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  • Polpo porcone: viagra dei mari

    Polpo porcone: viagra dei mari

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    Il polpo è una prelibatezza. In Calabria lo si prepara soprattutto ad insalata. Prima si eliminano occhi, becco e vescichetta, poi lo si cuoce in acqua bollente leggermente salata a fuoco molto basso. Non appena diventa tenero, si serve tagliato a tocchetti, con capperi, olive, pomodorini, foglie di basilico e peperoncino.

    Una cattiva fama

    Nel corso dei secoli, tuttavia, il cefalopode non ha goduto di buona fama. Anzi, era considerato di non facile assimilazione.
    Ad esempio, Galeno e i medici della scuola salernitana scrivevano che non bisognava mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, resistevano alla digestione e avvelenavano il sangue.
    Nei trattati di cucina in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i polpi incitassero alla incontinenza, erano poco nutrienti e particolarmente dannosi per lo stomaco.

    Pareri contrastanti

    Il polpo ha sempre affascinato gli uomini, che hanno espresso giudizi contrastanti. Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava catturare.
    Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori dall’acqua.
    Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per impedirne la chiusura.

    Un busto di Aristotele

    Il polpo fifone

    Secondo alcuni esperti il polpo era un animale vigliacco, che scappava di fronte alla minaccia, mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi tentacoli.
    Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di fori cambiasse colore come quella di un camaleonte per la paura.

    Invece no: è tosto

    Per altri studiosi il polpo era, invece, un animale coraggioso e, quando raggiungeva una certa grandezza, conseguiva una forza tale da essere considerato una «tigre del mare». L’arcivescovo Olao Magno Gotho raccontava che fosse feroce, crudele, aggressivo e preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al combattimento. Perciò aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai, pescatori e palombari.
    Maier sosteneva che il polpo era il simbolo del coraggio: infatti era raffigurato nelle monete di alcune città della Magna Grecia per esprimere la forza e il carattere guerriero degli abitanti.

    Spendaccione o risparmiatore?

    Giovanni Fiore, ha interpretato una moneta di Thurio sui cui lati erano raffigurati un delfino e un polpo.
    Secondo lui il primo simboleggiava la volontà di girare per il mondo come un pellegrino. Al contrario, il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, esprimeva la sedentarietà e la cura per i beni.
    Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse un dissipatore di sostanze e un divoratore senza ragione. Gli Egiziani, ad esempio, lo utilizzavano nei geroglifici per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della propria potenza.
    Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura e a non disprezzare le altre.

    Erasmo da Rotterdam

    Il polpo secondo i santi

    San Paolo si era comportato come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone leggi e tradizioni.
    Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare: un pesce molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere nefandezze e soddisfare i loro interessi venali.

    E secondo i saggi

    Eliano e Picinelli asserivano che il polpo fosse così avido e ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro cibo.
    Invece per Ateneo e Plinio le mutilazioni dei polpi erano dovute ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie alla loro vischiosità delle membra, sfuggivano i tentacoli. Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica.

    Bronzetti siracusani raffiguranti un polpo

    Il cefalopode simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia. Insomma, i vizi riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i Siracusani.
    D’altro parere lo studioso Testa, secondo cui il polpo incarnava l’immagine della città siciliana. Era infatti immortalato assieme a una stella marina in alcuni piombi di navi mercantili, per simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove dimoravano i polpi.

    Il mollusco “porcone”

    Il polpo era considerato un animale “impuro” perché lascivo e libidinoso.
    Secondo gli Egiziani indicava un uomo incapace di staccarsi da una donna. E, secondo loro, solo l’erba pulicaria riusciva a farlo desistere dal coito.
    Si diceva che la bramosia sessuale spingesse i polpi ad accoppiarsi ripetutamente. Di più: erano così insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla propria corona di tentacoli.

    Il polpo? Meglio del Viagra

    Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume» svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale persino tra i deboli.
    A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che desideravano procreare, acquistavano a caro prezzo i polpi essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del Mediterraneo.
    Anche le donne, per favorire il concepimento, inghiottivano pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro, coriandolo e cumino.
    Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale, così come accorciava la vita agli stessi cefalopodi.

    Troppo sesso fa male, anche ai polpi

    Plinio e altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione.
    Il naturalista calabrese Minasi confermava che fosse proprio la brama sessuale a condurre alla morte i polpi prima del compimento di due anni.
    Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici.
    Il citato Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il veemente coito, si debilitavano al punto di farsi portar via dalle loro tane e divorare da fragili pesciolini.

    Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le sue carni spingevano alla copula. Come se non bastasse, vietava anche il consumo d’ortiche marine perché, bollite o fritte, anch’esse afrodisiache.
    I polpi a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini.
    La brama sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno all’altro, erano tirati sulla barca.

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    Il polpo era addirittura additato come simbolo del demonio

    Polpo, padre dei vizi?

    Nel mondo antico il polpo incarnava le cattive abitudini degli uomini e i predicatori cristiani lo additavano come simbolo del demonio. Al contrario, in alcune città marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla puerpera.
    I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi.
    Un proverbio antico diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che non erano né tutte buone e né tutte cattive.

    Il polpo bifronte

    Il pensiero mitico va oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza contrastarsi: sono aspetti complementari di una realtà unica.
    Il polpo indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina. Proprio questa convivenza degli opposti alimentava il suo mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno accanto all’altro.

  • Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    La canapa è come il maiale, non si butta via proprio nulla. Lo sostengono a gran voce coltivatori e commercianti che negli ultimi anni, anche in Calabria, hanno deciso di puntare sui molteplici usi della cannabis industriale, principalmente nei settori tessile, alimentare e della cosmesi. Sono tante le aziende calabresi, soprattutto a carattere famigliare, che hanno deciso di coltivare a cannabis appezzamenti di terra prima destinati all’incolto, applicando nuove tecniche e tecnologie a una coltura che si pratica nelle province di Calabria Citra ed Ultra già da cinque secoli.

    Swinburne a Pentidattilo e la migliore canapa della Calabria

    Nel 1777 lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne percorreva in sella a un cavallo il tratto di costa ionica da Bova a Reggio Calabria quando s’imbattè in “un paese delizioso”, Pentidattilo. Qui ebbe modo di apprezzare che «le condizioni dell’agricoltura erano molto migliori di quelle che avevo visto finora in questa provincia». Così come che «la terra è coltivata con perizia e cura maggiori e di conseguenza dà raccolti più ricchi». Il giudizio finale dello scrittore è netto e lusinghiero: «La sua canapa è la migliore della Calabria». Era tempo di raccolto e il colto viaggiatore non poté fare a meno di annotare che, nonostante l’impegno, «sembrava che [i contadini] ci mettessero troppo per la scarsità di manodopera».

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    Strumenti per la lavorazione dei filati. Dipignano,, Museo del rame e degli antichi mestieri. (foto L. Coscarella 2019)

    L’erba buona del marchese

    Il primo a proiettare un poderoso fascio di luce su «queste due derrate così utili», il lino e appunto la canapa, è il marchese Domenico Grimaldi. L’opera Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (Napoli, 1770) è un’attenta disamina in perfetto stile illuminista e riformatore dello stato dell’economia agricola della parte meridionale della regione. L’obiettivo è il superamento dell’ignoranza, dell’indolenza e della rassegnazione delle classi dirigenti. Ossia quelle che impedivano la piena valorizzazione dei tanti “tesori” a portata di mano. Grimaldi definisce quella della canapa una «coltura ristrettissima». Eppure, commentava, «potrebbesi nella Calabria dilatare assai più, essendovi una quantità immensa di terreni, dove la canapa riuscirebbe della più sopraffina che vi sia». Il clima moderatamente caldo e i «terreni leggieri» del sud della Calabria determinerebbero secondo Grimaldi «file assai più fine». Altra cosa, dunque, rispetto a quelle venute su in «terreni forti, ed umidi» e climi freddi.

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    Una raccoglitrice di canapa

    Purgare e pettinare la canapa

    Da buon illuminista Grimaldi fa parlare i numeri e l’esperienza diretta. Da 25 libbre di canapa di scarsa qualità, buona soltanto per la produzione di corde, racconta di essere riuscito a ricavare «libre 9 e mezza di finissima, che non era inferiore al più bel lino d’Olanda e, libre 14 di stoppa così bella, che se ne poteva far ovatta, come il cotone, e che filata ha reso un filo anche bellissimo». Il “segreto” risiede a suo parere nell’ultima scoperta «sulla maniera di purgar la canapa». Quale? Nettarla da quelle «cannucce non ancora ben macciolate», cioè dalla parte più grossolana. Con questo metodo «nella Provincia si potrebbe avere la più bella, e finissima canapa del Mondo, le stoppe veramente eccellenti, e che servirebbero a più usi».

    Un’arte femminile da perfezionare

    Riguardo alle fasi cruciali della pettinatura e alla filatura Grimaldi parla chiaro. La canapa calabrese potrebbe acquistare in qualità se pettinata con «pettini francesi, e la ver’arte di pettinare». Le donne calabresi, precisa, «filano alquanto bene». Ma nessun barone o ricco proprietario ha mai pensato di perfezionare la loro arte facendo «venire qualche contadino forastiero perito della coltivazione della canapa; e delle buone filatrici e tessitrici». Coltivando la canapa in Calabria alla «maniera forastiera», facendo cioè arrivare degli esperti «per insegnare a manifatturarla», i baroni o ricchi proprietari potrebbero impiantare una fabbrica di tele fine. I costi? Secondo il marchese «con meno di tre mila ducati si potrebbe introdurre una picciola fabbrica di tele, ed a misura potrebbe crescere, e rendersi considerabile».

    Canapa in Calabria: i cànnavi di Corrado Alvaro

    Di canapa scrisse anche Corrado Alvaro. Lo fece nel 1941, in Civiltà, una poco conosciuta “Rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma”. L’articolo, corredato da belle fotografie, era dedicato alla produzione nel Bolognese e nel Ferrarese. Ma non manca un riferimento al Meridione: «La canapa è cosa vecchia come il mondo nostro Mediterraneo. Non ha mai mutato nome, e si chiamò “cannabis” in greco come in latino. In quasi tutta l’Italia meridionale serba questo nome: si chiama “cànnavi”. In bolognese “cànnva”. In sanscrito era “cana”[…] Con la lana e il lino ha vestito l’umanità per migliaia di anni».

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    La lavorazione della canapa, foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numero di “Civiltà” del 1941

    La provincia di Reggio era quella dove la canapa trovava terreno fertile alla sua proliferazione. Superava persino il lino tra le piante tessili utilizzate. «Nei paesi del circondario di Reggio, e massime nelle campagne adiacenti il capoluogo, si coltiva su larga scala la canapa e subordinatamente il lino, che crescono giganti, raggiungendo la prima l’altezza di due metri». La destinazione era la solita produzione di tessuto per corde e cordame, in primo luogo. Non mancava, tuttavia, l’utilizzo per capi di abbigliamento popolari. Così le donne tessevano tele di lino, cotone o canapa «per uso di camicie, di mutande, di lenzuola».

    Febbri palustri

    Il terreno per la coltivazione della canapa, che doveva essere profondo e sufficientemente umido, veniva preparato nei mesi di marzo e aprile con la pulizia dalle erbacce, la concimazione e la semina. Una volta venute fuori le piantine, il terreno veniva irrigato per inondazione. E così si arrivava al momento della fioritura, in genere tra fine giugno e luglio. In questa fase le piante venivano strappate con tutte le radici e riunite in “mannelli” pronti per la fase della macerazione. La presenza di queste terre irrigue aveva risvolti meno felici. Si ipotizzava che le stesse causassero la diffusione della “febbre intermittente o palustre”, una delle maggiori cause di mortalità della popolazione agricola. Inoltre la vegetazione troppo fitta, che impediva il passaggio dell’aria, e le stesse fasi della macerazione della pianta (fatta senza alcuna precauzione) e dell’essiccazione erano considerate promotrici dello sviluppo di febbri miasmatiche.

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    Le fasi della lavorazione della Canapa (da Encicolopedia Popolare Sonzogno, 1928)

    Più canapa che lino in Calabria

    Il processo di lavorazione delle piante seguiva metodi che venivano definiti già allora letteralmente “primitivi”. «Giunte queste piante a maturità, e private dei loro semi, vengono raccolti in fasci, i quali si pongono a macerare in larghi fossi scavati sul lido del mare od in apposite gore situate lungo i corsi d’acqua, fissandoli con grosse pietre. Dopo otto o dieci giorni, e quando l’agricoltore si accorge che la parte tigliosa è ben macerata, i fasci si tolgono dall’acqua stagnante, si fanno asciugare al sole e poi si gramolano con un rostro a battitoio di legno».

    La canapa veniva piantata anche nei gelseti. Fatto sta che gli ettari coltivati in tutta la provincia di Reggio erano circa 1200. Nel 1879 avevano prodotto 8000 quintali di canapa. Per fare un confronto con la “pianta concorrente”, il lino, sappiamo che nello stesso periodo si coltivavano a lino 1748 ettari, che avevano prodotto 6000 quintali di lino.

    Strumenti per la lavorazione della canapa

    Le vurghe

    In provincia di Cosenza la macerazione di lino e canapa era malvista per la credenza che nuocesse alla salute. Si registrarono, infatti, alcune morti di animali che avevano bevuto le acque dei “maceratoi”, ma non c’erano conferme. In provincia, al 1883, rispetto al lino la produzione della canapa faceva registrare cifre inferiori. La procedura di lavorazione, però, era simile e richiedeva una fonte d’acqua per la macerazione. A volte si scavavano delle fosse nel terreno dette “vurghe”. Si riempivano d’acqua di fiume o di sorgente incanalata con un rivolo che scorreva rinnovando continuamente l’acqua delle fosse. Al loro interno si mettevano a macerare il lino o la canapa. Il tempo necessario oscillava fra i 10 e i 15 giorni. Nei dintorni di Rossano la macerazione avveniva in acque stagnanti in riva allo Jonio o nel letto dei fiumi. Capitava così che le alluvioni distruggessero tutto il lavoro.

    Una produzione locale

    Dopo la macerazione la canapa veniva asciugata al sole. Poi si lavorava con un “ordegno” formato da due pezzi di legno, uno fisso e uno mobile. Tra essi si inseriva il prodotto che doveva essere maciullato e ridotto in sostanza utile per la filatura. Non erano stati ancora introdotti sistemi di lavorazione meccanica. Intorno al 1880, nel Catanzarese, la coltivazione della canapa era rara. La si poteva incontrare «appena in qualche orto e nelle vicinanze di Filandari».

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    Memoria di Vincenzo Ramondini per migliorare la lavorazione della canapa in Calabria Ultra

    Alcuni dati di qualche anno dopo ci informano che nel 1892 in Calabria si utilizzavano per la coltivazione della canapa 417 ettari, 11 in più dell’anno precedente. Di questi 228 erano nel Vibonese e 133 nei dintorni di Palmi. Su questi terreni, nel 1881, la produzione ammontava a 2161 quintali di canapa, divenuti 3271 l’anno seguente. Si trattava comunque di una produzione limitata all’uso locale.

    Corde e spaghi

    Sul finire dell’Ottocento c’è traccia di diversi opifici che utilizzavano la canapa per la fabbricazione di cordami. Nel Reggino operavano ben ventuno piccole fabbriche. Sette erano a Polistena e le altre sparse tra Sant’Eufemia d’Aspromonte, Gioiosa Ionica, Bagnara Calabra, Caraffa del Bianco, Mammola, Rosarno e Seminara. Quelle di Polistena e Gioiosa erano le più importanti. Oltre spaghi e cordicelle, producevano anche «funi grosse a cavi doppi di cui si servono i mulattieri ed i marinai». La materia prima non era solo locale, ma reperita anche a Napoli e Messina. Il commercio dei prodotti, invece, rimaneva essenzialmente locale.

    A Cetraro, sul Tirreno cosentino, erano attive quattro piccole fabbriche che occupavano quattro uomini e cinque donne. Al loro interno si adoperava canapa proveniente da Napoli per produrre cordami «con semplici congegni torcitoi a mano». Tre fabbriche a Fuscaldo, invece, impiegavano canapa di produzione locale per produrre cordoncini e spaghi grazie al lavoro di cinque uomini e una donna.

    Industrie casalinghe

    Nel Catanzarese le fabbriche di cordami operanti a fine Ottocento erano cinque. Tre erano operative a Soriano Calabro e le altre a Cortale e Chiaravalle Centrale. I macchinari erano assenti, ad eccezione dei soliti «semplici congegni torcitori a mano». La produzione era riservata all’uso agricolo, impiegando canapa locale e altra proveniente dalle provincie di Caserta o di Reggio Calabria. Una porzione rilevante era comunque destinata all’industria tessile casalinga. Erano migliaia i telai che tessevano lino e canapa, ma i prodotti si realizzavano quasi sempre per uso degli stessi produttori.

    Altra foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numeri di Civiltà del 1941

    Nei primi del Novecento la coltivazione della canapa aveva «importanza limitatissima». I circondari di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, e Palmi, in provincia di Reggio, erano ancora le zone più utilizzate. Le aree coinvolte erano in genere terreni irrigui posti lungo i torrenti. Nel 1908 la produzione di canapa raggiungeva i 6 quintali per ogni ettaro di terreno. Ma le industrie del settore, come anche quelle del cotone, del lino e della iuta, si erano «arrestate allo stato d’industrie casalinghe».

    Canapa in Calabria: un comparto tutto femminile

    Sul numero di telai operanti a inizio del secolo, sappiamo che erano 5137 quelli adibiti alla tessitura di lino e canapa in questa industria casalinga. Sempre unitamente per lino e canapa, sappiamo che gli artigiani filatori erano 35 uomini e ben 62.040 donne (delle quali più di 60 mila la esercitavano come attività principale, e 1766 come professione accessoria). I tessitori delle stesse materie, invece, erano 20 uomini e 8709 donne (delle quali 8279 lo svolgevano come mestiere principale). Il prodotto veniva utilizzato nei 38 opifici per cordami censiti nel 1901, nei quali erano attivi «99 congegni torcitori a mano» e «lavoravano 120 individui». Altri 117, a loro volta, lavoravano come “indipendenti”.
    Tuttavia il livello d’innovazione in questo campo fu sempre quasi nullo. Metodi primitivi, strumenti a mano, scarsa richiesta di esportazione facevano del settore della canapa calabrese un’industria locale con scarse prospettive.

     

  • STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    Il fiore all’occhiello è fiore di Roseto. Calembour a parte, Roseto Capo Spulico si distingue, rispetto a tanti altri luoghi, per qualcosa di nemmeno troppo descrivibile. Esiste una “chimica” dei luoghi? Credo di sì. E credo possa dirlo anche chi, a differenza mia, non vi sia legato per questioni familiari. Anche Roseto ha almeno quattro anime: quella costiera, quella del centro storico, quella delle campagne e quella del suo passato. Virtuosamente, mi pare anche singolare nel suo essere un paese, sì, molto legato alle sue radici, ma pure proiettato con tenacia in avanti.

    A picco sul mare

    Ne è diventato ormai simbolo il castello federiciano a picco sul mare, quel Castrum Petrae Roseti che, in realtà, per quanto scenografico, è più correttamente una torre, una semplice torre, che non ebbe più che funzioni doganali, d’avvistamento, d’accampamento e deposito d’armi (nonché, nel Settecento, di ambigua osteria), e il cui valore immobiliare fino alla fine del Novecento è sempre stato irrisorio. Chi vuol sognare, però, ha il diritto di farlo ed è giusto lasciarglielo fare (anche perché se non sogni ad occhi aperti qui, dove vuoi sognare?).

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    Tetti nel centro storico di Roseto (foto L. I. Fragale)

    Il tariffario di Roseto

    La più remota riproduzione del castello è appunto quella settecentesca, firmata da Jean Louis Desprez per i resoconti di viaggio dell’abate Saint-Non (Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, Paris, 1781-1786), in cui l’autore raffigura uno sbarco piratesco ai piedi del maniero. Poi tre fotografie scattate precisamente tra il 1864 e il 1937. Infine… La pletora post-boom economico, la sovraesposizione a buon mercato, unita ad una congerie di favole discutibili, in merito a ipotetici misteri esoterici legati all’edificio.

    Restiamo con i piedi per terra: sulle questioni più strettamente storiche del castello ho già scritto e scriverò altrove, mentre qui voglio almeno ricordare una curiosità. Su un muro esterno del castello era fissata una grande lapide con il tariffario per chi transitasse da lì, esattamente uguale a quelli, superstiti, di Acerra e di Battipaglia. Non può non venire in mente la gag del «chi siete?, quanti siete?, cosa portate?, sì, ma quanti siete?, un fiorino!»… più o meno così anche a Roseto si snocciolavano i prezzi a seconda della quantità di bestie trasportate, o a seconda che si fosse studenti, ebrei o prostitute con una, due o tre bisacce (e così pare nascessero talvolta i cognomi…).

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    Il centro storico di Roseto Capo Spulico visto da lontano

    Quel giorno a Roseto morì Donato Bergamini 

    Una strada di transito, dunque, da tempo immemorabile. Chissà come sarebbe andata a Donato Bergamini se la dogana fosse stata ancora attiva, chissà che piega avrebbe preso quel processo… Benché mai nemmeno lontanamente interessato al calcio, a quella storiaccia penso spesso, perché altrettanto spesso mi trovo a passare su quel chilometro.

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita

    Quale chilometro, poi? La strada non è più quella del 1989, tutto è cambiato. Vi sono due lapidi lungo la nuova 106: una più vecchia, in un punto pericoloso della strada; una più nuova, in un luogo che permette la sosta a chi volesse lasciare un fiore. In realtà l’incidente accadde in un terzo posto, lungo il tracciato vecchio della 106, un punto che – ripeto – non esiste più. Per una specie di damnatio memoriae stradale.

    Tutta quella strada resta sospeso in una sorta di limbo spazio-temporale. Non vi è stato costruito più nulla, né sul lato della spiaggia né sulle colline. Per fortuna. La spiaggia è una lingua pietrosissima e provvidenzialmente poco affollata, anche in alta stagione, che prosegue silenziosa dalla Pietra della Tina e dell’Incudine, fino agli scogli della Galera, della Pavolina e infine della Grilla. Mare, ça va sans dire, pulitissimo e notoriamente tale.

    Colline e villaggi residenziali

    Le colline sono quelle impervie e disabitate di Valmaco, Derròita, e Fontana della Vigna. Uniche tracce di antropizzazione sono due villaggi residenziali tagliati meravigliosamente fuori dal mondo e immersi nei boschi di pino e nella macchia mediterranea: il Villaggio Santa Maria e il Villaggio Baiabella (il secondo è prevalentemente un villaggio-fantasma anziché altro, al centro di una pluridecennale vicenda giudiziaria). E, non a caso, quelle colline erano state abitate già nell’antichità, e tracce dei vecchi stanziamenti sono emerse negli anni ’60 del Novecento. Chissà quanta roba è saltata fuori, adesso, per i lavori alla nuovissima tratta della 106… Non ci pensiamo.

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    Scorcio rurale di Roseto Capo Spulico

    Là sui monti di Roseto Capo Spulico

    Gli scogli della Grilla, al di qua del canale Cardone, segnano il confine tra Roseto e Montegiordano. Da lì si può piegare verso l’interno, verso le sterminate e ostiche campagne che formano il trapezio del territorio comunale di Roseto Capo Spulico. Si sale ripidi, ripidissimi, tra i tornanti e i pini di contrada Palvasia, offesa l’estate scorsa da un incendio devastante, che ha cancellato – tra le altre cose – esemplari di ulivi pluricentenari, di cui la zona è fortunatamente ancora ricca.

    A sinistra si passa in mezzo a un paio di case isolate (dove lo stesso cane abbaia puntualmente, da anni, legato ad una catena) e si procede a mezza costa lungo la stradina panoramica. Un bivio: a sinistra si tornerebbe in paese, a destra si sale verso le antenne di Monte Titolo e per le campagne più elevate… il Piano di Commaroso, contrada Giudicepaolo (poi storpiato in Dodici Paoli).

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    L’antica “via ad serram” che conduce da Roseto a Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Ancora un bivio: a sinistra si scenderebbe di nuovo per il paese. A destra si procede sempre più in alto, lungo la meravigliosa “via ad serram” che dalla Contrada Melazzo e dal Vallone di Marino (dall’antica famiglia Marini) porta verso il centro storico di Montegiordano e verso la Basilicata. Una via antichissima, come venivano pensate una volta: direttamente sullo spartiacque, per evitare la costruzione di ponti. Così resta tuttora: una lingua sottile, un su e giù incessante: il vuoto a destra, il vuoto a sinistra.

    La scala mobile nel nulla

    Torniamo indietro all’ultimo bivio e andiamo verso il paese, costeggiando la Mirata e Contrada Collazzone. Si potrebbe piegare a destra per raggiungere i Piani della Marina (in realtà Piani Marini, ancora per l’antica famiglia omonima, così come i vicini Piani Toscani) ma voglio cercare di evitarmi la vista di quel famosissimo scempio che è diventato ormai simbolo dei non-luoghi, dell’incompiutezza e di una certa… fragilità degli equilibri contemporanei, diciamo così: si tratta di quel relitto di scala mobile che resta sospeso nel mezzo di un pendio brullo, unendo il nulla al nulla. Come una drammatica Stairway to Heaven, doveva servire a trasportare i bagnanti dalla spiaggia ad un villaggio turistico in collina. È finita invece sui social del New York Times, nell’estate del 2018.

    Like a rolling stone

    Mentre si scende di quota in auto, i pini e la pietra da taglio lasciano progressivamente il posto ai peri e ai fichi d’India. Il dislivello è tanto e si tappano le orecchie: il primo agglomerato di case è quello del rione della Petr’i Roll’ like a rolling stone. Dopodiché ecco il paese, finalmente. Lo prendiamo alle spalle, dal suo ingresso più antico e autentico, la Porta della Terra (“Terra” intesa come Comune, non come terreni). Per salire verso la Porta si procede a zig zag salendo per i vicoli, ma anticamente doveva esservi una gradinata di quelle adatte anche ai cavalli (e qualche traccia l’ho ritrovata): non esistono mappe del paese precedenti al 1901 e tutto va capito, più che immaginato… il nucleo più antico è ancora chiaramente racchiuso nelle mura di cinta che, viste dall’alto, hanno l’andamento di uno stivale, una calza di Befana.

    Un vicolo di Roseto (foto L.I. Fragale)

    Muri, pietre e frane

    Eppure qualcosa è mutato: troppe frane, nei secoli, hanno ridotto l’estensione dell’abitato. E le stesse mura, in alcuni punti, hanno retrocesso di qualche passo anziché avanzare. Il varco detto “pertuso di Pizzo” (dall’antica famiglia dei Pizzo di Oriolo e di Canna) ne è un segnale, aperto com’è su un tratto di mura troppo sottile per essere coevo alle altre (per esempio a quei brani inglobati in un angolo del Palazzo Mazzario). Muri, pietre: l’antico, a Roseto, lo tocchi con mano (di più antico, forse, vi sono soltanto le note ma ormai impenetrabili grotte sotterranee). Sparito il Convento di Sant’Antonio, resta ancora, d’antico, la Cappelletta dell’Immacolata Concezione e – forse non molti lo sanno – due campane cinquecentesche presso le chiese di San Nicola e quella di Sant’Antonio.

    Scorcio del centro storico di Roseto Capo Spulico (foto L.I. Fragale)

    Santi e nobili

    Nel Quattrocento Roseto Capo Spulico doveva presentarsi come un piccolo centro agricolo che ancora voltava le spalle al vicino mare: il processo di “balnearizzazione”, comune a tanti altri paesi costieri sì, ma privi di una storia marittima o di un contesto portuale, avverrà a fine Ottocento, dopo la costruzione della linea ferrata lungo la costa, e la conseguente urbanizzazione attorno agli scali ferroviari. Il tessuto sociale era intriso di una notevole presenza greco-albanese che non deve avere avuto difficoltà nell’integrarsi in un retroterra culturale ancora fortemente bizantino.

    Del secondo sono un esempio alcuni toponimi locali come S. Elia, S. Migalio, S. Cataldo, S. Iorio (S. Giorgio), S. Tòtaro (S. Teodoro) e S. Nicola (cui è intitolata la chiesa madre, mentre S. Rocco deve aver avuto la meglio, come patrono, soltanto dopo la peste del Seicento). Della prima sono invece esempio le tracce relative alle famiglie levantine dei nobili Ungaro, Persiani, Reca-Mazzario, dei montenegrini Marini, dei costantinopolitani Chyurlia e soprattutto dei dalmati Renesi (quelli che combatterono per mezza Europa nonché fianco a fianco con Scanderbeg). Tutte estinte, tutte scomparse prima o dopo.

    Roseto Capo Spulico: dove sono gli intellettuali?

    Francescantonio Mazzario

    Solo quella dei Mazzario riuscì a restare egemone su Roseto per alcuni secoli (e vale la pena ricordare quantomeno le figure del barone Francescantonio e di suo zio Alessandro, intellettuali e avvocati; attivo nella politica locale, il primo; autore di un diario di viaggio nell’Europa del 1836, il secondo. Nel loro palazzo di famiglia – oggi in abbandono dopo una pessima ristrutturazione di una ventina d’anni fa – soggiornarono finanche gli scrittori Henry Swinburne e Craufurd Tait Ramage, a cavallo tra Sette e Ottocento. Ma chi lo sa? Chi se ne accorge? Manca un’intellettualità locale e basta poco ai rapaci di professione per fingersi autorevoli: sulla storia del paese e dei suoi personaggi è stato edito un solo libro, più di trent’anni fa. E un altro è di imminente pubblicazione. In mezzo, un vuoto, in cui talvolta spadroneggia chi stravolge comodamente la storia a proprio consumo, danneggiandola e danneggiando le comunità con operazioncelle di bassa lega che non conferiscono alcun lustro (anzi…).

    Tutto sta a capire i segni, a interpretare, a prevedere e stare in guardia dai questuanti di ieri e di sempre, le cui gioie ingenue ricordano tanto quelle (più oneste e sudate) dei coltivatori diretti immortalati a Roseto nel 1957, quando per la prima volta percepirono le prime pensioni statali. Per fortuna (e con buona volontà), Roseto Capo Spulico ha infilato ormai da qualche anno la via dell’eccellenza: sapendo coniugare – e non è frase fatta – tradizione ed esigenze contemporanee, le più recenti amministrazioni hanno saputo dare ottima prova di sé, tirando fuori il paese da una perifericità che poteva essere rischiosa ed è divenuta, invece, virtuosa.

    Roseto Capo Spulico, 1957. Le prime pensioni ai coltivatori diretti (Museo Etnografico di Roseto C.S.)

     

  • Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

    Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

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    Gli storici cosentini hanno raccolto nei secoli narrazioni utili per dare solide fondamenta all’identità cittadina.
    Il bisogno di infondere l’orgoglio di appartenenza a una comunità, li ha spinti a volte a inventare un passato glorioso e mitico. I caratteri originali della città vengono sottolineati sin dalla sua fondazione.

    La “pastetta” degli dei

    Cosenza era stata voluta dagli dei, che l’avrebbero protetta e resa immortale. Il suo territorio era pieno di ricchezze e i fiumi, soprattutto il Crati, possedevano acque miracolose. La città aveva una posizione felice e, come la grande Roma, era circondata da sette colli a cui erano legate varie leggende.

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    La statua di donna Brettia, la leggendaria liberatrice di Cosenza

    Condottieri a Cosenza: in principio era Ercole

    Uno dei miti sulla fondazione di Cosenza narra che Brettio, figlio di Ercole e di una ninfa acquatica, giunse alla confluenza del Crati e del Busento dopo un giro estenuante per tutta l’Europa.
    L’illustre rampollo si innamorò del luogo e vi edificò una città, che chiamò Brettia. Altre storie raccontano di Brettia, o Bruzia, donna giovane e coraggiosa che aveva aperto le porte della fortezza a nobili guerrieri lucani. Incoronata regina, governò tanto saggiamente che il suo popolo per riconoscenza diede il suo nome alla città.

    Guerrieri fieri e tosti

    I cosentini, in quanto discendenti dalla stirpe di Ercole e dei Bruzi, erano un popolo di fieri guerrieri, orgogliosi della loro indipendenza e della loro patria. Tutti quelli che avevano osato sfidarli avevano pagato un caro prezzo.
    Tre grandi condottieri dell’antichità, come testimoniavano le fonti storiche, vi avevano trovato la morte: Alessandro il Molosso re d’Epiro, Alarico re dei Goti e Ibn Ahmad Ibrahim, più semplicemente Ibrahim II, emiro saraceno.

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    Monete con l’effige di Alessandro il Molosso

    Alessandro il Molosso: prima vittima dei Bruzi

    Tito Livio narra che l’esercito di Alessandro il Molosso, giunto al confine tra il territorio dei Bruzi e dei Lucani presso Pandosia, dovette ritirarsi su tre alture a causa delle continue piogge. In tal modo, divise le truppe che non potevano aiutarsi a vicenda. Due colonne consegnarono vilmente le armi e passarono al nemico.
    Ma Alessandro, con un’impresa ardita, ruppe l’accerchiamento e uccise il capo dei Lucani.
    Le acque impetuose del fiume costrinsero lui e i suoi uomini ad affrontare un guado tanto pericoloso che uno dei suoi soldati, impressionato dalla tumultuosità delle acque, imprecò chiamandolo Acheronte.

    Nell’udire questo nome, il Molosso rammentò una profezia di morte che legava il suo destino al mitico fiume. Incalzato dai nemici non poté far altro che avanzare nelle acque infide. A quel punto, un soldato lucano lo colpì al petto con una freccia ed egli, caduto da cavallo, fu trascinato dalla corrente presso il campo dei nemici.
    Il suo corpo fu brutalmente tagliato in due parti: una fu inviata a Cosenza e l’altra trattenuta per essere orrendamente oltraggiata.
    Mentre i miseri resti erano bersaglio di pietre e dardi, una donna, piangendo disperata, pregò quei soldati rabbiosi di fermarsi: il marito e due suoi figlioli, prigionieri dei nemici, non sarebbero mai stati liberati per lo scempio che si stava compiendo sulla salma del re.
    Metà del corpo del Molosso fu quindi seppellito a Cosenza, l’altra metà rimandata in patria alla compagna Cleopatra e alla sorella Olimpiade.

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    Il funerale di Alarico

    Alarico: il barbaro eccellente

    Il racconto della morte di Alarico risale alla cronaca di Jordanès. Il re visigoto, dopo avere saccheggiato Roma, era sceso in Calabria per raggiungere Reggio, imbarcarsi con i suoi uomini per occupare dapprima la Sicilia e poi procedere alla conquista dell’Africa.
    Ma una tempesta nello Stretto distrusse le navi e costrinse i Visigoti a tornare indietro. Alarico morì improvvisamente a Cosenza e i suoi uomini lo seppellirono sotto il letto del Busento con l’armatura, il cavallo, il tesoro e gli schiavi che avevano deviato le acque del fiume e scavato la fossa.

    Ibrahim II l’esotico

    La fine di Ibrahim II è tramandata da diversi storici arabi e latini.
    Nel settembre del 902, l’emiro, dopo avere espugnato Taormina, attraversò lo Stretto e, alla testa dei suoi uomini, iniziò ad occupare la Calabria.
    I saraceni non incontrarono particolare resistenza e il primo ottobre giunsero a Cosenza attestandosi sulle sponde del Crati.
    Dopo ventidue giorni d’assedio, il feroce principe cominciò a soffrire di una terribile dissenteria e morì nello stesso mese. I capitani del suo esercito offrirono il comando al nipote Ziyadat Allah, il quale decise di tornare in Sicilia per seppellire l’avo.

    Miti e realtà: la parola alle fonti

    Non abbiamo motivo di dubitare della presenza di questi condottieri a Cosenza. Tuttavia, le fonti su cui sono state ricostruite le loro vicende sono scarne, poco credibili e contraddittorie.
    Nonostante ciò, gli storici locali le hanno accettate e liberamente manipolate arrivando spesso a conclusioni diverse e fantasiose.
    L’impianto che caratterizza i racconti su Alessandro il Molosso, Alarico e Ibrahim è sempre lo stesso: condottieri spietati e sanguinari trovarono a Cosenza la strenua resistenza di coraggiosissimi cittadini. Se questa non bastava, interveniva direttamente il castigo divino.

    Soldati saraceni in un dipinto d’epoca

    Una storia per creduloni

    La trama intessuta dagli storici locali sugli ultimi giorni di vita dei tre grandi condottieri a Cosenza era semplice e ingenua.
    Il Molosso, Alarico e Ibrahim, giunti da lontano per compiere le loro scorrerie, una volta in città morivano.
    Erano guerrieri temuti e conosciuti per la loro brutalità e la loro ferocia.

    L’arabo sanguinario

    Di Ibrahim II, ad esempio, si raccontavano, storie di smisurata efferatezza.
    Quando alcuni astrologi gli predissero la morte per mano di un fanciullo, fece uccidere tutti i paggi della sua reggia.
    Venuto a conoscenza che un eunuco aveva rubato un suo fazzoletto di seta, non sapendo chi fosse l’autore del furto, fece sopprimere tutti e trecento gli eunuchi della sua corte.
    Accecato dalla gelosia, fracassò il cranio di un fanciullo che amava e gettò nella fornace i sei compagni con cui viveva.

    Un giorno, fece trafiggere trecento ribelli berberi, strappò i loro cuori con le proprie mani e li fece infilzare in una funicella appesa come un festone su una delle porte di Tunisi. Mandò a morte ciambellani, ministri, cortigiani, segretari e assistette personalmente all’esecuzione di otto suoi fratelli.
    Faceva strangolare, murare vive e decapitare mogli e concubine e sopprimere tutte le figlie femmine. Condannava a morte coloro che rifiutavano di convertirsi: fece tagliare in due un cristiano che non voleva abiurare e appendere le due metà su pali.
    Comandò che i giudei portassero sulle spalle una toppa bianca a forma di scimmia e i cristiani una a forma di maiale. Inoltre, gli stessi dovevano appendere sull’uscio delle loro case tavole con questi animali dipinti.

    Condottieri e propaganda a Cosenza

    Gli storici cosentini volevano comunicare con le storie del Molosso, Alarico e Ibrahim un messaggio chiaro: mentre nelle altre città del Sud gli abitanti terrorizzati fuggivano vilmente davanti all’invasore, i cosentini, degni figli dei fieri Bruzi, affrontavano i nemici senza paura.
    Cosenza era una città di uomini liberi, sempre pronti a battersi contro coloro che volevano soggiogarla e, quando le forze del nemico erano soverchianti, poteva contare sul buon Dio che faceva morire i capi degli invasori.
    Potenti eserciti che avevano espugnato grandi città e fortezze, giunti a Cosenza, capoluogo vulnerabile e povero di abitanti, venivano fermati. I cosentini non solo riuscivano a proteggere la loro città, ma l’intera penisola dalla violenza di uomini rozzi e malvagi.

  • Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

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    Con l’arrivo dell’estate, come ogni anno, lungo tutto il tratto nord della Statale 18, da Praia a mare fino a Cetraro, debutta l’ingorgo delle presenze turistiche anarchiche. Quelle che sfuggono a statistiche e controlli, che significano economia super-sommersa, inquinamento e abusivismo senza fine, ingorghi, bancarelle e lungomari che diventano una specie di Piedigrotta a tutte le ore del giorno e della notte.

    Chi può si gode la vista del golfo di Policastro. Magari da uno di quei villini fucsia o color pisello che occhieggiano dal mostruosissimo Villagio del Bridge, una catasta di spaventosi cottage in cemento con vista sulla baia di San Nicola Arcella, che leggenda dice costruito coi soldi di Maradona.

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    Lo scrittore Francis Marion Crawford

    Grand Tour: stregati dal nord della Calabria

    Niente come il turismo di massa è capace di marcare i cambiamenti nella cultura e nei costumi. Queste coste magnifiche della Calabria del Nord un tempo non così lontano dal nostro furono il luogo elettivo del mito un poco svenevole degli stranieri del Grand Tour a caccia di natura selvaggia e panorami mozzafiato.

    Qui scesero lo scozzese Craufurd Tait Ramage e il più noto e pruriginoso Norman Douglas. Ma, su tutti, da queste parti visse l’eccentrico e ricchissimo scrittore americano Francis Marion Crawford. Non un personaggio qualsiasi, anche se il nome di Crawford (1854-1909) oggi direbbe poco anche al lettore più erudito e smaliziato. Questo autore che compare solo in cataloghi antiquari e nelle ristampe di editori minori di serie horror e fantasy, fu un caso fra i più curiosi e insoliti nella letteratura popolare di fine Ottocento.

    Crawford fu uno scrittore di storie incredibilmente prolifico e versatile, di grande mestiere e di enorme successo. Ma anche uomo eccentrico e misterioso. Eccezionale poliglotta (parlava ben 11 lingue) studioso di culture esotiche ed etnografo sui generis, ma anche uomo di mondo, eccellente marinaio e viaggiatore avventuroso, cultore di esoterismo e scienze occulte, abile schermitore e architetto. Al culmine di un’esistenza intensa e stravagante, bruciata in soli 55 anni, i suoi 44 romanzi ottennero un successo eccezionale fra fine ‘800 e inizio ‘900.

    Autore del primo libro in inglese sulla mafia

    In vita la sua popolarità e la sua fortuna di narratore raggiunsero vette leggendarie. Già il suo primo romanzo, l’anglo-indiano Mr. Isaac (1882), ebbe un successo immediato di pubblico, e Crawford ne fece subito un seguito l’anno appresso, tradotto in 23 lingue. La sua carriera da allora fu un crescendo, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1909 in Italia, a Sorrento.

    Fu lui a scrivere il primo romanzo in inglese sulla mafia che si conosca, l’antropologico I padroni del Sud (The Rulers of the South, 1900). Crawford con la sua penna fosca e fantasiosa riuscì guadagnare grandi fortune, assieme all’ammirazione del pubblico e una celebrità che dava sui nervi. Con un best seller dopo l’altro era infatti il nababbo della letteratura d’evasione del primo Novecento.

    In barca con Joseph Conrad

    Innamorato del mare e della navigazione a vela, nelle sue crociere verso il Sud, Crawford spesso si faceva accompagnare dalla bellissima moglie americana Elizabeth Berdan, da Sarah Bernhardt (per la quale aveva scritto nel 1902 il dramma Francesca da Rimini), dal pittore danese Henry Brokmann-Knudsen e da pochi altri amici scrittori della colonia britannica, come Norman Douglas, che ricorderà Crawford nei suoi Biglietti da visita. Qualche volta nelle crociere verso questi luoghi del Sud lo accompagnò anche Joseph Conrad, con il quale il nostro, che era capitano di lungo corso della marina americana, si alternava al timone del «The Alda», uno schooner a tre alberi, «grande e bello» che lo stesso scrittore, esperto navigatore, pilotava dall’Atlantico a Sorrento, e poi giù fino a San Nicola Arcella.

    Fu durante uno di questi lunghi detour nautici verso il Sud che Crawford scoprì l’estremo arco meridionale dell’ampia insenatura delimitata da un costone di roccia che si apre tra l’isola di Dino e il Golfo di Policastro, a San Nicola Arcella, in Calabria.

    La torre dello scrittore

    Una vecchia torre bastionata che «spunta isolata da un uncino di roccia», squadrata e tetra, affrontava il mare e le tempeste, dominando un tratto di costa a quel tempo deserta e solitaria, dove «nel raggio di tre miglia non si scorge una sola casa». Il paesaggio lo ammaliò, e Crawford trovò proprio in questo scorcio di costa selvatica e disabitata una straordinaria fonte di ispirazione. Così come aveva fatto a Sorrento, decise di prendere dimora a San Nicola per stabilirsi armi e bagagli proprio nella torre che, abbandonata e quasi ridotta a rudere, regnava sulla baia.

    Per un canone irrisorio prese in affitto da un proprietario del posto, un certo Alario, quella tetra e spettacolare torre costiera costruita dagli spagnoli nel ‘500 per tenere lontani i pirati, e la restaurò. E fu proprio in questa sua strana residenza di elezione che Crawford, anno dopo anno, si rifugiò per scrivere quasi tutti i suoi più noti capolavori letterari. Vi scrisse storie di fantasmi, misteri e vampiri come La strega di Praga, La cuccetta superiore e Il teschio che urla.

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    Lo scrittore Francis Mario Crawford nel suo studio all’interno della torre di San Nicola Arcella

    Se ne stava rinchiuso per mesi nello scenografico bastione, isolato in un piccolo studio con biblioteca, vivendo in solitudine nella torre, tra le mura spoglie, abbandonate dai tempi degli spagnoli ai venti e alle sinistre dicerie di luogo stregato. Un posto davvero perfetto per immaginare le trame dei suoi racconti horror e fantasy. Lo stesso Crawford nei suoi diari ricorda lo stupore provato nello scoprire una sorgente d’acqua limpida sullo scoglio, buona da bere, proprio a fianco alla torre, e i successivi lavori di costruzione di un pozzo che spaventarono molto la popolazione del villaggio, estremamente superstiziosa riguardo alla fama che la torre aveva come luogo di calamità e di disgrazie.
    Nel 1911, due anni dopo la morte di Crawford, si pubblica postuma una raccolta di racconti sul soprannaturale intitolata For the Blood is the Life and other Stories. Tra questi otto racconti di «wandering ghosts», Perché il sangue è la vita, che dà il titolo alla raccolta, è ambientato tra le mura di questo eremo stregato e remoto sulle coste della vecchia Calabria amata da Crawford.

    Uno dei migliori racconti horror secondo Lovecraft

    Perché il sangue è la vita fu considerato in assoluto da H.P. Lovercraft uno dei migliori racconti di vampiri mai scritti. La sua particolarità sta nel fatto che la storia, scritta da Crawford forse nel 1908, un anno prima della sua morte, si svolge praticamente in presa diretta, proprio tra le stanze della torre di San Nicola, dal calco di personaggi locali, tra gli scenari naturali affascinanti e stregati di quel fortilizio lungamente abitato dall’«americano», che attinse per questa sorta di «ghotic tale» alla calabrese, a quella che pare fosse un’accreditata superstizione popolare di San Nicola.

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    Lo scrittore americano H. P. Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella

    Per queste particolarità “Perché il sangue è la vita” è, nel suo genere, un capolavoro, «one of the absolute best tales of the folkloric vampire of tradition» (H.P. Lovercraft), in mezzo a decine di altri racconti di vampiri che nei primi decenni del Novecento ripetevano stancamente i temi del Dracula letterario di Stoker. Qui Crawford sfata tutti i luoghi comuni che vogliono questi esseri soprannaturali infestare unicamente le nebbiose brughiere dell’Inghilterra o le montagne nere della Transilvania. Il plot fu dettato dalle numerose conoscenze folkloriche dello scrittore americano, che saprà mescolare le atmosfere gotiche con le credenze popolari del luogo.

    Il vecchio Alario del racconto altri non era che il padrone della torre affittata da Crawford, la leggenda del fantasma di Cristina era una superstizione raccolta di prima mano nel villaggio, i personaggi realistici, mentre il sinistro bastione di Crawford era considerato un luogo interdetto dai tabù locali. Un terribile omicidio fa da sfondo a una storia di passioni morbose e denaro. Due ladri trafugano il baule con la fortuna accumulata all’estero dal vecchio Alario, lasciando in povertà il figlio Angelo. Per farlo, uccidono una serva, la zingara Cristina, una misteriosa ragazza che li aveva visti nascondere il tesoro.

    Dopo la morte di Alario, Angelo, umiliato e povero, viene attirato dal fantasma di Cristina, trasformata in vampiro, con cui si congiunge nel luogo in cui i ladri l’hanno sepolta. Da viva Cristina, creatura misteriosa e sensuale che ha il fascino maledetto della zingara fatale, è sempre stata innamorata di Angelo, che però non l’ha mai corrisposta. Da morta, come vampira, è irresistibile, e Angelo si lascia vampirizzare eroticamente da lei, finché Antonio, «una piccola creatura simile a uno gnomo», il bizzarro servitore del narratore della storia (lo stesso Crawford), con l’aiuto del vecchio prete del villaggio combatteranno contro il maleficio di Cristina, che viene infine sconfitta e uccisa con il solito paletto spaccacuore.

    San Nicola Arcella, la torre e lo scrittore

    Nella torre di San Nicola, Crawford scrisse, tra l’altro, anche i capitoli finali dell’ultimo libro, The diva’s ruby, uno dei suoi romanzi più belli. Quasi a testimoniare che il suo lavoro di scrittore di storie romantiche e gotiche fosse davvero ben concluso solo in quel luogo, in un’atmosfera così carica di suggestioni imperscrutabili. Il manoscritto di The diva’s ruby, conservato alla Houghton Library dell’Harvard College (dono della figlia «Countess Eleonora Marion Crawford Rocca»), suggella la circostanza. Con solennità Crawford alla fine dell’opera impugnò la penna e, testimoniando il profondo legame instaurato con la sua torre alchemica, con i personaggi e i luoghi circostanti, lasciò che l’inchiostro vergasse la chiusa: Francis Marion Crawford, San Nicola Arcella, 6 Settembre 1907.

    La passeggiata di Crawford a San Nicola Arcella

    Oggi resta ben poco del paesaggio e dei luoghi incantati che «l’americano», aveva scelto per vivere e scrivere. Qui un tempo il paesaggio era quello del magnifico e intoccato tratto di costa che va da Castrocucco, su cui scendono a picco i monti di Maratea, fino a San Nicola Arcella. Un mare azzurrissimo dominato dall’isola di Dino, punteggiato da isolotti e scogli, con splendide insenature e la piccola baie dell’Arco Magno, che sovrasta una piccola laguna dove il mare è raffreddato da polle sorgive di acqua dolce. Sull’arco di accesso alla grotta passava, dove oggi è franato, una stretta mulattiera. Era la passeggiata di Crawford, sulla vecchia strada di collegamento tra la Taverna dell’Orco e la Fonte del Tufo. Sui luoghi immortalati tra le pagine fantasy del magico Crawford si compie la nemesi del contemporaneo.

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    Spiaggia dell’Arco magno a San Nicola Arcella

    La torre assediata: ville, discoteche e movida

    La torre è ormai assediata dai vicini disco-bar, dai club e dai quartierini di villette estive affastellate in ogni angolo sulla marina di San Nicola Arcella. Tutto intorno il paesaggio sottosopra dei villaggi turistici e delle seconde e terze case per il mare. Compresi i famosi villoni esagerati con annessa caletta privata dei politici calabresi che qui tengono banco nella stagione estiva, e vicino alla torre di Crawford le discoteche pompano a tutto volume le notti della movida locale. Sullo sperone di San Nicola oggi c’è un belvedere ridotto in condizioni di degrado tristissime.

    Le piante della macchia mediterranea sono secche o bruciate. Al loro posto un mucchio di spazzature e bottiglie di plastica, cartacce e rifiuti di ogni genere. La superstrada tirrenica, la SS 18, giorno e notte scarica sulle marine affollate tra Praia a Mare e Diamante, il caos di un turismo mordi e fuggi, immemore e fracassone. Altri vampiri, sfuggiti dalle trame dei suoi esorcismi letterari, qui hanno fatto scempio di quello che fu il paradiso di Crawford.

  • Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

    Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

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    Parliamo pure di resistenza al Sud. Ma, almeno, diamole un colore più preciso: il nero. Che può non piacere, ma corrisponde alla realtà: la Calabria, che pure ebbe figure di prima grandezza dell’antifascismo (il ministro Fausto Gullo, Pietro Mancini e don Luigi Nicoletti) fu in realtà la culla del neofascismo.
    E lo fu, praticamente, da subito. Lo testimonia un processo particolare e bizzarro, che vanta almeno un record: fu il primo maxiprocesso calabrese del dopoguerra.
    Vi finirono in ottantotto alla sbarra. Non erano mafiosi né delinquenti. Ma solo fascisti, disposti a restare tali a tutti i costi. E qualcuno lo pagarono.

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    Le truppe britanniche sbarcano a Reggio Calabria

    Bombe e volantini

    È la mattina del 28 ottobre 1943 e in Calabria la guerra è – più o meno – finita. Se ci fosse ancora il fascismo, anche i calabresi celebrerebbero il ventennale della marcia su Roma.
    Ma, sebbene il regime sia finito, c’è chi non si dà per vinto.
    Ad esempio, a Nicastro, dove gli abitanti trovano, al loro risveglio, parecchi volantini per strada. Contengono slogan inneggianti al duce, anzi Duce, e al fascismo.
    Un mese dopo capita di peggio. È la sera del 28 novembre ’43: due bombe ad alto potenziale devastano, sempre a Nicastro, le tipografie di Era Nuova e Nuova Calabria, due riviste antifasciste.
    Non finisce qui: nella stessa notte, un’altra bomba esplode contro l’ingresso della casa di Marcello Nicotera, ingegnere e tipografo e antifascista.
    Ma i bombaroli alzano il tiro: un altro ordigno finisce contro l’ufficio di stazione dei carabinieri.
    Il 1943 dei nicastresi termina con un’altra bomba, stavolta contro la caserma dei carabinieri.

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    Un giornale d’epoca racconta il processo agli ottantotto

    Fiori per concludere

    Anche i primi mesi del ’44 sono piuttosto animati, almeno nel Lametino. Tre attentati dinamitardi, per fortuna senza grosse conseguenze, colpiscono il Liceo e la sezione del Pci di Nicastro e il municipio di Sambiase.
    Tutto termina con episodio gentile: la notte del 23 marzo mani ignote depongono fiori sulle tombe dei soldati tedeschi seppelliti nel cimitero di Nicastro. Forse le stesse mani, qualche ora prima, hanno strappato i manifesti dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata.
    Neppure questa seconda data è un caso: il 23 marzo è l’anniversario della fondazione dei Fasci da combattimento.

    Allarmi son fascisti…

    I carabinieri non hanno quasi dubbi. Anzi, hanno un teorema. Intendiamoci: non ci vuol molto a capire che gli autori di quelle bravate sono fascisti irriducibili.
    Occorre solo capire quali.
    Forse con l’aiuto dei servizi segreti della Regia marina (e di alcuni settori dell’Oss, l’antenato della Cia), i militari ipotizzano due teste pensanti, una a Crotone l’altra a Cosenza.
    La prima appartiene al marchese Gaetano Morelli, che a dire il vero qualche indizio di troppo lo ha seminato.
    Infatti, gli uomini della Benemerita trovano in un fondo silano del nobiluomo un arsenale coi controfiocchi: undici moschetti calibro 91, caricatori più che in proporzione e due casse di bombe a mano. Tutte armi militari, trafugate da ufficiali dell’esercito.
    La seconda testa è particolare: quella di Luigi Filosa. Una testa così calda da meritare un approfondimento a sé.

    Il camerata rosso

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    Luigi Filosa. il fascista “rosso”

    Classe 1897 e longevo come tanti folli (è morto nel 1981) il cosentino Luigi Filosa resta tuttora un rebus politico.
    Repubblicano di matrice liberal-progressista, Filosa incontra il fascismo nel segno dell’eresia politica. Amico e sodale di Michele Bianchi, porta assieme a lui i fasci a Cosenza, poco meno di un anno dopo la nascita del partito.
    L’avvocato indossa la camicia nera, ma pensa in rosso: attacca i latifondisti e non risparmia critiche allo stesso Mussolini.
    È scettico persino sulle possibilità di prendere il potere a breve. Tuttavia, si adegua e guida le squadre cosentine durante la marcia su Roma e poi diventa federale di Cosenza.
    Viene silurato per le sue frequentazioni antifasciste (in particolare, col repubblicano Federico Adami e i comunisti Giulio Cesare Curcio e Salvatore Tancredi).
    Espulso dal partito, subisce prima l’ammonizione (1926) e poi, nel 1931, il confino, da cui torna l’anno successivo grazie all’amnistia concessa per il decennale della rivoluzione fascista.
    Per lui il crepuscolo mussoliniano è un ritorno di fiamma bizzarro: perché rischiare per un regime da cui si è subito tanto nel momento in cui questo non conta più? Perché mettersi in gioco quando le sanzioni ricevute potrebbero essere un salvacondotto per l’Italia del futuro?

    Il principe e la marchesa

    Gli organizzatori veri sono due aristocratici calabresi: il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara e sua moglie, la marchesa Maria de Seta, sposata in seconde nozze ed ex amante di Michele Bianchi.
    I due ricevono l’ordine da Carlo Scorza, il segretario del Pnf, su iniziativa di Mussolini in persona. Devono creare le Guardie ai Labari, un’organizzazione a metà tra la brigata partigiana e la Stay Behind, per dar fastidio agli Alleati nelle retrovie.
    I Pignatelli gestiscono la rete da Napoli, dove si dedicano allo spionaggio più spregiudicato. E imbastiscono un triplo gioco con i tedeschi, coi repubblichini e con l’Oss.
    Ma questa è un’altra storia.

    La retata dei big

    Oltre Filosa e Pignatelli, finiscono nella retata ottantotto persone. Tra queste, si segnalano alcuni notabili del fascismo cosentino.
    Sono Orazio Carratelli, ex direttore di Calabria Fascista e Rosario Macrì, sciarpa littorio e fiduciario del gruppo “Carmelo Rende”. Un paradosso riguarda Pietro Morrone, già federale di Cosenza dal ’30 al ’36 e fresco reduce di guerra: la cronologia fa di lui un “persecutore” di Filosa.
    Non si può proprio non menzionare, tra i big, una figura chiave della vita cosentina, anche durante la Prima Repubblica: Orlando Mazzotta.

    Un ricordo di don Orlando

    Orlando Mazzotta

    Nato a Lago nel 1916 da famiglia umile, Orlando Mazzotta è il classico self made man. Si diploma prima al Magistrale e poi, da privatista, al Classico, unica via di accesso per l’epoca alla facoltà di Giurisprudenza.
    La sua carriera è fatta di sacrifici e borse di studio. Aderisce al fascismo sin dall’Università (diventa, infatti, vicesegretario del Guf di Cosenza) e vi fa strada.
    All’arrivo degli Alleati, Mazzotta è capo ufficio stampa del partito a Cosenza e volontario della Milizia, cioè squadrista.
    Nel dopoguerra, diventa un avvocato di grido, è dirigente del Msi ed è tra gli animatori dell’Accademia Cosentina. Nella sua storia familiare c’è una piccola nemesi: suo figlio, Giuseppe, anche lui avvocato, è stato candidato sindaco di Cosenza nel ’93 da Rifondazione Comunista…

    La retata dei giovani

    In questa singolare operazione dei Carabinieri, vi sono molti giovani. Alcuni di loro diventeranno volti noti.
    È il caso, a Cosenza, di Teodoro Pastore, Beniamino Micciché ed Emilio Perfetti. Con loro, finisce in gattabuia Vittorio Bruni, sottotenente del 16esimo Reggimento di fanteria di stanza a Cosenza. Per i quattro l’accusa è di traffico d’armi.
    Ma, al di là dei fatti specifici, occorre ricordare un paradosso di questo primo maxiprocesso della Calabria del dopoguerra: i fascisti sperimentarono sulla propria pelle le leggi fascistissime di pubblica sicurezza e il Codice Rocco non ancora emendato.

    Un processo bizzarro ai fascisti

    Celebrato nella primavera del ’45, quando Mussolini si avvia alla sua tragica fine, il processo a carico degli ottantotto è pieno di stranezze e bizzarrie.
    Alcune di queste, forse, sono dovute alla scarsa volontà di condannare per davvero i reprobi.
    Molto si gioca sull’insufficienza di prove, che impedisce di ricostruire, ad esempio, i rapporti tra i Pignatelli e gli altri imputati. Altro, invece, è affidato all’estro dei difensori e degli imputati stessi, soccorsi a un certo punto, dagli antifascisti.

    Lo show di Filosa

    don Luigi Nicoletti

    Luigi Filosa, ad esempio, combina una delle sue guasconate: rinuncia alla difesa di Cribari, Fagiani e Goffredo (tre “principi del foro”) e decide di far da sé.
    La sua trovata non è proprio disprezzabile: riesuma il Filosa antifascista ed esibisce il casellario penale come un medagliere.
    La strategia riesce, anche perché intervengono a favore dell’avvocato tre big dell’antifascismo: Fortunato La Camera, leader regionale del Pci, Luigi Pappacorda, segretario provinciale del Partito d’Azione, e don Luigi Nicoletti, sacerdote e segretario della Dc. Un soccorso “rosso”, ma pure bianco, con tutti i crismi.

    La furbata di Morelli

    Gaetano Morelli, invece, se la prende coi carabinieri: lo avrebbero bastonato, dice, per farlo “cantare”.
    In pratica, avrebbe subitolo stesso trattamento che, fino a poco prima, gli squadristi riservavano a oppositori e dissidenti. Con una sola differenza: nessuno gli ha somministrato l’olio di ricino.
    I quattro giovani cosentini, invece, si accusano a vicenda: Perfetti accusa Pastore e quest’ultimo nega. Bruni, invece, ammette di aver rubacchiato delle pallottole, ma solo per andare a caccia. In questo caso, è evidente il tentativo della difesa di far saltare l’accusa di associazione a delinquere.

    Cantando Giovinezza

    L’8 aprile 1945 arriva il verdetto. Qualcuno la fa franca per non aver commesso il fatto. È il caso di Mazzotta, Carratelli, Macrì e Morrone.
    Altri le prendono. Come Luigi Filosa, che da neofascista riceve una condanna più pesante di quelle subite da antifascista: otto anni.
    La maggior parte degli accusati busca pene che vanno dai quattro ai dodici anni.
    Ma, notano i cronisti dell’epoca, tutti accolgono la sentenza con un’ennesima guasconata: non appena il presidente smette di leggere, cantano Giovinezza, l’inno del Ventennio ormai alle spalle.

    Togliatti libera tutti

    Ma un virtuosismo della difesa azzera tutto. Gli avvocati scovano un po’ di cavilli e vanno in Cassazione.
    Quest’ultima annulla e fa ripartire il processo. Che non si svolgerà mai, perché nel frattempo Togliatti ha lanciato la sua amnistia.
    La quale resta un esempio morale di pacificazione nazionale, non ci piove.
    Tuttavia, è anche un esempio di lottizzazione dei fascisti. La Dc, infatti, mira a burocrati e dirigenti che avevano fatto carriera nel Ventennio. Il Pci fa incetta di intellettuali e sindacalisti. Per gli altri ci sarà il Msi, nato come “casa rifugio” per gli impresentabili e, quindi, irriciclabili.
    Ma tant’è: anche questi compromessi sono alla base della nostra democrazia.

  • Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

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    Avevamo lasciato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) all’altezza delle Vigne di Castrovillari. Pochissimi chilometri più a Sud, l’antico percorso trovava l’altrettanto antico quadrivio, posto pressappoco a metà strada tra due edifici di non poco significato: il Casino Gallo e il castello di Serragiumenta. Antica stazione di posta, il primo, sede di ricche scoperte archeologiche e costruito dunque su edificio preesistente (così come accadde a Nova Siri per la Taverna cinquecentesca lungo il Tratturo Regio, la quale pure oggi resiste ma nulla più ha di antico); maniero rinascimentale dei Sanseverino, il secondo.

    Dal quadrivio allo svincolo

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    Santa Margherita in Ciparsia

    Oggi l’incrocio originario è seppellito sotto al nuovo, ieri era un crocevia fondamentale, tra la Contrada Cammarata e quella degli Stombi. Pochi metri più ad ovest, la storia si ripete e si incarna nello svincolo autostradale per Sibari-Firmo-Saracena. Da qui si intravede magnificamente il monastero di Santa Margherita in Ciparsia, diruto sulla collina, in mezzo a file di ulivi. Ciparsia/Capràsia, altro nome di una statio, stavolta più antica, sulla Annia-Popilia.
    Qui si univano i punti cardinali della Magna Grecia e, ancora, i corsi d’acqua del Garga, del Gordo, dell’Esaro. Siamo alla testa, se non nel cuore, della Piana di Sibari, in mezzo alla triade fluviale Crati-Esaro-Coscile. Lungo la strada per Sibari, sull’estremità orientale si raggiunge l’altra piazzaforte cinquecentesca dei Sanseverino: il Castello San Mauro; nel mezzo, una tendenziale desolazione, umana e infrastrutturale.

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    Il Castello San Mauro

    Strade, stradoni, autovelox, blocchi spartitraffico si rincorrono in mezzo agli agrumeti, costeggiando più avanti le floride masserie dei Chidichimo, fino al ponte Mariacristina, nei pressi della Contrada Lattughelle. Un ponte buffo, questo. Breve, e ripido da una parte e dall’altra. Piccolo ma ardito nella sua comica necessità di scavalcare un binarietto ferroviario di scarso utilizzo. Proprio nulla a che vedere con l’omonimo ponte ottocentesco nel beneventano…

    Attribuisco a questa strada un primato indecoroso: dopo aver guidato in 2 giorni attraverso 10 regioni d’Italia, su tratte di ogni tipo, è qui che ho incrociato i peggiori guidatori, fieri di mosse da tentata strage. Roba da ritiro della patria potestà, oltre che della patente.

    Via del campo

    Ma, dicevo, più nel cuore della Piana, cosa c’è? La piccola motta naturale della zona archeologica di Torre Mordillo. Quell’avamposto che conserva – a me pare – un che di lugubre, mentre ora resta solo a guardia del lenocinio lungo la Strada delle Terme: prostitute, infatti, ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno. Ai soliti incroci, all’ombra delle solite siepi, al sole delle stesse piazzole di sosta. Credo d’aver visto una situazione più degradata, in Italia, solo sulla SS16 tra Sansevero e Marina di Chieuti. Oppure sul confine fra Marche e Abruzzo, tra Offida e Ancarano, dove addirittura l’ufficialissima segnaletica verticale ammonisce “divieto di contrattare prestazioni sessuali”.

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    Due ragazze in attesa di clienti nella piana di Sibari

    Lo spettacolo del Pollino

    Verso la Strada delle Terme scendono dalle colline più a Sud alcune vie tra loro gemelle, come affluenti che si riversano verso il fiume principale. Sono le varie strade per San Lorenzo del Vallo, Tarsia, Spezzano Albanese eccetera. È bello percorrerle in discesa, quando dalla loro sommità – ad esempio dalla cappelletta di San Francesco di Paola, subito fuori Tarsia – ci si para davanti lo spettacolo di tutte le cime del Parco Nazionale del Pollino, anzi di più: dal Cocuzzo al Sèllaro, un anfiteatro orografico apparecchiato da un mare all’altro, con le principali spaccature in evidenza – quelle della Gola del torrente Rosa e quella di Campotenese – che per millenni hanno suggerito il miraggio di un varco semplice per il mare e per il Nord.

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    Filari di lavanda a Campotenese

    Come don Chisciotte

    Un’altra di queste vie, nella stessa zona, passa donchisciottescamente proprio in mezzo a un gruppo di pale eoliche. Ma siamo senza Sancho Panza e qui c’è più odore di erbe selvatiche, quasi d’incenso, e di balle di fieno. Tutte queste strade sono state, da tempo immemorabile, le uniche opportunità per scollinare da Sud verso la Piana di Sibari prima dell’arrivo della galleria autostradale di Tarsia.

    Pale eoliche tra Tarsia e Spezzano Albanese (foto L.I. Fragale)

    Oggi vi si incrociano talvolta sciami di motociclisti, più spesso un trattore o un’Ape qua e là e, per uno strano incantesimo, una quantità inspiegabile di auto storiche (non necessariamente ‘blasonate’ e perciò, invece, relitti magnifici nella loro semplicità). Come se le vecchie automobili fossero rimaste ammanettate alle strade della loro infanzia, non essendo del resto troppo adatte alle nuove strade. Meglio così, perché mai sorpassare una vecchia 500 luccicante quando un turista straniero pagherebbe oro per guidarle lentamente dietro, nel mezzo di una campagna italiana?.

    La piana degli errori urbani

    Più interna è la strada che aggira le colline da Ovest, quella che dai pressi di Ferramonti risale verso Contrada Cimino per raggiungere una minore località “Amendolara” attraverso le alture amene del Ghiandaro, Stamile e Maiolungo (erroneamente segnalato – da qualche parte – come Mailungo, mentre è chiaramente il majo, il ramo. Come quei Maiolo e Maioletto nelle colline riminesi a ridosso del Montefeltro).

    Resti della villa romana di Larderia (Roggiano Gravina)

    Qui resiste ancora qualche florida fattoria in piena attività, non resiste però quell’enorme quercia monumentale in mezzo al nulla, mozzata un paio d’anni fa per chissà quale ragione. E fa invece orrendo sfoggio di sé un’immancabile cattedrale nel deserto (un’ipotesi di centro commerciale con megaparcheggio?) che dà il benvenuto nella piana degli errori urbani, come lo Scalo di Roggiano-San Marco – palma di bruttezza a pari merito con un altro paio –, inemendabile come tutti quegli scali che costellano la Calabria come paillettes di pessimo gusto su un capo da bancarella rionale.

    La civiltà del buongusto

    Eppure a pochissimi chilometri da qui fioriva una civiltà, e una civiltà del buon gusto. Ne sono testimoni le aree archeologiche – tra loro vicinissime – di Roggiano Gravina e di Malvito (ovvero le ville romane di Larderia e di Pauciuri). Gli stessi luoghi dove, secoli dopo, cominceranno a sorgere altre tipologie di “ville”, ovvero certe magnifiche masserie padronali come il bellissimo fortino turrito del Casino Amodei, in contrada Occhio di Bove, che oggi affaccia sull’invaso dell’Esaro; o l’imponente Casino La Costa, palazzotto signorile munito anch’esso di torri, dodecagonali, ai quattro angoli (e oggi sede di una rispettabile azienda vinicola); e poi il Casotto Mirabelli, verso contrada Peiorata, una sorta di masseria da villaggio Potëmkin, così com’è, tutta facciata e niente arrosto (nel senso di profondità).

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    Il Casino La Costa agli inizi del Novecento

    Una curiosa parentesi su questi Mirabelli… il secondo Catasto Onciario di Malvito (una sorta di censimento del Regno, redatto soprattutto a fini fiscali), trovai, elencato nel nucleo familiare del “nobile vivente” don Luigi Mirabelli – assieme a moglie, figlio, cameriere, due servi, una serva, un servitore, un famiglio, due ‘volanti’ e due mulattieri – finanche “Asà, schiavo costantinopolitano”: l’unico, peraltro, privo finanche di età dichiarata e/o conosciuta. E siamo al 1783. Mica a chissà quanti secoli fa…

    Fattoria abbandonata presso Contrada Ministalla di Mottafollone (foto L.I. Fragale)

    Il paese delle magare

    Se procedessimo verso Mottafollone troveremmo invece gli edifici rurali più modesti di contrada Ministalla (dal germanico marhastall, scuderia, il che vale anche per l’omonima contrada sibarita o per la Menestalla di Scalea). E invece torniamo a Malvito. Che, nei secoli, si è ritirata sulla collina: mi pare sempre in ombra, sempre torturata dal vento. Anni fa ne ho visto le vecchiette coprirsi un lato del volto – quello appunto preso di mira dalle raffiche – mentre si recavano puntuali alla messa pomeridiana, benché sapessero benissimo che il prete fosse un ritardatario cronico.

    Fuorviate dall’innocentissima borsa di pelle dell’ignoto sottoscritto – e con l’aggravante della compagnia di un amico medico del luogo – chiesero, preoccupate, chi stesse male in paese. Chi talmente tanto da dover necessitare l’intervento di un medico forestiero. L’abito può non fare il monaco ma una borsa sì. Ma se fosse davvero paese di magare, come qualcuno dice, non avrebbero dovuto saperlo prima di noi?

     

  • 1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    1992: come Tangentopoli (non) trasformò anche la Calabria

    «Ci sono decenni in cui non accade nulla, e poi delle settimane dove accadono decenni», almeno secondo Lenin. Ripensando al 1992 sembra in effetti che la storia proceda proprio in questo senso. Trent’anni fa l’indagine partita dal Pio Albergo Trivulzio, Mani Pulite, e prima ancora le stragi di Capaci e via D’Amelio hanno distrutto la strada che la storia percorreva costringendo ad una deviazione. Il 1992 è ancora, evidentemente, troppo recente per poterne conoscere tutte le implicazioni e i protagonisti, ma sono sempre più chiare le conseguenze: non quello di semplice reset come si è detto, ma di una più raffinata sostituzione di vertici ormai resi inefficienti dal mutare del contesto mondiale.

    Corsi e ricorsi

    La storia italiana procede spesso per buchi, voragini di verità che inghiottono avvenimenti anche molto lontani. A questa regola non può sfuggire il 1992. E sempre questa regola prevede che queste voragini di verità affondino nel Sud Italia che dalla periferia della storia vede, ascolta e digerisce. Prepara il futuro, rimanendo nel passato.
    L’indagine di Di Pietro azzera una classe politica partendo da Milano, ma le scosse telluriche si fanno sentire in tutta Italia. Beppe Grillo aveva anticipato il terremoto giudiziario con una battuta sui socialisti che rubano, nel 1986. Oggi è capo di un movimento allo sfascio. Forse è uno dei pochi cambiamenti perché se si analizza il contesto nel quale nasce quell’evento, attraverso articoli e atti parlamentari, si trovano corsi e ricorsi storici.

    La crisi della politica e quella della magistratura

    Rifondazione avanzava una richiesta di reddito minimo, argomento ancora caldo, mentre la politica discute di riforme istituzionali. Presidente del Consiglio è Giuliano Amato, oggi presidente della Corte costituzionale. Il Governo discute sulla crisi economica con Paolo Savona – all’epoca presidente del Fondo Interbancario, oggi alla Consob – e propone di rilanciare l’Italia attraverso opere e infrastrutture che ricordano tanto quelle del PNRR.
    La credibilità della classe politica italiana non è mai stata del tutto recuperata da quegli anni, con la differenza che oggi la stessa crisi ha investito la stessa magistratura. È frutto di quegli anni il dibattito tra garantisti e giustizialisti, che in Calabria come ogni cosa si deforma e diventa un modo per nascondere altre voglie: da una parte vendette persecutorie e dall’altro malcelato senso di impunità.

    Schegge di 1992

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    Secondo Gratteri, la riforma Cartabia è una “resa dei conti” della politica contro lo strapotere della magistratura. Una lettura tranchant e anche discutibile, che però mostra come le schegge delle rotture del ’92 siano ben conficcate nei giorni d’oggi. Soprattutto mentre in superficie il mondo cambiava, nel sottosuolo del potere che è sempre stata la Calabria, laboratorio di perversi accordi si trovava un modo di innestare il vecchio nel nuovo, creando organismi bicefali con due volti. Un modo forse per assicurare la restaurazione, ma che di certo ha precorso gli anni.

    Il Consiglio regionale del 1992…

    Nel 1992 presidente della Regione Calabria è Anton Giulio Galati e il Consiglio regionale è tutto maschile con l’eccezione di una sola donna, Maria Teresa Ligotti, prima a sedere su quegli scranni nelle fila del PCI. La scossa tellurica del ’92 emerge evidente in Calabria dalla composizione dei Consigli regionali del ’92 e, immediatamente successivo, del ’93. Nel ’92 troviamo uomini del secolo scorso fin dal nome come Domenico Paolo Romano Carratelli, avvocato, bibliofilo, scopritore di codici antichi o Pietro Dominijanni, socialista, a cui tanto deve il parco nazionale dell’Aspromonte. Oppure, ancora, figure più oscure come Giovanni Palamara, ex sindaco di Reggio Calabria, coinvolto in diverse inchieste, tra cui una che lo legava all’omicidio Ligato, poi assolto. Da quel setaccio della storia pochi riescono a continuare negli anni successivi allo stesso livello.

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    Palazzo Campanella, attuale sede del Consiglio regionale

    … e quello del ’93

    È, infatti, il Consiglio del 1993 che restituisce un’ecografia della Calabria di oggi: delle figure e dei potentati che in maniera diretta o indiretta ancora influenzano la Calabria. Saltano agli occhi Nicola Adamo e Pino Gentile, campioni di presenze nelle principali vicende calabresi e con importanti ruoli a livello nazionale. Nel ’93 sedeva anche Paolo Romeo, al centro oggi di alcune inchieste della procura di Reggio Calabria, condannato per associazione mafiosa e sapiente tessitore di legami. Scorrendo si ritrovano anche Mario Pirillo, poi divenuto parlamentare ed europarlamentare, e Amadeo Matacena attualmente latitante.

    Separatisti made in Sud

    In quegli anni, inoltre, in Calabria, Sicilia e Puglia nascevano le leghe meridionali. Movimenti separatisti dietro i quali spesso si ritrovano personaggi vicini al mondo della criminalità organizzata. Il movimento Sicilia Libera nasce a Palermo su input diretto di Leoluca Bagarella, si legge nella richiesta di archiviazione del giudice Scarpinato. Nel resto del Meridione erano state già costituite formazioni come Calabria Libera (fin dal 19 settembre 1991), Lega Lucana (già Movimento Lucano, costituita il 25 gennaio 1993), e tantissimi altri movimenti analoghi. Scarpinato raccoglie testimonianze ed eventi dallo scarso valore investigativo, ma dal prezioso contributo storico.

    Leoluca Bagarella

    Secondo le dichiarazioni di Tullio Cannella, questi movimenti facevano parte di un importante piano separatista a cui aveva partecipato la ‘ndrangheta calabrese, perché in Calabria si possono avere «appoggi con i servizi». Riferisce anche di una riunione tenutasi a Lamezia Terme tra esponenti politici anche della Lega Nord ed esponenti mafiosi delle varie regioni. Il piano era lasciare il sud alle mafie e il nord a nuovi soggetti politici. Il progetto separatista poi si arena per evidenti difficoltà, ma anche perché nasce un nuovo soggetto politico che sembrava ridare le giuste garanzie, sempre secondo quanto si legge dai collaboratori di giustizia, che è Forza Italia. In questo senso va anche parte dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, confermata in primo grado e poi ribaltata parzialmente in secondo grado. Quello che successe dopo è storia. Nel 1994 Forza Italia nasce.

    1992-2022: cosa resta trent’anni dopo

    Al Sud e in Calabria Forza Italia raccoglie il consenso che aveva la DC e che ha conservato fino all’arrivo della Lega di Salvini, eletto senatore proprio in Calabria. Dunque, nessuna differenza? Dopo trent’anni in Italia le disuguaglianze sono aumentate, i problemi atavici della Calabria sono rimasti, ma addosso ad una popolazione molto ridotta e sempre più anziana. Giusto qualche donna in più alla regione.
    Pare proprio che in questa periferia si appresti il futuro e si accalchino i cambiamenti. Perciò, sarà bene che almeno per una volta l’Italia dia un’occhiata e faccia i conti con la Calabria e i segreti che le ha affidato.

    Saverio Di Giorno

  • Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

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    Il diciannovesimo secolo portò innovazioni nei vari campi della vita. Perciò anche la morte e le sue adiacenze subirono cambiamenti repentini e radicali. La spinta data dalle leggi successive all’Unità d’Italia sulla costruzione dei cimiteri e l’abbandono delle sepolture nelle chiese fu fondamentale per la modernizzazione della “bottega” della morte.

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    L’Editto di Saint Cloud

    Chiunque abbia studiato I Sepolcri di Foscolo dovrebbe aver conservato una qualche reminiscenza dell’Editto di Saint Cloud (1804), con cui Napoleone vietava nel suo impero il seppellimento dei cadaveri all’interno dei centri abitati e delle chiese. Una legge di civiltà, non c’è che dire, ma che ovviamente in Calabria venne recepita e applicata soltanto molti decenni dopo. Le discussioni sul tema furono vivacissime per tutto il secolo. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo abitudini secolari, scarse finanze degli enti preposti, e l’atavico immobilismo della classe dirigente. Che fosse ormai necessario costruire un camposanto in ogni centro abitato era ormai chiaro ai più.

    Un moderno cimitero a Cosenza

    Nel 1856 il dottor Michele Fera illustrava agli accademici cosentini la sua relazione sulle febbri che periodicamente affliggevano Cosenza. E tra le misure di profilassi indicava la realizzazione di un moderno cimitero, schernendo chi ancora era restio all’idea: «Non si dee credere che i Camposanti siano stati nelle grandi città costruiti per offrire ispirazioni a’ romantici poeti, o perché l’innamorato trovi una perenne ricordanza de’ passati palpiti sull’avello che chiude il frale di colei che amava, ma denno ritenersi come utilissimo trovato della pubblica igiene per evitare che, colla putrefazione de’ cadaveri, s’impurasse l’aria delle città; e le usanze di tutti i paesi dell’antichità ciò mostrano perché i cadaveri s’incenerivano».

    Essiccati come il baccalà

    Ancora nel 1864 la situazione era pietosa anche nelle città più grandi. Il solito, mai abbastanza appezzato, Vincenzo Padula, nel suo periodico Il Bruzio ci offre un quadro a tinte fosche della situazione cosentina. Passando in rassegna le statistiche comunali, osservò che in dieci mesi erano morte più di mille persone. E che tutte erano state seppellite all’interno delle chiese della città. Gran parte di queste ultime si trovava in pieno centro abitato e l’una non lontana dalle altre. Padula ne aveva esperienza diretta: «Il bruzio abitando a 30 passi dal Cimitero di Santa Caterina ha osservato che il fetore dei cadaveri cresce secondo i gradi di umidità, minimo nelle giornate asciutte, massimo nelle piovose […]. Il possesso di un buon naso diventa una sventura».

     

    Sarà stato anche per questo che buona parte della popolazione negli ultimi mesi estivi e in tutto l’autunno “migrava” nelle campagne e nei casali vicini dove il clima era più salubre. Del resto, proprio nella chiesa di Santa Caterina «i morti non che sotterrarsi sotto un buon cofano di calce, si lasciano disseccare col metodo adoperato pel baccalà».

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    Padula dixit

    Né si deve credere che altrove la situazione fosse migliore. Anzi. È facile immaginare non solo il fastidio arrecato dal cattivo odore, ma anche le implicazioni negative a livello sanitario. «A medicare tanta pestilenza si grida contro i porti, si perseguitano i cani, si chiama l’opra degli spazzini, e non si vuol capire ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti».

    Beccamorti 

    Finché si continuò a seppellire nelle chiese, quella dei beccamorti fu una categoria professionale poco numerosa e ancor meno considerata. I documenti ci restituiscono tracce minime di Carmine Mancino e Gabriele Fabiano, abitanti nel quartiere di Santa Lucia. Indicati come “becchini”, nel 1844 si occuparono della registrazione della morte dei fratelli Bandiera. E, probabilmente, del loro seppellimento. Ma la costruzione dei cimiteri era un problema indifferibile e non di facile soluzione. I comuni, che avrebbero dovuto accollarsi tale spesa, non sempre potevano affrontare l’impresa. Inoltre la resistenza della gente, legata alle proprie tradizioni, era forte e trasversale alle varie classi sociali.

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    Atto di morte di Attilio Bandiera, 1844. Foto Museo dei Brettii e degli Enotri

    Confratelli

    I nobili tenevano molto alle proprie sepolture gentilizie, il popolo a riposare all’interno di una chiesa. E parroci e priori delle confraternite si occupavano della gestione di tutto ciò. Le confraternite ebbero un ruolo centrale. Antesignane delle attuali società di mutuo soccorso, erano associazioni laiche di credenti, soggette solo parzialmente all’autorità ecclesiastica, mentre per il resto erano controllate da quelle civili.

    Funerale con Confraternita a Napoli nel 1861

    Le confraternite si occupavano del sostegno ai propri iscritti, che versavano annualmente una quota in denaro, e delle attività di culto. Ma anche di ciò che riguardava la morte, il funerale e la sepoltura dei confratelli. Ogni iscritto aveva diritto a ricevere un funerale particolare, con l’intervento degli altri iscritti e di altre cerimonie. E, soprattutto, a essere seppellito nella chiesa del proprio sodalizio. Un discorso a parte meriterebbero le spese funerarie affrontate dalle famiglie in vista, che per prestigio ambivano a cerimonie particolarmente solenni, ed erano così alte che «tre casi di morte in un anno bastano a rovinare ogni ricca famiglia».

    Servizio pubblico di seppellitori

    Padula proponeva di stornare queste somme di denaro e destinarle alla costruzione del camposanto, visto che «si riposa meglio in campagna, e sotto un albero, o lungo la strada maestra come usavano i nostri antichi che nel recinto d’una chiesa». Un camposanto avrebbe così portato maggiore decoro e migliorato la salute pubblica. Ma la sua proposta era tanto (per l’epoca) innovativa quanto utopica: ogni municipio avrebbe dovuto organizzare un «servizio pubblico di seppellitori, il quale, dietro domanda delle parti interessate, curerebbe l’esequie del defunto in modo eguale e gratuito per tutti, lasciando però la facoltà di pagarle a chi le volesse fatte con maggior pompa».

    La costruzione dei cimiteri migliorò le condizioni igienico-sanitarie di paesi e città. La municipalizzazione del servizio di “seppellitori” avvenuta qualche decennio più tardi non portò invece tutti i benefici sperati, nonostante gli auspici. Le vicende della costruzione dei cimiteri nelle città e nei paesi calabresi in alcuni casi furono delle vere e proprie odissee durate anni. E anche quando realizzati erano spesso in condizioni pessime. Nel comune di Rose, in provincia di Cosenza, nel 1893 le pratiche per la costruzione del cimitero erano state avviate ma i cadaveri si seppellivano ancora nella chiesa di un ex convento, in fosse carnarie ormai sature, tanto che si iniziò a utilizzare anche l’atrio e i corridoi del convento.

    I topi fanno il loro dovere

    Nel 1908 un medico di Catanzaro raccontava che «in alcuni cimiteri della provincia scorrazzano grufolando i maiali». In un paese della provincia di Reggio «il cimitero è circondato da una sconnessa palizzata per cui si introducono nella notte le volpi, tantochè alcuni cacciatori del luogo sogliono mettersi alla posta per ucciderle». Agli inizi del ‘900 in alcuni paesi esistevano ancora le “fosse carnarie”. In una relazione dell’epoca si legge che, ancora in un comune della provincia di Reggio, i cadaveri venivano gettati in una cella carnaria attigua alla chiesa, dove però «durante la notte vi entrano gatti e animali».

    Il sindaco del posto, interrogato su come potesse essere sufficiente quella fossa per tutto il paese, rispose candidamente «i topi fanno il loro dovere». Non mancavano episodi poco edificanti, come il caso di un custode del camposanto di Catanzaro che, per aver sottratto dal cimitero beni mobili come «casse mortuarie, croci di ferro, basi granitiche, ecc.» venne accusato di concussione e il suo caso nel 1895 arrivò fino alla Cassazione.

    Disumani becchini al cimitero di Cosenza

    Nel 1903 il cimitero di Cosenza versava in condizioni pietose, con i cadaveri disposti in «veri carnai» e «i familiari dei morti recenti disponibili a dar mance per ingraziarsi i disumani becchini». A ciò bisogna aggiungere «le Congregazioni di Carità che speculavano sulla concessione dei loculi nelle loro Cappelle», annota Enzo Stancati sulla base di uno spoglio dovizioso della stampa d’epoca. In attesa della municipalizzazione del servizio di pompe funebri, a S. Ippolito e Torzano l’utilizzo del carro era ancora un’utopia e il trasporto dei defunti si effettuava «a spalla d’uomo».

    Un funerale d’inizio Novecento a Paola @Foto Agenzia Funebre De Luca Paola

    Sepolture di carità

    Francesco Marano è un povero lustrascarpe della Cosenza d’inizio Novecento. La morte della moglie «per cui ottenne una sepoltura di carità» lo obbliga ad indebitarsi con la Banca Cattolica per pagare oltre al carro e a una minima «rivestitura della cassa», 2 lire e mezza «per ottenere i documenti dal Comune e centesimi cinquanta per mancia a chi gli portò la cassa». Marano è uno dei primi, impotenti cosentini a finire invischiato nell’allora fiorente ramo industriale del “caro estinto” per trovare un posto alla consorte nel cimitero di Cosenza.

    Cari estinti

    Dal lontano 1903, un’unica ditta, la Gaudio-Cundari, gestiva in maniera monopolistica il trasporto dei cadaveri dell’intera città in un oleato sistema di connivenze e piccole speculazioni proprio a danno degli indigenti. Lo sappiamo grazie a una puntuale Inchiesta sull’Amministrazione del Comune di Cosenza, stilata nel 1913 per conto del Ministero dell’Interno dall’ispettore Paolo Donati, “sceso” per fare le pulci ad amministrazioni pigre e scialacquatrici, tra ammanchi di cassa, scandali piccoli e grandi e una gestione familistica della cosa pubblica.

    Pubblicità di onoranze funebri di Cosenza su un periodico degli anni ’20

    La municipalizzazione del servizio di pompe funebri dalla quale «il Comune potrebbe ritrarre un vantaggio di otto o dieci mila lire all’anno» era ovviamente avversata dall’impresa Gaudio-Cundari alla quale «il Comune paga, invece pel trasporto dei cadaveri appartenenti a famiglie povere lire 12 per ognuno».
    La tariffa corrente, stabilita dal regolamento di polizia urbana, per un carro di terza classe era di 10 lire.

    I miserabili del cimitero di Cosenza

    Nella relazione, l’ispettore governativo pone l’accento sulla gestione della ditta di pompe funebri «cui affermasi appartengano, come soci note persone di Cosenza» e su di un servizio «sfruttato in modo poco pietoso». Ma è la concessione da parte del Comune dei certificati di miserabilità a finire sotto osservazione ministeriale: «Non si dura molta fatica ad essere classificati come poveri, dato il modulo adottato dal Municipio e la facilità estrema con la quale si prestano certi individui, fra cui mi si afferma siano anche i facchini della ditta, ad attestare a favore di chicchessia il concorso dei coefficienti necessari ad essere classificati come poveri».

    La Casa delle Culture, sede dell’amministrazione comunale di Cosenza prima della costruzione di Palazzo dei Bruzi

    L’ultima prova del rodato sistema di connivenze e compiacenze tra la ditta Gaudio-Cundari e l’amministrazione comunale la offre il primo cittadino di allora. Guarda caso si chiamava Antonio Cundari, sindaco dal 22 giugno 1908 al 6 febbraio 1911. In una «statistica dei trasporti funebri per i defunti poveri nel biennio 1908 e 1909», datata 4 aprile 1910, ne denunzia 130 nel primo e 140 nel secondo. Quelli sepolti a carico del Comune risulterebbero, sempre secondo i calcoli dell’ispettore Donati, in un anno circa 180.

    Appalti senza concorrenti

    In una città infestata da batteri d’ogni sorta, con condizioni igieniche allarmanti che minavano la salute dei cosentini, specie quelli di condizioni miserande, l’industria della morte rappresentava una fonte inesauribile di guadagni che gli amministratori tenevano a riparo da fastidiosi concorrenti come Salvatore Belsito. Questi, alla scadenza dell’appalto, si sentì di precisare: «Badiamo di non fare qualche altro contratto a trattativa privata; e loro risposero: non temete, che intenzione nostra è che vada l’asta pubblica, perché vantaggiosa al Comune». Alla fine la premiata ditta Gaudio-Cundari si aggiudicò un altro anno di appalto solo perché non avendo dato la disdetta «nel frattempo il vecchio contratto erasi rinnovato per tacito consenso».

  • Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

    Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

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    «Io sono affidabile», risponde un personaggio del film premio Oscar La Grande bellezza, a chi si meraviglia del fatto che possiede le chiavi dei palazzi nobiliari. Nel rione Massa si racconta che anche la sede cosentina della Banca d’Italia di metà Novecento scelse un uomo probo per aprire la cassaforte. Proprio come il misterioso custode di Roma inventato da Paolo Sorrentino.
    Era un abitante della Massa, gran signore e proprietario di uno storico mulino ad acqua sulla sponda del fiume Crati. «Don Luigi Leonetti custodiva la seconda chiave del caveau», ricorda la gente del quartiere. «Apriva e chiudeva ogni giorno insieme con il direttore».

    Il museo seconda casa degli abitanti della Massa

    C’è un gran via vai al Museo dei Brettii e degli Enotri. È diventato una casa per gli abitanti del rione. Lo hanno inaugurato nel 2009, nel quattrocentesco complesso monumentale di Sant’Agostino. Una struttura restituita alla città e, negli anni, diventata polo culturale e sociale. Residenti e nativi si ritrovano nel chiostro arioso e mistico, in questo grande scrigno di reperti preistorici e dell’età dei metalli. «Tra il Museo e il quartiere c’è una bella alleanza», dice la direttrice, l’archeologa Marilena Cerzoso.

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    La direttrice Marilena Cerzoso mostra gli atti di morte dei fratelli Bandiera

    Gli abitanti collaborano alle iniziative, ricostruiscono il puzzle della memoria, masticano storie e radici. Nella notte dei musei hanno fatto da guida ai visitatori e spesso promuovono passeggiate nei vicoli. È tutto documentato sul gruppo Facebook Kiri da Massa, creato da Mario Zafferano, promoter di questo recupero d’identità.

    Hanno anche un presidente, l’ingegnere Franco Mauro che adesso abita nella città nuova, ma alle iniziative, ai convegni, alle inaugurazioni di mostre, partecipa con tutta la granitica memoria di piccole e grandi storie. Ricorda, ad esempio, il ritorno dei soldati dal secondo conflitto mondiale, perché il complesso di Sant’Agostino, tra le tante vite che ha avuto, è stato anche rifugio per gli sfollati. «Ero molto piccolo ma la scena mi è rimasta impressa: un giovane tornato a casa dal fronte, stanco, sporco. Si è levato la maglia e sul pavimento ho visto cadere un tappeto di pidocchi».

    Ritorno in Massa cercando le origini

    Fino a qualche anno fa arrivavano persone in cerca di un pezzo d’infanzia. Cercavano la stanza dove dormivano i genitori, l’angolo in cui si mangiava tutti insieme. Erano gli ex piccoli sfollati del complesso di Sant’Agostino.
    All’epoca era il rione dei pignatari (gli artigiani cosentini della terracotta). “Massa” perché nel ’700, spiega Paolo Veltri, ex preside della facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria che nel quartiere è cresciuto, «vennero erette delle barriere di protezione per limitare i rischi di inondazione derivanti dalle piene del Crati». Ecco l’origine del nome.

    Massa: il rione di Suor Elena Aiello

    Nei vicoli è rimasta l’eco delle sirene delle fabbriche, del vociare delle cantine, dei passi di frati, preti e suore. Dagli agostiniani, alle canossiane, a don Maletta, parroco di San Gaetano che ha costruito pezzetti di dna del rione.

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    A sinistra nella foto, la beata Elena Aiello

    Erano le strade percorse in lungo e in largo anche da Suor Elena Aiello, ‘a monaca santa, figura cult per il popolo bruzio, fondatrice della Congregazione delle Suore Minime della Passione, beatificata nel 2011.
    La storia della Massa è un romanzo dalla trama fitta, una saga di luoghi e persone à la Balzac .

    Cantine e patrioti

    «Ci ho vissuto dai 9 ai 21 anni. Sono andata via quando mi sono sposata e poi sono tornata per sempre. È l’unico luogo dove desideravo mettere radici. Ho ritrovato tanti amici». Rita Ritacco, badante, conosce ogni pietra e ogni famiglia. «Ho comprato una casa e se un giorno farò soldi – ride – ne comprerò un’altra per i miei figli».
    Ha fatto la stessa scelta Giancarlo Spinelli, imprenditore edile. «Sono tornato ad abitare nel mio quartiere d’origine, con mia moglie e i miei figli, quando ho ereditato casa dai miei nonni». Suo padre era una celebrità, tra la gente del posto: Natale Spinelli, proprietario di una cantina. Si beveva vino artigianale mixato alla gassosa prodotta nella vicina fabbrica di Giovannino Gallo.

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    Carte, vino e gassosa in una storica cantina della Massa

    Un’altra cantina mitica del passato era quello di Franchino Perrelli, oggi bar dei Fratelli Bandiera, dedicato a due figure storiche del cuore in questo lembo di città, per via del loro sacrificio in nome dell’Unità d’Italia. L’ara di Attilio ed Emilio Bandiera è nel Vallone di Rovito, dove furono fucilati, dopo un tradimento, il 25 luglio del 1844. Era meta di gite scolastiche, scenario di cori italici e manifestazioni, ma oggi vive lunghi periodi di abbandono. Sono stati gli stessi abitanti, insieme all’associazione Plastic Free, a ripulirlo recentemente, in 15 giorni. Gli atti di morte dei fratelli sono conservati nella sezione Risorgimento.

    Un forte senso di appartenenza

    Gli abitanti della Massa puliscono il Vallone dei fratelli Bandiera

    «Oggi il museo è il nostro gioiello e la direttrice è una persona speciale», dice Giancarlo Spinelli. Marilena Cerzoso è anche lei custode «affidabile», guida di un museo archeologico e inclusivo. «Ho un doppio legame con la Massa, personale e professionale. Sono tornata nei luoghi di cui ho sempre sentito raccontare dai miei genitori. – spiega. – Mia madre è cresciuta nel quartiere limitrofo della Garruba e insieme a mio padre ha vissuto la sua giovinezza nel gruppo scout di San Gaetano, sotto la guida del mitico don Luigi Maletta. Quindi essere tornata nei luoghi dei racconti della mia famiglia è per me motivo di grande gioia e commozione». Il fatto «di aver trovato un quartiere accogliente, che ha un forte senso di appartenenza – continua,- mi dà tanta forza e mi stimola nel fare sempre meglio per la valorizzazione del territorio».

    Remo Scigliano ha un bazaar. Fai un nome del passato e lui risponde con numeri: il civico, l’anno di nascita, date importanti della vita del personaggio citato. Ha lavorato «oltre trent’anni alle poste e telegrafo», anche lui è una risorsa preziosa per unire i fili del passato a quelli del presente. Il suo negozio è in fondo alla scalinata di Sant’Agostino.
    Davanti alla chiesa ci sono sempre gruppi di bambini che giocano a pallone. Hanno imparato. Appena vedono un visitatore in fondo alla scalinata fermano il Super Santos con un piede e aspettano che passi.

    Rita Ritacco e Giancarlo Spinelli

    «Anche io da piccolo giocavo sul sagrato, ma con le palle di pezza». L’ingegnere Mauro è nato nel palazzo accanto alla chiesa. «Una costruzione fatta da mio nonno nel 1910. Ecco – la indica, oltre un minuscolo davanzale con rose rosse rampicanti – quella era casa mia. Oggi si chiama via Viapiana, ma per noi rimane il Puzzillo». Accanto a lui il professore Veltri. Guardano verso l’ex Puzzillo e il piccolo davanzale sembra il colle dell’Infinito di Recanati.

    I confini

    La Massa confina con lo Spirito Santo, con Casali, con il vecchio tribunale di Colle Triglio, oggi Palazzo Arnone, che ospita la Galleria d’arte nazionale. Un itinerario breve e vertiginoso.
    «Sul lungo muretto di collegamento con lo Spirito Santo, fino alla metà degli Anni ’60, si giocava la tombola dei due quartieri ogni domenica, anche quando le giornate erano piovose», ricorda Veltri, che con Ugo Dattis ha scritto un libro, Sertorio a quattro mani, pubblicato dalla Pellegrini, dedicato alla città vecchia.

    Franco Mauro e Paolo Veltri

    Sono scanditi dai suoni i ricordi del passato. «L’orologio del vecchio tribunale, le campane della chiesa, – racconta Franco Mauro. – E poi suonava la sirena della fabbrica delle piastrelle in cemento Mancuso e Ferro, l’ingresso degli operai, alle sette, e l’uscita, alle quattro del pomeriggio».
    I nativi e gli abitanti della Massa sono raccoglitori di storie. «Se non ci fosse stato lo stimolo del Museo dei Brettii e degli Enotri. – conclude Paolo Veltri, – tutti i nostri ricordi si sarebbero dispersi nei vicoli».

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    Uno scorcio del rione Massa (foto Mario Magnelli)

    (Le foto nell’articolo sono di Concetta Guido e del gruppo Fb “Kiri da Massa”. Ringraziamo per l’autorizzazione all’uso delle immagini)