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  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Quando le lucciole si presero Cosenza

    Quando le lucciole si presero Cosenza

    Una macchina del tempo speciale, la stampa d’epoca, restituisce un’immagine originale della storia e del costume della Cosenza ottocentesca.
    Entrambi rivisti da un’ottica particolare: la prostituzione. Un’attività che la dice lunga sulle abitudini dei cosentini.
    I protagonisti di questa storia, in cui le lucciole stanno in primo piano, sono Francesco Martire, avvocato di grido e sindaco, e Luigi Miceli, deputato radicale allora all’apice del potere.
    Le voci narranti appartengono, invece, ai giornali Il Fanfullino e La Tribuna.

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    Una lucciola d’epoca

    Una città noiosa

    La Cosenza degli anni ’70 del XIX secolo è una città piccola (quindicimila anime circa) e noiosa.
    Quel po’ di borghesia che vi resiste si ritrova al Gran Caffè o al Baraccone, un teatro ligneo che l’amministrazione comunale demolisce per far posto all’ara dei fratelli Bandiera.
    L’opera, che tuttora incide nell’immaginario cosentino, è commissionata allo scultore bolognese Giuseppe Pacchioni, già sodale dei fratelli veneziani e scampato per un soffio al disastro della loro spedizione.

    Lucciole e tariffe

    Tolti questi due locali, ridotti a uno, resta un’alternativa per gli uomini che possono permettersela: le casupole di via Sant’Agostino, piccoli lupanari dove circa cinquanta lucciole esercitano il mestiere più antico del mondo. I più esigenti, invece, possono rivolgersi al bordello vicino a piazza Carmine.

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    La targa di un bordello d’epoca

    È solo una questione di tariffe, che comunque non sono alla portata di tutti: una “marchetta” a Sant’Agostino costa due lire, a piazza Carmine si sale a cinque.
    Per capire meglio, si pensi che le leggi dell’epoca davano il diritto al voto ai maschi venticinquenni che si dimostravano in grado di pagare 40 lire di imposta all’anno.
    Ad ogni buon conto, le casupole di Sant’Agostino restano frequentatissime fino al 1876, quando Francesco Martire le sgombera.

    Via le lucciole da Sant’Agostino

    La morale pubblica non c’entra, perché la prostituzione è legale, grazie ai decreti Cavour che ne regolano l’esercizio sin dal 1861.
    Lo sgombero di via Sant’Agostino è dovuto ai lavori di rifacimento della zona, in particolare all’allargamento della strada che deve collegarsi all’ara dei fratelli Bandiera.
    Questi lavori, che fanno parte di un pacchetto cospicuo di interventi, implicano la demolizione delle casupole.

    Il ribaltone e il sindaco

    A monte di queste iniziative, c’è un ribaltone di palazzo, che avviene proprio nel 1876, quando il sindaco Raffaele Conte, avvocato e patriota risorgimentale moderato, è costretto alle dimissioni.

     

    Luigi Miceli

    Conte, che ha programmato quasi tutte le opere allora in realizzazione, è gradito a quell’élite (poco più del 2% della popolazione) che determina col voto il destino della città. Infatti, la sua lista rivince.
    A questo punto interviene Luigi Miceli, il deputato di Longobardi, prossimo a una carriera ministeriale importante nei governi della Sinistra e uomo forte della Provincia. Miceli impone un suo uomo, Francesco Martire, approfittando del fatto che i sindaci sono nominati direttamente dal re.
    L’escamotage è un inciucio di rara raffinatezza: Martire diventa sindaco ma gli uomini di Conte entrano in giunta.

    Il giornalista e le lucciole

    E le lucicole? Per loro non cambia nulla: lo sgombero previsto da Conte lo farà Martire.
    L’onere (e il piacere) del racconto spettano a una penna di rara efficacia: quella di Alessandro Lupinacci.
    Scrittore, poeta e giornalista, Lupinacci è un moderato dall’ironia graffiante. Editorialista della Tribuna di Roma, fonda a Cosenza, nei primi ’70 dell’Ottocento, Il Fanfullino, un periodico di satira e cronaca che gli somiglia tantissimo.
    Sarebbe improprio definire Lupinacci un conservatore (come appare agli occhi di chi lo legge oggi): secondo i criteri dell’epoca, sarebbe un riformista.
    I passaggi che, con lo pseudonimo di Sandor, dedica allo sgombero sono gustosissimi.

    Il racconto

    «La strada che si sta costruendo lungo il quartiere di S. Agostino e la demolizione di quelle casupole, albergo infelice delle infelicissime generose, ha ricacciato molto più in dentro alla città quelle vittime della prostituzione con grave scandalo della onesta gente che abita in quella contrada, e della morale pubblica».
    Così, il 17 giugno del 1876, Sandor tira la sua brava staffilata sulla situazione.
    Non senza un sottinteso: prima, quando c’erano le casupole, si sapeva anche dove stavano le lucciole. Ora, dopo lo sgombero non lo si sa più.

    Il complesso monumentale di Sant’Agostino

    Ma tutto lascia pensare che la “colonizzazione” di Santa Lucia, che per decenni è stato il “cordone sanitario” della città (e tale è rimasto, anche dopo la legge Merlin) sia iniziato proprio allora.

    Le lamentele

    Dopodiché, Lupinacci si fa carico di una lamentela: «Io vorrei (per essere appagati i giusti reclami che mi giungono), dalla Pubblica Sicurezza, o da chi deve occuparsi di questo ramo di pubblico servizio, che si provvedesse opportunamente e con sollecitudine», prosegue l’articolo del Fanfullino.
    Ma anche il quartiere, dopo lo sgombero, non è messo bene, perché una cosa è demolire le casupole, un’altra bonificare la zona.

    L’Avanguardia, uno dei giornali che raccontarono la vicenda delle lucciole

    Infatti, denuncia ancora Lupinacci: «Nello stesso quartiere vi è dell’acqua stagnante che non trova scolo a causa del materiale gittato dalle demolizioni, acqua che nuoce colle sue fetide esalazioni alla salute degli abitanti».
    Il destinatario delle lamentele (e delle relative esortazioni) è Martire: «Giro questo reclamo all’onorevole sindaco».

    Un esercito di “laide Circi”

    Un anno dopo, la situazione non è risolta. Stavolta lo denuncia L’Avanguardia, il settimanale fondato dal giornalista e scrittore Mario Bianchi proprio nel 1877.
    Già, le lucciole si sono “disperse” in città e alcune di loro sono approdate a Santa Lucia. Ma altre sono tornate nel quartiere, dove danno un po’ troppo nell’occhio.
    Non a caso, L’Avanguardia del 17 giugno 1877 parla di «un esercito di laide Circi» che avrebbe invaso Sant’Agostino.
    Alla faccia della riqualifica…

  • Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane prodotto dai fornai calabresi è eccellente. Ancora oggi rimane il principe della tavola e tutti gli altri cibi sono semplici sudditi. Un proverbio non a caso diceva: “Non c’è cibo di re più gustoso del pane”. Appena sfornato il suo odore e il suo sapore non sono paragonabili a nessun’altro cibo e, mangiandolo, si ha una sensazione di purezza e di gioia. Il pane è sacro, donato agli uomini dagli dei e per Aristofane non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.

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    Il prelibato pane di Cerchiara calabra

    Il pane di grano era un sogno

    In passato era l’alimento più importante nella dieta dei calabresi e, non a caso, si diceva: quannu alla casa c’è llu pane, c’è tuttu e si c’è lla farina, l’ùogliu e llu vinu, ‘a casa è kina (quando a casa c’è il pane, c’è tutto; e se c’è la farina, l’olio e il vino, allora la casa è piena).

    Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei campagnoli non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio.

    Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.

    Pane secco da grattare o bagnare

    Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano».

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    Pastore fra le strade di San Giovanni in Fiore

    Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco». Dal 1878 al 1883 nella provincia cosentina, in una situazione alimentare notevolmente migliorata, si consumava pane di frumento in 93 paesi, in 5 qualche volta e in 53 mai. Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi della Calabria Citeriore, specie nei circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano, il pane era di castagne o di segale, nel resto della provincia di frumentone e solo a Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano, di grano.

    Fornai avidi e farine scadenti

    Il pane prodotto dai fornai aveva comunque spesso un «aspetto cattivo» e «pessimo sapore» perché poco fermentato e perché, rimanendovi frammenti delle «vetuste macine», si avvertiva fra i denti «la presenza di polverio siliceo e calcare». I cittadini protestavano spesso perché il pane venduto era immangiabile e accusavano gli avidi fornai di utilizzare farine scadenti e di ricorrere a vari rimedi per migliorarlo. Utilizzavano solfato di rame, zinco, magnesio, acido borico e carbonato di potassa per accelerarne la fermentazione; carbonato ammoniacale per renderlo più poroso, soffice e durevole; allume, gesso, calce e polvere di marmo per farlo più bianco e pesante.

    Pane bianco solo nei giorni di festa

    I contadini consumavano u mursiellu, detto altrimenti agliu o agghiu e, per il resto della giornata, si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tuostu mantena casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena.

    Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.

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    Oggi si presenta morbido e delizioso, ma il pane nero non troppi anni fa era duro e dal sapore forte

    Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta

    I campagnoli più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorsa ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge e i suoi pistilli o mùnnule, castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane».

    Le donne del cosentino portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.

    Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene

    Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene.

    Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi silani, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». Nel circondario di Cirò una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».

    Minestre di foglie cotte nell’acqua marina

    Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti del Tirreno se la passavano peggio: si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, detto pane de buonu, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati.

    Un colono del Vallo di Cosenza d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale.

    Solo in occasione di lavori particolari come la vendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario dei paesi silani, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.

    Il pane del litorale jonico

    Un giornaliero del litorale jonico in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.
    Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».

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    L’antico rito della mietitura
  • STRADE PERDUTE|  Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

    STRADE PERDUTE| Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

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    Ci sono dei luoghi precisi che hanno il potere di evocare molto più di altri l’incalzare del tempo, l’abbandono speranzoso ma in fondo colpevole, e il rimpianto per un passato non necessariamente idilliaco ma certamente fatto di equilibri più naturali. Uno di questi è Campo del Monaco, a 200mt sul livello del mare, tra il burrone Marianna e il fosso Bambagia: non cercatelo su Google, non è quello che troverete. È un pendio, piuttosto ripido, affacciato sul mare e punteggiato non tanto da ruderi di edifici rurali modesti ma da resti di masserie padronali di ordine superiore, la cui magnificenza doveva splendere su queste colline fino a molto meno di cento anni fa.

    Il bivio per Bonifati

    Su queste colline si arriva facilmente, procedendo sulla SS 18 verso Nord e prendendo il penultimo bivio per Bonifati. Lo ripeto, appena si lascia una strada principale si fa cronologicamente un passo indietro: fuori da un’officina, subito infilato il bivio, un paio di anni fa faceva splendida mostra di sé una vecchia e gloriosa BMW 3.0 csi. Direte «che c’entra?». C’entra, perché se si parla di strade bisogna ogni tanto omaggiare anche chi le strade le batte, le copre e le setaccia materialmente. Omaggio per omaggio, due o tre tornanti più su, un muretto inneggia “Viva il giro”. Era il 2016, e il Giro d’Italia davvero passò faticosamente da qui.

    Finocchietto, mare e monti

    Di fianco, una masseria è stata ristrutturata recentemente, e per fortuna. Forse il nuovo colore non è troppo sobrio ma, considerato tutto il sole che la schiaffeggia, stingerà presto. Ancora un paio di tornanti e si passa tutt’intorno ad una casa-torre, quasi spaccata in due. Dietro di lei, un incomprensibile ponte sul nulla. Anzi, sul crinale: da un lato il suddetto burrone Marianna, dall’altro il suddetto fosso Bambagia (che è molto più “burrone” dell’altro, a dire il vero, e molto più inquietante). Per il resto, nulla: una distesa di finocchio selvatico (ottimo, se distillato…), un panorama a perdita d’occhio (da un lato il mare, fin dove visibilità permette; dall’altro i monti) e nient’altro. Però non è finita qui.

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    Rudere presso Campo del Monaco, in agro di Bonifati (foto L.I. Fragale)

    Un edificio straordinario

    Da un’altra curva si può infilare un sentiero. Procede in piano e continua zigzagando, obbligato dalle rientranze della collina. È un sentiero lungo, e oggi senza apparente funzione. A destra e a sinistra è costeggiato da piccoli poderi, campicelli recintati, ma niente di che, e non una voce. Il fatto è che questo sentiero è l’unica via di accesso (“accesso” per modo di dire…) ad un edificio straordinario. Sto parlando di ciò che resta dell’ex convento di San Nicola: un palazzotto sventrato, con tanto di cappella d’ordinanza, loggiato angolare e finestroni baroccheggianti decorati a stucchi.

    Il valore aggiunto di questo edificio, oltre a quello architettonico (e alla sua impenetrabilità dovuta all’essere circondato da rovi e vegetazione da foresta pluviale) è il fatto di essere anche scarsamente visibile. Il modo migliore per osservarlo è dalla spiaggia di Pietrabianca, con un buon binocolo o un teleobiettivo. O, al limite, procedendo ancora sui tornanti in salita, dall’unico incrocio che si trova appena più in alto (a destra per il centro storico, a sinistra per Aria delle Donne o Sangineto paese) ma da qui non si vedono gli scenografici finestroni sul mare.

    Bonifati, terra di conventi (e satanisti)

    Dalla spiaggia non va confuso con quell’altro edificio maestoso, un’altra masseria abbandonata, poco più a valle del convento, più o meno alle spalle dell’Hotel Sol Palace. L’ex convento di San Nicola è più imponente, più austero, più sofisticato nella struttura.
    Terra di conventi rurali, questa di Bonifati, se a pochissimi km da qui spicca l’altro, quello di San Francesco, ristrutturato una ventina d’anni fa e convertito ad albergo di lusso (quantomeno lo si è sottratto all’uso che abitualmente si faceva dei suoi ruderi, ovvero quello di improvvisati ‘templi’ per attività sataniste).

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    Bonifati, inizi Novecento

    Lunga vita a Bonifati

    E va bene il miraggio dell’industrializzazione, e va bene l’emigrazione amaramente necessaria per tanti… però vale la pena immaginarli, questi luoghi, quando brulicavano di esseri viventi, uomini e bestie, di attività, di rumori, di voci, di versi d’animali. Sembra impossibile ma tutta un’economia e tutta una vera e propria ‘vita’ animava queste campagne che ora restano desolate e mute. Ha resistito una contrada, non lontana da qui, Cirimarco, sulla collina appena sopra Cittadella del Capo.

    Parcheggio la macchina davanti all’unica chiesetta: mentre spengo il motore guardo davanti e l’occhio mi cade sui manifesti dei morti, le ‘mortaline’, come li chiamano da certe parti: 5 o 6 decessi recenti, ok. Ma tutti ultranovantenni. E ti credo: basta guardarsi intorno, e basta pensare al loro stile di vita (classe 1925 o giù di lì…) o alla loro alimentazione. Nota a margine: da qui si dipana una lunga mulattiera selciata, che scende dritta (no, dritta no) verso la marina di Cittadella, attraversando l’altra Contrada vicina, Greco: i Gradini San Vincenzo. Quindi mettiamoci anche l’esercizio fisico, quando i muli non fossero stati d’aiuto.

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    Chiesetta a San Candido di Bonifati

    La costa delle torri

    Da Cirimarco si arriva alle altre due frazioni provvidenzialmente sperdute nell’interno: San Candido e Pero. O, avendo coraggio, su una bretella che riporta all’ardimentosa e lunga dorsale che dalla frazione di Torrevecchia porta a Fagnano attraverso laghi e boschi abbastanza inaccessibili. Torrevecchia, appunto, detta così per la vecchia torre saracena d’avvistamento, costruita proprio lì sull’angolo del costone più ripido del promontorio sul mare: perché, non lo si può dimenticare, Bonifati è anche o forse soprattutto un luogo di mare e anzi, appunto, un Capo: quello spigolo che interrompe la continuità della costa da Capo Suvero a Capo Scalea. Non è un caso che qui si trovino altri relitti di torri o punti strategici (la torre del telegrafo, che ora dà il nome a una contrada; la torre di Capo Fella, la Torre Parise…).

    Dei confini sul litorale bonifatese ho già detto parlando di Cavinia e di Sangineto.
    Tutta la costa meridionale di Bonifati ha ancora i caratteri di quella cetrarese: strapiombi e grotte, insenature abbastanza incontaminate e non prese d’assalto dai turismi peggiori. Vi spuntano scogli, qua e là, che possono fungere da miniature di grandi isole, ottimi per progettarvi sopra altre strade che con minuscoli e arditi tornanti portino dalla base fino alle cime (un santuario? un mirador?).

    Cittadella del Capo (foto L.I. Fragale)

    Bonifati da cinema

    Bando alla fantasia, qui non serve. Dopo aver percorso il breve tracciato della ex SS 18 in contrada Santa Maria, si possono ammirare tre edifici che svettano su questa parte di spiaggia: un ex casello ferroviario equilibrista sulla cima di uno scoglio; un casino padronale semiabbandonato sulla scogliera della Zaccarella (era una residenza minore dei nobili De Aloe) dove Mimmo Calopresti ha girato alcune scene di uno dei suoi film (non il migliore, va detto: L’abbuffata); e poi il principale dei palazzi De Aloe, ovvero l’attuale albergo del Palazzo Ducale.

    Resto dell’idea che però il meglio stia nella parte più nascosta e meno battuta, ovvero lungo quelle due stradine parallele che costeggiano la ferrovia da qui in poi, verso Nord: via Magellano e via Amerigo Vespucci raccolgono la parte forse più amena e riservata di buona parte della costa, benché poste immediatamente sotto la Stazione ferroviaria di Capo Bonifati. E segnano anche uno spartiacque: da qui in poi, solo ed esclusivamente spiaggia, spiaggia, spiaggia, sotto lo sguardo magnanimo della cinquecentesca Torre Parise.

    La scogliera della Zaccarella (foto L.I. Fragale)
  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

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    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

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    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

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    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.

  • Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

    Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

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    Radio e cinema avevano occupato un posto importante nella vita dei calabresi. Ma, verso la fine degli anni ’50, la televisione sconvolse il loro modo di vivere e pensare. I primi apparecchi furono acquistati da famiglie benestanti e, per attrarre i clienti, da proprietari di botteghe e caffetterie.

    Quel sogno chiamato televisione

    I televisori erano un sogno e molti ricordano che alcuni si fermavano davanti alle vetrine che li esponevano per guardare il segnale video. La gente amava la televisione e preferiva i telequiz come Lascia o raddoppia e Il Musichiere agli altri programmi, perché proponevano un’atmosfera festiva che, seppur fittizia, favoriva l’identificazione tra spettatore e giocatore.

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    Mario Riva e Totò in una puntata de “Il Musichiere”

    I telespettatori, a differenza di quanto accadeva con radio e cinema, avevano la sensazione di entrare nel piccolo schermo e dialogare alla pari con i personaggi. I concorrenti del “popolo” che vincevano grosse somme erano, inoltre, un esempio di riscatto sociale. Già: rispondendo ad alcune domande potevano cambiare le proprie esistenze.

    La prima tv star calabrese

    Nel 1959 la maestra cosentina Lya Celebre partecipo a Il Musichiere. In città vi fu un grande entusiasmo: la notizia si diffuse in un batter d’occhio da via Piave alle Paparelle e da Portapiana a Panebianco.
    La Celebre non vinse ma diventò per qualche tempo una celebrità.
    In una lettera a un giornale locale dichiarò di aver vissuto un’esperienza straordinaria: aveva sorvolato la capitale a bordo di un moderno aereo, ricevuto dalle mani di Mario Riva i due gettoni e il musichiere e vissuto per alcuni giorni in quel mondo meraviglioso di cameraman, luci, giraffe e telecamere.

    La magia dello schermo

    La Tv era un prodotto della modernità e della tecnologia più avanzata ma riproponeva un sistema mitico, simbolico e rituale già in parte conosciuto.
    Le immagini televisive, osservava Jean Cazeneuve, in virtù del loro potere di suggestione e fascinazione, penetrano nella vita degli uomini con la stessa semplicità di alcuni apparati magico-rituali presenti nelle comunità.
    Il televisore stesso, in fondo, era un apparecchio magico. Nessuno riusciva a spiegare in maniera convincente perché sul vetro di quella scatola di legno che conteneva marchingegni collegati con un filo ad un bizzarro albero metallico, si potessero vedere luoghi e persone distanti anche migliaia di chilometri.

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    Visione di gruppo della tv al bar negli anni ’50

    Varie persone mi hanno raccontato che c’era chi, vedendo per la prima volta le immagini, andava dietro all’apparecchio per adocchiare se ci fosse nascosto qualcuno, mentre altri rispondevano al saluto dell’annunciatrice quando presentava i programmi della serata.

    Pregiudizi medici: la televisione fa male

    Negli anni in cui la televisione si affermava, non si percepivano i cambiamenti che essa avrebbe provocato. Tuttavia, c’era già chi mostrava una certa contrarietà.
    Qualcuno sosteneva che gli apparecchi sprigionassero “raggi radioattivi” e “onde sonore” pericolosi per l’udito e la vista e, non a caso, i rivenditori consigliavano di guardare lo schermo a una certa distanza e di porvi sopra una fonte luminosa.
    Altri addirittura attribuivano alla Tv la responsabilità di tante bronchiti, specialmente dei bambini che guardavano i programmi seduti sul pavimento e in locali poco riscaldati.

    Pregiudizi di sinistra: la tv è democristiana

    L’ostilità nei confronti della televisione era comunque dettata soprattutto da ragioni politiche. Molti militanti della sinistra calabrese consideravano la Rai al servizio dei partiti di governo e della Democrazia Cristiana. A parte alcuni programmi di carattere culturale e d’informazione, il resto aveva lo scopo di addormentare le coscienze e distrarre il pubblico dai problemi della quotidianità.

    Le gemelle Kessler

    Pregiudizi cattolici: la tv è libertina

    Anche numerosi cattolici osteggiarono la televisione perché erano preoccupati che il piccolo schermo potesse veicolare una cultura consumistica e libertina.
    Alcuni parroci si fecero promotori di proteste contro il carattere licenzioso di trasmissioni come quella in cui le gemelle Kessler con le gambe scoperte ballavano il Dadaumpa.

    La giornalista cosentina: tv scema e conservatrice

    Molti, invece, lamentavano che la Tv proponeva ideali e valori conservatori. Nel 1957 la Baronessa scalza, curatrice cosentina della rubrica Schermi e teleschermi, trovava ridicolo il balletto La belle époque, trasmesso in televisione.

    Cino Tortorella nei panni del Mago Zurlì

    Le danzatrici indossavano gonne e mutandoni lunghi e facevano inchini e mossette in modo da apparire più delle collegiali che ballerine del celebre locale parigino.
    L’acuta e ironica giornalista, inoltre, criticava alcuni programmi televisivi dedicati ai bambini come C’era una volta, in cui Laura Solari narrava noiosissime e banali favolette e quelli in cui l’attore Cino Tortorella, pagliaccescamente travestito da mago, presentava un anacronistico programma di indovinelli a premio.

    Anni’60: la televisione conquista le masse

    Nei primi anni Sessanta, ogni perplessità nei confronti della televisione era svanita e anche le persone più ostili o incredule ne erano conquistate.
    Con la Tv le famiglie non trascorrevano più le serate in casa ma uscivano per riunirsi nei bar, parrocchie, sezioni dei partiti e nelle case di chi possedeva un apparecchio per assistere a telequiz, commedie e programmi d’intrattenimento.
    Guardare la televisione era un’occasione di svago e di socializzazione anche al di là del contenuto delle trasmissioni.
    La semplicità e l’immediatezza delle immagini televisive sembravano inoltre conformarsi alla mentalità di gran parte della popolazione. A differenza della radio e del cinema, la televisione proponeva un universo dove la realtà si convertiva in magia e la magia in realtà.

    La tv entra nelle case 

    Come osserva Cazeneuve, i telespettatori, in fondo, percepivano tale distorsione del reale, ma, simili ai personaggi del mito della caverna di Platone, finivano per amare quel teatrino d’ombre, perché in tal modo evitavano la dura quotidianità, filtrandola e convertendola in spettacolo.

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    Una televisione “domestica” degli anni ’50

    Col passare del tempo il televisore entrò in tutte le case. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivo di orgoglio e prestigio sociale. A chi lo acquistava, amici e parenti portavano la “stimanza” in segno di augurio: di solito una bottiglia di liquore, un pacco di zucchero o caffè.
    Il televisore era considerato parte integrante dell’arredamento ed era posizionato nel luogo più bello e spazioso. Le donne, addirittura, confezionavano un apposito «vestito» che serviva per proteggerlo dalla polvere.
    Con il diffondersi degli apparecchi televisivi scomparvero i gruppi d’ascolto nei locali pubblici e nelle sedi politiche che avevano caratterizzato gli esordi. Ogni famiglia aveva il proprio apparecchio e i programmi Rai sempre più dettavano i ritmi della giornata e del tempo libero.

    A ciascuno il suo programma

    Le donne seguivano assiduamente gli sceneggiati, eredi diretti dei fotoromanzi, ancora diffusi e apprezzati dal pubblico femminile.
    Gli anziani, invece, amavano soprattutto le trasmissioni come di padre Mariano, del professore Cutolo e del maestro Alberto Manzi.
    I bambini, infine, vedevano la Tv dei ragazzi e soprattutto telefilm come Rin Tin Tin, il cane lupo simpatico e intelligente amico di Rusty, un orfanello accolto dal Settimo cavalleggeri di stanza a Fort Apache.

    Ma Carosello conquista tutti

    La trasmissione che conquistava tutte le generazioni era Carosello.
    Preceduti dal suono di trombe e mandolini, gli sketch di Carosello, della durata di un paio di minuti, erano piccoli film girati da noti registi e interpretati da attori famosi. Quelle celebri scenette in bianco e nero aiutavano a dimenticare gli anni della guerra e condensavano sogni e speranze della povera gente.

    Mina fa la pubblicità a Carosello

    Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisione, Carosello era un palcoscenico di divi che diventavano persone tra le tante e la cui fama si stemperava nella quotidianità.
    I ricordi di coloro che ho intervistato erano molto vaghi sui programmi televisivi. Ma quando si parlava di Carosello, leggevo sui volti contentezza: tutti ricordavano con sorprendente precisione prodotti pubblicizzati, musiche, attori e battute.

    Padrona televisione

    La televisione cambiava i modi di vita e le abitudini dei calabresi molto più di quanto non avessero fatto radio e cinema.
    Appena nata, pochi credevano nelle sue potenzialità, ma ben presto fu evidente che nessuno dei media esistenti aveva le sue capacità.
    Fin dalle prime trasmissioni, appariva chiaro che la Tv era un mezzo molto forte e pervasivo: non strumento in mano agli uomini, ma uomini ridotti a suo strumento.
    Gli spettatori diventavano semplici clienti che valevano non per quello che erano ma per quello che consumavano. La televisione delineava una visione del mondo in cui la merce avrebbe assunto un valore assoluto e gli oggetti pubblicizzati avrebbero dominato i desideri e l’immaginario.

  • Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

    Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

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    Volevi sapere cos’era l’antropologia culturale e a cosa serviva l’etnologia? Volevi studiare le scienze umane più rivoluzionarie del ’900?
    Infine, volevi conoscere “sul campo” le ricerche e le contraddizioni che queste discipline fecero esplodere nella “rivolta politica” sessantottina anche le aule polverose delle nostre Università?
    Se stavi più giù di Roma – dove insegnavano Cirese, Lanternari, Tentori, o Tullio Altan – negli anni ’80 poteva capitarti di studiare Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università della Calabria.
    Con il professor Luigi Maria Lombardi Satriani.

    Lombardi Satriani: il papà dell’Etnologia calabrese

    Lombardi Satriani arrivò all’Unical intorno al 1980. Era un docente giovane, ma già affermato presso le Università di Napoli, Austin (Texas) e San Paolo del Brasile. Grazie a lui, in Calabria la storia delle tradizioni popolari e il folklore – che ristagnavano nella filologia e nell’erudizione ottocentesca – si rinnovarono e diventarono Etnologia.
    Ovvero diventarono un insieme di soggetti culturali, politici e sociali da indagare per il valore “contrastivo” della cultura popolare, “la cultura degli esclusi”.

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    Un’immagine recente di Luigi Maria Lombardi Satriani

    Questa disciplina, da cenerentola degli studi si trasformò in «analisi delle culture subalterne, folklore inteso come cultura di contestazione, dislivello interno alla società, in contraddizione con la cultura e l’ideologia borghese dominante».
    E perciò da assumere come «soggetto etnografico e politico degno di sguardo antropologico».
    Quella di Lombardi Satriani fu una rivoluzione epistemologica e politica che sovvertì gli studi tradizionali (Antropologia Culturale e analisi della cultura subalterna, Rizzoli, 1980), ed ebbe il merito di riportare il Sud e le sue culture popolari al centro di una nuova questione meridionale nell’era della modernizzazione.

    Il mio incontro con Lombardi Satriani

    Io ero tra i giovani che ascoltarono quel richiamo. Per me fu un’avventura esaltante, poiché buona parte di questo percorso di ricerca si compiva in quegli anni tra le aule del Polifunzionale dell’Unical, dov’ero studente di Filosofia.

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    Il Polifunzionale dell’Unical

    Infatti, Lombardi Satriani fu prima docente e poi per qualche anno preside di Lettere e Filosofia ad Arcavacata.
    Poi tornò a Roma, per rivestire la prestigiosa cattedra di Etnologia alla Sapienza, di cui è stato professore emerito sino alla morte, avvenuta a 86 anni qualche giorno fa.
    Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più prestigiosi e innovativi del nostro paese.

    Il ricordo di un maestro

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    La copertina di “Antropologia Culturale”, un classico di Lombardi Satriani

    Ma il professor Lombardi Satriani, è stato per me qualcosa di più; il mio primo maestro. Fui suo studente all’Unical e uno dei suoi primi laureati.
    Purtroppo non sono ancora riuscito a ritrovare la foto del giorno della mia laurea, quando Luigi mi proclamò dottore e assegnò la lode e la dignità di stampa alla mia tesi. Poi mi volle poi tra i suoi allievi e fu il mio direttore al Dottorato in Etno-Antropologia. Fu successivamente presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze etno-antropologiche (Aisea). E io fui suo sodale per anni nella Sezione di antropologia e letteratura.
    A quest’esperienza sono seguiti anni di incontri e ricerche comuni, convegni e confronti, in cui fu sempre sollecito di consigli e generoso in riconoscimenti, incoraggiamenti e critiche al mio lavoro.
    Devo a lui, alle sue lezioni, ai suoi libri, l’essere diventato a mia volta antropologo, studioso e docente di Antropologia culturale ed Etnologia.

    Un calabrese di mondo

    Il mio debito verso il professore non è dovuto solo al suo immenso lascito di studioso e intellettuale, spinto a indagare «il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno».
    Ma gli resterò per sempre affettuosamente legato anche per quel che accadeva fuori dall’ambiente accademico.
    Era un uomo di parola, un calabrese di mondo. Una persona affabile, curiosa e gioviale. Un conversatore brillante, una compagnia confidenziale e divertente. È stato uno dei pochi a cui ho aperto le porte di casa.
    Per decine di volte, in anni di frequentazioni, finché ha potuto, è stato mio ospite con reciproco godimento di amicizia, stima e affetto.
    Le cene d’estate con le lunghe chiacchierate sul terrazzo di casa mia a Paola, assieme a mia moglie e mio suocero (entrambi suoi lettori appassionati) e ai miei figli, sono rimaste memorabili. Ogni volta che ci incontravamo rievocavamo quei momenti spensierati e felici.

    Rigore scientifico e meridionalismo

    La vivacità della riflessione di Lombardi Satriani stava nella sua originalissima ampiezza e complessità di pensiero.
    Fu capace come pochi di coniugare il rigore filosofico e scientifico di ispirazione demartiniana nella sua ricerca sul campo, specie quella di ambito meridionalistico.
    L’evocazione letteraria, persino narrativa, che praticò in anticipo sui tempi, resta il tratto tipico della sua scrittura di antropologo.
    Una ricerca, la sua, sempre ricca di sfumature e rimandi letterari. Soprattutto, sempre attenta ad esplorare con rigore i mondi di confine della cultura e della ragione.

    Ernesto De Martino

    La sua introduzione all’edizione Feltrinelli (1980) di Furore Simbolo Valore di Ernesto De Martino, resta un esempio insuperato di efficacia interpretativa e di sintesi tra scrittura saggistica e letteraria.
    Uno sguardo prismatico che lui considerava indispensabile per non trasformare la missione di «partecipazione, umanizzazione e appaesamento» svolta dalle nuove scienze etno-antropologiche, in una sequenza arida di dati e statistiche da compilare in saggio accademico, o in dimostrazione fine a se stessa.
    La temperatura dei suoi scritti era sempre calda e vibrante, colta e appassionata, umanamente partecipe. Mai finalizzata alla dimostrazione per i soli addetti ai lavori.

    Marxista coerente e meridionalista “contro”

    Lombardi Satriani fu nemico allo stesso modo del «passatismo nostalgico» e del «progressismo di maniera».
    Fu inoltre distante sia da un limitante «abbarbicamento all’orizzonte paesano» sia da «fughe in avanti e furori ideologici» che prescindono dalla realtà, «dalla vita concreta e attuale degli uomini e delle donne».
    Mise al centro la vita e la cultura delle classi subalterne e ridiede forza alla critica gramsciana quando in Italia già andavano di moda revisionismo storico e riflusso nelle culture di massa.

    Antonio Gramsci

    Rimase saldamente storicista e marxista critico mentre nel mondo accademico nostrano andavano di moda i “cultural studies” anglosassoni di seconda mano e in molti ambienti si affermava la vulgata strutturalista dell’Antropologia culturale.
    Infine, non ha mai cessato di stigmatizzare la lamentosità e i sofismi di certo meridionalismo paludato e distante, gli eccessi di verbosità di un certo intellettualismo antropologico, oggi riproposto in versione modaiola. Pagine morte che “senza mai spostare in avanti l’orizzonte e lo sguardo problematico, ripropongono senza vie d’uscita concrete, vecchi stereotipi”, e non fanno altro, parole sue, che “attardarsi inutilmente in atavici attardamenti”.

    Nessun erede all’altezza

    «In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani», ha scritto in un suo bel ricordo su Repubblica Marino Niola «è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini».
    L’unico conforto quando si perde un maestro come lui è pensare che ha messo al primo posto l’impegno di testimoniare con la ricerca. E ha consegnato il suo magistero ai successori come un dono da preservare e arricchire. Ma cosa resta di questo alto magistero nel mondo accademico e nell’Università calabrese in cui ha insegnato per anni?
    Purtroppo molto poco. Nessuno è stato alla sua altezza. Chi si è intestato la sua eredità culturale è accademica ha compiuto una mediocre parabola personalistica e di potere. Ciò ha impedito la crescita di un settore di studi che resta fondamentale per la comprensione critica della Calabria, del Meridione e del Paese.
    Un restringimento localistico che nulla ha a che vedere con la lezione di probità scientifica e di libera ricerca intellettuale che in Luigi Maria Lombardi Satriani hanno sempre avuto un difensore e un simbolo di autonomia e coraggio.
    Anche per questo la sua lezione resterà con me per sempre, e a mio modo la terrò viva onorando il suo magistero e la sua memoria come si conviene per un mastro, vero.

  • La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

    La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

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    Sirene morenti ed eroi leggendari, battaglie navali e mostri marini. E torri, e templi e castelli, che si confondono nel tempo lusingando il mito. Sono ricchi di storie i promontori e le rupi che ospitano i 13 fari a presidio dei mari calabresi. Storie che si rincorrono e si sovrappongono a quelle delle dominazioni che si sono date il cambio lungo i secoli. I greci, i romani, i bizantini, gli spagnoli in quei posti strategici a picco sul mare avevano fondato città. Avevano innalzato sacrari e fortificato torri, lungo una trama che attraversa tutti gli 800 chilometri e rotti di coste della regione. E che si lega con il capillare universo di fari e boe segnalatrici che garantiscono la sicurezza della navigazione moderna.

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    Il faro di Capo Suvero (foto Fiorenzo Fiorenza da Wikipedia)

    La leggenda di Ercole e la famiglia del faro

    La leggenda di Ercole che si riposa sullo Jonio dopo avere portato a termine le 12 fatiche, si fonde alla memoria del guardiano del faro che tiene in ordine la lanterna del punto più a sud dell’Italia peninsulare. E quella del tempio di Era, che con il suo tetto di marmo bianco indicava i pericoli della costa. Si confonde con quella della famiglia Sestito che da oltre un secolo si tramanda la responsabilità di tenere sempre acceso il faro di Capo Colonna.

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    Poi Paola, Punta Alice, Capo Suvero e Scilla; Capo Vaticano e Villa e Capo d’Armi: tredici «piccoli luoghi di luce oltre l’invalicabile presenza della notte», gestiti dalla Marina militare. Ma ormai praticamente tutte le funzioni tecniche che una volta competevano ai “guardiani del faro” sono completamente automatizzate. Tredici storie raccontate ne I fari della Calabria, tra natura e archeologia (264 pagine, edizioni La Vie), duplice e dettagliatissimo progetto curato da Ivan Comi.

    È un autore e regista catanzarese. Sulla storia dei fari calabresi ha anche realizzato lo splendido documentario La magia dei cristalli con le musiche originali di Mino Freda e Francesca Prestia.

    A presidio del mare

    Ritagliati in un angolo di un antico castello come a Scilla, o tra le mura antiche di una torre cavallara, come a Paola, i moderni fari calabresi illuminano il percorso dei naviganti dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.

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    Il faro di Paola, la città di San Francesco (foto Ivan Comi)

    Quasi tutte di realizzazione post unitaria, le “lanterne” attive sulle coste joniche e tirreniche della Calabria hanno particolarità che le distinguono le une dalle altre. Così consentono ai naviganti, sia durante il giorno, sia durante le ore di buio, di identificare immediatamente il tratto di costa a cui sono legate. E se di giorno sono le caratteristiche e i colori delle torri – bianche, a bande nere, rosse con bande bianche – a rendere i fari riconoscibili, di notte è la diversa frequenza e intensità della luce – che con le moderne attrezzature riesce a farsi strada per decine di chilometri oltre la terra ferma – a rappresentare la “carta d’identità” del presidio.

    La luce del fari non deve spegnersi mai

    La gestione unitaria di tutti i fari regionali ricade sotto la responsabilità di Taranto, ma sul campo ci sono ancora gli operatori nautici. Quelli che una volta si chiamavano faristi ora si occupano di tenere tutto in perfetta efficienza. Perché, qualunque cosa succeda, la luce del faro non deve spegnersi mai. Sono loro che si occupano di pulire le ottiche e gli specchi che consentono alla luce di farsi strada nella notte. E sono loro che ridipingono la torre con i colori originali quando i danni del tempo e della salsedine lo richiedono.

    Dalle fascine date alle fiamme nei fari antichi, ai sistemi di ingranaggi complicati quanto quelli di un enorme orologio a pendolo da ricaricare con la manovella ogni quattro ore, fino ai moderni computer che gestiscono automaticamente l’accensione delle lanterne e l’attivazione dei sistemi di emergenza in caso di avaria. Tecnologie cambiate radicalmente nel corso nel tempo e che condividono un unico obbiettivo: tenere costantemente acceso il cono di luce che garantisce la navigazione sicura. Resta quello il punto di riferimento certo per le imbarcazioni anche in un’era fatta di gps e transponder.

    Sulle orme del mito

    Nell’immaginario collettivo, i fari sono generalmente associati all’idea di solitudine e isolamento. Una delle particolarità dei fari calabresi è quella però di sorgere in posti già fortemente antropizzati. A Capo Colonna, ad esempio, il faro sorge proprio accanto al tempio di Era Lacinia.E fu proprio la sua costruzione a favorire un nuovo impulso alle scoperte archeologiche di Paolo Orsi, che su quel promontorio ripercorse i fasti di uno dei templi più importanti dell’età antica. Un legame così profondo quello tra la lanterna di Capo Colonna e la sua storia che, a guardia della torre, i costruttori dell’epoca misero una serie di teste leonine che richiamano da vicino i reperti trovati nell’area sacra.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Fari calabresi, acropoli e santi

    Seguendo la costa verso sud, anche il faro di Punta Stilo sorveglia dall’alto il parco archeologico dell’antica Kaulon e poggia le sua fondamenta su quella che gli archeologi considerano l’antica acropoli cittadina. Fu al largo di Punta Stilo che la marina militare inglese mise subito in chiaro la disparità di forze in campo con quelle schierata dall’Italia fascista, in quella che è passata alla storia come la prima battaglia in mare che vide impegnata la marina italiana nella seconda guerra mondiale.

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    Il faro di Capo Spartivento (foto Ivan Comi)

    A testimonianza di quella battaglia, sono rimasti i relitti delle navi affondate a qualche centinaio di metri dalla costa. Risalendo ancora lo Jonio verso lo Stretto, a capo Spartivento l’antico capo d’Ercole – il punto posto più a sud dell’Italia peninsulare, la leggenda racconta di quando San Cristofaro apparse a Sant’Elmo, che in una grotta su quel promontorio viveva da eremita, per ordinargli di accendere una lanterna nelle notti di tempesta per aiutare il passaggio delle navi.

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    Il faro di Punta Pezzo nel comune di Villa San Giovanni (foto Ivan Comi)

    A difesa dei naviganti: dallo Stretto a Paola

    Operativo dal settembre del 1867 è considerato dalla Marina come uno tra i cinque fari più importanti del Paese. Qualche chilometro ancora, e a presidio dell’ingresso nello Stretto, nel comune di Villa San Giovanni, si trova il faro di Punta Pezzo. Costruito alla metà degli anni ’50, accoglie con la sua luce rossa intermittente i natanti che attraversano il braccio di mare che la separa dalla Sicilia. E poi Scilla, dove la lanterna è stata sistemata dentro il cortile dell’antico castello dei Ruffo. Proprio sul promontorio dove Omero fa vivere il mostro marino dalle multiple teste flagello dei naviganti.

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    La luce che spunta dal faro di Scilla (foto Ivan Comi)

    E, ancora, Capo Suvero, risalendo il Tirreno. QUi la luce del faro illumina la costa che secondo il mito ospitò il corpo senza vita di Ligea, la sirena “melodiosa” punita con la morte per l’inganno di Ulisse, che era riuscito a evitarne i richiami facendosi legare all’albero maestro. E infine Paola, dove la lanterna è custodita all’interno della vecchia torre di guardia. Quella che un tempo serviva ad avvisare la popolazione delle incursioni saracene e che ora guida al sicuro le imbarcazioni che si avvicinano alla costa.

  • Quasi cent’anni di solitudine

    Quasi cent’anni di solitudine

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    Del capolavoro di Garcia Marquez sembra condividere un’intuizione: le porte esistono perché qualcuno le chiuda. Per raccontare i suoi novantanove anni di vita non basterebbe un libro, figuriamoci un articolo: è la prima cosa che dice mentre ripone sul comodino il ritaglio di un giornale ingiallito e fa segno di accomodarsi. Da decenni insieme alla moglie abita in una casa di una sola stanza persa in un labirinto di strade strettissime. Il grande letto, il cucinino e la televisione che a volume alto spara le notizie del giorno.

    Cordì stringe la foto di Alvaro (Foto Salvatore Intrieri)

    Nato a Bovalino, ha passato metà della propria vita a rimediare a quella che l’ha preceduta. Degli anni di infanzia e giovinezza ricorda con orgoglio solo un’amicizia speciale, quella con Corrado Alvaro. Infatti, in una stanza disseminata di santini e immagini sacre, il posto d’onore spetta a una grande foto in bianco e nero dello scrittore di San Luca. Le sue mani la indicano stringendo convinte un accendino azzurro come i suoi occhi. La fine della sigaretta nel posacenere è il segno che possiamo iniziare.

    L’incontro di Cordì con Alvaro e Pirandello

    Alvaro e Pirandello ebbero in effetti un rapporto confidenziale, fatto di molti incontri. Lo scrittore calabrese ne riferisce in diversi episodi della sua intensa produzione letteraria. Fra queste, memorabili quelle nel libro Quasi una vita, il diario edito da Bompiani che gli valse il Premio Strega nel 1951. In quelle pagine Alvaro di Pirandello riporta anche queste parole: “Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.

    Errori di gioventù

    Il bambino che ha conosciuto questi due giganti ora è il vecchio che è disposto a fare i conti con le colpe della sua vita: «Da giovane non capivo tante cose, perciò ho fatto degli errori». Si scurisce nello sguardo e la voce diventa più roca quando parla di “uomini d’onore”. «Ho iniziato a fare la guardiania ai terreni, con i turni di notte, armati. Deve capire, era gente che pagava bene… e noi avevamo visto tanta miseria». Dice che la chiamavano in modi diversi a Locri e a Reggio, a Cosenza e a Crotone, al tempo in pochi sapevano, ma oggi è chiaro a tutti cosa sia la ’ndrangheta.

    In pochi secondi si compie nello stanzino un efficace trattato sul salto di qualità di questa organizzazione criminale ormai globalizzata. L’uomo di quasi cent’anni di vita snocciola fatti con la precisione degli accademici, ma con il patema di chi quelle cose le ha vissute davvero: la morte banale del capobastone più temuto, la strage in piazza del mercato, le famiglie di pastori che formano imprese edili capaci di diventare in pochi anni vasti imperi. Tutto grazie ai sequestri di persona e agli appalti pubblici, presi con la forza, a volte con vere e proprie irruzioni negli uffici comunali.

    Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934

    Fuga d’amore

    La stella di questo uomo segue il corso di questi eventi e sembra ormai segnata, ma cambia all’improvviso insieme a quello di una ragazza di 17 anni, nel cielo di una sera di maggio. «Deve immaginarla, era una figliola assai bella, di povera gente. Un farabutto se l’era presa con l’inganno, raccontando al padre che l’avrebbe portata al paese e fatta lavorare da un dottore». Invece viveva segregata in un piccolo appartamento, abbastanza vicino a casa sua. Racconta di come un giorno ha trovato lo slancio dell’onore vero: così al tramonto ne organizza la fuga e prima che faccia di nuovo giorno, risalendo le fiumare, riesce a riportarla dai suoi genitori.

    Un duello ad armi impari

    Pare che i fatti gli stiano passando davanti ancora una volta, come nella scura sala del vecchio cinema del paese. Dice che non sapeva bene cosa stesse accadendo in quei frangenti, ma cosa l’attendeva il giorno dopo ancora, lo ha sempre saputo. Così quando, di nuovo a sera, quel poco di buono bussa alla sua porta, i rintocchi sul legno hanno il suono della morte.

    «Io non rispondevo e lui insisteva: “Ti debbo parlare”. Così mi sono messo la pistola sotto la giacca e sono andato con lui. Sotto lo stesso ponte che avevamo usato per scappare la notte prima, stavolta c’erano quattro uomini ad aspettarci. Codardi: cinque contro uno, ma ero pronto, sa? Se dovevo andare all’inferno me ne sarei portato almeno tre di loro con me…».

    La guerra in Africa

    A salvarlo invece fu un caso. O, meglio, un uomo. Tornando dalla pesca passò di lì al momento giusto e con un grido risolse lo stallo. La resa dei conti era solo rinviata.
    Ma prima di lei arrivò la guerra, l’arruolamento a Cosenza, l’addestramento in Piemonte, i lunghi viaggi e la campagna d’Africa. Il racconto si fa sempre più dettagliato, fino alle bombe degli inglesi che lo mandano sotto un metro di detriti.

    La battaglia di El Alamein

    «Il capitano che mi ha aggiustato il braccio nell’ospedale di Tunisi, dove sono stato per tre mesi dopo El Alamein, bestemmiava e gridava: “Loro fanno la guerra e poi mandano questi figli di mamma a morire”. Era contrario alla guerra, e lo eravamo anche noi».
    Dopo la guerra quegli occhi decidono che di morte ne hanno visto abbastanza. Tornato in Calabria, ritrova l’amore della donna che aveva conosciuto prima di partire e non la lascia più. Insieme se ne vanno lontano, sperando di lasciarsi tutto alle spalle. Dopo molti anni, però, nella piazza del paese, arriva un’auto scura.

    Una nuova vita

    Erano tempi in cui i telegiornali litaniano ogni giorno cognomi uguali al suo: è stata la madre delle guerre di ’ndrangheta, che in 40 anni solo a Locri e dintorni ha lasciato a terra quaranta corpi dilaniati dall’odio più cieco. «Io leggevo, ma non volevo saperne più. I miei parenti hanno capito e mi hanno lasciato in pace, altrimenti avrebbero eliminato anche me. Corrado Alvaro lo diceva che non si sconfigge questa dannata malattia, ma forse non pensava che saremmo arrivati a questo. Che devo dirvi, si vede che doveva andare così».

    Corrado Alvaro

    L’appuntamento

    Indica la tv, chiede di avere una copia della foto con in mano il ritratto di Corrado Alvaro e saluta. Il prossimo appuntamento è per il suo centesimo compleanno, vuole un pacchetto di Ms dure da venti per regalo, ma al tabacchino c’è una piccola foto in bianco e nero di un giovane adornato di baffi, giacca e dolcevita: è proprio lui. Dietro c’è scritto: “Quale ricordo a tutti coloro che in vita gli vollero bene e che in morte lo ricordano”. Fatto salvo della moglie e di pochissimi, Enzo è morto in solitudine in quello stesso letto, poche settimane dopo l’intervista. Così, mentre i funerali dei boss vengono celebrati da folle e fanno il giro del mondo, dell’uomo che ha avuto il coraggio di ribellarsi restano una foto sbiadita e venti sigarette dure.

    (ha collaborato Salvatore Intrieri)

  • Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

    Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

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    Segregati in casa o rinchiusi in manicomio, in Calabria come altrove. Nel ‘900 le famiglie dei “matti” avevano poche alternative. Dovevano tenerli nascosti, rassicurare i condomini, sfuggire agli sguardi e alle occhiate compassionevoli. Oppure internarli. Non si era ancora imposta la necessità di un linguaggio meno incline alla barbarie. Non si discuteva se fosse più giusto chiamarli disabili, diversamente abili o persone con disabilità. Li definivano “spastici”, “handicappati”, “anormali psichici”. Questi termini coprivano un arco ampio di casi, dalla sindrome di Down al ritardo mentale, passando per le menomazioni fisiche e i disturbi della personalità. Addirittura qualcuno scambiava ancora le sofferenze cerebrali per possessioni demoniache.

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    Reggio Calabria: l’Istituto di rieducazione per anormali psichici, manicomio cittadino (foto Rosario Cassala)

    «Ti chiudo a Girifalco»

    Il paesino di Girifalco, a partire dalla seconda metà dell’800, divenne così un’antonomasia. Se Gorgonzola è sinonimo di formaggio e Verona evoca l’amore di Giulietta e Romeo, «ti chiudo a Girifalco» in Calabria voleva dire che non stavi bene con la testa e rischiavi di finire in manicomio. Oggi lo stigma del disagio psichico rimane. Chi ne soffre, tende a dissimulare. E i suoi parenti lo circondano con una silenziosa cappa protettiva.

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    Girifalco, un internato e un cane sdraiati nel cortile della struttura (foto Rosario Cassala)

    Eppure il clima intorno alle patologie psichiatriche sembra in parte mutato. Il merito è dei tanto vituperati anni Settanta: il decennio del “Vogliamo tutto” e dell’insurrezione contro i poteri dello Stato impose anche conquiste civili e diritti inediti: lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’interruzione di gravidanza. E la legge 180 del 1978, che poi ha portato alla chiusura dei manicomi.

    La Calabria da manicomio di Lombroso

    «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere», scrisse Franco Basaglia, padre della rivoluzione nell’ordinamento negli istituti psichiatrici.

    In Calabria il manicomio di Girifalco fu istituito nel 1881, quando le teorie di Cesare Lombroso si stavano radicando nel resto del Paese: la forma del cranio dei calabresi, le arcate sopraccigliari, l’irregolarità del volto e degli zigomi sarebbero segni evidenzianti la nostra natura di “razza criminale”. Lombrosiani furono i direttori del manicomio. A esso lo storico Oscar Greco ha dedicato un’opera monumentale, I demoni del Mezzogiorno (Rubbettino Editore).

    «Quando avviai la ricerca nell’archivio di Girifalco – spiega Greco, docente universitario di Storia contemporanea – provai sensazioni forti. Mi ritrovai tra le mani le cartelle cliniche, quindi la vita delle persone, le ingiuste detenzioni, gli assurdi principi lombrosiani in base ai quali furono internati tanti uomini e in particolare moltissime donne che di folle non avevano niente. Furono recluse solo perché non accettavano la condizione di madre, angelo del focolare e tutto ciò che nella cultura maschilista dell’epoca le relegava in una condizione di subalternità. In più, da calabrese prima ancora che da studioso, rimasi sbigottito dinanzi alle descrizioni aberranti delle caratteristiche somatiche dei malati».

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    In manicomio a Reggio Calabria si finiva pure per la propria identità non conforme alla morale comune (foto Rosario Cassala)

    La legge Basaglia e il lager calabrese

    Potrà sembrare strano, ma all’epoca erano proprio le convinzioni protosocialiste a ritenere valida questa catalogazione sociale di impronta razzista. La ricerca di Greco sta adesso riguardando la fase finale dell’esperienza di Girifalco, quella della sua chiusura. «Ci sono dei chiaroscuri. La legge Basaglia – prosegue Greco – affidava alle Regioni il compito di provvedere ai loro cosiddetti pazzi. Possiamo immaginare la Regione Calabria, con ancora l’eco della rivolta di Reggio, quali provvedimenti adottò negli anni successivi al 1978. Praticamente nessuno! Nel 1992 un deputato dei Verdi, Edo Ronchi, effettuò delle ispezioni. A Girifalco non lo lasciarono entrare, lui chiamò i carabinieri ed entrò con i militari nel manicomio. Scoprì un lager».

    Una vita da pazzi

    Da quel momento iniziò un «doloroso percorso di chiusura. Si rimossero le sbarre dalle finestre, però – continua Greco – mancava il personale che si occupasse di questi pazienti. Il manicomio non era più una struttura provinciale, bensì terra di nessuno. Si assistette a fughe e suicidi. Oggi sono rimasti circa 20 pazienti, perlopiù anziani. Alcuni di loro, quattro per la precisione, erano presenti già ai tempi dell’approvazione della legge Basaglia. Sono ormai istituzionalizzati in quel luogo. Per loro il tempo è stato scandito dai cicli dei diversi direttori. Quando con la memoria ripercorrono il passato, identificano ogni periodo con la qualità dei pasti nel refettorio, se si mangiasse meglio o peggio.

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    Nel cortile del manicomio di Reggio Calabria (foto Rosario Cassala)

    Fuori da lì non hanno più parenti. Se uscissero, chi se ne prenderebbe cura? Non concepiscono una vita diversa da quella della clinica psichiatrica, perché le loro esistenze si sono svolte al suo interno. Hanno perso una dimensione della libertà, anche se mi chiedono come si stia fuori. Un paziente, in particolare, mi dice spesso che i veri pazzi siamo noi, quelli che viviamo all’esterno, nel cosiddetto mondo dei normali».

    Il paese della follia

    Un ulteriore radicale cambiamento di scenario potrebbe avvenire dal prossimo 1° luglio, quando a Girifalco aprirà la Residenza Esecuzione Misure Sicurezza, attigua all’ex manicomio. In Calabria ce n’è già una.
    «C’è grande attesa. Su questo tema – chiarisce Greco – la comunità è spaccata. Girifalco tiene molto a essere riconosciuto come paese della follia. E ne va orgoglioso. Anche in anni precedenti alla Basaglia, promosse un inedito modello di integrazione. La Rems è diversa. Non ci sono i pazzi “buoni”, bensì quelli potenzialmente “cattivi”, provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che si sono macchiati di crimini. È un carcere a tutti gli effetti, un’istituzione totale. Grandi sbarre, recinzioni altissime, videosorveglianza. Gli abitanti di Girifalco hanno dovuto accettare questo tipo di struttura e sperano che, come è già avvenuto un secolo fa col manicomio, la Rems possa diventare anche un’occasione di lavoro».

    Lo stereotipo capovolto

    Questo Comune ha saputo ribaltare i pregiudizi regnanti intorno al disagio psichico. Sin dall’inizio, infatti, la direzione del manicomio favorì la coesistenza dei pazienti col resto della popolazione e un percorso terapeutico fondato sulle porte aperte e sull’ergoterapia, cioè il trattamento basato sul lavoro collettivo. «È un paese che vive – conclude lo storico – e si è costruita una sua identità nel rapporto con la follia. Ha pure istituito un premio letterario che ha scelto la pazzia come tema. È stato ideato dallo scrittore Domenico Dara.
    I suoi primi romanzi, per esempio Appunti di meccanica celeste (Nutrimenti Edizioni), sono ambientati a Girifalco. È la sua Macondo».

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    Un uomo rinchiuso a Girifalco mostra i suoi appunti (foto Rosario Cassala)

    Prigionieri del silenzio

    Un eccezionale lavoro di ricerca sulle immagini e i corpi è stato realizzato da un altro calabrese, il fotografo Rosario Cassala. Negli anni Ottanta produsse un reportage negli istituti calabresi che all’epoca si chiamavano ancora di “igiene mentale”. In quello di Reggio, tanto per citare uno dei nomi delle pazienti, fu ricoverata da giovane persino la mistica Natuzza. Cassala ha voluto guardare negli occhi gli internati.

    «In un manicomio – racconta il fotografo – sono entrato per la prima volta da bambino. C’era un mio zio ricoverato. Contro il volere di tutti, lo andai a trovare. Ci ritornai perché avevo avuto l’impressione che a queste persone mancasse l’anima, che fossero state private della dignità. In tutti questi anni ho mantenuto riservate le foto, perché alcune riviste le pubblicarono in modo strumentale, ripetendo la solita lamentazione retorica sulla Calabria degradata. Fingevano di non sapere quanto in realtà sia più complessa e vasta la problematica del disagio psichico. Così mi decisi a far sparire queste fotografie. Dopo 37 anni ho iniziato a tirarle fuori. Ormai rientrano nel patrimonio storico. Parlano da sole».

    Uno spettacolo che non si dimentica

    All’epoca in cui entrò nelle strutture psichiatriche, assistette a scene traumatizzanti. «Soffrii tantissimo. C’erano persone – spiega Cassala – che mangiavano le proprie feci, altre legate mani e piedi ai letti di contenzione. Sebbene avessero questi comportamenti anomali, mi soffermai molto sulla loro serietà. Diversi pazienti si trovavano in manicomio non perché soffrissero davvero di un disagio psichico. Erano senza famiglia oppure avevano litigato con qualcuno, erano andati in escandescenze e così li avevano buttati lì.

    Mia nonna fu molto forte, riuscì a riportare fuori mio zio, suo figlio. Ma fu uno dei pochi. Quando continuai ad andare dentro, lui era stato ormai dimesso. Avrei potuto darmi pace: ormai il problema che avevamo in famiglia, era risolto. Invece continuai a recarmi in quei luoghi. La mia vita è rimasta segnata da quell’esperienza. Ma non me ne sono pentito. Sono orgoglioso di essere riuscito a rendere evidenti quelle persone nella loro corporeità, rispettandole».

    I Basaglia di Cosenza

    In giro per la Calabria non sono poche dunque le sensibilità come quelle dello storico Oscar Greco e del fotografo Rosario Cassala, maturate in anni di approccio diretto. Pochi sanno, per esempio, che nel secolo scorso, tra i primi a inquadrare questa problematica con lo sguardo dell’amore, del rispetto e della dignità umana, furono Piero Romeo e Padre Fedele Bisceglia. Molto conosciuti, a Cosenza e oltre, per il loro ruolo di leader del tifo organizzato, per i viaggi solidali in Africa e il sostegno fattivo agli indigenti, sinora non è mai stato approfondito l’approccio al disagio mentale che ebbero all’interno della mensa dei Poveri, sorta negli anni Ottanta su corso Mazzini a Cosenza e poi trasferita nei pressi del santuario del Crocifisso. Oltre a un piatto caldo e a un letto per non trascorrere la notte all’aperto, nell’Oasi Francescana tantissime persone fragili trovarono amicizia, ascolto, accompagnamento.

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    Un uomo ricoverato a Girifalco (foto Rosario Cassala)

    Piero aveva un album delle loro fotografie. Lo custodiva con scrupolosa riservatezza. E tra uno scatto e l’altro, inseriva la propria immagine e quella di tanti altri suoi amici, concittadini che presumevano di essere “normali”. Ai volontari e agli ultrà cresciuti intorno a lui, ai pochi che le mostrava, amava ripetere che dietro ognuna di quelle foto c’erano delle storie umane profonde. E che di ogni persona bisognava imparare a interpretare il linguaggio e le richieste. Guai a farsi beffe di loro: «Il confine è sottile. Lo oltrepassiamo ogni giorno. E nemmeno ce ne accorgiamo».

     

    Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dal reportage “Prigionieri del silenzio – Viaggio nei manicomi calabresi” di Rosario Cassala. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo.