Tag: storia

  • Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Negli anni passati, sindaci, assessori e operatori culturali di destra e di sinistra, per certificare un glorioso passato di Cosenza, hanno pensato di rievocare con cortei storici, convegni e statue le figure di condottieri, re e imperatori: Alarico e il suo mitico tesoro, Federico II di Svevia Stupor mundi e Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole. Hanno pensato che, soprattutto il nome di Alarico, avrebbe funzionato da attrattore per i turisti e portato lustro e benefici alla città e ai suoi abitanti. Il biondo guerriero sepolto nello spazio magico alla confluenza tra Crati e Busento, più di ogni altro ricordava la grandezza della gloriosa città.

    Alarico innamorato di Cosenza

    Alarico è stato sottoposto a un processo di revisione storica, presentato come un re che  voleva unire i popoli europei, che predicava la pace e la convivenza civile, che aveva amato profondamente Cosenza tanto da volerla capitale di un nuovo regno. La rielaborazione «positiva» del re barbaro è avvenuta in tutti i campi: letteratura, cinema, fumetti, teatro, arte e poesia. Le scuole cittadine di ogni ordine e grado, sono state coinvolte in progetti imperniati sulla vita di Alarico.

    Il funerale di Alarico

    Ricordo che in una pubblicazione alcune insegnanti scrivevano entusiaste che il capo dei Visigoti, considerato erroneamente un rozzo e spietato invasore, era in realtà un uomo colto, fautore di una società multietnica e amante della cooperazione tra i popoli. Un sindaco recentemente è arrivato addirittura a proporre la costruzione di un grande museo dedicato al re barbaro e ai Goti. Molti ancora si chiedono con quali reperti o documenti lo avrebbe riempito.

    E Von Platen sparisce dalle celebrazioni

    Un ritratto di August Von Platen

    Come sempre accade, nel processo d’invenzione della storia, molte cose finiscono nel dimenticatoio. È interessante notare, ad esempio, che durante le celebrazioni dedicate ad Alarico, il poeta August von Platen  è stato completamente ignorato. Eppure, se la leggenda del re visigoto è nota in  tutta Europa, lo si deve a una sua bellissima poesia. Von Platen non era un uomo molto amato. Widmann lo aveva rimproverato di aver composto quei versi senza mai essere stato a Cosenza, altrimenti avrebbe visto che il Busento non era un fiume dalle acque vorticose ma un misero fiumicello! Heine accusò il poeta di essere un «immondo omosessuale».

    Forse per questo motivo Von Platen lasciò la Germania, considerata più matrigna che madre, per vagare senza meta in Italia. La speranza che un giorno le sue opere sarebbero state apprezzate e il suo nome sarebbe divenuto immortale mitigava le umiliazioni che era costretto a subire. Mussolini, in un saggio giovanile sul poeta, ne ricordò il valore definendolo un tedesco mediterraneo che amava profondamente l’Italia e in un’ode aveva scritto che la «rozza schiatta tedesca» aveva un tempo annientato la civiltà italiana.

    L’invenzione della tradizione

    La rielaborazione storica di Alarico fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e tradizioni che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a narrare i fatti remoti, a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi, a far conoscere luoghi legati a eventi storici. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord. Il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Gli operatori dell’industria dello spettacolo, convinti che gli spettatori non abbiano alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a dare spiegazioni inverosimili.

    La passione bruzia per gli invasori

    Non sappiamo spiegare l’entusiasmo dei politici cosentini per popoli stranieri che in diverse epoche storiche hanno impoverito e umiliato la loro terra. Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno comunque parte di una fabbrica del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione della cultura che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma. L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni.

    Horkheimer e Adorno

    Il tentativo di restituire a Cosenza il primato che aveva un tempo ricorrendo all’invenzione della storia si è rivelato un insuccesso. Le celebrazioni dedicate a grandi personaggi come Alarico sono prive di valore sentimentale, prevale l’aspetto ludico e di consumo. I cittadini partecipano agli eventi culturali come ad una grande fiera. Non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli operatori culturali, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi. Per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione che consenta alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

    Operazione Alarico a Cosenza, la replica di un fallimento

    La statua equestre dedicata ad Alarico, alle spalle quel che resta dell’ex Hotel Jolly

    Richiamandosi all’invasione del re visigoto che nel 410 a. C. saccheggiò Roma, i nazisti hanno usato come nome in codice Unternehmen Alarich il piano militare elaborato per occupare l’Italia in caso di una resa agli Alleati. La Unternehmen Alarich degli amministratori cosentini si è rivelata un clamoroso fallimento. Il re visigoto che in una strana statua sta ritto sulla testa di un cavallo alla confluenza del Crati e del Busento, sembra tentenni a tuffarsi per ritornare sotto le acque putride dei fiumi coperti da una fitta boscaglia e pieni fino all’inverosimile di spazzatura. Alle sue spalle le macerie di un palazzo abbattuto e una città vecchia abbandonata che sta cadendo a pezzi.

     

     

     

     

     

     

     

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

    cutolo-ndrangheta-quando-camorra-colonizzo-cosenza
    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.

  • Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Scalfari è morto: viva Scalfari.
    Quando se ne va l’ultimo illustre vegliardo del giornalismo italiano, l’estremo saluto dev’essere all’altezza. In questo caso, deve ricordare la formula funebre dell’Ancien Régime.
    Già: come tutti i direttori di giornale che si rispettino, Scalfari fu un monarca. E lo fu in maniera assoluta. Aggressivo nella sostanza ed elegante nelle forme, l’ex direttore e fondatore di Repubblica (e prima ancora de l’Espresso), aggiungeva ai difetti del giornalista una matrice particolare: la calabresità.

    Scalfari calabrese di ritorno…

    In Calabria, Scalfari visse pochino: giusto gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. E di sicuro non per sua volontà.
    L’occupazione angloamericana a Sud aveva senz’altro dato sollievo alle popolazioni. Ma aveva pure scatenato una crisi economica enorme. La cosiddetta “Am-Lire”, cioè la cartamoneta stampata a profusione dal governo militare alleato, aveva innescato un’inflazione spaventosa e bruciato tutti i risparmi. Specie quelli investiti in titoli di Stato.
    Come quelli di papà Pietro, originario di Vibo.

    scalfari-calabrese-origine-libertario-addio-papa-repubblica
    Il giovane Eugenio Scalfari

    La famiglia Scalfari fu quindi costretta a riparare in Calabria per sbarcare il lunario. Lo stesso giornalista rievoca quest’esperienza in Breve storia di un padre, un racconto biografico pubblicato su l’Espresso nel 2017.

    Scalfari fascista ma non troppo

    Gli Scalfari erano la classica famiglia “perbene” o, se si preferisce, notabile.
    Il nonno Eugenio fu professore al ginnasio e, guarda un po’, a sua volta giornalista. Il bisnonno Pietro Paolo fu una personalità di spicco del Risorgimento (aprì le porte della città a Garibaldi).
    Papà Pietro era un personaggissimo: eroe della Grande Guerra e poi legionario con D’Annunzio a Fiume, si barcamenò come direttore di Casinò.
    Ma era anche coltissimo e trasmise al figlio l’amore per i libri e la scrittura.
    Come tutti i giovani promettenti, Scalfari si iscrisse al Pnf e proprio negli organi di partito iniziò la gavetta giornalistica.
    Questa scelta, comune a tanti grandissimi giornalisti (Montanelli e Bocca su tutti) non deve meravigliare. Il fascismo, rispetto agli altri regimi autoritari, ebbe una sua particolarità: fu fondato da un giornalista. E, pur censurandola a botte di veline, mantenne una certa sensibilità verso la carta stampata, più per esigenze di propaganda che per (improbabile) amor di libertà.

    Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa e suocero di Scalfari

    Eugenio liberale e poi radicale

    Finita la guerra e trasferitosi a Roma, il giovane Eugenio entrò in banca. Ma, tra un deposito e un assegno, scriveva. Eccome, complice anche il matrimonio azzeccato con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, celebre direttore de La Stampa.
    Aderì prima al Pli e poi partecipò alla fondazione del Partito radicale. Ma per lui la politica era soprattutto una questione di comunicazione. Infatti, la fece sui giornali che diresse, a partire da l’Espresso.

    Scalfari e i golpisti

    Con l’Espresso, Scalfari ebbe la sua prima medaglia: una condanna a quattordici mesi per aver diffamato il generale Giovanni de Lorenzo. La condanna resta tuttora controversa, visto che fu emessa a dispetto della richiesta di assoluzione avanzata dal pm, il celebre Vittorio Occorsio.
    Ci riferiamo, va da sé, al dossierone sul Sifar e sul Piano Solo, un mega sputtanamento confezionato da Lino Jannuzzi.

    scalfari-calabrese-origine-libertario-addio-papa-repubblica
    Il generale Giovanni de Lorenzo

    Allora la galera i giornalisti la facevano per davvero (ne sapevano qualcosa Giovannino Guareschi e Giorgio Pisanò). Ma a favore di Scalfari e Jannuzzi intervenne il Psi, che portò i due in Parlamento, dotandoli dell’immunità.

    Repubblica

    La Repubblica di Scalfari è una delle più geniali intuizioni del giornalismo italiano. Fondato nel 1976, fu il primo grande quotidiano della sinistra.
    In questo caso, si parla di quotidiano indipendente, cioè non subordinato al Pci e ai suoi satelliti. Fu una botta di fortuna, propiziata anche dal grande fiuto del fondatore.
    Scalfari, infatti, capì che mancava un organo a una fetta vasta di opinione pubblica, di sicuro sinistrorsa ma non disposta a prendere l’Unità per Vangelo.

    scalfari-calabrese-origine-libertario-addio-papa-repubblica
    Eugenio Scalfari negli anni d’oro di Repubblica

    Complice una grande squadra di cronisti giudiziari e di notisti politici, il nuovo quotidiano prese il volo. La formula era semplice ma efficace: Scalfari e i suoi riprendevano le inchieste dei giornali d’assalto (Paese Sera e L’Ora di Palermo, per capirci) ma senza l’ombra del comitato centrale comunista.
    Repubblica dialogò con un pubblico enorme, che andava dalla sinistra liberale a quell’area filocomunista che considerava Berlinguer un messia. E sfondò.

    Il giornale chiesa

    Secondo molti, Repubblica fu un giornale-partito. Ma questa definizione è sbagliata per difetto: Scalfari, in realtà, aveva fondato una Chiesa.
    Laica, a tratti atea come si dichiarava il suo fondatore, ma pur sempre chiesa. Sulle colonne di questo giornale prese forma il sinistrese politicamente corretto, che sopravvisse a tutti i traumi della sinistra.
    Grazie a questa formula, Scalfari si prese il lusso di dichiarare prima guerra a Craxi e poi a Berlusconi, per esempio. E di vincerla sempre.
    Tangentopoli non sarebbe stata Tangentopoli se prima non ci fosse stato il lungo lavorio di Repubblica, che fece scuola anche tra molti giornalisti che a Repubblica non misero mai piede. Idem per Berlusconi, che pure riusciva a parare i colpi col suo impero editoriale.

    L’anti giornalista

    Fazioso ma non per conto terzi, autoreferenziale e un po’ arrogante, Scalfari per molti versi può essere definito un anti giornalista.
    Fanno fede, al riguardo, gli articoli lunghissimi, i periodoni un po’ manzoniani e un po’ barocchi e l’autocompiacimento, che arrivava alla scrittura in prima persona. Roba che per molto meno Montanelli avrebbe sparato.
    Eppure Scalfari, nonostante ciò, ebbe un successo smodato e divenne un riferimento. Tant’è che i lettori di giornali si possono dividere in tre categorie: quelli che riuscivano a capire Scalfari, quelli che lo leggevano comunque e quelli che lo detestavano.
    Anche in età da pensione il Nostro si tolse una soddisfazione per cui dozzine di giovani, anche più atei di lui, venderebbero l’anima: un dialogo privilegiato con papa Francesco.

    Papa Francesco, l’ultimo illustre intervistato (e un po’ vittima) di Scalfari

    Un dialogo strano, fatto di smentite vaticane e di abbracci pontifici. Scalfari veniva accusato di mettere in bocca al papa cose mai dette e ciononostante, continuava a intervistare Bergoglio come se nulla fosse.
    Scriveva come gli pareva (benissimo per un intellettuale, non troppo per un giornalista) e faceva comunque opinione. Insomma, essere Scalfari è il secondo desiderio di un giornalista ambizioso (il primo è avere un articolo 1 al Corriere della Sera).
    E allora che dire? Scalfari è vivo e lotta con noi. E tutto il resto è fuffa.

  • IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
    Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
    Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.

    La riva sotto il sole

    Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
    Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
    Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.

    La Tropea di Escher

    Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
    Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
    Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.

    berto-capo-vaticano-amore-veneto-calabria-antica
    Tropea raffigurata da Escher

    La metamorfosi del turismo

    Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
    Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
    Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.

     

    Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.

    berto-capo-vaticano-amore-veneto-calabria-antica
    Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”

    Nella penna di Berto

    Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
    Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
    Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
    Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.

    Tropea, Capo Vaticano e la sibilla

    La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
    Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
    La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
    Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.

    Il faro di Capo Vaticano

    Una casbah ’nduja e cipolla

    Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
    L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
    Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
    Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.

    Cosa resta di Berto

    Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
    Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.

    berto-capo-vaticano-amore-veneto-calabria-antica
    Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto

    Il ricordo della barista

    Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
    Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.

    Berto, un reazionario illuminato a Tropea

    Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
    Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

    berto-capo-vaticano-amore-veneto-calabria-antica
    Berto con il suo cane Cocai

    Il riposo

    Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
    Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
    Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».

    Abusivi e kitsch: i vivi come i morti

    Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
    Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
    Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.

    La tomba di Berto

    Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
    Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
    Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.

    Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
    Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.

    Un disegno infantile

    La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi

    Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
    Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
    Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.

    «Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.

  • Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    All’alba del 15 marzo 1844, un centinaio di patrioti cosentini attraversò in armi le vie del centro al grido di «Viva la libertà!». Sventolavano con orgoglio una bandiera tricolore attaccata a una canna.
    Giunsero al palazzo dell’Intendenza e cercarono di abbatterne il portone con accette. A questo punto intervenne un reparto di soldati a cavallo e vi fu un aspro conflitto a fuoco. Caddero alcuni soldati, tra cui il capitano della gendarmeria Vincenzo Galluppi, e, fra i sovversivi, Francesco Salfi, Michele Musacchio, Giuseppe Filippo e Francesco Coscarella.

    Qualche tempo dopo, il 16 giugno, i fratelli Bandiera e altri rivoltosi, sbarcarono nei pressi della foce del Neto. Ma furono accerchiati e fatti prigionieri sulla via verso Cosenza.
    Il 25 luglio Nicola Ricciotti, Domenico Moro, Anacarsi Nardi, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Francesco Berti, Domenico Lupatelli, Attilio ed Emilio Bandiera furono fucilati nel Vallone di Rovito. L’11 luglio erano stati condannati a morte i patrioti cosentini Pietro Villacci, Giuseppe Franzese, Nicola Corigliano, Sante Cesareo e Raffaele Camodeca.

    fratelli-bandiera-martirio-esempio-non-furono-folli-ma-eroi
    Da sinistra: i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera

    Mazzini celebra i fratelli Bandiera

    Giuseppe Mazzini dedico all’episodio una pagina importante, scritta a caldo: «Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei Bandiera e dei loro compagni alla bella morte, che il martirio è sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di vittoria immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le moltitudini … Non date orecchio, o giovani, a quelle parole … Il martirio non è sterile mai».

    Già, proseguiva il rivoluzionario genovese: «Il martirio per una Idea è la più alta formula che l’Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge di mezzo a’ suoi fratelli giacenti ed esclama: ecco, questo è il Vero, ed io, morendo, l’adoro, uno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l’Umanità, perché ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de’ proprj doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sacrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l’Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl’Italiani sanno morire … Io vi chiamo a combattere e vincere: vi chiamo a imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll’esempio ha voluto insegnarvelo, perché so che senza quello voi non potrete conquistar mai la vittoria».

    fratelli-bandiera-martirio-esempio-non-furono-folli-ma-eroi
    Giuseppe Mazzini, l’apostolo del Risorgimento

    Eroi tragici

    I patrioti giustiziati a Cosenza sono diventati eroi tragici: uomini che si erano battuti contro forze soverchianti per una causa giusta fino alla fine.
    Senza chiedere nulla in cambio, avevano ingaggiato una lotta disperata per la patria e la libertà contro un potente nemico. La loro morte era una vergogna per l’umanità. I loro corpi non vennero adagiati su un letto funebre, ma su una carretta. Non vennero lavati ma rimasero sporchi di sangue. Né vennero offerti al compianto dei loro familiari ma nascosti dal nemico. Non ebbero solennità, ma furono sepolti in una fossa comune.

    Don Chisciotte e Sancio Panza

    Quella drammatica spedizione ha comunque reso immortali i fratelli Bandiera e i loro seguaci. Gli studiosi collocano la loro vita nella storia e la interpretano con la ragione.
    Gli uomini, invece, la collocano nel mito e la interpretano tramite l’amore.
    I martiri cosentini sono più vicini agli uomini di quanto si pensa. A volte siamo spinti a credere che nel mondo vi siano dei don Chisciotte o Sancio Panza. I primi sono prigionieri dei loro sogni e si sacrificano per affermarli, i secondi sono prigionieri della felicità materiale e vivono per soddisfarla. I primi sono mossi da una natura spirituale che li spinge all’azione e al sacrificio, i secondi da un empirismo animale che li spinge all’ozio e ai piaceri.

    fratelli-bandiera-martirio-esempio-non-furono-folli-ma-eroi
    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Rivoluzione vs (auto)conservazione?

    Forza attiva e rivoluzionaria quella dei primi, forza passiva e conservatrice quella dei secondi. In realtà nessun uomo si riconosce completamente in Don Chisciotte o in Sancio Panza. Tutti, invece, si aggrappano sia alla poesia sia alla materia, impulsi naturali che esistono indipendentemente dalla loro volontà.
    Gli uomini si commuovono pensando ai patrioti caduti a Cosenza nel 1844 perché avevano combattuto per quell’amore di giustizia che il più delle volte rimane nascosto perché non si ha il coraggio di mostrarlo nell’agire.
    Gli storici hanno scritto che la spedizione dei fratelli Bandiera e dei loro compagni era votata a una inevitabile sconfitta. Inoltre, hanno detto che erano degli esaltati, isolati dalle masse e senza alcuna possibilità di successo.

    Due testimoni d’eccezione

    Un importante commento a caldo proviene dall’intendente De Sangro, recatosi a San Giovanni in Fiore Il 29 agosto 1844 per distribuire le ricompense di Ferdinando II ai catturatori.
    De Sangro disse che fra gli attentati strani e audaci della storia umana nessuno per follia era comparabile a quello compiuto dagli esuli di Corfù. Già: quei fuggiaschi giunti per sollevare la popolazione contro il Re erano in preda al delirio e al disordine mentale.

    Il secondo commento è di Cesare Marini, difensore dei patrioti. Marini disse nella sua arringa al processo: «Si vuol rovesciare un governo costituito, in estranea contrada, e lo si tenta con 21 esuli mancanti di tutto! Si vuol combattere il forte esercito del nostro re, che sorpassa i sessanta mila uomini, e s’impiegano non più che 21 fucili! Si vuol creare un nuovo politico reggimento che assicurasse di tutta Italia le sorti, senz’altri mezzi pecuniari che poche migliaia di ducati, senz’altra forza che 21 uomini privi di notizie, di rapporti, di aderenze e di nome in contrade ad essi sconosciute!».

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Quasi ironica la conclusione: «Signori, questo folle tentativo non diversifica punto dall’impresa ridicola di quel fanciullo che, con una ciotola attingendo acqua nel mare, intendeva ottenere il prosciugamento dell’Oceano, o dall’intrapresa di quel fanatico il quale, per via di alcune erbe abbruciate in sulla vetta dei monti del Peloponneso e di alcuni esorcismi, intendeva produrre la peste in Atene!».

    Non visionari ma eroi

    Marini era un avvocato e il suo compito era difendere gli imputati, anche invocando una specie di “semiinfermità”.
    Tuttavia, i fratelli Bandiera non erano dei visionari, non erano fuori dalla storia, non piegavano la realtà ai loro sogni. Soprattutto, non credevano che i mulini a vento fossero giganti o le mule dei frati dromedari.
    Un eroe, uomo diverso dagli altri per le sue qualità non comuni, diventa tale solo se rientra nei sentimenti e nella mentalità della sua epoca.
    I fratelli Bandiera e compagni erano espressione delle aspirazioni sociali, politiche e intellettuali del loro tempo. L’eroe realizza nella forma più nobile le virtù ideali di un’intera nazione. E concretizza con l’agire ciò che nella gente è solo un’idea, con le sue imprese memorabili, nutre e arricchisce il suo popolo.

    Il sacrificio e l’esempio

    Il dramma dei patrioti cosentini ha commosso l’intera Europa.
    La sincerità delle intenzioni si rivela nei fatti: le parole, quando non si traducono in azioni, sono sempre ipocrite. Molti patrioti predicavano bene e razzolavano male: facevano grandi discorsi, ma quando dovevano scendere in campo, trovavano mille scuse.
    I patrioti di Cosenza erano diversi: predicavano la necessità di combattere e impugnarono il fucile nonostante gli ostacoli insormontabili e la soverchiante nemica.
    Quei sentimenti patriottici che avevano spinto migliaia di uomini e donne a combattere per nobili ideali non ci sono più.

    fratelli-bandiera-martirio-esempio-non-furono-folli-ma-eroi
    L’ara dei Fratelli Bandiera a Cosenza

    C’è chi preferisce i barbari

    L’Unità d’Italia si è realizzata ma vasti settori dell’opinione pubblica del Nord e del Sud maledicono l’unificazione nazionale. E c’è chi sostiene che si stava meglio quando il Paese era diviso in tanti Stati. Ricordo che alle scuole elementari la maestra ci portava ogni anno nel Vallone di Rovito per raccontarci la storia di quei giovani che avevano sacrificato le loro vite per la nostra libertà. Da molti anni, invece, amministratori di destra e di sinistra preferiscono innalzare statue e organizzare eventi per esaltare e glorificare la figura di Alarico che era giunto in città per saccheggiarla. Che tristezza.

    Cosa resta del Risorgimento?

    Il Risorgimento rimane una delle pagine più belle della storia di Cosenza.
    Nella Calabria Citeriore migliaia di cittadini finirono a processo e i più subirono condanne enormi. In un verbale di polizia si legge che tra i patrioti del 1844, coinvolti nell’attacco al palazzo dell’Intendenza del capoluogo, ce n’erano alcuni vestiti da ricchi galantuomini e altri da umili contadini.
    Giovani di condizione sociale, cultura e paesi diversi si trovarono uno accanto all’altro per combattere in nome della libertà. L’amore per la patria, vaga aspirazione sentimentale, si tradusse nell’azione politica e non si arrestò davanti all’esilio, la prigione e il patibolo.

  • Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

    Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La cattedrale di Cosenza è una signora di 800 anni, un poco austera ma accogliente. La storia scorre tra le sue pietre rosa di Mendicino, coi suoi inevitabili scompigli.
    Un terremoto distrusse nel 1184 l’antica chiesa paleocristiana e la cattedrale fu ricostruita sui resti della precedente. Al riguardo, non tutte le fonti coincidono: secondo alcune ipotesi, la cattedrale sarebbe stata spostata per un certo periodo ai piedi del castello svevo. Tuttavia, non si hanno notizie certe. Poi arrivarono i restauri e alcuni rifacimenti irrispettosi dello stile originario, romanico-cistercense con innesti gotici. Di tutto ciò la Signora porta i segni con orgoglio. Senza cicatrici nessuna vita può dirsi davvero tale. Con un bagaglio di memorie, identità e qualche mistero, la cattedrale di Cosenza quest’anno festeggia l’ottavo centenario e continua a vivere nelle storie che la abitano.

    Cotone e bisturi per recuperare gli affreschi

    Queste storie sono il prodotto di mani laboriose. Quelle di Isabella Valente cercano di riportare alla luce alcuni affreschi che un tempo abbellivano le pareti del Duomo e che poi furono ricoperti. Un lavoro delicato, con cui la studentessa si laureerà in Conservazione e restauro dei beni culturali all’Università della Calabria.
    Isabella, 27 anni, di Crotone, usa un bisturi per rimuovere l’intonaco, dopo averlo ammorbidito con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua. Già s’intravedono due figure di santi ma per identificarli servono tempo e pazienza. «È l’aspetto archeologico a rendere il lavoro interessante, e la pulitura permette di riconoscere le figure». Questo lavoro le è stato assegnato perché è precisa e minuta. Il cantiere, alla fine della navata sinistra, è piccolino.
    Isabella (una dei primi laureati del corso di laurea, istituito sei anni fa e coordinato dalla professoressa Donatella Barca) alterna giornate di lavoro in cantiere a momenti di studio all’università, quando c’è da attendere i risultati di laboratorio.

    cattedrale-cosenza-restauratori-opera-risvegliare-antica-bellezza
    Angelo dell’Annunciazione, altro affresco recuperato grazie ai restauratori

    Lifiting a regola d’arte

    «Prima c’è la fase diagnostica: attraverso raggi X e infrarossi si cerca di capire com’è composto il dipinto. Poi si applicano i reagenti chimici. Innanzitutto per la pulitura, dove la pittura presenta strati che non consentono la lettura. E poi per il consolidamento dove la materia pittorica è indebolita dal passare del tempo», spiega Raffaella Greca, docente di Restauro, una dei relatori della tesi di laurea.
    «I reagenti chimici cambiano a seconda della composizione del colore, per bilanciarne il Ph. Si lavora affinché i materiali siano compatibili con quelli storici e per la reversibilità dei trattamenti». Le restauratrici spesso lavorano accompagnate dal suono dell’organo Mascioni. Anche l’organo, uno dei più grandi al Sud, è un’attrazione: gli studenti del conservatorio vanno spesso ad esercitarsi in cattedrale.

    Stile su stile

    Il ciclo pittorico risale probabilmente al 1300, ma la datazione è ancora incerta.
    Stesso discorso per gli altri due affreschi visibili su alcuni pilastri della navata destra: un Cristo e l’Angelo dell’Annunciazione.
    Furono ricoperti di intonaci e stucchi barocchi durante la più imponente trasformazione della cattedrale, avvenuta nel ’700 per volontà dell’arcivescovo Capece Galeota. «Quando si voleva rinnovare la diocesi, si modificava la cattedrale come segno di cambiamento», spiega suor Valentina.

    cattedrale-cosenza-restauratori-opera-risvegliare-antica-bellezza
    Un affresco di Gesù recuperato grazie al restauro

    Di Milano, 40 anni, è a Cosenza quasi da due, dopo essere stata formata come educatrice. Lavora coi bambini e i ragazzi dei quartieri Santa Lucia e Spirito Santo, insieme alle associazioni S. Lucia e San Pancrazio, per contrastare l’abbandono scolastico.
    Con alcuni di loro porta avanti il progetto “Pietre vive”. Ai ragazzi insegna a fare le guide, dopo una formazione storico-artistica e degli aspetti liturgici legati all’architettura. «Per esempio, l’arco della navata centrale del duomo non è perfettamente centrato perché simboleggia il Cristo in croce con la testa reclinata da un lato. Un simbolismo proprio dell’architettura cistercense».

    Psicoterapia di gruppo in cattedrale

    Nella cattedrale di Cosenza si può imparare anche ad ascoltare sé stessi.
    Da novembre 2021 lo psicologo Domenico Mastroscusa incontra i genitori dei ragazzi impegnati col catechismo per un percorso (gratuito) di psicoterapia di gruppo.
    Una volta al mese si ritrovano nella sala capitolare, una sala riunioni realizzata nel 1950. «Molti genitori lamentano problemi nel rapporto coi figli, così è nata l’idea di fare questi incontri».
    Ma non è una passeggiata. «Siamo partiti con 5 papà e ora sono rimaste solo le mamme. C’è ancora un pregiudizio sull’educazione dei figli che si considera prerogativa femminile», dice lo psicologo.

    Lo psicologo Domenico Mastroscusa durante una seduta coi genitori

    Una mamma separata, che vuole restare anonima, ne sa qualcosa. «Con mio figlio di 13 anni siamo riusciti a creare un rapporto col padre solo grazie allo sport».
    Caterina Paletta, invece, grazie a questo percorso ha messo in discussione l’educazione che aveva ricevuto. «Ho avuto una madre rigida e mi comportavo allo stesso modo con mia figlia. Ora lei mi racconta il suo mondo».

    Il lavoro nei quartieri

    Don Luca Perri con i ragazzi del catechismo

    La cattedrale di Cosenza è anche un punto d’osservazione privilegiato del centro storico e dei suoi problemi sociali e strutturali.
    «Organizziamo la recita del rosario nei quartieri, ogni primo venerdì del mese portiamo la comunione a casa dei malati, poi c’è la benedizione delle case: questo è anche un modo per monitorare la situazione. Quando è critica, come nel quartiere di Santa Lucia, tentiamo di dialogare coi servizi sociali», racconta don Luca Perri, rettore della cattedrale dal 2016, dopo essere stato il vice del suo predecessore, don Giacomo Tuoto (a lui si deve una guida approfondita sulla cattedrale di Cosenza edita da Pellegrini e ristampata quest’anno).

    Aria d’Europa: da Isabella d’Aragona allo Stupor Mundi

    Don Luca è anche socio fondatore dell’associazione 8centoCosenza, che cura le celebrazioni per l’ottavo centenario della cattedrale.
    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una lectio magistralis sul Duomo di Cosenza, elogiandone il meticciato artistico-culturale, a cominciare dal monumento funebre a Isabella d’Aragona, del 1275 circa, di ignoto artista francese.

    Il mausoleo funebre di Isabella d’Aragona

    La spagnola regina di Francia era incinta di sei mesi quando cadde da cavallo attraversando il fiume Savuto, di rientro dall’ottava crociata. Secondo alcune ipotesi, le parti deteriorabili del suo corpo, compreso il feto, furono seppellite al Castello Svevo, mentre lo scheletro fu trasferito in Francia.
    Nel duomo rimane il mausoleo che per lo storico dell’arte Cesare Brandi vale da solo una visita a Cosenza. Il monumento fu nascosto nel ‘500, poi riposizionato dove doveva trovarsi in origine, nel transetto, sul lato sinistro. La storia della cattedrale s’intreccia con la storia della città e quella europea anche in altre occasioni. Quando l’imperatore Federico II venne a Cosenza per la consacrazione del duomo, il 30 gennaio 1222, probabilmente per la prima volta la città dei bruzi adottò il gonfalone coi sette colli.

    Piccole storie importanti

    Ma le piccole storie tengono in vita la cattedrale. Maria Anna Marrello ne custodisce le chiavi dal 1997, apre e chiude la chiesa tutti i giorni da allora. «All’inizio non volevo questa responsabilità, anche la famiglia era contraria». Poi la fede ha preso il sopravvento.
    La signora Annamaria, come la chiamano tutti, ha 73 anni ed è l’assistente del parroco. Dal suo mazzo di chiavi estrae quella che apre la grande porta di legno intagliato della sagrestia. Poi apre i bellissimi armadi all’interno (tutti opera di artigiani roglianesi del 1700, come il coro ligneo nell’abside), per mostrare le tende che ha cucito per il tabernacolo e le tovaglie con cui prepara l’altare prima delle funzioni religiose.

    Maria Anna Marrello e Giovanna Brescia, le “tutrici” della cattedrale

    La signora Giovanna Brescia, 80 anni, la aiuta di tanto in tanto con le pulizie, lavando a mano la biancheria più delicata.
    Ad esempio, i due corporali in lino, le tovaglie che si mettono sotto il calice, ricamati a punto a giorno, con le spighe e l’uva, da donna Rachele Andreotti Loria in occasione della visita del cardinale Parolin. La signora è una professoressa in pensione del liceo classico Telesio, discende da antica famiglia nobiliare della città ed ha ereditato il palazzo Giannuzzi Savelli.

    cattedrale-cosenza-restauratori-opera-risvegliare-antica-bellezza
    L’ingresso della cappella dei nobili

    Il mistero della cappella dei nobili

    Proprio il barone Domenico Giannuzzi Savelli fece restaurare, alla fine del ’700, la cappella dei nobili.
    Quest’antica chiesetta del ’400 sorge nel giardino, sull’antico cimitero della cattedrale, ricoperto dopo che l’editto di Saint-Cloud nel 1804 vietò le sepolture entro le mura cittadine. Vi si accede dall’interno, dal corridoio della sagrestia del duomo, e versa in stato d’abbandono.

    Fossa funebre della Cappella dei nobili

    Sul pavimento della chiesa si vedono le fosse tombali in cui venivano sistemati i cadaveri in posizione seduta per far confluire gli umori della decomposizione in un canale di scolo sottostante. I corpi subivano così una mummificazione naturale. La congregazione dei nobili della città, cui era stata ceduta la chiesa, si occupava infatti di dare sepoltura ai condannati a morte.
    Chissà se i 2 milioni di euro stanziati dal ministero per la cattedrale si potranno usare, tra le altre cose, anche per restaurare la cappella dei nobili.

    Simona Negrelli

  • Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Le manifestazioni per gli ottocento anni della ricostruzione della cattedrale di Cosenza hanno offerto diverse occasioni per ripercorrere la storia della città e della sua vasta diocesi.
    Da qualche giorno è stata inaugurata una mostra presso le Sale espositive della Provincia di Cosenza, in corso Telesio: 1222-2022 Tam Antiqua, quam Nova. La Cattedrale si racconta.

    La Cattedrale perduta

    L’ingresso è gratuito e l’esposizione resterà aperta fino al 30 settembre. Nella sezione La cattedrale prima della Cattedrale sono esposti reperti emersi durante le campagne di scavo. E ci sono immagini relative alla Cattedrale perduta, cioè il rifacimento di epoca barocca rimosso con l’importante restauro di fine Ottocento, che ha ripristinato l’originario edificio romanico.
    Le cattedrali nel corso dei secoli rispecchiano gli orientamenti artistici dominanti e solo di recente si è affermato il principio di non snaturare gli edifici, di non alterarne le linee.

    Il monumento nascosto

    Torniamo al Duomo: sotto gli stucchi barocchi era occultato anche il monumento funebre alla regina Isabella d’Aragona, che oggi si mostra in tutta la sua eleganza.
    Una sala video consente di immaginare come fosse l’edifico barocco. Un percorso efficace, coinvolgente.
    Forse qualche pannello storico avrebbe agevolato l’approccio: sarebbe bastato un semplice elenco dei vescovi attestati dalla tradizione per evidenziare l’antichità delle vicende.

    federico-ii-duomo-cosenza-croce-dono-carnefici-gesu
    Il monumento funebre di Isabella d’Aragona

    La leggenda nera: i bruzi carnefici di Gesù

    La storia religiosa si intreccia con l’antropologia, con l’arte e la vita quotidiana. Un insieme di dati, devozioni, leggende che si possono essere avvicinate con rispetto o rifiutate in blocco, come un peso fastidioso di un passato ormai sepolto.
    Tra le leggende, quella che vuole i carnefici di Gesù sul Golgota reclutati tra gli antichi bruzi è antica e di complessa lettura.
    Il grande storico Augusto Placanica l’ha analizzata in profondità, a proposito dell’immagine della Calabria, degli stereotipi sui calabresi e sulla loro indole. È una leggenda che inizia a circolare nei primi secoli dell’era cristiana, poi rinvigorita durante la dominazione spagnola, che ha contribuito a creare un alone negativo sulla Calabria in epoca moderna.

    Arriva l’imperatore

    Difficile dire cosa ne pensasse il clero cosentino durante il Medioevo, data la scarsa documentazione. Gli ecclesiastici di allora erano diversi, per cultura e stile di vita. Solo alcuni compivano un corso di studi regolari e approfonditi.
    L’imperatore Federico II fece il suo ingresso solenne a Cosenza, il 30 gennaio 1222, accompagnato dai suoi cavalieri e dall’abituale seguito di dame, concubine, animali esotici, nani e ballerine, sapienti ebrei e arabi. La città, ancora raccolta sulle alture tra i due fiumi, lo accolse con entusiasmo. Proprio per l’occasione, i cosentini ricostruirono la cattedrale, distrutta dal terremoto del 1184, e la riconsacrarono alla presenza dell’imperatore.

    federico-ii-duomo-cosenza-croce-dono-carnefici-gesu
    Federico II di Svevia

    Il vescovo che ricostruì il Duomo

    Luca Campano, l’arcivescovo artefice della riedificazione, non poteva essere più soddisfatto. D’altronde, seguire per anni quel cantiere era faticoso: occorreva sorvegliare i conti e dare indicazioni precise alle maestranze affinché non travisassero i simboli e le proporzioni delle parti.
    Completata l’opera, già pregustava di poter tornare ai suoi amati studi. In particolare, alle opere del suo maestro, Gioacchino da Fiore, di cui era stato il fedele scrivano fino alla morte.
    Cercò forse di nascondere il suo turbamento quando, durante la messa, l’imperatore si fece avanti con il suo dono per la nuova cattedrale? Una preziosa croce reliquiario, raffinata, con diverse pietre preziose incastonate e smaltata a colori vivaci. Una croce. Perché non una coppa, una pisside, un prezioso bastone pastorale, una mitra riccamente decorata?

    federico-ii-duomo-cosenza-croce-dono-carnefici-gesu
    Luca Campano, il vescovo che ricostruì il Duomo di Cosenza

    Una croce in dono

    Perché proprio una croce, qui, nella terra dei bruzi, carnefici di Gesù?
    Il suo maestro Gioacchino amava i simboli, ne aveva immaginati e disegnati tanti, affidati poi ai miniatori più abili per i preziosi manoscritti delle sue visioni. Eppure anche lui aveva evitato di usare come simbolo la croce.
    A Luca Campano quella preziosa croce reliquiario ricordava certe visioni apocalittiche del suo maestro, che tanta inquietudine suscitavano nei lettori e nelle gerarchie ecclesiastiche? Dodici secoli erano trascorsi dai fatti del Golgota e i fedeli della sua grande diocesi non gli sembravano migliori o peggiori degli altri cristiani dei suoi tempi.
    Ignoranti, rissosi, ubriaconi, violenti e grossolani nel linguaggio e nei pensieri. Ma allo stesso modo dei Lombardi, dei Franchi e dei Germani. Allora, perché ricordargli quella colpa così lontana nel tempo?

    Ma Federico sapeva?

    La croce reliquiario venne riposta nel tesoro della Cattedrale, dove è tuttora custodita.
    Sono previste altre manifestazioni per gli 800 anni della ricostruzione che portò a Cosenza l’imperatore Federico II e il suo dono. L’imperatore era un uomo colto, cosa rara per un sovrano medievale. La sua corte contava numerosi intellettuali, di solida cultura. Federico aveva avuto notizia della leggenda? E Luca Campano aveva mostrato turbamento per quel richiamo implicito al supplizio?

    La stauroteca donata da Federico II

    Vescovi bruzi alle crociate

    O forse non ebbe alcun turbamento perché, come tutti i vescovi medievali, aveva altre gatte da pelare. Già: i presuli dell’epoca gestivano delle mansioni oggi inimmaginabili.
    Il grande scrittore cosentino Nicola Misasi racconta in un reportage sulla sua città che «i suoi presuli od arcivescovi, ebbero titolo di conte e giurisdizione sulle terre di San Lucido, e di Rende. Con Pietro, Presule e perciò conte di Rende e di San Lucido, mandò nella prima crociata mille soldati in Terrasanta, tutti cittadini di Cosenza che combatterono assai valorosamente».
    Poi aggiunge: «il Tasso ne fa menzione nel canto VII della Gerusalemme Liberata; … questo loco non è il terzo giorno/ Tolse ai pagani di Cosenza il Conte».

    Il supplizio di Gesù, fotogramma da “The Passion” di Mel Gibson (2004)

    Vescovi guerrieri

    Evidentemente, alcuni arcivescovi di Cosenza dovevano avere un certo piglio guerriero. Al riguardo, Misasi cita un altro episodio, avvenuto durante le lotte tra gli Svevi e la Chiesa. Nel 1260, durante la battaglia di Benevento, Manfredi, figlio naturale ed erede politico di Federico II, perse la vita e il regno. E l’arcivescovo Pignatelli, «pastor di Cosenza», gli negò la sepoltura cristiana, dato che era un nemico della Chiesa.
    L’episodio è citato da Dante nel Canto III del Purgatorio: «Se il pastor di Cosenza che alla caccia/ Di me fu messo per Clemente allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia».
    Altri tempi. Oggi non capita di vedere arcivescovi armati di tutto punto che dirigono operazioni militari o fanno disseppellire e abbandonare ai cani i resti di un principe caduto in battaglia.
    Siamo anche consapevoli della differenza tra leggenda e storia. Tuttavia, le leggende che pesano ancora sull’immagine di questa terra periferica sembrano non finire. Infatti, ci sono anche quelle sui calabresi ribelli per natura e incapaci di vivere secondo le regole. Briganti per vocazione.

    Mario De Filippis

  • Antonello Antonante: dal teatro tenda di Giangurgolo fino alla comunità dell’Acquario

    Antonello Antonante: dal teatro tenda di Giangurgolo fino alla comunità dell’Acquario

    Ci sono giorni duri, di quelli in cui non basta nascondersi. Ieri Cosenza ha perso due figure straordinarie della propria storia recente. Quasi contemporaneamente alla morte di Franco Dionesalvi, poeta e intellettuale immerso nell’azione politica, se n’è andato anche Antonello Antonante, attore, autore e regista teatrale.

    Antonello Antonante e la tenda di Giangurgolo

    In un colpo questa città ha perso due protagonisti di una stagione culturale e politica ormai decaduta e lontana. Ma i fermenti che ancora agitano le idee, le visioni e i progetti attuali sono i semi di quel tempo fertile. Dove oggi sorge una banca, una volta c’era un teatro sotto una tenda da circo, con le sedioline di legno scomode, gli spettacoli coraggiosi, il pubblico estasiato. Era la tenda di Giangurgolo, di cui Antonante era uno dei protagonisti. Le storie di quelle persone non sono fatte solo di recite, ma di battaglie vere, per tenere vivo un alito di cultura. Furono quelle persone e Antonello tra loro, a portare a Cosenza il Living Theatre, la recitazione della compagnia teatrale sperimentale di New York travolse corso Mazzini, stupì, scandalizzò, scosse i cosentini, li sedusse, li attrasse, li lasciò sgomenti.

    Ma la stagione della Tenda di Giangurgolo era al suo termine e Antonello Antonante cominciò a pensare a un teatro stabile. Trovarono un enorme magazzino su via Galluppi. Si trattava di un deposito di medicinali e per giorni il lavoro comportò lo sgombero di tutto quel materiale. Solo dopo e lentamente quello spazio prese le sembianze di un teatro. Era nato l’Acquario. Sulle tavole di legno di quello spazio salirono in tanti, esponenti nazionali e stranieri, piccole esperienze locali.

    Dario Fo e Antonello Antonante

    Dall’Acquario al Rendano

    In quel teatro risuonarono le voci di Dario Fo e Franca Rame, di Paolo Rossi e Paola Borboni, di Toni Servillo e Alessandro Bergonzoni. Ma anche la compagnia del centro Rat viaggiò molto, con tournée in Polonia, Armenia, Danimarca, Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, Malesia, Svizzera, Tunisia. Erano i tempi dei viaggi fatti a bordo di un furgone scassato, della battuta gridata passando davanti al Rendano che annunciava che un giorno o l’altro quel teatro sarebbe stato loro. E in parte fu davvero così, quando sotto la sindacatura di Salvatore Perugini, Antonello Antonante fu chiamato a fare il direttore artistico del teatro della città.

    Un cosentino alla guida del Rendano, quello che molti anni prima, durante la notte di Natale, per salvare il suo teatro sotto una tenda da circo era salito su una impalcatura attaccata ad un palazzo vicino per spiegare dalla finestra a uno scemo che non doveva buttare petardi, altrimenti sarebbe andato tutto a fuoco. Immaginate la scena: Antonello che bussa alla finestra di una famiglia per dire che certe cose non si fanno. Era teatro pure quello. Ed era magnifico.

  • Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

    Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno.
    Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
    Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.

    Ma i cedri dove sono?

    Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
    Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata.
    Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche.
    Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.

    cedri-calabria-ebrei-legame-sacro-alto-tirreno
    Rabbini durante i festeggiamenti della Sukkoth

    La bellezza tra il cemento

    Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
    A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.

    I paesi del cedro

    A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
    Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
    Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
    La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.

    Il cedro: in Calabria meglio che in Asia

    Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
    Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.

    Alessandro Magno: si deve a lui l’arrivo dei cedri nel Mediterraneo

    Il cedro di Calabria a misura di ebrei

    Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
    Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.

    Una coltura antichissima

    Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana.
    Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
    Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.

    cedri-calabria-ebrei-legame-sacro-alto-tirreno
    Un rabbino impegnato nella raccolta dei cedri

    Come si produce

    Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare.
    Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
    D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
    Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.

    L’arte del candito

    Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
    Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.

    cedri-calabria-ebrei-legame-sacro-alto-tirreno
    Una cedriera in tutta la sua bellezza

    Gli anni del boom: meglio che in Israele

    Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
    E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
    Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differenti e complementari.

    Culture a confronto

    Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
    Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
    I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.

    Rabbini in posa a Santa Maria del Cedro

    I rabbini nelle cedriere

    I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
    Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
    Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare.
    Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.

    Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
    Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
    Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.

    Dopo la scelta

    Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
    Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
    Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
    Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.

    Una fase della raccolta dei cedri

    Fine del raccolto

    Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
    Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri.
    Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana.
    Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
    A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.

  • Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

    Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    «Sei stata al mare?». «Sì, quello!». Fabiana punta il ditino contro una parete. Ti avvicini e capisci cosa indica. Un paesaggio marino in una cornice di legno. Ha appena due anni ed è una delle piccole inquiline della casa famiglia, per minori e donne in difficoltà, che ha sede nel complesso delle Vergini di Cosenza.

    Venti ospiti in tutto, stanze al completo. Eppure c’è un silenzio irreale tra il chiostro quadrangolare, il cortile e la chiesa, edificati nei primi decenni del Cinquecento, progettati dal capomastro della Valle del Crati Domenico La Cava. Fabiana ha i capelli lunghi e lisci e un visino mariano.
    Questo luogo ha una storia tutta al femminile. Il suo simbolo potrebbe essere la “Madonna della tenerezza”, esposta su un altare minore della chiesa. È una delle opere più antiche di tutta la città, un’icona di stile bizantino di fine Duecento, probabilmente realizzata da Giovanni da Taranto, simile e diversa dalla Madonna del Pilerio del Duomo Bruzio, detta galactrofusa, perché allattante.

    chiesa-vergini-cosenza-ha-rifugio-mamme-bambini
    La madonna Odigitria, l’icona bizantina della chiesa delle Vergini

    Questa Vergine Odigitria invece non allatta il suo bambino, lo presenta al mondo indicandolo con una mano e appoggia la guancia sul suo capo. Un dipinto ingiustamente meno noto e che da solo basterebbe ad attirare viaggiatori e turisti in quantità.

    Calata della corda: fuga d’amore 

    Un altro simbolo del posto è il coro ligneo settecentesco delle suore di clausura cistercensi. Un balconcino decorato con teste d’angelo, sostenuto da una volta di stucchi dorati. Dal 1811 il monastero ha ospitato fanciulle orfane, che quando si innamoravano, tentavano la fuga calandosi da una finestra, dando così il nome a uno dei luoghi mitici della toponomastica popolare: la zona della Calata della corda, tra via Liceo e Piazza dei Follari, dove un tempo c’era il mercato dei bozzoli della seta.

    Monastero di clausura e orfanotrofio

    Il complesso e articolato edificio è stato monastero di clausura, orfanatrofio, istituto educativo femminile. Oggi fa capo alla Fondazione di diritto privato Santa Maria delle Vergini, presieduta da Alessandra De Rosa. Oltre alla casa famiglia, c’è un asilo Montessori, gestito dall’associazione PappaMusic. I bambini del nido e dell’asilo bilingue giocano nel chiostro insieme con i piccoli ospiti della casa famiglia.
    Del complesso fa parte il Palazzo Sersale, costruito alla fine del 1400, grande protagonista della storia cittadina, perché ospitò l’imperatore Carlo V.

    chiesa-vergini-cosenza-ha-rifugio-mamme-bambini
    Il largo Vergini

    L’arte del cucito con la prof ucraina

    Destini cuciti e intrecciati. In questa cornice di narrazioni, appare ancora più significativo il laboratorio “L’arte del cucito”, ospitato nel vecchio refettorio dell’istituto. Le lezioni sono terminate a giugno e adesso si sta preparando una mostra. A guidare le corsiste, di diverse nazionalità ed età, dai venti ai settanta anni, è la costumista ucraina Natalia Kotsinska. Le associazioni “Maschere e volto”, che si occupa di teatro, e “Anteas”, attiva nel volontariato, coordinano il progetto. «Nonostante il bacino di utenza fosse vario, le corsiste si sono perfettamente integrate», spiega Imma Guarasci, direttore artistico di “Maschere e volto”.
    «Ha trovato il modo di integrarsi pure chi ha avuto inizialmente difficoltà nel comunicare per via della lingua, come nel caso di due giovani siriane. Una cosa bella è che nella scelta delle stoffe e dei colori per la realizzazione degli abiti, ognuna di loro è riuscita a recuperare elementi della tradizione della propria terra d’origine», spiega ancora Imma Guarasci, soddisfatta di un’esperienza nata sia per fornire competenze professionali, sia per far incontrare donne dal vissuto difficile.

    chiesa-vergini-cosenza-ha-rifugio-mamme-bambini
    La costumista Natalia Kotsinska dirige il corso di cucito

    Non ci sono più suore alle Vergini. Le “figlie di Sant’Anna” arrivarono nel 1887, dopo che erano andate via le monache di clausura cistercensi. Le ultime due sorelle hanno abitato qui fino allo scorso settembre. Hanno portato con sé tanti ricordi, nomi e vicende di ragazze cresciute tra queste mura.

    Un rifugio per mamme e bambini 

    Gina Nudo le ha conosciute bene. Lei è la decana delle educatrici. È qui da vent’anni.
    «Quando accogliamo le donne assegnate alla casa famiglia, cerchiamo innanzitutto di tranquillizzarle. Sono di varia nazionalità, sono tutte spaventate quando arrivano. Il nostro è un lavoro difficile, ma bisogna usare ogni giorno il cuore e le regole in giusta misura. Fare famiglia, appunto. Io e la mia collega, Giovanna Maio, ci occupiamo della vita quotidiana, intratteniamo i piccoli, ascoltiamo le vicende drammatiche, guidiamo mamme e bambini in un percorso di rinascita. A volte ritornano negli ambienti dai quali erano scappate ed è una grande tristezza».

    chiesa-vergini-cosenza-ha-rifugio-mamme-bambini
    L’educatrice Gina Nudo

    In molti casi però, continua Gina, e il suo viso si illumina, trovano la propria strada. «Spesso, quando termina il periodo di assegnazione da parte del tribunale, vogliono tornare da noi. Significa che siamo riusciti a costruire una rete di protezione e affetto».
    Sonia, 40 anni, è qui con sua figlia adolescente. Nella loro stanza ci sono libri, qualche ricordo, nessuna fotografia. «Quando siamo scappate da casa nostra non ho pensato agli oggetti, l’importante era salvare noi stesse».

    Fabiana torna a sorridere

    La madre della piccola Fabiana, una giovanissima donna originaria di un paese dell’est europeo, è in un angolo della stanza, ascolta e annuisce. «Da quando sono qui sono tornata a sorridere – sta raccontando Sonia, – perché ho ripreso a fidarmi di chi mi sta accanto».
    «Posso dire la stessa cosa», interviene la madre di Fabiana: «In questo luogo ho conosciuto mia figlia per la prima volta, mi dedico a lei, la vedo rinascere, gioca, ride, parla, mangia le polpette, mentre prima si rifiutava di masticare».

    I tricicli dei piccoli ospiti che frequentano l’asilo

    Il soggiorno è in una nuvola di profumi speziati. Afia, donna africana, sta cucinando per sé. Fa concorrenza alle cuoche storiche della casa famiglia, le sorelle Spadafora, Rosanna e Beatrice, che nutrono con amore.

    Fede, bellezza e solidarietà

    L’antica storia di questo luogo continua, in chiave multietnica, il suo secolare inno alla Madonna, testimoniato dalle preziose opere conservate nella chiesa a navata unica. La pala che decora l’altare principale racchiude in una ricca cornice dorata una doppia raffigurazione: una rara immagine di Maria morente e la sua assunzione in cielo. Un’opera cinquecentesca probabilmente sconosciuta a molti cosentini, come l’icona bizantina della tenerezza. Il portale di legno della chiesa, in stile barocco, è ricco di figure intarsiate dagli scalpellini di Rogliano di fine Seicento. Il chiostro, dove oggi sono sparsi i giochi di crescita di scuola Montessori, oltre quindici anni fa è stato set del film “Giuseppe Moscati. L’amore che guarisce”, di Giacomo Campiotti, con Beppe Fiorello e Kasia Smutniak.

    Una rara opera d’arte: l’assunzione della Vergine

    Tante vite sono passate da qua, eppure resta uno scrigno di misticismo e silenzio. Nessuno parla a voce alta, una volta varcata la soglia.
    Da qui si va via con un proposito: tornare. Sul portale di pietra che affaccia su Largo Vergini, sotto l’immagine di San Bernardo di Chiaravalle, l’educatrice Gina Nudo saluta e sembra leggere nel pensiero: «Tornate presto».