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  • Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro (calabrese)

    Morto un papa se ne fa un altro. Così recita un arcinoto proverbio, certamente pronunciato innumerevoli volte in questi giorni di lutto per la morte di Francesco, il “papa venuto dalla fine del mondo”, e di trepidazione per l’elezione del prossimo vescovo di Roma, successore di San Pietro.
    Chi è chiamato a “farlo” il prossimo pontefice, sta piano piano convergendo da ogni continente – settantuno i Paesi rappresentati, dal Brasile a Timor Est, da Capo Verde a Tonga –, verso il Vaticano, e più precisamente verso la Cappella Sistina. È lì che si sceglierà il duecentosessantasettesimo papa della Chiesa cattolica, e chissà che non sia calabrese.

    I 133 cardinali chiuderanno alle loro spalle la porta della principale cappella del Palazzo Papale nella giornata del 7 maggio, dopo aver celebrato la messa Pro Eligendo Romano Pontifice e pronunciato la tradizionale formula extra omnes.
    Quello in partenza si preannuncia un conclave abbastanza celere, sulla falsariga degli ultimi due – ma, in linea generale, è così dalla metà dell’Ottocento a seguire –, quelli che hanno portato al soglio pontificio Benedetto XVI e Francesco, durati poco più di ventiquattro ore e, rispettivamente, quattro e cinque scrutini.

    Il “totopontefice” e cosa aspettarsi

    Sarà davvero un conclave breve come tanti osservatori e financo alcune berrette rosse prevedono? E poi, il prossimo Santo Padre sarà conservatore, progressista o realista? Quale nome papale sceglierà? Seguirà il sentiero tracciato da Francesco o assisteremo a una restaurazione in seno al Vaticano? E se a distanza di quasi mezzo secolo dovesse riaffacciarsi in San Pietro un papa italiano, questi sarà utilizzato per esibire una rinnovata centralità del nostro Paese sulla scena mondiale?
    Sono tutte sfumature di un esercizio oltremodo futile. Come futile – e pure un pelo sacrilega – è la tendenza dei giornalisti, dei vaticanisti e del popolo a volere indovinare il nome del prossimo rappresentante di Dio in terra. Ma si sa, in questa epoca di crisi del giornalismo ogni briciola di notizia è buona per riempire una pagina, cartacea o digitale che sia.

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    Il conclave riunito in Vaticano

    La storia dei conclavi moderni ce lo insegna: l’Habemus Papam – questa volta ad annunciarlo, al netto di una sua nomina, sarà il cardinale protodiacono Dominique Mamberti – lascia quasi tutti sorpresi e non è rara la circostanza che il nome del papa eletto risulti sconosciuto alla massa credente, che esso esuli dalle liste dei papabili al soglio pontificio diffuse dalla stampa. Si dice, d’altra parte, che chi entra in conclave papa ne esce cardinale. Vedremo se anche questo capitolo della secolare riunione plenaria – il primo conclave ufficiale della storia della Cristianità sarebbe quello che nel gennaio del 1276 condusse alla Cattedra di Pietro papa Innocenzo V – confermerà l’adagio.

    Un papa calabrese? I 10 precedenti

    Tralasciando pronostici e speculazioni e analizzando l’elenco dei duecentosessantasei papi finora a capo della Chiesa cattolica, scopriamo che la storia della principale confessione cristiana al mondo ha visto in diverse occasioni un Sommo pontefice di origini calabresi. Radici che, in vero, in taluni casi sono dubbie, non così tanto da non permetterci di annoverarli nell’inventario cui diamo il via.
    Terra di profonda spiritualità, fulcro di approdo e diffusione del Cristianesimo – Paolo di Tarso, uno dei primi santi e martiri della religione cristiana, vi transitò nella sua missione apostolica verso Roma –, la Calabria ha offerto alla Chiesa cattolica ben dieci papi, tutti di origine greca e greca-bizantina.

    Il primo dei papi calabresi della Chiesa risale addirittura al II secolo dopo Cristo, agli albori del Cristianesimo. Era il 127 circa, sotto l’imperatore romano Adriano, quando Telesforo di Terranova di Calabria – oggi Terranova di Sibari – della diocesi di Thurio veniva elevato al ministero petrino. Si trattava dell’ottavo pontefice della storia. Secondo quanto scritto nel Liber pontificalis – opera di riferimento che raccoglie le biografie dei papi dei primi secoli della Chiesa –, il pontefice della Sibaritide fu autore del canto del Gloria in excelsis Deo prima di morire martire fra il 137 e il 138. Telesforo, il primo papa calabrese, è venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica – che lo ricorda il 2 gennaio – sia dalla Chiesa ortodossa.

    Pontificati e persecuzioni

    Nel secolo successivo, popolo e nobiltà elessero due nuovo papi di origine calabrese.
    Nel 235 fu la volta di Antero, nativo di Petelia, già città magnogreca e poi municipio romano. Il diciannovesimo Santo Padre – citato anche dall’archeologo François Lenormant nella sua monumentale La Grande-Grèce – originario del territorio oggi corrispondente grossomodo a Strongoli, cittadina del Crotonese, durò appena una manciata di settimane, martirizzato pure lui il 3 gennaio 236.

    Un paio di decenni dopo fu eletto vescovo di Roma un altro papa della diocesi di Thurio, così come San Telesforo: si trattava di Dionisio (o Dionigi), papa fra il 259 e il 268, anno al termine del quale morì, pare in questo caso per cause naturali. Papa nei sanguinosi anni delle persecuzioni dei seguaci cristiani da parte dell’imperatore Valeriano, Dionisio definì in maniera più netta, secondo quanto scrisse Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiastica, i confini delle varie diocesi, ammonendo i vescovi al rispetto di questi limiti. Fu sepolto nella cripta papale delle catacombe di San Callisto.

    Editti ed eresie

    Durò soli quattro mesi il pontificato del quarto Sommo pontefice nativo della Calabria. Parliamo di Eusebio da Altano, poi Casegghiano – località che doveva essere vicina a San Giorgio Morgeto –, divenuto papa nell’aprile del 309 ed esiliato, per decreto dell’imperatore Massenzio, ad agosto dello stesso anno in Sicilia. Sull’isola del Mediterraneo morì martirizzato nel 311. Soltanto due anni più tardi, nel 313, sarebbe stato emanato il celebre Editto di Milano, carta con la quale i due imperatori romani di allora – Costantino per l’Occidente e Licinio per l’Oriente – concedevano libertà di culto ai cristiani, favorendo così la propagazione nel mondo del Cristianesimo.

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    La statua dell’imperatore Costantino davanti alla Basilica di San Lorenzo a Milano

    Dopo il Sacco di Roma e con all’orizzonte la caduta dell’Impero romano d’Occidente, fra il 417 e il 418 si registra il papato di Zosimo. Nativo di Messurga, già enotria Reazio e contemporanea Mesoraca – come riportò alla fine del Sedicesimo secolo lo storico Scipione Mazzella nella Descrittione del regno di Napoli –, Zosimo si trovò a fronteggiare con fermezza l’eresia del pelagianesimo – dottrina dissidente sorta all’interno del Cristianesimo – e a scontrarsi con i vescovi delle Gallie, della Spagna e dell’Africa. In generale, il suo ministero fu piuttosto travagliato. Santificato dalla Chiesa cattolica, la celebrazione della memoria liturgica cade il 26 dicembre.

    Agatone, il papa calabrese emulo di Matusalemme

    Fra i secoli Settimo e Ottavo si susseguirono gli ultimi cinque papi venuti dalla Calabria.
    Ricordato per l’animo particolarmente caritatevole è Agatone, papa salito al soglio petrino nel 678. Di lui le generalità sono però assai confuse. In primis le origini: alcune fonti lo portano come siciliano, altre – fra queste l’autorevole Grande Dizionario Enciclopedico UTET – come nativo dell’area attorno a Reggio Calabria. E poi, ancor più incerta, l’età che aveva alla sua elezione. Pare che in quell’anno 678 in cui succedette a papa Dono, Agatone fosse già ultracentenario, essendo probabilmente il 575 il suo anno di nascita.

    Nonostante l’età eccezionalmente avanzata, il suo pontificato non sarebbe durato pochissimo: restò massimo vicario di Cristo fino al 681, anno in cui lo colse la morte a causa di una epidemia di peste. Dando credito alla sua leggenda agiografica, papa Agatone, venerato come santo taumaturgo dalla Chiesa cattolica quanto da quella ortodossa, deterrebbe due primati: quello del più anziano papa al momento della elezione e quello del più longevo al termine del pontificato.

    Leone II e Giovanni VII

    Un’altra disputa riguardo la provenienza emerge pure per il papa che seguì Sant’Agatone, Leone II, ottantesimo pontefice della Chiesa cattolica fra il 682 e il 683. E anche in questo caso la paternità è dibattuta fra Reggio Calabria e la Sicilia, che presenta sul tavolo ben tre possibili nidi: Messina, Piazza Armerina e Nicosia. Papato breve ma significativo quello di Leone II: nel corso del suo ministero fissò la dipendenza della sede vescovile autocefala di Ravenna da quella di Roma. Sarebbe, inoltre, lui ad avere inserito nel rito della messa il Bacio della pace, un segno antecessore dello Scambio della pace di oggi.

    Religioso erudito e di marcata sensibilità artistica, Giovanni VII nacque a Rossano nel 650, figlio di un funzionario bizantino. Fu lui l’ottavo papa che la Calabria diede alla Chiesa cattolica. Giovanni VII fu pontefice dal 1° marzo 705 al 17 ottobre 707, giorno della morte, confermato anche dallo storico e presbitero Gabriele Barrio e dal suo discepolo Girolamo Marafioti. Nel corso della sua parabola papale ebbe dei contrasti con l’imperatore di Bisanzio Giustiniano II e fece costruire la Cappella della Vergine Maria nella Basilica di San Pietro, sito in cui riposa.

    Una pausa di oltre 1250 anni

    Durò per oltre una decade il pontificato di un altro papa di origini calabresi, Zaccaria, nato nel 679 nella antica Siberene, città enotria da far coincidere presumibilmente con l’attuale Santa Severina, nel Marchesato. Figura influente della Chiesa e già vicino collaboratore del precedente pontefice, papa Gregorio III, Zaccaria fu consacrato il 10 dicembre 741, pochi giorni dopo la scomparsa del predecessore. Resse la Chiesa di Roma fino al 15 marzo 752, giorno in cui spirò. Il 15 marzo è anche la giornata in cui ricorre la sua commemorazione.

    Il decimo e ultimo papa calabrese della storia della Chiesa – decimo in poco più di seicento anni, fra il II e l’VIII secolo, uno ogni sessant’anni suppergiù: media a dir poco notevole – è stato Stefano III, già cardinale di Santa Cecilia e Capo della Chiesa cattolica dal 1º agosto 768 fino al 24 gennaio 772. Pure nel suo caso, però, i natali sono contesi: alla presumibile nascita in territorio di Santo Stefano d’Aspromonte si affiancano, infatti, interrogativi circa una origine in realtà siciliana. Stefano III tentò di sanare gli attriti provocati dagli antipapi – pontefici eletti seguendo procedure diverse da quelle disciplinate dal diritto canonico –, e provò con scarse fortune a contenere la politica aggressiva del re dei Longobardi Desiderio.

    Un nuovo papa calabrese?

    Concludiamo questa divagazione papale con un nome: Domenico Battaglia.
    Dal 2020 arcivescovo metropolita di Napoli e dallo scorso gennaio nominato membro del Dicastero per l’evangelizzazione, Domenico Battaglia è nato a Satriano, centro del litorale jonico Catanzarese, nel 1963. Anche lui, don Mimmo, come lo chiamano i suoi fedeli, sarà fra i porporati che da mercoledì si chiuderanno nella Cappella Sistina, nel conclave più affollato di sempre, per eleggere il prossimo Santo Padre.

    Domenico Battaglia con Bergoglio: potrebbe essere lui l’undicesimo papa calabrese della Storia

    Una curiosità finale: don Mimmo Battaglia è stato l’ultimo cardinale creato da Francesco, che lo nominò berretta rossa di San Marco in Agro Laurentino nel concistoro del 7 dicembre 2024. E chissà che proprio dall’epilogo possa sorgere un nuovo principio.

  • Ombre sul Conclave: dossier, finanziamenti esteri e la guerra occulta per il nuovo Papa

    Ombre sul Conclave: dossier, finanziamenti esteri e la guerra occulta per il nuovo Papa

    Nelle sacre stanze dove il fumo annuncia il destino della Chiesa, si addensano nubi di intrighi e manovre occulte. Non è solo lo Spirito Santo a guidare le mani dei cardinali elettori verso la scelta del nuovo Pontefice; dietro le quinte, dossier segreti e campagne mirate tessono una fitta trama di influenze. Queste trame sono sempre più spesso finanziate da forze esterne, la cui identità si perde nelle pieghe del potere e del denaro globale. Sospetti puntano verso flussi di finanziamento transatlantici , i quali potrebbero alimentare non solo campagne di dossieraggio, ma anche consolidare blocchi di influenza interni al Collegio Cardinalizio, come suggerito da resoconti giornalistici che parlano apertamente di un “partito dei cardinali d’America” e delle sue strategie in vista di future successioni .

    Le ingerenze nell’era digitale

    L’eco di antiche ingerenze risuona ancora, ma le tattiche si sono affinate, abbracciando gli strumenti dell’era digitale e le strategie dell’intelligence. La storia insegna che il conclave non è mai stato immune da pressioni esterne. Oggi, le modalità sono cambiate, ma l’obiettivo rimane lo stesso: installare sul Soglio di Pietro un uomo allineato con specifici interessi politici, ideologici o finanziari. Un obiettivo che, in un’epoca di forte polarizzazione, può intrecciarsi con le ambizioni di figure politiche internazionali (come l’immagine controversa di Trump vestito da Papa potrebbe simboleggiare) e con le dinamiche interne al Collegio Cardinalizio. Qui emergono, secondo la stampa (, vere e proprie ‘cordate’ o ‘partiti’ su base nazionale, come quello americano, che discutono attivamente scenari futuri e possibili candidati, riflettendo forse agende esterne.

    Finanziamenti transatlantici e dossieraggi per disegnare nuovi scenari

    I cardinali spiati

    Emergono inquietanti resoconti sull’esistenza di “dossier” sui cardinali, compilati con cura . Un gruppo, con un budget significativo – le cui origini potrebbero risiedere in ambienti politico-finanziari internazionali – e l’ausilio di ricercatori (inclusi ex agenti FBI), si prefigge di “auditare” i cardinali elettori. L’intento dichiarato è fornire profili dettagliati, ma la finalità ultima appare quella di influenzare le dinamiche pre-conclave e il voto stesso, screditando candidati non graditi a specifiche fazioni interne o ai loro sostenitori esterni.

    Queste pratiche richiamano Vatileaks, ma si collegano anche a una più ampia “guerra occulta” esterna. Le fonti di finanziamento restano celate, ma gli indizi puntano a una pluralità di attori: gruppi organizzati con agende specifiche, disposti a investire risorse ingenti (potenzialmente attingendo a quei “fiumi di dollari” transatlantici), e forse anche fondi interni usati opacamente.

    Queste manovre riflettono strategie globali di influenza. In un’epoca segnata da una “guerra all’empatia” , non sorprende che tattiche di delegittimazione trovino terreno fertile anche negli ambienti ecclesiastici. L’uso di dossier si allinea a questa strategia più vasta.

    Trump ai funerali di Bergoglio

    Influenzare la scelta del nuovo Papa

    L’obiettivo di chi finanzia e diffonde questi dossier – siano essi attori interni o potenti lobby esterne (le cui agende potrebbero trovare eco nelle posizioni di fazioni specifiche all’interno del cardinalato, come quelle americane riportate dalla stampa) – è chiaro: orientare la discussione pre-conclave, influenzare le “cordate” cardinalizie (ora identificate anche su base nazionale) e spianare la strada a un candidato allineato. È una battaglia per il controllo che si combatte nel segreto, con l’ombra dei dossier, dei finanziamenti oscuri e delle emergenti fazioni cardinalizie nazionali a incombere sulle coscienze degli elettori.

    La nuova sfida della Chiesa: la trasparenza

    Mentre il mondo attende il fumo bianco, la Chiesa si confronta con sfide di trasparenza in un contesto dove manovre di potere, alimentate da interessi interni ed esterni e manifestantisi anche in divisioni nazionali tra i cardinali, minacciano di inquinare il processo sacro dell’elezione papale. Le immagini evocate non sono solo quelle celestiali della Sistina, ma anche quelle di corridoi ombrosi e carte che potrebbero cambiare il corso della storia secondo agende ben precise.

     

    Tommaso Scicchitano

     

     

  • Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Per un Papa – il primo -, che ha scelto di chiamarsi Francesco, quella di essere sepolto con le scarpe ortopediche, sformate e consunte che era solito usare quotidianamente, è una volontà che non dovrebbe stupire più di tanto, considerata l’irritualità del suo papato e la coerenza di azione con il messaggio annunciato da quel nome, sinonimo di avversione al potere temporale e alle sue espressioni ad alto tasso scenografico, tipo funerale del Papa.
    Ma l’abbattimento dei simboli fa sempre notizia, e questo, in particolare, è il dettaglio finale del ‘santino’ che stiamo confezionando, persino con il contributo di circostanza di quanti lo ritenevano un abusivo sul soglio di Pietro, fatta eccezione per quel capo della giustizia minorile, Antonio Pappalardo, prontamente rimosso per improvvidità delle esternazioni.
    Eppure, anche per noi che ci diciamo agnostici per aver coltivato nel tempo la distanza, quelle scarpe non sono indifferenti, possibile metafora dell’uomo nietzschiano che, come Bergoglio, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante. Quei calzari, irrinunciabili come l’andare, sono diventati il cammino, e pertanto, simbolo alternativo che si fa eredità.
    Altri, con altre profondità, sapranno spiegare; a me piace pensare all’ennesimo guizzo d’ironia di Papa Francesco, di colui che lancia un ultimo messaggio perché quell’eredità non vada dispersa. Un Bergoglio che a dirla con l’antica espressione attestata da Gian Luigi Beccaria nel suo “Italiano antico e nuovo”, non intende farsi “fare le scarpe”. E che intanto se la ride per quelle boccucce porpora sussurranti d’imbarazzo: ossignùr, pure le scarpe vecchie!

  • La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    Sostantivo femminile che fa riferimento alla restituzione o alla riconquista della libertà.
    Aldilà del vocabolario, per noi italiani il termine Liberazione evoca l’evento fondante quel Sistema Paese che, al netto di limiti, sviamenti e storpiature, da ottant’anni a questa parte ci contiene. Perché uso il termine contenere? Per sottolineare la stasi che ci ammorba, come cittadini e come collettività, pure scontenti, per quanto si dispiega sotto sguardi sempre meno partecipi, specie in occasioni di festività che, per aberrazione dei tempi, sono divenute divisive.

    Perché la Liberazione divide?

    Il 25 aprile 1945 è un giorno fondamentale nella storia del nostro Paese, perché si proclama la fine della guerra e la liberazione dal nazifascismo. Una data simbolo, da concepirsi quale culmine di un percorso sofferto e battagliero, ma soprattutto condiviso, svilita per un gioco dei ruoli tristemente interpretato da una classe dirigente che pratica sempre meno la credibilità e il rigore. Sta di fatto che, i sei lunghi anni di orrori e sofferenze indicibili per l’umanità, per noi italiani trovano una sintesi (virtuosa) in quel 25 aprile da ormai 80 anni.

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    Meloni osserva Mattarella durante le celebrazioni del 25 aprile

    Ogni anno, in questo periodo, ho modo di confrontarmi con chi, di contro, non gli riconosce importanza alcuna. Dato che il numero dei detrattori del 25 aprile aumenta col passare degli anni, risulta riduttivo addebitare questa posizione (evidentemente ideologica) alla mera ignoranza. Più che riduttivo, ingenuo. C’è qualcosa che ha a che fare con la narrazione temo, e con una faziosità fine a se stessa che non ha nulla a che vedere con un confronto costruttivo.

    Liberazione e rivoluzione

    Nel tentativo di comprendere la contronarrazione, volta a svilire le gesta storiche patrimonio di tutti gli italiani, quest’anno mi concedo una riflessione suggeritami dalla Pasqua Alta. Credo di poter dire, senza offendere nessuno, che Pasqua è la Liberazione dei Cristiani. In entrambi i casi si tratta di eventi che hanno a che fare con il concetto di rivoluzione, come mutamento, non automatico, dell’ordine costituito.

    Le rivoluzioni si fanno per cambiare ciò che scontenta agendo una trasformazione percepita come necessaria e migliorativa, giusto? Le fanno le collettività, le quali, hanno sempre dei leader che se ne fanno interpreti, divenendone icone nei casi più fortunati. Le rivoluzioni richiedono (anche) fede, a prescindere dalla quale non si avrebbe il coraggio e l’energia per opporsi allo status quo. La fiducia nel buon esito della Rivoluzione è deposta nei leader che la proclamano, e dipende, non poco, proprio dal modo in cui questa viene annunciata.

    Il Cristo di Faber

    Nel 1968 in tutto il mondo andava in scena il malcontento generale per uno stato di cose che vedeva scontenta la massa della gente comune, e si credeva di poter volgere al meglio. In quegli anni, oltre ai moti di piazza, furono non pochi i moti intellettuali, cioè, i moti di pensiero che ne suggellarono l’humus, motivandolo nel suo dispiegarsi.
    Negli stessi anni, esattamente nel 1970, Fabrizio De Andrè pubblicava il suo album più rivoluzionario, più che per i contenuti, per la tempistica. La buona novella ha ad oggetto gli episodi della vita di Cristo in una visione che pone l’enfasi su un’umanità che le sacre scritture ufficiali hanno sacrificato a vantaggio della venerazione.

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    La copertina dell’album di Faber

    L’atto rivoluzionario di De Andrè consiste nel cambio di prospettiva funzionale ad una nuova narrazione. De Andrè coglie nel messaggio di Cristo qualcosa di assai rivoluzionario, in linea con le istanze di inclusione sociale e pari opportunità che si affermavano in quegli anni. Non di meno in una scelta argomentale che denota il non allineamento ai paradigmi dell’epoca, che è un elogio senza precedenti al libero arbitrio, misura e paradigma della Rivoluzione Cristiana.
    Come i sessantottini – che lo criticarono malamente – Fabrizio De Andrè è animato dalla voglia di favorire un’evoluzione dello stato delle cose, cui sa essere propedeutico un approccio nuovo, un cambio di mentalità, simile a quello che caratterizza il Nuovo Testamento.

    Cambiare le regole

    In beffa al potere, che opprime gli ultimi, Cristo professa il perdono e la misericordia, ponendosi ad esempio per quelli che, in ogni tempo, vogliano conseguire medesimi cambiamenti di rotta sociale. Da occhio per occhio a porgi l’altra guancia il passo non è breve, l’intellettuale genovese lo sa, come sa che c’è bisogno di tempo affinché chi pretende di cambiare il mondo lo comprenda.

    Domandiamoci ora qual è l’elemento rivoluzionario nell’enunciazione di Cristo, se non l’aver elevato gli ultimi a primi, la povertà a virtù e l’umiltà ad arma di difesa contro l‘arroganza del potere? Forse capiremo che per incidere sul presente dobbiamo cambiare le regole, non subire quelle prestabilite da chi ha tutto l’interesse a praticare esercizi di rievocazione gattopardiana!
    La politica, come la religione, ha bisogno di seguaci e di consenso.

    Mentre assistiamo al dispiegarsi di tutta una serie di crisi, tra cui, quella della Rappresentanza, interroghiamoci sulla relazione tra questa e la (perdita di) fiducia. La popolarità resta uno degli attributi imprescindibili della leadership, ma che tipo di popolarità? I poveri cristi di oggi potrebbero pur credere a chi gli promette il paradiso, ammesso che qualcuno sia ancora capace di mostrare loro il volto più umano della politica, quello cioè che condivide la medesima natura dei suoi sostenitori. Una natura profondamente umana, che sappia interpretare la reciprocità.

    Il messaggio di Bergoglio

    Le Rivoluzioni hanno dunque a che fare con le narrazioni che, funzionano solo se autentiche. Lo ha dimostrato un ottantenne passato a miglior vita a cavallo tra la Pasqua e la Liberazione.
    Papa Bergoglio ha rinnovato l’immagine della Chiesa perché ha cambiato parole e sguardo sul mondo e si è messo dalla parte degli ultimi sin dalla scelta di darsi il nome del Poverello d’Assisi.

    Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

    In questo frangente storico, costellato da conflitti e divisioni fratricide, facciamo nostro il messaggio di chi ha saputo concentrare l’attenzione sugli oppressi, tra cui le donne di ogni tempo, e saremo certi di non sbagliare nel nostro percorso di liberazione, che passa per la mediazione, ad ogni livello, specie in quello geopolitico che oggi manca di visioni umanisticamente propositive.

    Dialogo, non scontro

    Risulterà forse pretenzioso questo punto di vista, ma assistendo al teatrino indegno dei potenti della terra che si litigano la scena, incuranti della sorte dei popoli, veri destinatari di conflitti mal gestiti, oltre che anacronistici, l’attenzione che si è deciso di riservare all’Area più controversa del globo – qual è la sponda Sud del Mediterraneo – e al gruppo sociale più sottomesso di sempre – quali le donne – restituisce un’inattesa fierezza, quella conseguente le scelte non convenzionali, emulative di chi ha anteposto le ragioni del dialogo, a quelle dello scontro, non arrendendosi all’odio risultando, 2000 anni fa come oggi, rivoluzionario, consapevole dello spirito del tempo che pure si prende la briga di criticare.

    Come in questo lucido monito che, attraverso un linguaggio che non lascia spazio a troppe interpretazioni, chiede di elevare a norma morale la resistenza a strutture sociali alienanti: «L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più standard di quanto potremmo pensare. Sono facilmente prevedibili e manipolabili. Non così il cuore». (Enciclica Dilexit Nos – 24 ottobre 2024)

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

  • Francesco, il Papa

    Francesco, il Papa

    Nel corso del suo pontificato, Francesco il Papa, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha lasciato un’impronta profonda in molti luoghi del mondo, e la Calabria, terra di fede e di contrasti, non ha fatto eccezione. Il suo rapporto con questa regione del Sud si è manifestato attraverso gesti concreti, parole di speranza e un’attenzione particolare alle sue ferite sociali, come la povertà, la criminalità organizzata e l’emarginazione. Sebbene la sua visita nella nostra terra non sia stata un evento isolato, il suo impatto è stato duraturo, e il suo messaggio ha continuato a risuonare tra i calabresi.

    La folla in attesa di Bergoglio nello stadio della cittadina ionica nello stadio

    Il Papa a Cassano

    Il momento culminante del legame tra Bergoglio e la Calabria fu la sua visita pastorale del 21 giugno 2014, quando si recò a Cassano Ionio. Questo viaggio, uno dei primi del suo pontificato in una regione del Sud, non fu casuale. La Calabria, con le sue bellezze naturali e le sue difficoltà, rappresentava per Francesco un microcosmo delle sfide globali che ha sempre affrontato: l’ingiustizia sociale, la disoccupazione giovanile e l’oppressione della ‘Ndrangheta, una delle mafie più potenti al mondo.
    A Cassano, Francesco il Papa celebrò una messa all’aperto davanti a decine di migliaia di visitatori, giunti da ogni angolo della regione. Nel suo discorso, pronunciato con la semplicità e la schiettezza che lo hanno contraddistinto, esortò i calabresi a non cedere alla rassegnazione.

    L’arrivo dell’elicottero con a bordo il pontefice

    Il cuore senza speranza della Calabria

    “La Calabria ha un cuore grande, ma ha bisogno di speranza”, disse, sottolineando l’importanza di costruire una comunità basata sulla giustizia e sulla solidarietà. Rivolgendosi ai giovani, li incoraggiò a essere protagonisti del cambiamento, a non emigrare in cerca di un futuro migliore, ma a restare per trasformare la loro terra.
    Uno dei momenti più significativi della visita fu il suo incontro con i detenuti del carcere di Castrovillari. Bergoglio, che ha sempre posto l’attenzione sugli ultimi, parlò con loro come un padre, ascoltando le loro storie e offrendo parole di conforto. “Nessuno è escluso dalla misericordia di Dio”, dichiarò, invitandoli a non perdere la dignità nonostante gli errori commessi. Questo gesto toccò profondamente la comunità locale, mostrando un Papa vicino a chi vive ai margini.

    Un gruppo di Papa Boys

    La scomunica della ‘ndrangheta

    Ma il messaggio più forte di quella giornata fu la sua condanna senza mezzi termini della ‘Ndrangheta. Durante l’omelia, Francesco il Papa, non esitò a definire la mafia “un’adorazione del male” e scomunicò simbolicamente i suoi membri, un atto senza precedenti nella storia della Chiesa. “Chi segue la via del male, come fanno i mafiosi, non è in comunione con Dio”, tuonò, suscitando un’eco che si propagò ben oltre i confini calabresi. Questo discorso fu un richiamo alla responsabilità collettiva, un invito alla Chiesa e alla società civile a combattere la criminalità organizzata non solo con la repressione, ma con l’educazione, il lavoro e la fede.

    Il legame con la Calabria

    Oltre alla visita del 2014, Bergoglio mantenne un rapporto indiretto ma costante con la Calabria attraverso i suoi appelli e le sue nomine. Sostenne, ad esempio, l’opera di vescovi come Monsignor Francesco Savino, che portarono avanti la sua visione di una Chiesa “in uscita”, impegnata nelle periferie e contro le ingiustizie. Inoltre, in diverse occasioni, Francesco fece riferimento alla Calabria come esempio di resilienza, lodando la devozione popolare e il ruolo delle tradizioni religiose, come il culto della Madonna di Polsi, pur invitando a purificarle da ogni infiltrazione mafiosa.

    Il calore con cui i cittadini di Cassano allo Jonio accolsero il Papa

    La festa dei calabresi per la sua visita

    La Calabria, da parte sua, accolse Francesco con un calore straordinario. Le strade di Cassano furono addobbate a festa, e le famiglie si riunirono per accoglierlo, vedendo in lui non solo il Papa, ma un uomo capace di comprendere le loro difficoltà. Ancora oggi, nelle chiese e nelle piazze calabresi, si ricorda quel 21 giugno come un giorno di luce in una regione spesso segnata dall’ombra.
    In conclusione, il rapporto Francesco il Papa e la Calabria fu caratterizzato da un dialogo intenso, fatto di gesti simbolici e parole che hanno scosso le coscienze. La sua visita a Cassano Ionio non fu solo un evento, ma un seme piantato in una terra assetata di speranza. Anche se il tempo è passato, il suo invito a costruire una Calabria più giusta e solidale rimane un faro per chi crede nel riscatto di questa regione.

  • Francesco, il Papa che voleva riformare la Chiesa

    Francesco, il Papa che voleva riformare la Chiesa

    «E’ stato il papa che ha cercato di riformare la Chiesa, con coraggio e amore». A pochissime ore dalla morte di Papa Francesco, la testimonianza di Don Francesco Savino, vescovo di Cassano e vice presidente della Conferenza Episcopale Italiana, è un tumulto di emozione e dolore. Le parole di Don Francesco sono un fiume in piena che trascina con sé lo strazio di aver perso una guida e un amico, ma resta intatta in quelle parole la lucidità di chi ha compreso e condiviso un cammino teologico e sociale, perché è impossibile negare anche dal punto di osservazione di un laico, come le scelte, l’operato e la vita stessa di Francesco siano state improntate alla coniugazione ineludibile tra il mondo reale, fatto di persone e l’interpretazione teologica,  incarnando la presenza tra gli uomini e «mettendo al centro il significato del Vangelo, senza mediazioni».

    Per i calabresi è stato il Pontefice che ha avuto il coraggio di scomunicare gli ‘ndranghetisti. Venne a Cassano, ricordando la terribile morte del piccolo Cocò. E lanciò questo grido contro una delle grandi piaghe che affliggono la nostra regione e il nostro Paese. Non era scontato perché gli altri non l’hanno fatto.

    Don Francesco Savino, vice presidente della Conferenza episcopale e vescovo di Cassano

    Un Papa contro le guerre

    Il Vangelo “senza mediazioni” significa trovare il coraggio di gridare parole «contro la guerra, lanciare parole che avvisavano che nessuna pace si può costruire con il riarmo», ricorda don Savino.  E non si può fare a meno di pensare come la sua sia stata una delle  voci contro in una politica mondiale che si prepara meticolosamente al massacro pronta –  come è sempre avvenuto in passato – ad arruolare Dio tra le proprie truppe.

    Le parole contro l’economia che crea ingiustizie

    E invece Dio per Bergoglio stava con gli ultimi, con «i detenuti che fino all’ultimo sono stati uno dei suoi pensieri», racconta ancora, con la voce infranta, Savino, che quasi profeticamente immagina che Francesco sarà il papa che «impareremo a capire e rimpiangere meglio ora che non c’è più, adesso che sentiamo la mancanza di una guida che abbia il coraggio di spiegarci come l’economia non debba generare scarti, non debba alimentare ineguaglianze e ingiustizie», frasi che in tempo di massimizzazione del profitto a scapito della dignità umana, suonano come eretiche.

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    L’accoglienza dei cassanesi durante la visita del Papa

    Il Concilio Vaticano secondo e la sua attualizzazione

    Impareranno a capirlo e rimpiangerlo anche quanti, non pochi, lo hanno osteggiato? Don Savino è mosso dall’ottimismo che gli viene dalla fede e non dubita che anche questo accadrà. Di certo, dal punto di vista del vescovo di Cassano, Bergoglio è stato il papa che più di ogni altro ha cercato di concretizzare il Concilio Vaticano II, che per alcuni versi era rimasto come sospeso e inattuato, «partendo da Paolo VI, e dal suo insegnamento». Ma quanto forte sia stato il percorso tracciato dal pontificato di Bergoglio si vedrà presto, per ora «è il tempo della preghiera e del rimpianto», ma anche della sorprendente casualità, quella che l’ha visto morire nel Lunedì dell’Angelo.

    Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

    La Pasqua, la Fede e la vita eterna

    «E’ la sua Pasqua – non esita a dire Don Francesco Savino, con la voce solo un poco più pacata – perché come sanno i credenti e come lui ci ha ripetuto, la morte è solo penultima, dopo c’è la vita eterna». Per i laici resta la meraviglia di aver visto un Papa che parlava contro il disumano che c’è nell’ideologia del profitto e non celava i suoi sospetti verso Trump e i nuovi profeti del neoliberismo. Questo basta per averne il rimpianto.

  • Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Sono le prime ore del Sabato Santo, e l’aria di Nocera Terinese, in questo piccolo paese della Calabria affacciato sul Tirreno, è densa di un silenzio che sembra vibrare. Il tempo pare sospeso, come se i secoli si fossero annodati in un eterno presente. Torno ogni anno, da quando ero uno studente universitario con un quaderno pieno di appunti e curiosità, attratto da una tradizione che non si può spiegare solo con le parole: il rito dei “vattienti”. È un viaggio che mi porta ogni volta a confrontarmi con qualcosa di antico, viscerale, che parla di religiosità e appartenenza.

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    Uno dei vattienti a Nocera Terinese in Calabria (foto Alfonso Bombini 2024)

    Venerdì Santo: l’odore del rosmarino e del sangue

    Il sole è sorto da poco quando, di solito, arrivo nella piazza centrale. Le strade strette, che si arrampicano, sono già animate da un brusio sommesso. Alcune donne, vestite di nero, si muovono come ombre verso la Chiesa dell’Annunziata, dove la statua lignea della Madonna Addolorata – la Pietà, come la chiamano qui – attende di essere portata in processione. È una scultura del Seicento, il volto della Vergine scavato dal dolore, il Cristo morto abbandonato sulle sue ginocchia. Ogni anno, guardarla mi genera un certo effetto.
    Mentre mi incammino verso una delle case ai margini del paese, sento un odore pungente: rosmarino bollito in una grande pentola, la “quadara”. Entro in un piccolo scantinato, accolto da un uomo, col quale diventeremo amici, uno dei “vattienti” di questa giornata. Il suo sguardo è un misto di determinazione e raccoglimento. «Lo faccio per mia madre, che ha ricevuto una grazia», mi dice, mentre si prepara. Indossa una maglia nera e pantaloncini corti, lasciando le gambe scoperte. Sul capo, un panno nero, il “mannile”, fermato da una corona di spine fatte di “sparacogna”, l’asparago selvatico che punge la pelle. Accanto a lui, un ragazzino, il suo “acciomu” – l’Ecce Homo – avvolto in un panno rosso, con una croce di canne sulle spalle. Sono legati da una cordicella, simbolo di un cammino condiviso.

    Vattienti, un rito collettivo di Calabria

    Mi mostra i suoi strumenti: la “rosa”, un disco di sughero liscio, e il “cardo”, un altro disco con tredici frammenti di vetro incastonati, che rappresentano Cristo e i dodici apostoli. «Prima riscaldo la pelle con la rosa» – spiega, «poi colpisco con il cardo. Non è solo dolore, è un’offerta». Lo guardo immergere le mani nell’acqua bollente al rosmarino, massaggiarsi i polpacci per far affluire il sangue. C’è qualcosa di sacro in questo gesto, ma anche di profondamente umano, quasi primitivo.
    Fuori, la processione sta iniziando. La banda di Amantea suona la “Jona”, una marcia funebre che sembra scavare nell’anima. La Madonna Addolorata avanza lenta, portata a spalle da uomini in camice bianco, anche loro con corone di spine. Improvvisamente, il mio amico “vattiente” esce dal suo scantinato. Si batte le gambe con la rosa, poi con il cardo. Il sangue schizza, macchia il selciato, si mescola all’odore del vino che un amico gli versa sulle ferite per disinfettarle e tenerle aperte. Poi alza lo sguardo e incrocia quello dell’anziana madre che lo segue dalla finestra di casa. È un’immagine cruda, che potrebbe turbare, ma qui nessuno si volta dall’altra parte. È un rito collettivo, condiviso e controllato. Mi unisco alla folla, seguendo mio amico che si muove per le vie del paese correndo, fermandosi davanti alle case dei parenti, alle edicole sacre, al passaggio della Madonna. Ogni colpo è un atto di devozione, forse. Ogni goccia di sangue un dialogo con il divino, forse.

    La processione della Madonna a Nocera Terinese durante il Sabato Santo (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria: la processione infinita

    La processione della Madonna, lunga, solenne, si snoda fino al convento dei Cappuccini, in cima a una salita ripida che ti tira i polpacci e ti fa venire l’affanno. Oggi i “vattienti” sono più numerosi, forse ottanta, cento, come mi racconta un giovane studente, aspirante antropologo, che incontro lungo la strada. «Non è solo religione», mi dice, «è identità, (ma che cosa è l’identità? Penso io). Qui il sangue è vita, rinascita, un legame con la terra e con la comunità». Annuisco, pensando a quante volte ho cercato di decifrare questo mistero senza riuscirci del tutto.
    Seguo un altro “vattiente”, che si batte con una forza che sembra trascenderlo. Il suo “acciomu”, questa volta è un bambino di appena dodici anni, lo segue con occhi pieni di rispetto. Quando incrociano la statua della Madonna, il flagellante si inginocchia, colpisce le cosce con più vigore, il sangue scorre copioso. La folla tace, la banda si ferma. È un momento di sospensione, come se il “dolore” del “vattiente” e quello della Madre si fondessero.
    Le ore passano, e la processione sembra non finire mai. Le strade di Nocera sono segnate da strisce rosse, il sangue dei protagonisti di questa giornata, si mescola alla polvere. Eppure, non c’è caos, solo un ordine antico, regolato da una tradizione che resiste nonostante i divieti del passato, le critiche di chi lo considera barbaro, le ordinanze sanitarie recenti, quando il rito rischiò di essere sospeso per questioni igieniche, legato a una pandemia. La comunità si ribellò, raccolse firme, trovò un compromesso. «Non è solo un rito», mi disse allora un anziano del paese: «Questi siamo noi».

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    Vattienti a Nocera Terinese (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria, una tradizione che non si piega

    Quando la processione termina, nel tardo pomeriggio, la Madonna rientra molto lentamente nella Chiesa dell’Annunziata, gremita di gente. I “vattienti” si lavano le ferite con l’infuso di rosmarino, si rivestono, tornano alle loro vite. Io resto lì, seduto su un muretto, a guardare il tramonto che incendia il Tirreno. Ogni anno, da quando ero studente, mi chiedo cosa mi spinga a tornare. Non lo so. Forse è la forza di una tradizione che non si piega, che sfida il tempo e le convenzioni. O forse è il bisogno di toccare qualcosa di autentico, che non si nasconde dietro filtri o ipocrisie. Mi piace filmarlo, questo rito. Cerco sempre di scorgere sequenze nuove, inedite. Forse è per questo che ci ritorno ogni anno.

    I “vattienti” di Nocera Terinese non sono solo un rito pasquale. Sono un grido, un’offerta, una storia scritta col sangue. E io, ogni volta, mi sento un po’ più vicino per capirla, anche se so che non la afferrerò mai del tutto. Mentre lascio il paese, con il suono della “Jona” ancora nelle orecchie, so già che tornerò l’anno prossimo, per perdermi ancora in questo viaggio tra religiosità popolare e mistero.

  • Donne, pace e sicurezza| Il 2025 degli anniversari

    Donne, pace e sicurezza| Il 2025 degli anniversari

    Il 2025 sarà ricordato come l’anno delle celebrazioni. Digitando “2025” sui motore di ricerca si ottengono lunghe liste di anniversari: dal 60° della morte di Churcill, al 40° della nascita di Calvino. Se si cercano date specifiche in ambito di nostra competenza si dovrà procedere per parole chiave, come: parità di genere, diritti, libertà. Si scoprirà che ricorrono rispettivamente:

    • 10 anni dell’attentato alla redazione di Charlie Hedbo – 7 gennaio 2015
    • 35 anni dall’inizio della Guerra del Golfo – 2 agosto 1990
    • 60 anni dall’assassinio di Malcom X, attivista per i diritti umani afroamericano – 21 febbraio 1963
    • 100 anni dalla nascita di Pol Pot, dittatore responsabile della morte di 3 milioni di persone – 19 maggio 1965
    • 250 anni dalla nascita di Jane Austen, scrittrice britannica antesignana del femminismo – 16 dicembre 1775
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    Tra gli anniversari di questo 2025 ricorre anche il decennale della strage nella redazione di Charlie Hebdo

    Due importanti anniversari del 2025

    Sempre più affascinati dalla numerologia, che ci consegna l’anno in corso quale raro quadrato perfetto (45²) – rappresentando anche la somma dei cubi di tutte le cifre del sistema numerico decimale – continuiamo a cercare nei numeri qualche elemento di certezza che ci sollevi dalla vaghezza dei tempi. Dettagliando ulteriormente la ricerca di anniversari, nel 2025 troviamo il 30° dalla Conferenza di Pechino e il 25° dalla Risoluzione 1325/2000 dell’ONU.

     

    • Conferenza di Pechino 4-15 settembre 1995

    Quarta e ultima Conferenza mondiale sulle donne organizzata dalle Nazioni Unite, durante la quale i leader di 189 Paesi si riunirono, insieme a oltre 30.000 attiviste, elaborando una sorta di tabella di marcia per favorire la parità di diritti per donne e ragazze. Pietra miliare dell’uguaglianza di genere, eleva i diritti di genere al rango di diritti umani (a partire dai risultati della III Conferenza, Vienna 1993), affermando il diritto delle donne a vivere libere dalla violenza, cosa che la rende assai contemporanea.
    La Dichiarazione (e la Piattaforma d’Azione) di Pechino resta l’Agenda Globale più ampiamente approvata per i diritti delle donne.

    Le Conferenze internazionali sulla donna - Centro di Ateneo per i Diritti Umani
    Tra i più importanti anniversari del 2025 c’è anche il trentennale della Conferenza di Pechino
    • Risoluzione ONU su Donne, Pace e Sicurezza

    Il 31 ottobre del 2000 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dagli impegni annunciati dalla Dichiarazione e dalla Piattaforma d’Azione di Pechino, riconosce l’impatto (maggiorato) che la guerra ha sulle donne, ma anche la necessità che proprio le donne siano incluse nelle negoziazioni, essendo il loro contributo quello più innovativo e imprescindibile per una pace duratura. A oggi diversi paesi del mondo hanno reiterato la Risoluzione e la rispettiva Agenda, attraverso Piani d’Azione Nazionale su Donne, Pace e Sicurezza. Quello italiano è il più longevo e articolato.

    Ricordare per non ripetere gli errori del passato

    Ma a cosa serve ricordare? Nell’epoca dell’utilitarismo generalizzato, cerchiamo di capire quali sono i vantaggi dell’esercizio di memoria, individuale e collettivo. Partiamo dall’etimo.
    “Ricordare” deriva dal latino Recordari, prefisso Re e verbo Cordare, le cui origini riportano a Cordis che significa cuore.
    Ricordare significa dunque ritornare al cuore, che per i romani era il luogo della memoria.
    Convenendo sul fatto che, tenere a mente le esperienze passate significa valorizzarle, o anche solo prenderle in considerazione come precedenti degni di nota.
    Il ricordo è tra le esperienze umane più potenti e condivise, sia a livello personale che a livello collettivo. Non diamo tutti medesima importanza a medesime circostanze, ma in quanto cittadini di uno Stato, di una Comunità di Stati e del mondo, dovremmo concordare sulla rilevanza di alcuni accadimenti che hanno inciso sulla nostra storia rendendoci parte di un tessuto civico che si costruisce, anche, in relazione ai cosiddetti precedenti storici.

    Commemorare significa celebrare

    Le commemorazioni hanno lo scopo di onorare un passato da cui saremmo tenuti a imparare come cittadini e come collettività. Alcune commemorazioni, più di altre, contribuiscono a tracciare i tratti di un’identità condivisa che dovrebbe essere tanto più pacificata, in riferimento ad eventi storici che dovremmo essere in grado di valutare all’unisono, senza se e senza ma, come il 27 gennaio, Giornata della Memoria. Gli 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, avrebbero dovuto essere sentiti, unanimemente, come ricorrenza utile a validare un monito contro ogni forma di persecuzione di popoli e di gruppi sociali, una ricorrenza che avrebbe dovuto trovarci tutti dalla stessa parte, quella dell’umanità, ma così non è stato.

    Memoria minuitor nisi eam exerceas

    Il dominio pubblico non valorizza i buoni sentimenti quali denominatore comune su cui costruire visioni condivise, e anche la questione delle celebrazioni, affatto pacificata, riflette scuole di pensiero diverse, alla base delle quali ci sono altrettante visioni del mondo. Negli anni dell’intelligenza artificiale, però, una cosa è certa: le ricordanze attivano sentimenti di condivisione, un’empatia che ci contraddistingue come specie capace di immedesimazione ed emulazione. Marginalizzare quello che di più profondo ci caratterizza potrebbe rivelarsi controproducente, specie in ambito umanitario.

    Ciceróne, Marco Tullio - Enciclopedia - Treccani
    Un busto di Cicerone

    Cicerone sottolinea che «la memoria diminuisce se non la si esercita» e noi ne siamo testimoni vivi perché, non riteniamo sia importante trasmettere a chi verrà, il valore che alcune ricorrenze avrebbero dovuto evocare in noi, evidentemente disillusi rispetto alla possibilità di imparare dalla storia, e ingrati rispetto a quanti hanno creduto così profondamente nella pace, nella giustizia e nelle libertà da difenderli a costo della vita.

    Guerra all’indifferenza e restare umani

    Il 28 luglio di quest’anno avrebbe compito 55 anni Jean-Sélim Kanaan, morto nell’attentato alla sede ONU di Baghdat, in Iraq, nel 2003. Nel suo libro La mia Guerra all’Indifferenza ci lascia in eredità una disamina dei conflitti onesta e partecipata, denunciando l’incapacità e l’inettitudine delle Nazioni Unite nella difesa delle popolazioni civili e l’importanza del volontariato, a partire dalle esperienze fatte in Somalia e in Bosnia. La sua visione critica è un monito per noi peacekeeper che misuriamo sui nostri corpi la necessità di ridefinire regole che servono anche, se non soprattutto, in contesto bellico.

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    Vittorio Arrigoni a Gaza

    «Restiamo umani», si raccomandava Vittorio Arrigoni a chiusura dei suoi pezzi.
    Un invito a non dare per scontato che, in quanto esseri umani, siamo capaci di praticare l’umanità. Un ammonimento, in una fase in cui, agli addetti ai lavori, era già dato di osservare come le brutalità belliche cozzassero con le avanguardie dei nostri Paesi emancipati, così emancipati da perpetuare una logica coloniale all’occorrenza, nei rapporti con un Terzo Mondo che è bene resti tale, sulla falsariga imperiale che ci ha resi noti nel mondo, e che fatica a favorire paradigmi paritetici, ispirati alla cooperazione reciproca.

    I modelli in cui crediamo sono quelli sostenibili, quelli che ci ispirano e non ci lasciano cedere ad un a desolazione che, a tratti, neanche un certo impegno civico elude.
    Il 15 aprile – a 2 anni dall’inizio della guerra in Sudan – Vittorio avrebbe compiuto 50 anni, se non fosse stato ucciso a Gaza nel 2011 mentre si spendeva per praticare la solidarietà a popoli oppressi. Ma il suo appello resta, se ce ne vogliamo ricordare!

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

  • Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Cosenza era diversa, molto. Corso Mazzini era ancora attraversato dalle macchine, c’era la Standa, il bar Manna e il bar Gatto, la coraggiosa esperienza del Giornale di Calabria provava a rompere il monopolio della Gazzetta,  lo spazio davanti Palazzo degli Uffici era pieno di eskimo e sciarpe rosse e a un certo punto della sera si decideva di andare al cinema, all’Italia. Il biglietto costava 500 lire e il cinema cambiava programmazione ogni giorno. Era il 1975 e a Palazzo dei Bruzi sedeva un socialista, si chiamava Battista Iacino, ma per tutti era Pino, al punto che in tanti erano persuasi si chiamasse Giuseppe.

    Pino Iacino e la giunta rossa

    Governava la città con una giunta di sinistra, la sola della storia non breve di Cosenza. Allora le giunte nascevano dentro i consigli comunali, la legge che avrebbe consentito ai cittadini di scegliere direttamente il sindaco sarebbe arrivata molti anni dopo ed erano gli equilibri tra i partiti a livello nazionale e quelli tra i potentati della città a decidere quali maggioranze avrebbero dato vita a una giunta. Per una alchimia che mai più si sarebbe ripetuta il Psi si unì al Pci, tirando dentro Psdi e Pdup e Cosenza ebbe la sua prima giunta rossa.

    La Cultura a un intellettuale comunista

    L’Assessorato alla cultura con Pino Iacino sindaco andò a Giorgio Manacorda, intellettuale comunista, docente universitario. Sono gli anni in cui il cinema Italia rinasce e nella sua sala, sotto la gestione pubblica, vengono proiettati film e registi che mai sarebbero giunti a Cosenza:  Jodorowski, Arrabal, il cinema francese, Pasolini. È in quella sala che la mia generazione ha visto la fantasmagorica esplosione del finale di Zabriskie Point. Ma sono gli anni in cui il Rendano splende per la proposta culturale e per essere diventato teatro di tradizione, mentre nel salotto buono della città il Living Theatre porta lo scandalo dell’immaginario e sotto un tendone da circo muove i primi passi la Tenda di Giangurgolo, da cui sarebbe nato il Teatro dell’Acquario. Su Corso Telesio intanto apriva la prima libreria Feltrinelli.

    La città ai cittadini mentre tutto sta cambiando

    È la prima volta che l’idea che i cittadini possano abitare davvero la casa municipale si fa avanti. Sarà ripresa senza troppa fortuna anni dopo da un gruppo di matti che daranno vita a Ciroma. Quella è stata probabilmente la migliore Cosenza di sempre, ma stava già cambiando. Come in un film di mafia nel 1977 viene assassinato Luigi Palermo, capo incontrastato della malavita non ancora organizzata e la città precipita in una guerra sanguinosa, sul piano politico si annunciano gli anni di piombo.

    Ma in quella fase storica nulla avrebbe fermato il lavoro della giunta rossa e del suo sindaco, che ressero a tutto malgrado in consiglio avessero una maggioranza risicata.  Cosenza conoscerà con Pino Iacino il suo punto più alto di crescita urbana, civile e culturale e quella esperienza finirà nel 1980. Dopo torneranno le camarille, gli accordi, le alleanze strumentali al saccheggio. Oggi Pino Iacino non c’è più, quella sua Cosenza è scomparsa da un pezzo.

  • Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Allarme siam fascisti! Perché quelli col fez e le camicie nere non ci sono più, è vero, ma hanno sembianze diverse e non per forza nuove, anzi continuano a puzzare di orrore.  Il Fascismo lo abbiamo inventato noi italiani e non ce ne siamo liberati mai. Un trauma culturale che non abbiamo affrontato, eluso con tenacia, raccontandoci le atrocità compiute dalle SS e tacendo quelle perpetrate dai repubblichini, ma ancora di più tacendo sui decenni durante i quali i diritti più semplici sono stati annichiliti da un regime crudele e assassino, funzionale a interessi complessi e noti.
    Oggi quella operazione di rimozione trova il suo culmine quando gli eredi di quel passato, sempre sentitisi estranei dentro una democrazia liberale, cercano l’affondo revisionista stando al governo e l’ipotesi di riforma sul premierato ne rappresenta l’ultimo sforzo in questo senso.

    Il fascismo eterno

    Il fascismo non c’è più, ma a dirlo sono solo i fascisti. Una specie di negazione di se stessi, di codardia fatta di equilibrismi linguistici: «Sono afascista», pare dicesse di sé Giuseppe Berto e da lì a scendere fino a Meloni, La Russa con il suo museo privato di reliquie del Ventennio, Lollobrigida, Sangiuliano e compagnia.
    Eppure le tentazioni autoritarie, repressive, censorie, perfino vendicative, restano palesi, quotidiane: studenti manganellati, presidi e docenti dissidenti intimiditi, pulsioni razziste liberate da ogni remora. Sì, il fascismo storico non c’è più, perché ogni cosa è cambiata, eppure sopravvive forte quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”, fatto di sospetto verso la cultura, derisione rivolta agli atteggiamenti critici, populismo identitario come risposta all’insicurezza sociale generata dalle crisi.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Paura e capri espiatori

    L’orizzonte geopolitico di chi oggi governa il Paese è rappresentato dall’autoritarismo, che è sempre negazione dei diritti, come la libertà di espressione, dell’autodeterminazione delle donne, di una scuola e di una informazione libere. La destra cavalca il populismo, che ha assunto marcatamente caratteristiche di regressione democratica, perché reagisce alle crisi con risentimento, proponendo di arroccarsi come difesa dalla paura. E quest’ultima è sempre stata una condizione emotiva capace di mobilitare le masse attorno a leader carismatici e contro utili capri espiatori.

    Autorità e frustrazione

    La semplificazione delle questioni è ancora il motore dei fascismi e ha lo scopo di consumare la componente liberale delle democrazie. Su questo sono drammaticamente attuali le parole di Fromm, quando spiegava che nelle crisi prevalgono  la tentazione di identificarsi con figure autoritarie e la spinta a scaricare le proprie frustrazioni su gruppi minoritari.
    La cronaca di questi mesi ci restituisce proposte politiche contro l’aborto, contro i migranti, contro i diritti diffusi cui rinunciare in cambio di una effimera promessa identitaria.

    A scuola di Resistenza

    Il fascismo è ancora sempre questo: indifferenza verso le sofferenze sociali, veder annegare i migranti e sentirsi spiegare che era meglio se restavano a casa loro, incapacità di capire la complessità e risolvere il tutto individuando nemici. Il “me ne frego” delle camicie nere non è mai morto, per questo oggi è indispensabile non solo ricordare la Resistenza, ma fare Resistenza.
    I modi sono diversi, il più efficace resta quello che Gramsci suggeriva in una lettera destinata al figlio Delio, in cui parlava di scuola e della necessità di studiare la Storia. Serve per riconoscere e smascherare i mostri anche se certe volte sembrano sorridenti. Conoscere il fascismo in ogni sua forma.
    Buona Liberazione a tutti, non solo oggi.