratto di Dimora consiste nell’esecuzione di immagini fotografiche e “ritratti” di interni realizzati con tecniche le tradizionali (acquarello, gouache e olio) dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti di Catanzaro presso le principali dimore storiche della Sezione ADSI Calabria. Una scelta di queste immagini illustrerà il volume Dimore Storiche in Calabria, pubblicato da ADSI. Le foto e i dipinti formeranno i materiali di una mostra itinerante che ADSI e A.BB.AA. di Catanzaro allestiranno presso le dimore storiche e negli spazi di musei pubblici. Col patrocinio dell’ADSI la mostra infine verrà proposta, d’intesa con la Regione Calabria, presso la rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

    Ville e palazzi da (ri)scoprire

    Si parte in questi giorni con alcune tra le più prestigiose e rappresentative dimore storiche calabresi, che aprono le porte al pubblico. Come il Palazzo Amarelli, importante residenza d’epoca che a Rossano ospita il Museo della Liquirizia (uno dei musei d’impresa più visitato d’Italia); Palazzo Carratelli, storica residenza urbana eretta nella seconda metà del 1400, rimaneggiata e ampliata a seguito del terremoto del 1638, che nel centro storico di Amantea domina il panorama della città e il mare.

    Il museo della liquirizia all’interno di Palazzo Amarelli

    E poi, ancora, Villa Zerbi a Taurianova, costruita nel 1786 in stile barocco siciliano su progetto dell’architetto Filippo Frangipane, testimonianza delle abilità artigiane di scalpellini e decoratori calabresi impegnati dopo il terremoto del 1783, caratterizzata inoltre dalle essenze rare del suo prezioso giardino mediterraneo; Palazzo Stillo-Ferrara, nel cuore del centro storico di Paola; Villa Cefaly-Pandolphi ad Acconia di Curinga (Cz), elegante dimora adibita a casino di caccia, costruita alla fine del 1700 e circondata da piantagioni di agrumi pregiati. In questa villa la storia è trascorsa lasciando tracce sui bei pavimenti antichi ed i soffitti di legno con affreschi. Qui la famiglia Cefaly ha dato vita a pittori, prelati e uomini di Stato, come Antonio Cefaly che dal 1890 al 1920 è stato vice presidente del Senato e consigliere di Giolitti (l’epigrafe sulla sua tomba fu scritta da Benedetto Croce).

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    La biblioteca di Palazzo Stillo-Ferrara a Paola

    Degno di nota anche Palazzo Sanseverino a Marcellinara, dimora storica risalente al 1400, che conserva tra i suoi numerosi reperti anche uno dei pochi ritratti coevi di San Francesco di Paola, un dipinto devozionale del santo realizzato per mano di un pittore locale durante il suo soggiorno nella casa, custodito insieme ad un altare votivo e altre reliquie come il piatto e le posate utilizzate dal santo durante il soggiorno nel palazzo al tempo del suo viaggio in Sicilia.

    Non manchiamo dunque di visitare le dimore storiche per goderci le bellezze che insieme costituiscono il più grande museo diffuso della Calabria. E, dopo i selfie di rito, scattate anche voi un bel ritratto di dimora.

  • STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

    STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

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    Calabria Ulteriore, oppure Calabria Ultra: per secoli è stata definita così la metà meridionale della Calabria, in contrapposizione a quella Calabria Citeriore – o Citra – che corrisponde grosso modo all’attuale provincia di Cosenza. La Calabria Ultra è tanta, e ci vuole coraggio a percorrerla tutta, e ci vuole senza dubbio un’automobile. Anche qui, lasciamo perdere l’autostrada. Lasciamo perdere i viadotti verso San Mango d’Aquino, Martirano e Martirano Lombardo. Sopportando partenze all’alba, ci si può studiare la strada più tranquilla per raggiungere da Cosenza la costiera attraverso strade secondarie.

    Viadotti e antiche (ma non troppo) macine

    Ed ecco che a Potame si vede già il mare: ai gefirofobi si dovrebbe consigliare di evitare due viadotti sul Catocastro passando dentro Lago e in quel posto meravigliosamente denominato “Aria di Lupi” (attenzione però a non impelagarsi poi in un’insidiosa sterrata a fondo cieco, verso Terrati). Si esce così nei pressi dell’antica tonnara di Amantea: un chioschetto a gestione più che familiare, su una spiaggia, dà il via al viaggio tirrenico sulla vecchia borbonica. Da qui, dopo una lunga galleria sopra Còreca, si corre abbastanza spediti, dritti verso le desolate e assolate aperture di Falerna e oltre: Lamezia, Pizzo e poi, ancora più giù, Gioia Tauro, con le sue barbarie semi-industriali.

    Bivio per Aria di Lupi

    Mi fa ridere – amaramente – notare anche qui quanti ristoranti, come in tutta Italia, si chiamino L’antica macina. Che fantasia, li trovi ovunque dalle Alpi all’agrigentino, magari ubicati in edifici che non avranno più di trent’anni, quelli che per darsi un tono – quando non sono classici esempi di ‘incompiuto calabrese’ o ‘non finito calabrese’ – finiscono col dimostrarsi più pacchiani di quanto già sono, utilizzando inevitabilmente piatti quadrati e decorazioni da haute cuisine. Passa la fame già solo a vedere quelle linee, molto parvenu, di aceto balsamico o di cioccolato gettate con fintissima casualità sulle parti intonse del piatto. Invece, quanta frutta a Bagnara, quanti fruttivendoli improvvisati lungo i tornanti che portano giù al paese… E in men che non si pensi si può già essere all’imbarco per la Sicilia, provare per credere, anche senza autostrada.

    Un classico episodio di “non finito calabrese”

    Calabria Ultra, un passato da capire

    Ma l’idea è quella di raggiungere la Calabria grecanica, benché il braccio sinistro, tenuto fuori dal finestrino, possa essere già quasi ustionato: e allora Pentedattilo, Roghudi, Africo, luoghi rimasti ancorati, appiccicati ad un passato fin troppo remoto, un passato a perdere che non interessa più a nessuno. E così è: certe tracce del nostro esser stati altro finiscono per scomparire nell’indifferenza, una parte del ‘nostro’ dna culturale e sociale viene costantemente silenziato senza appello. Non devo cadere nella retorica sociologica, non devo cadere nell’elogio pittorico, antropologico. In quei posti bisogna andarci e capire.

    Paolo Rumiz scrive, in un bel libro dei suoi, di un rifugio in Aspromonte, e voglio andarci anch’io: la strada è molto più lunga del previsto, qualche giovane escursionista suggerisce di dormire in tenda vicino a una pineta. Ma siamo a due passi dalla strada per Polsi, e non so perché, o forse sì, ciò incute timore: in più si avvicinano grossi cani inselvatichiti. Procedo per Gambarie, Delianuova, Piani di Carmelìa. Le indicazioni, da parte di diverse persone, prendono tutte come punto di riferimento certi cassonetti di spazzatura bruciati… est modus in rebus, ma almeno si arriva.

    Aspromonte puro

    L’amico di Rumiz mi spiega che è scomodo, con questo buio, montare la tenda, e mi indica una casetta vicina: manca la luce ma almeno c’è meno freddo e comunque c’è l’acqua e pure i servizi. Fa un freddo cane, bisogna accendere le candele, e chi mi accompagna accende pure il camino, vi cuoce sopra la carne e apre una bottiglia di vino. Con i sacchi a pelo adagiati sopra due divani, il tempo passa davanti al fuoco, scandito da racconti di nonni e caldarroste, condito da un rumore ormai quasi rassicurante: i tarli nel solaio. Anche Rumiz sentì gli stessi tarli.
    Al risveglio, piovoso, si prende la strada, ufficialmente chiusa, che porta verso l’ex sanatorio antitubercolare di Zervò: un filmato dell’Istituto Luce ne testimonia l’inaugurazione, nel 1929, alla presenza del duca d’Aosta.

    Poco oltre si giunge al pittoresco bivio per Piminoro, una biforcazione piena di zeppa di muli abbarbicati tra le rocce, davanti ad un panorama splendido: Aspromonte puro, ecco com’è.
    Si può procedere verso Trepitò – i suoni di questi toponimi ci ricordano che abbiamo lasciato la zona grecanica ma non quella magnogreca – e bisogna lasciare il passo a mandrie di vacche che procedono verso il laghetto di Zòmaro: è la prima volta che in coda a una mandria vedo un maiale. Un mansueto maiale al pascolo, un bel ‘nero’ di Calabria. Siamo appena più su del paese di Ardore, la patria del dimenticato Francesco Misiano, il poco ricordato martire civile di quella rara Calabria antifascista.

    Francesco Misiano, dalla Calabria Ultra a Stalin

    Due parole su di lui vanno dette: nato nel 1884, nell’umile famiglia di un ferroviere, diventa ragioniere e a Napoli sposa prestissimo la causa del Partito Socialista Italiano. Sindacalista, disertore in Svizzera di fronte a quella Grande Guerra che non condivideva, viene condannato alla fucilazione, commutata poi in ergastolo. In Svizzera stringe rapporti con gli anarchici e con Lenin, con Angelica Balabanoff e Rosa Luxemburg: da Ardore all’ardore. Da lì si trasferisce in Russia, poi a Fiume, e infine aderisce al neonato Partito Comunista d’Italia.

    Eletto alla Camera nel 1919 e nel 1921, proprio nell’aula di Montecitorio viene malmenato da una trentina di deputati fascisti proprio in quanto ex-disertore e perciò non degno della carica parlamentare. Viene trascinato in strada, la testa parzialmente rasata, imbrattato di vernice, tra sputi e cartelli di dileggio. E vi risparmio le foto.

    Francesco Misiano

    Ripara nuovamente a Berlino e a Mosca, dove presiede una casa di produzione cinematografica (distribuisce lui, in Germania, La corazzata Potëmkin…). Accusato da Stalin di trotskismo, muore in un sanatorio di Mosca per cause ‘incerte’ ma in tempi ben sospetti (ovvero nel periodo delle purghe staliniane, altro che il Sanatorio di Zervò…), e nell’indifferenza dello stato maggiore del comunismo italiano (in particolare, di quell’ala togliattiana che già lo aveva messo alla gogna). Vista in quest’ottica, la vicenda apparirebbe come il primo degli episodi di malasorte politica e personale del comunista meridionale. Malasorte dolorosamente fantozziana, per tornare alla Potëmkin …

    La pace tra i monti

    Meglio lasciare le corazzate e le guerre, restare tra i monti, procedendo sul crinale che, attraverso le foreste di Mongiana – quella delle Reali Ferriere borboniche –, portano alla più quieta Certosa di Serra San Bruno. Laddove altro tipo di silenzio regna necessariamente, anzi obbligatoriamente, con buona pace dei lati oscuri della Calabria Ultra, e pure di Misiano: bisogna pur avere santi in paradiso, più che in terra.

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    La Certosa di Serra San Bruno
  • Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

    Duello tra boss: morte e sangue alle porte di Cosenza

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    Ancora non era mafia e non lo sarebbe diventata per un pezzo. Eppure i malavitosi di Cosenza odoravano già di leggenda. Va da sé, di leggenda nera. I loro nomi riempiono rapporti di Pubblica sicurezza, dominano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passano di bocca in bocca.
    Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’60, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.

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    Piazza Riforma negli anni ’50: quartiere di nascita di Luigi Pennino, capo della malavita cosentina (foto L. Coscarella)

    I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi. Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: lesioni e omicidio.
    Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.

    Una malavita “bastarda”

    Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’è una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia. Il motivo è “sociologico”: i traffici della malavita di Cosenza si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) è uno di quegli “strani mestieri che impediscono al delinquente di considerarsi uomo d’onore.
    Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di “guagliuni ’i malavita” (titolo dell’omonimo libro di Francesco Carravetta) avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Luigi Pranno. Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.

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    Una storica immagine del quartiere dei Rivocati

    Luigi Pennino: profilo di un boss

    È doveroso premettere che non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio. Inoltre: anche i boss non cosentini stimavano Pennino, che non consideravano un lenone. Tuttavia, ‘u Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.

    Nasce nel ’900 alla Riforma, che allora non è una piazza ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, che costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.
    Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.
    Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.

    Il duello tra Pennino e Baccu avviene proprio nella discesa del Crocefisso alla Riforma

    Un duello tra ex amici

    Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.
    A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.
    Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma.
    De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood.
    Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.
    La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco. La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo con le donne. Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.

    Pennino contro Palermo: la malavita di Cosenza

    Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.
    Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.
    Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Palermo).

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    Luigi Pennino, storico capo della malavita di Cosenza

    La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire. Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro.

    Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss. Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.
    Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.

    La fine di Baccu

    Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve.
    Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.
    Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.
    Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.
    Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.

  • Olio calabrese, una rivoluzione lunga due secoli

    Olio calabrese, una rivoluzione lunga due secoli

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    Si legge spesso sui social che sin dai tempi antichi la Calabria ha qualità che nessun’altra terra al mondo possiede: la gente più ospitale, l’aria più pulita, l’acqua più buona, il mare più bello, i paesi più ameni e i prodotti della terra più squisiti. La Calabria, insomma, è una terra benedetta da Dio. E, non a caso, gli storici antichi scrivevano che dopo il diluvio universale Aschkenaz, attratto dalla bellezza del paesaggio, dalla mitezza del clima e dalla fertilità della terra, si fermò nella regione. È bello essere fieri della propria patria, ma ciò non deve spingerci a falsificarne la storia.

    Chi si loda s’imbroda

    Gli stessi eruditi calabresi si rendevano conto che le eccessive lodi per la propria regione potevano svilire l’attendibilità delle loro narrazioni. D’Amato avvisava il lettore della modestia del suo lavoro. E, se lo studioso poteva cogliere «molto di riprensibile», esso era frutto della dolcezza e benevolenza per una terra che amava. Fiore ammetteva che l’affetto da cui si era rapiti alle glorie della patria non poteva che essere «vizioso», poiché lo storico, come Mida, tramutava in «oro di lode» tutto ciò che toccava.

    Il compito, quindi, era quello di intingere la penna non tanto nell’inchiostro dell’affetto, quanto in quello del vero. Marafioti riconosceva che lo scrittore doveva anteporre il certo all’incerto. E si scusava con i lettori se non sempre aveva potuto verificare che coloro di cui scriveva fossero nati e vissuti a Cosenza. Dio, che conosceva ogni cosa, avrebbe avuto il pensiero di dare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».

    Calabresi d’adozione

    Spiriti non negava che molti personaggi celebri da lui descritti erano nati nei paesi vicini e che molti avrebbero potuto criticarlo per averli considerati cosentini. Egli precisava, però, che i paesi della provincia, quantunque lontani dal capoluogo, costituivano comunque le membra di quel corpo che era Cosenza! Rimproverava coloro che, per rendere grande la città, avevano annoverato tra i cosentini uomini come Guido Cavalcanti, nato e vissuto a Firenze, figlio di quel messer Cavalcante posto da Dante nella bolgia degli eresiarchi.

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    Un ritratto di Guido Cavalcanti

    Fiore lamentava «l’altrui rapacità» che aveva rubato alla Calabria i suoi «notabili» figlioli. E forniva con onestà un lungo elenco di personaggi celebri che per ambizione erano stati considerati falsamente calabresi: tra questi nientemeno che i guerrieri Agamennone ed Aiace, il legislatore Caronda, lo storico Erodoto, l’oratore Lisia, il poeta Ennio e l’imperatore Ottaviano Augusto!

    L’olio calabrese e il marchese di Seminara

    In Calabria tutto è bello e tutto è buono. Ma se oggi i produttori calabresi producono olio di ottima qualità in passato era pessimo. Didier scriveva che gran parte della popolazione faceva provvista di pane per un mese e lo mangiava condito con olio rancido. Come si potevano accettare queste privazioni quando viaggiando si attraversavano per giorni interi immensi «boschi» di ulivi e campi di grano?

    Domenico Grimaldi, marchese di Seminara, nel Settecento scrisse un importante trattato per cambiare radicalmente il modo in cui si coltivavano le olive e le modalità di raccolta, spremitura e conservazione. L’olio calabrese era in genere nauseabondo. Per chi era «sensibile alla gloria della nazione», era doloroso sentire i forestieri burlarsi del gusto grossolano dei calabresi che giornalmente usavano un olio che altrove era utilizzato per lampade e fabbriche di sapone.

    Il nobile riteneva che fosse necessario abbattere pregiudizi come quello di non potare gli ulivi e di non spremere le olive appena raccolte altrimenti l’olio avrebbe perso in quantità e qualità. Bisognava, inoltre, sostituire i vetusti e dispendiosi frantoi calabresi con quelli ad acqua alla genovese. E, per dare l’esempio agli altri proprietari, Grimaldi chiamò alcuni operai liguri per impiantare a Seminara un moderno trappeto.

    I proprietari si rivolgono al re

    Egli annotava che i calabresi, avviliti e sfiduciati, per secoli erano stati poco industriosi e non avevano perseguito nessun’arte, provvedendo ai soli bisogni necessari della vita. Riteneva ottimisticamente che i suoi consigli sarebbero stati comunque raccolti. Non era credibile che i proprietari degli uliveti si fossero «congiurati» a voler restare barbari rigettando tutte le novità «ancorché ne vedessero dimostrato l’utile».

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    Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria. Napoli, Raffaele Lanciano, 1773.

    Nel 1771, dopo aver perfezionato il frantoio genovese a Seminara e averne mostrato i vantaggi, dovette constatare con amarezza che le sue proposte non erano gradite ai conterranei. I vecchi «trappetai», incoraggiati dai padroni, screditavano il nuovo oleificio. E il «popolaccio», sedotto e intimorito «non ardiva a domandare l’abolizione delle antiche manifatture». I proprietari degli oliveti, resi vieppiù animosi dalla propria propaganda, portarono la «stravagante» protesta sino al re, implorando che non venissero imposti i nuovi frantoi consigliati dal Grimaldi.

    L’olio calabrese? Buono solo per lampade e saponi

    La caparbietà nella conservazione di certe abitudini mentali interessava più i proprietari che i contadini. Sentendosi minacciati dal cambiamento, i signori difendevano le tecniche tradizionali che da sempre avevano garantito la loro egemonia. Nel Settecento Galanti annotava che le olive prodotte in Calabria continuavano ad essere raccolte con le scope e lasciate macerare in trappeti desueti, cosicché l’olio prodotto risultava rancido, puzzolente e non commerciabile.

    Qualche anno dopo, De Salis Marschlins scriveva che i «mulini da olio» della regione erano simili a quelli del Marocco. E che i contadini coglievano le olive addirittura nel mese di giugno, quando il frutto era marcio e dava poco e cattivo olio. Bartels confermava che la lavorazione delle olive era allo stato arcaico: l’olio calabrese era giallo e maleodorante. Persino quello che altrove era usato per far ardere le lampade, era più puro.

    Carl Ulisses von Salis-Marschlins

    Nell’Ottocento De Tavel osservava che gli ulivi di Calabria erano alberi d’alto fusto che davano ricchi raccolti. Tuttavia, l’olio prodotto era di pessimo sapore e veniva venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Marsiglia e Trieste. Tucci commentava che i contadini, rispettando l’adagio «l’ulivo tanto più pende tanto più rende», raccoglievano le olive da terra e le spremevano, sporche di fango, guaste e puzzolenti in «grossolani» trappeti. Ottenevano un olio «che solamente può servire per i lumi, non essendo bono per gli usi di cucina e molto meno per mangiarlo crudo».

    Olive ammucchiate

    Un funzionario napoleonico confermava che i proprietari lasciavano imputridire le olive sul terreno e nei trappeti spremevano sia quelle buone che quelle guaste col risultato di produrre un olio «imperfetto». Pilati scriveva che un terzo delle olive veniva mangiato dopo averle seccate al sole o al forno, gli altri due terzi spremute e l’olio venduto in gran parte a mercanti spagnoli e genovesi.

    Rilliet asseriva che le olive raccolte erano gettate in un truogolo, nel quale girava una macina che schiacciava il frutto e lo riduceva in pasta che posta su graticci di vimini era sottoposta alla pressa. L’olio che si produceva in Calabria lasciava molto a desiderare, perché un antico pregiudizio i proprietari ammucchiavano le olive in una cantina e non procedevano alla macinazione che quando la fermentazione era già cominciata e così l’olio era meno pregiato di quello di altre regioni e «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».

    Olive nere al forno

    Rebuschini era convinto che il cattivo odore dell’olio fosse causato dalle olive che si raccoglievano una volta cadute ed eccessivamente mature si imbevevano del sapore del terreno. Se a ciò si aggiungeva il sistema primordiale di «fabbricazione» generalmente usato, si capiva perché l’immensa produzione di olio della Calabria era destinata alla combustione quando avrebbe potuto dare uno dei migliori oli del mondo.

    Sistemi primordiali

    Lombroso notava che le olive si facevano maturare sugli alberi finché cadevano e si lasciavano ammonticchiate nei magazzini prima di essere spremute: con questa pratica barbara si ricavava un olio di pessimo odore e peggior sapore, buono solo per le fabbriche di sapone. Per Rebuschini l’olio calabrese aveva gusto e odore cattivo perché le olive erano raccolte una volta cadute e perché il sistema primordiale di «fabbricazione» forniva un prodotto buono solo per la combustione.

    In una inchiesta agraria del 1876 si legge che nella provincia di Cosenza le donne raccoglievano le olive quando cadevano al suolo, le trasportavano dentro sacchi all’opificio oleario dove, conservate dentro cellette in muratura, a volte rimanevano ammonticchiate anche per tre o quattro mesi e l’olio che se ne ricavava «per quanto era più grasso e pastoso, per altrettanto era di odore e sapore nauseabondo».

    L’olio calabrese tre secoli dopo Grimaldi

    Ci sono voluti circa tre secoli prima che i proprietari calabresi ascoltassero le raccomandazioni di Grimaldi. Oggi gli olivicoltori selezionano le olive, le raccolgono prima della loro completa maturazione e, con grande passione e perizia, producono un olio di altissima qualità. Il marchese di Seminara sarebbe felice vedere uscire dai frantoi della sua regione l’olio puro dal colore verde intenso contaminato da inebrianti profumi di piante e minerali.

  • Attenti alle fave: il demone che spaventò il crotonese più illustre

    Attenti alle fave: il demone che spaventò il crotonese più illustre

    La primavera è tempo di fave ma per Pitagora erano un alimento impuro e immondo. Il filosofo di Crotone era un convinto vegetariano ma vietava l’uso delle fave. Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astieniti dalle fave».

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    Busto che raffigura il filosofo Pitagora

    I filosofi non mangiano fave

    Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave» e, secondo Porfirio, voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali.

    I pitagorici uccisi per colpe delle fave

    Secondo Dicearco, Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Eraclide sostiene che, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò in quella città dove pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo. Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.

    Ippoboto e Neante, scrive Giamblico, narrano che il tiranno Dionisio, poiché non riusciva a farsi amico nessun pitagorico, dal momento che rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, per tendere loro un agguato. I soldati si appostarono in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località vicino Taranto piena di voragini, dove i pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare e a mezzogiorno li assalirono levando alte grida, alla maniera dei briganti.

    I discepoli di Pitagora decisero di fuggire e si sarebbero salvati, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, ma s’imbatterono in un campo seminato a fave già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono si difesero con pietre e bastoni ma furono sopraffatti.

    Il mistero delle fave non può essere rivelato

    Continua il racconto di Giamblico sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro: «Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: «Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me».

    Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: «Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata». E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose: «Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?». Al che Millia: «Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione».

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    Il tiranno Dionisio

    Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».

    Piante demoniache

    Sul tabù di Pitagora si sono avanzate varie spiegazioni. Le fave erano piante demoniache, antenate degli uomini, cibo dei morti, intorpidivano il corpo, provocavano il favismo, erano indigeste e via dicendo. Un tabù è difficile da comprendere. Come il mito, per sua natura è bizzarro e illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione del reale, non risponde a delle domande e non da spiegazioni. Il tabù è ambiguo, spesso il suo senso non risiede in ciò che racconta, ma in qualcosa che non racconta; rende manifesti certi meccanismi fondamentali della mente umana, ma non per questo li significa. Il suo compito non è quello di chiarire, ma deformare, ingannare e infittire le oscurità intorno a sé; non è quello di persuadere ma di affascinare, non di spiegare ma di fondare, non di porre domande ma dare risposte.

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    Le fave probabilmente erano un tabù pitagorico

    Fave e tabù

    Gli stessi pitagorici probabilmente non cercavano di svelare il segreto delle fave, non chiedevano di sapere le sue origini, non esprimevano giudizi su di esso. Alcuni sostengono che tabù come quello delle fave rimarranno sempre insoluti e indecifrabili. Baudrillard scrive che ogni interpretazione è qualcosa che si oppone alla seduzione e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia. Ogni interpretazione impoverisce e soffoca il tabù, poiché esso ha una tale ricchezza di significati che non possono essere rivelati dalla logica di un ragionamento. Il tabù delle fave è enigmatico e sconcertante, è il mondo del mistero, della magia e della seduzione. I suoi segreti sono una sfida all’ordine della verità e del sapere e gli uomini non capiscono il senso della sua immagine, ma si immedesimano in essa.

    I pitagorici preferiscono la malva

    Le proibizioni e le prescrizioni pitagoriche hanno un senso solo se viste all’interno di una logica che tendeva a organizzare il mondo in una scala di valori. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei daimon, i daimon prima degli eroi, gli eroi prima dei genitori, i genitori prima dei parenti. In questa scala c’erano poi delle cose pure e impure, buone e non buone, belle e brutte. Il filosofo sosteneva che la fava era demoniaca e la malva santissima, ma tale affermazione non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso.

    La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è quindi del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato.
    La divisione tra le cose permesse e proibite non aveva un significato legato alle loro proprietà intrinseche ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni per dare un ordine. Secondo Aristotele, il dualismo fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio dell’illimitato e il bene del limitato.

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    L’antropologo Claude Lévi-Strauss

    Sostiene Lévi-Strauss

    Il modo di ragionare di chi stabiliva i tabù rientrava in una struttura mentale di pensiero che cercava di decifrare e ordinare in un sistema di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. Lévi-Strauss scrive che l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi attorno ad una struttura binaria e che il passaggio dallo stato di natura a quello di cultura si definisce con l’attitudine a pensare le relazioni sotto forma di sistemi di opposizioni. Dualità, alternanza, doppio e simmetria non costituiscono dunque i fenomeni da spiegare, ma dati della realtà mentale e sociale nei quali riconoscere i punti di partenza di ogni possibile spiegazione.

    Divieti, puro e impuro

    Le regole pitagoriche, dunque, tendevano all’armonia e all’equilibrio, a tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato e armonico. I divieti erano senza contenuto e senza significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico che strutturasse il mondo. I tabù facevano parte di una struttura mentale che contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per porli in relazione. Questa struttura mentale inconscia e universalmente astorica non solo dava ordine al disordine ma era fondamentale per favorire lo scambio tra gli esseri umani: la reciprocità tra gli uomini è stabilita sempre sulla base di proibizioni e le stesse proibizioni hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.

  • BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

    BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

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    Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.

    Prega e distilla

    Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.

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    Alambicco di rame per produrre Gin funzionante nel 1945 (Pagina Facebook Distilleria Fratelli Caffo)

    Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».

    Alambicchi in ogni comune

    È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.

    Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa». E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.

    Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».

    Il primato di Reggio

    Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».

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    Fabbriche di spirito in provincia di Reggio Calabria, da Annali di Statistica, 1893

    Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.

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    San Giorgio Morgeto (RC), castello e fabbrica di liquori e profumi

    Catanzaro e Cosenza

    Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
    Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.

    La Stregaccia di Rossano

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    Testata del 1919 della fabbrica De Florio da www. grappa. com

    La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.

    Amari e altri tonici

    Pubblicità fabbbrica liquori Bosco, Cosenza, 1903

    Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».

    Amaro Magna Sila (Enoteca Stanislao Felice, Cosenza 1928-1929, Archivio Centrale dello Stato, Marchi e Modelli)

    Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».

    Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.

    Pubblicità fabbrica liquori Potorì, Catanzaro,1903

    Paisanella

    «Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.

    Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.

    Alambicchi silani: i segreti della paisanella

    Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.

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    Un vecchio alambicco silano per la produzione al livello familiare (Foto di Francesco De Rose nel libro di Furfaro)

    Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.

    Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.

    Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco

    Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.

    Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.