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  • Marcia su Roma e cifre tonde: un imbarazzante spauracchio

    Marcia su Roma e cifre tonde: un imbarazzante spauracchio

    Gli addetti ai lavori l’avevano ovviamente previsto (anzi, direi, “messo in conto”, un po’ nel bene e un po’ più in mala fede). Gli osservatori attenti se ne saranno accorti in tempo. La restante fetta di fruitori percepisce, assorbe acriticamente e poco elabora, in ossequio alla distinzione già aristotelica fra chi possiede logos e chi solo doxa, opinioni: in vista del centenario della marcia su Roma, gran parte dell’editoria italiana (non soltanto scientifica) si è prodigata in pubblicazioni a tema mussoliniano e/o fascista, declinate ora sul romanzesco, ora sull’equilibrismo tra il censorio e il garbato coccodrillismo.

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    La vetrina di una libreria

    In coda, istituzioni culturali, società storiche, archivi di Stato, deputazioni di Storia patria, obbligati a fare i conti con due numeri di 8 cifre assai simili (28101922 e 28102022), in virtù del mai sopito potere seduttivo del sistema decimale. I due numeri non sono utenze telefoniche e tuttavia hanno chiamato la suddetta compagine all’appello. Qual è il risultato? È un altro dato prevedibile, per alcuni: ovvero che del fascismo non si sa ancora parlare.

    Del fascismo non si sa ancora parlare

    Questo profluvio di pubblicazioni e di convegni, ha indici e programmi la cui eloquenza lascia quasi sempre abbastanza a desiderare, al netto del prestigio di taluni contributori. Si tratta perlopiù di retrospettive su questo o quello specifico personaggio, su questo o quell’evento relativo agli albori del fascismo o – fuori luogo – su qualche parentesi resistenziale che poco c’entra col centenario.

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    Saluti romani a Predappio, città natale di Benito Mussolini, in occasione del centenario della marcia su Roma

    Sia chiaro sin d’ora: ovviamente solo forzanovisti, casapoundisti e compagnia marciando potrebbero auspicare una vera e propria “celebrazione” della ricorrenza anziché un mero riferimento asettico e di riflessione. E ci mancherebbe altro: non è questo il punto. Il punto è che cent’anni – diciamo pure un’ottantina – sono serviti assai poco a formare una seria coscienza critica rispetto alla salita al potere del regime fascista.

    Duelli e imbarazzi

    Qualcuno lo temeva e prevedeva già negli anni ’50: l’Italia non farà mai i conti col Ventennio, senza riuscire mai ad elaborare e metabolizzare tutto l’accaduto e soprattutto le ragioni dello stesso, e resterà stretta nella morsa del manicheismo fra buoni e cattivi, fra belli e brutti, rossi e neri (con prevedibile gioia dei bianchi, poiché tertium datur eccome!). La qual cosa riesce, oltre che ingiusta, anche un po’ ridicola e finanche imbarazzante per i protagonisti di tanta parte della storia politica – e culturale – dell’Italia repubblicana, tenuto conto del camaleontismo italico, dell’epurazione all’acqua di rose, dell’amnistia firmata Togliatti eccetera.

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    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il caso vuole – e questo è proprio un caso – che l’anniversario cada all’alba di un governo di destra, e ciò rende a molti ancora più imbarazzante un riposizionamento visibile (e allora, pensano gli stessi molti: meglio non farsi vedere affatto, almeno per un po’). Questo è il guaio: che di talune cose o si parla con una certa colorazione o non se ne può parlare affatto, con tutta la pavida ottusità di ritenere che parlare di un fascista significhi per forza vestirsi da fascista, neofascista o nostalgico che dir si voglia, senza distinguere la biografia dall’agiografia: ma che candore!

    Una scelta di comodo

    Di certi argomenti, insomma, non si riesce ancora a parlare con la dovuta e auspicabile serenità, sopraffatti da decenni di vulgata monocorde, comprensibile per via di una sedimentazione ideologica e pertanto culturale decennale: una stratificazione in cui abbiamo “imparato” a dare per scontati alcuni dati di fatto (o non-fatto) e meno altri; alcune certezze assai più apparenti che reali. Perché? Perché è comodo, perché è facile e rasserenante scegliere la via più breve. La quale, però, a ben vedere è la stessa identica via breve che – mutatis mutandis – può sempre portare a scorciatoie molto accidentate e pericolose.

    La marcia su Roma e la prova generale a Napoli

    Sto uscendo forse dal mio stesso seminato e certamente sto rimanendo sul vago. Ma, per essere più specifico, il tema meriterebbe un trattato che non ho il tempo di scrivere (né, francamente, tutta questa gran voglia). La marcia su Roma, si sa, ha radici più vecchie e anche poco mussoliniane: fu D’Annunzio a concepirla già un anno prima, e a programmarla per il 4 novembre ’22 prevedendovi anzitutto l’adesione di reduci e combattenti. E proprio a D’Annunzio i vari De Ambris, Balbo, Michele Bianchi e Dino Grandi avrebbero conferito per l’occasione la direzione degli squadristi.

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    Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi ne “La marcia su Roma” (Dino Risi, 1962)

    Curiosamente o, anzi, assai comprensibilmente, sopravvivono più fotografie della “prova generale” della marcia che della marcia stessa: intendo quel Congresso tenuto a Napoli, in piazza del Plebiscito, pochi giorni prima. E mica c’era solo la spina nel fianco del reducismo che chiedeva conto del suo sacrificio: ragionevole era pure l’appoggio offerto al fascismo da parte degli industriali o dell’aristocrazia e della borghesia, per non dire della monarchia e del Vaticano. Chi meglio di un movimento nuovo, progressista, anticlericale e antisocialista – come appunto il fascismo degli albori, sottolineo degli albori – avrebbe potuto ispirare fiducia?

    Fascisti insospettabili (o quasi)

    Si pensi che tra i maggiori oblatori in favore della causa fascista ritroviamo aziende e privati oggi insospettabili (o quasi), ad esempio Voiello, Cirio, Citterio, Peroni, Cinzano, Wührer, Pedavena, Piaggio, FIAT, Isotta Fraschini, Paravia, Lips Vago, Manetti & Roberts, Rueping, e ancora il comm. Luigi Bertarelli, fondatore del Touring Club, nonché esponenti dell’aristocrazia fiorentina e marchigiana come i Ricasoli, gli Strozzi, i Ginori, i Della Gherardesca, i tre conti Gentiloni Silverj e i tre conti Tomassini. Perché mai i vari gruppi di potere o comunque ‘diffusi’ e con interessi da tutelare non avrebbero dovuto assicurarsi la propria fetta di appoggio, una propria garanzia? Era più che lecito cercare altri interlocutori politici, oltre a quelli già presenti e non ostili.

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    Cosenza, piazza XXV luglio, già piazza XXVIII ottobre (rione Michele Bianchi)

    Fin troppo semplice istruire un processo alle intenzioni e giudicare i fatti a un secolo di distanza, con la cognizione maturata, a posteriori, di ciò che il fascismo divenne nel corso del Ventennio, di quali furono le sue pecche e quali i danni che procurò al Paese. Bisogna invece calarsi in quel preciso frangente storico e guardare i fatti con gli occhi di chi li vedeva accadere sul momento. Nessuno aveva la sfera di cristallo né nel 1919, al momento della fondazione del movimento, né quando si preparava e si attuava la marcia, né quando i fascisti entrarono in parlamento e nemmeno con le varie violenze perpetrate prima d’allora. No, nemmeno con quelle, ché non erano le uniche.

    Il delitto Matteotti come spartiacque

    La percezione del vero – o del nuovo – volto del fascismo fu indiscutibilmente chiara al grande pubblico soltanto nel 1924 con l’omicidio Matteotti. Pochi, prima del 28 ottobre, avrebbero previsto la longevità che un regime, dalle fattezze oggi note, avrebbe riservato. Tanti vi credettero in buona fede. In ogni caso, di marcia si parlò e poco più che di una marcia si trattò, a dispetto di qualche narrazione fin troppo gloriosa e apologetica rispetto al reale evento. Un film non notissimo ma esemplare, riesce a restituire perfettamente la natura della partecipazione alla marcia, attraverso le maschere di Vittorio Gassman e di Ugo Tognazzi nella pellicola tragicomica di Dino Risi intitolata, appunto, La marcia su Roma (1962).

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

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    Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.

    La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?

    In Magna Sila

    «Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.

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    Pinelli, venditore di Sorbetti a Napoli, 1840

    Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.

    A vineddra d’a nive

    Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
    La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.

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    La ‘vineddra d’a nive’ nei pressi di piazzetta Toscano

    Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.

    Caterina a nivara

    Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.

    Monopolio sulla neve

    La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.

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    Biblioteca Nazionale di Napoli. 1770. Documentazione della causa dei baroni calabresi contro il Conduttore delle Neviere

    I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.

    Appalti e multe

    «La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.

    Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.

    U Zumpo

    A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.

    La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.

    Una “dieci” di ghiaccio

    L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.

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    Un ‘vascio’ nella ‘vineddra d’a nive’

    Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!

    L’Anthony Quinn della Riforma

    «Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.

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    Piazza Riforma negli anni ’60: il distributore di benzina ha da poco preso il posto della ghiaccieria di Gervasi

    L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.

     

  • Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Si fa presto a criticare (magari non a torto) l’attuale sistema elettorale, che, grazie al taglio dei parlamentari, limiterà tantissimo la rappresentanza calabrese.
    Ma in passato era decisamente peggio, perché la democrazia era un affare di élite, riservato a borghesi, possidenti e “altolocati”.
    Fatta l’Italia, si prese subito atto che gli “italiani” (cioè i cittadini che avevano partecipato ai moti risorgimentali o erano comunque in grado di partecipare alla vita pubblica) erano pochini.
    E il sistema elettorale funzionava di conseguenza. Vediamo come.

    Le prime elezioni

    Le prime elezioni politiche della storia d’Italia si svolsero il 27 gennaio 1861.
    Il clima non era dei più facili: i resti dell’esercito duosiciliano ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta e di Messina, che si sarebbero arrese l’11 febbraio e il 13 marzo di quell’anno.

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    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Ancora: re Francesco II di Borbone avrebbe abdicato al trono e al titolo reale solo dieci anni dopo circa. La sua rivendicazione politica avrebbe ispirato a lungo le bande dei briganti, particolarmente diffuse nella Calabria Citra e in parte del Catanzarese.
    Ma questa è un’altra storia.

    Chi poteva votare

    L’Italia e la Calabria dell’epoca sono realtà rurali, con larghe sacche di analfabetismo e povertà diffusa.
    La legge utilizzata per eleggere il primo Parlamento italiano è quella del Regno di Sardegna, adattata a un territorio grande poco più del 70% di quello attuale: ancora mancano alla conta il Lazio e il Veneto.
    Per votare occorrono quattro requisiti: il sesso maschile, l’età superiore a venticinque anni, essere alfabetizzati e poter pagare almeno quaranta lire annue di tasse.
    Questa regola ha delle eccezioni. La prima, più vistosa, riguarda i sardi, ammessi al voto anche se analfabeti.
    La seconda, invece, è relativa ad alcune categorie, che possono votare anche a prescindere dalla capacità fiscale.
    Sono i “colti” e i professionisti. Cioè i membri delle accademie e degli ordini cavallereschi, i professori universitari, i laureati, i dipendenti dei tribunali e delle procure, i professionisti della Sanità e quelli legali, i funzionari pubblici, civili e militari, in servizio.

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    Camillo Benso conte di Cavour

    La legge elettorale

    Occorre ricordare che nel 1861 il Senato è nominato dal re e tale rimarrà fino alla caduta del fascismo.
    Dunque, si vota solo alla Camera, dove sono in palio 443 collegi uninominali, che diventeranno 493 con l’annessione del Veneto e 508 con quella del Lazio.
    Il meccanismo elettorale è un uninominale su due turni potenziali. Detto in pillole, se nessuno prende il 50% più uno, si va al ballottaggio. Se si libera qualche posto durante la legislatura, si va alle elezioni suppletive. Fin qui, il sistema politico italiano degli esordi è in linea con quelli europei, dove gli elettori effettivi sono di più solo perché è maggiore il benessere diffuso.

    Gli elettori

    Quanti sono gli italiani in grado di votare al momento dell’Unità? La risposta non è proprio consolante: l’1,9% dei cittadini residenti.
    Infatti, i singoli collegi elettorali sono costituiti da mille elettori al massimo.
    In Calabria, la situazione è peggiore. Al momento dell’Unità i calabresi al voto sono poco più dell’1% . Questa percentuale sale all’1,63% nel 1870 e tocca l’1,82% nel 1880. In pratica, votano circa diciannove persone ogni mille abitanti.
    La percentuale è sconfortante anche nel quadro complessivo del Paese.
    I privilegiati sono soprattutto i proprietari (60%), le “pagliette bianche” (cioè i professionisti: 10%), i funzionari civili e i sacerdoti (15%).
    In pratica, tutti i pochissimi benestanti di una società basata sul latifondo.

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    Contadini calabresi di fine ‘800

    Calabria in controtendenza

    Ma questi pochissimi votano di più rispetto alla media nazionale e a quella del Mezzogiorno.
    Le prime Politiche, infatti, sono caratterizzate da un forte astensionismo: a livello nazionale vota solo il 56,4% degli aventi diritto. Nel Sud la percentuale si alza di un po’ e arriva al 63,2%. La Calabria batte tutti col suo 65,7%.
    Di più: la regione è in controtendenza anche per le scelte politiche: mentre il Paese premia la Destra cavouriana, da noi vince la Sinistra storica, sebbene in un quadro di lotte e intrighi piuttosto complesso.

    I cosentini al Parlamento

    Particolarmente interessante risulta la pattuglia dei deputati cosentini, eletta dai dieci collegi della provincia.

    Vincenzo Sprovieri

    Il primo è Giuseppe Pace, esponente della Destra, eletto a Cassano con 301 voti su 774 aventi diritto e 551 votanti effettivi.
    Il collegio di Castrovillari, dove votano 973 aventi diritto, esprime l’indipendente Antonio La Terza, che prende 329 preferenze su 761 elettori effettivi.
    Corigliano, invece, esprime Vincenzo Sprovieri delle Sinistra storica, che prende 468 voti su 622 votanti effettivi (gli aventi diritto sono 801).
    A Cosenza la Destra si prende la sua rivincita: passa Donato Morelli, che ottiene 276 voti su 557 votanti effettivi in un collegio costituito da 909 aventi diritto.
    A Paola gli aventi diritto sono decisamente meno: 689. Il collegio esprime Giuseppe Valitutti della Sinistra storica, che prende 339 voti su 550 votanti.
    Ancora meno, 624, gli aventi diritto a Rogliano, dove vince Gaspare Marsico della Sinistra storica con soli 173 voti su 345 votanti.
    Rossano ha 625 aventi diritto. Gli elettori effettivi sono 466 e 285 di questi eleggono Pietro Compagna della Destra.
    A San Marco, che ha 606 aventi diritto, la spunta Giovanni Mosciaro della Sinistra storica con 288 voti su 519 votanti.
    Spezzano Grande elegge Gabriele Gallucci della Destra, con soli 164 voti. I votanti sono 278, gli aventi diritto 472.
    A Verbicaro vince Francesco Giunti della Sinistra storica, che prende 348 voti su 568 votanti. Gli aventi diritto del collegio sono 757.

    Giovanni Nicotera

    I trombati

    La maggior parte degli eletti proviene dal notabilato locale, che ha fatto le sue fortune sulle grandi proprietà, ottenute prima dell’Unità nazionale e non sempre in maniera cristallina.
    Tra i grandi trombati, invece, ci sono altri protagonisti del Risorgimento.
    Tra questi, alcune figure di prima grandezza della storia regionale e non solo: il patriota e intellettuale Domenico Mauro, il futuro ministro Luigi Miceli e Giovanni Nicotera, anche lui futuro protagonista dei governi della Sinistra storica.
    I tre, battuti in casa dai notabili, rientrano alla Camera grazie a candidature mirate in collegi fuori regione.
    La Calabria entra nella storia unitaria con il suo solito vizio: boccia i migliori e preferisce i notabili.

  • Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Vittorio de Seta li chiamò «i contadini del mare». Il campo che coltivavano, con cura e sudore uguali a quelli che gli agricoltori riversano sulla terra, erano le acque del Golfo di Sant’Eufemia, da Pizzo a Tropea. Nelle loro fatiche, nei gesti, nel codice con cui comunicavano, perfino nei loro canti e nei soprannomi che si affibbiavano, c’era una cultura millenaria. Quella dei tonnaroti, oggi quasi del tutto perduta, materialmente abbattuta dal tempo e dalla noncuranza che, come l’acqua di mare, erode ogni cosa.

    L’isola di reti

    Eppure l’uso delle tonnare in Calabria, un ingegnoso sistema di pesca fissa e passiva, è stato praticato fino agli anni ’60 solo sul Tirreno vibonese. Il tonno rosso si pescava attraverso un articolato sbarramento di reti abilmente piazzate e divise in “isole” e “camere”. Una trappola intricata che attirava i tonni durante la loro migrazione. Rappresentava una sorta di prolungamento marino della terraferma. Una «territorializzazione del mare», diceva sempre de Seta. Poi c’erano gli edifici stabili costruiti quasi a riva in cui avveniva il deposito, la lavorazione, il ricovero dei barconi. Tutto ciò era pratica comune solo in Sicilia. Però lì i tonni arrivavano già stanchi e sfibrati, nella baia di Vibo invece erano più “freschi”. E si avvicinavano, cosa che oggi non accade più, fino a due miglia dalla costa.

    Le antiche tonnare (dal sito callipo.com)

    Tonnare in Calabria: un’economia fiorente

    Le tonnare in Calabria, di mare e di terra, hanno così dato da vivere a moltissime famiglie di Pizzo, Vibo Marina, Bivona e Portosalvo (le tre “Marinate” vibonesi), Briatico e Parghelia (alle porte di Tropea). Rappresentavano un settore importantissimo dell’economia locale, tanto che le antiche famiglie nobiliari che le possedevano le proteggevano sorvegliandole attraverso torri o addirittura castelli.

    L’indotto verso i monti

    C’è anche un altro aspetto, tutt’altro che secondario, da ricordare. Le tonnare dei paesi costieri erano inserite in dei microcircuiti economici che comprendevano anche i territori di collina e di montagna. Da lì arrivavano sale, olio e ghiaccio per la conservazione. Lì gli artigiani producevano e lavoravano reti, cordami e legname per le barche.

    Tonnara Angitola a Vibo Marina. La benedizione delle reti e dei barconi prima delle mattanze nel 1947 (collezione Cantafio)

    Tonnare in Calabria, mille anni di pesca

    Di manufatti per la pesca del tonno in quest’area si trovano tracce documentali risalenti al XI secolo. In uno dei primi privilegi concessi da Ruggero il Normanno all’Abbazia di Mileto compare l’area di Bivona. Che viene descritta, nel 1081, «… cum portu suo, ac tunnaria, et omnibus pertinentiis». Fin dalla fondazione dell’odierna Vibo diversi manoscritti riportano fatti legati alle tonnare: in un atto del 1326 il re Roberto, per prevenire incidenti, dispose che nessuno vendesse vino nell’area e nel periodo in cui era in attività la tonnara di Bivona.

    La contaminazione con i siciliani

    Questo sistema di pesca si estende dal XVI secolo, periodo a cui risalgono le prime notizie sulle tonnare di Parghelia (Bordilà), Sant’Irene e Briatico (Rocchetta), Santa Venere e Pizzo (delli Gurni). Nel XVIII secolo l’iniziativa imprenditoriale delle tonnare in Calabria è appannaggio dei nobili (De Silva y Mendoza, Pignatelli, Caracciolo) e della Diocesi. I tonnaroti di Pizzo diventano i più ricercati per tutto il golfo. E a loro si uniscono anche rais (i dominus della ciurma) e tonnaroti siciliani. Generando una contaminazione unica di tecniche e di rituali di pesca.

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    La grande ancora di tonnara portata a riva da un gruppo di 10 tonnaroti (Lomax, 1954)

    Un po’ di Sicilia in Calabria

    Nell’agosto del 1954 arrivano a Vibo Marina lo statunitense Alan Lomax e il calabrese Diego Carpitella. Mostri sacri dell’etnomusicologia, quell’anno attraversano tutta l’Italia a bordo di un pulmino Wolkswagen. E realizzano un’impresa di documentazione che diventerà una pietra miliare per il futuro studio della musica tradizionale italiana. Hanno già registrato a Sciacca i canti di tonnara. Hanno incontrato De Seta mentre documenta la pesca del pescespada a Scilla e Bagnara. Dunque si stupiscono di trovare, sullo sterrato che affianca la tonnara del borgo portuale vibonese, un pezzo di Sicilia anche nel continente.

    Alan Lomax in mezzo ai tonnaroti (1954, collezione Canduci)

    I canti delle tonnare in Calabria

    A Lomax e Carpitella si devono foto e registrazioni sonore che hanno strappato all’oblio i canti, i nomi, i linguaggi e le relazioni secolari di rais e tonnaroti. Si tratta del più corposo lavoro mai fatto sulla cultura musicale delle tonnare, in Calabria e non solo. Oggi è raccolto e approfondito in un bel volume (con cd), “Canti della tonnara”, edito da Rubbettino e curato da Danilo Gatto, con contributi di Giorgio Adamo, Sergio Bonanzinga, Danilo Gatto, Giuseppe Giordano, Anna Lomax Wood, Antonio Montesanti, Domenico Staiti, Vito Teti.

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    Onofrio Lo Presti, uno dei tonnaroti fotografato e registrato da Alan Lomax

    L’itinerario della dimenticanza

    Montesanti ha trascorso anni a ricostruire, incrociando le informazioni raccolte da Lomax con le testimonianze locali, le identità e le storie di rais e tonnaroti della zona. Proprio con lui abbiamo provato a ripercorrere le tracce delle tonnare tra Pizzo e Tropea. Un tour della dimenticanza. Perché di fatto, oggi, i segni dell’antichissima tradizione di pesca delle tonnare in Calabria sono stati spazzati via. Resta qualche fuggevole particella di memoria e dei tentativi, miseramente falliti, di dare dimora alla testimonianza di ciò che è stato.

    La più antica, dimenticata

    Partiamo proprio da Pizzo, dalla tonnara più antica. È quella della Seggiola, che secondo alcune risultanze documentali esisteva già nel 1400. Di proprietà dei De Silva y Mendoza prima, poi dei Gagliardi, è diventato un bene demaniale e, in parte, oggi l’edificio è usato da alcuni pescatori. Ma è seminascosto e dimenticato, in una piccola insenatura, con un mostro di cemento mai finito che incombe a fianco (di cui abbiamo scritto in questo controtour).

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    Ciò che rimane dell’antica tonnara della Seggiola, a Pizzo

    Il museo del vuoto

    Pare fosse uno degli angoli più belli della cittadina costiera, che invece oggi concentra molte delle sue attrattive turistiche, oltre che sul centro storico, sul vicino lungomare. Lì ha sede il “Museo del mare” che però, di fatto, delle tradizioni di pesca conserva poco più che il nome. Un tempo era la loggia dei barconi, oggi vi si fa qualche convegno e poco altro.

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    Il “museo del mare” a Pizzo

    Da pescatori a carrozzieri

    Procedendo verso Sud sul litorale pizzitano c’è l’antico stabilimento Callipo, o meglio i resti puntellati da impalcature in legno. Un ramo della famiglia, quello di Carmelo Callipo, si divise da quello che faceva capo a Giacinto (di cui invece porta il nome ancora oggi la nota azienda di prodotti ittici nata nel 1913 e tuttora attiva) e rilevò, nel Dopoguerra, la tonnara nel centro di Vibo Marina. Era stata di proprietà dei nobili siciliani Adragna d’Ali. Inaugurata nel 1865, rimase in attività solo per pochi anni dopo il passaggio di proprietà. Oggi, al suo interno, c’è una carrozzeria.

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    Il portale della ex tonnara di Vibo Marina, al cui interno oggi c’è una carrozzeria

    Lo sciopero del ’54 e la caserma di oggi

    Sempre a Vibo Marina sorgeva la tonnara Angitola. Prima dei Gagliardi e poi dei Cantafio, era proprio quella a cui giunsero Lomax e Carpitella nel 1954 nel bel mezzo di uno sciopero. Il padrone non li pagava da un anno e i tonnaroti avevano incrociato le braccia lasciando tutte le attrezzature a mare per fare pressione sul titolare. Non si sa come, ma con l’arrivo degli etnomusicologi la “vertenza” si risolse. Oggi di quella tonnara non resta nulla. Ne ricorda vagamente solo qualche forma il casermone del Comando provinciale della Guardia di finanza che è stato costruito al suo posto.

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    La caserma della Guardia di finanza a Vibo Marina, costruita dove c’era la tonnara Angitola

    Tonnare di Calabria, l’appello per Bivona

    Scendendo ancora in direzione Tropea c’è la tonnara di Bivona, che merita un discorso a parte. «Negli anni – ricorda Montesanti – tanti fondi pubblici sono stati spesi male per il suo recupero, tant’è che dopo oltre 5.200 giorni è ancora inagibile. E un nuovo finanziamento rischia di smembrarne la storia». Qualche giorno fa lo studioso ha lanciato un appello al presidente della Regione Roberto Occhiuto. Tra i firmatari Carlo Petrini, Silvio Greco, Gioacchino Criaco, Francesco Cuteri, Tomaso Montanari, Vito Teti e Silvana Iannelli.

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    La tonnara di Bivona

    Gli annunci «spacchettati»

    Il finanziamento in questione prevedrebbe «la realizzazione del Museo del Mare e della pesca». Il sindaco di Vibo, Maria Limardo, lo scorso 10 maggio ha scritto su Fb: «Che bella la nostra Tonnara! Che belli i nostri barconi! Presto torneranno a nuova vita con un importante lavoro di restauro che inizierà nel prossimo mese di giugno». Secondo i sottoscrittori della petizione decine di tavoli tecnici avrebbero invece «partorito un disastro» con quel bene monumentale «spacchettato in tre pezzetti». Si vedrà come andrà a finire. Intanto però una delle ultime tonnare di Calabria resta chiusa, anche se al Salone del libro di Torino l’amministrazione vibonese ha sostenuto di averci aperto un «centro culturale Lomax» che, al momento, non esiste.

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    L’interno della tonnara di Bivona (dalla pagina Facebook Maria Limardo Sindaco)

    Dalla Curia ai ristoratori

    Andiamo ancora avanti. È interessante la storia della tonnara di Sant’Irene a Briatico. Di epoca ottocentesca, la proprietà è passata dai Mendoza alla diocesi di Mileto. Poi dalla Curia ai privati. Che al suo posto hanno realizzato un ristorante. Oltre alla singolare evoluzione, un fattore di unicità è rappresentato dal fatto che vicino alla tonnara scomparsa ci siano i resti di una «peschiera» di epoca romana. In pochi metri millenni di storia della pesca. Cancellati.

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    Il luogo dove sorgeva la tonnara di Sant’Irene a Briatico. Ora c’è un ristorante e, a pochi metri, la «peschiera» romana

    Secoli, torri e selfie

    Nello stesso paese c’era anche la tonnara della Rocchetta. Di proprietà dei Bisogni, le ultime notizie risalgono alla fine del 1600. Poi diventò uno zuccherificio, quindi (a fine Ottocento) una vetreria. Ne sono rimasti dei ruderi nascosti dall’erba alta. E anche qui, poco distante, ci sono i resti di una «peschiera» romana su cui i ragazzini si fanno dei selfie a like garantito. L’ultima traccia (perduta) era a Parghelia, dove un villaggio turistico conservava solo il toponimo, fino a quando non ha cambiato nome. Ma anche le torri che sorvegliavano le tonnare sono diventate altro. Quella di San Pietro di Bivona, a guardia dell’antica tonnara che non esiste più, è un immobile privato. La torre Marzano a Vibo Marina è stata in parte demolita durante la costruzione delle case popolari.

    Il tonno non si fida più di noi

    Ora, è chiaro che questi sistemi di pesca nel Vibonese sono scomparsi perché il tonno rosso non arriva più qui. La Calabria non ha quote di pesca nella ripartizione europea. Le principali aziende lavorano e vendono tonno a pinna gialla. E quel poco di “rosso” che trattano lo acquistano per lo più da Campania e Sicilia.

    Chi guarda indietro e chi perde la memoria

    Intanto, per esempio, in Sardegna (a Stintino) e nel Sud della Spagna (Andalusia) si sta studiando il ripristino delle tonnare fisse perché è un sistema molto più ecosostenibile della pesca distruttiva a predazione. Mentre delle tonnare, nella Calabria della retorica dei borghi e delle bandiere blu, delle tradizioni da tramandare e dell’identità-culturale-da-valorizzare, non si conserva quasi più neanche la memoria.

  • Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Nel primo volume della sua autobiografia, Chronicles (Feltrinelli, 2005), Bob Dylan ricorda con riconoscente affetto Mike Porco, colui che gli spianò la strada del debutto fino alle porte del successo. «Mike was the sicilian father – scrive – that I never had», Mike è stato il padre siciliano che non ho mai avuto. In realtà Michele “Mike” Porco, non era siciliano, come il senso comune americano definiva l’italiano meridionale. Era calabrese, cosentino di Domanico, figlio d’un emigrato in America, preso dal sogno del ricongiungimento della famiglia a New York, dove faceva il muratore.

    Dalle Serre cosentine a New York

    Quando cominciò a profilarsi la ripresa delle attività edilizie, che la Grande depressione del 1929 aveva bloccato, Michele s’imbarcò a Napoli per raggiungere il padre e aiutarlo a realizzare, prima possibile, la trepida aspirazione familiare. Dopo tre settimane di viaggio, l’approdo ad Ellis Island, nell’incanto della Statua della Libertà, all’accesso del nuovo mondo, aperto alla speranza di una nuova vita.

    Sulla banchina, ad attenderlo, c’era un gruppo di compaesani. Ma non il padre. La morte lo aveva stroncato, all’improvviso, qualche giorno prima. Mike, disperato, si sentì perso. Trovò per sua fortuna ospitalità da alcuni parenti, che lo avviarono al lavoro in uno dei loro ristoranti, il Gerde’s club, al centro del Greenwich Village, quartiere in crescita nel cuore della Grande Mela. Da lavapiatti a cameriere, a gestore di fiducia, Mike riuscì, gruzzolo su gruzzolo, ad acquistare il locale.

    Il Village e la Beat generation

    Il Village era un borgo di irresistibile richiamo per intellettuali e bohémien, un composito microcosmo di cultura alternativa, sintesi newyorchese tra Montmartre e Montparnasse, pullulante di pub e bistrot. Era la meta preferita dei folksinger, pionieri del movimento beat. Li ispiravano il romanzo autobiografico On the road di Jack Kerouac, le opere letterarie di Allen Ginsberg, che ne era il guru, e le canzoni di Woody Guthrie, mito del nuovo corso musicale, rivoluzionario cantore dell’Altra America, poeta della protesta sociale radicalizzato nel comunismo, un hobo solitario monumentato in vita dal suo popoloso seguito.

    Kerouac, nel suo girovagare, elesse il Village, come luogo congeniale alla sua filosofia e al proprio coerente modo di vivere. Qui conobbe Neal Cassady, scrittore, che, come lui, in sregolatezza esistenziale, ispirò la figura del coprotagonista del suo romanzo autobiografico per la comune vana ricerca di un indistinto padre perduto, patiti com’erano, il primo, per la morte del genitore naturale, l’altro, per averlo avuto alcolizzato cronico, motivi questi, per loro, di squilibrio interiore e di crisi esistenziale. Qui, nel Village, Woody, anche lui orfano di padre, in fuga dalla sua sventurata adolescenza, trovò la destinazione ideale del suo inquieto nomadismo, l’atmosfera giusta per fissare il suo definitivo domicilio lungo la Hudson Street, un vialone alberato tra l’omonimo fiume e la centralissima Washington Square.

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    Woody Guthrie e un giovane Bob Dylan

    Sospinto dal coinvolgente messaggio di Kerouac, dagli impulsi poetici di Ginsberg e – di più, molto di più – dalla irrefrenabile voglia di incontrare il suo idolo Woody, Bob Dylan (nato nel 1941), non ancora ventenne, regolarmente squattrinato, chitarra in spalla – suo unico capitale disponibile con qualche brano da lui composto – abbandonò, in rotta col padre, la famiglia per raggiungere, on the road, il mitico Village, alla ricerca del padre della propria formazione artistica e della temperie adatta ai suoi versamenti culturali, affinati dai romanzi di Edgar Allan Poe e di Mark Twain, scrittori di rottura nei loro generi e messaggi letterari.

    Il Gerde’s Folk City

    Mike, oramai addestrato all’arte del ristoratore, fiutò l’emersione del genere folk nei gusti, sì, dei giovani, ma anche di quegli intellettuali, di quegli imprenditori e dei tanti newyorchesi, che, danarosi, si riversavano, in evasione dal tran tran metropolitano, nel quartiere per viverne il clima e, preferibilmente, la vita notturna. La sua intuizione lo portò a rinnovare il locale, dove allestì un palchetto al posto del vecchio pianobar per offrire alla clientela un tono musicale, d’accompagnamento alle cene, diverso dal solito.

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    L’ingresso del Gerde’s Folk City su 4th Street. Negli anni ’70 il locale si trasferirà al 130 West di 3rd Street, per poi chiudere nel 1987. Mike Porco lo aveva ceduto sette anni prima a Robbie Woliver, Marilyn Lash e Joseph Hillesum

    Il Gerde’s diventò Gerde’s Folk City. Egli stesso si convertì da ristoratore – ruolo che affidò al fratello Giovanni che, intanto, lo aveva raggiunto – a talent scout di band e cantanti solisti, che, per sbarcare il lunario, di giorno, si esibivano per strada, confidando nelle offerte dei passanti, e, a sera, facevano il giro dei locali che li sfruttavano, volta per volta, per un dollaro più una bevuta al bar. Lui prima li faceva provare, poi li selezionava sulla base del gradimento della clientela. Se funzionavano, li faceva ruotare a turno, raddoppiando la paga con consumazione e cena.

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    Il Gerde’s gremito durante un concerto

    Bob Dylan e Mike Porco

    Gli capitò Bob Dylan. Gli concesse la ribalta per una sera. Il pubblico applaudì. Lui, invece, fu sul punto di bocciarlo: «Ha la voce di una cornacchia», disse agli amici al suo tavolo – nientemeno che Ginsberg e Robert Shelton, primo critico musicale del New York Times – che, da habitué del locale, non gli risparmiavano giuste imbeccate. I due gli certificarono il talento del ragazzo. E dovettero insistere per convincerlo ad inserire Bob nel programma delle serate hootenanny del lunedì. Fu un boom.

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    Settembre 1961, Bob Dylan sul palco del Gerde’s nel concerto che lo consacrerà, ancora giovanissimo, lanciandolo verso un successo che lo porterà fino al Premio Nobel. Incollata alla chitarra, la scaletta delle canzoni di quella sera

    Bob Dylan diventò il pupillo di Mike Porco, che, a quel punto, gli propose un contratto. Essendo ancora minorenne, Bob avrebbe dovuto avere il nulla osta del sindacato. L’impiegato della Musicians Union, cui si rivolse, gli oppose la necessità della firma consensuale di uno dei genitori. Inutilmente, Bob, che non aveva più contatti con la sua famiglia in Minnesota, replicò d’essere orfano e solo al mondo. A risolvergli il problema fu Mike, che firmò come tutore.

    https://youtu.be/A8pqKnZshpw

    Alcuni spezzoni tratti da “Positively Porco”, docufilm su Mike e il suo locale: al minuto 4’05” è lui stesso a raccontare come abbia fatto da garante per Bob Dylan

    Da allora in poi, il rapporto tra i due fu quello di padre e figlio. Padre premuroso e figlio riconoscente, non più ribelle come lo era stato con il suo genitore vero. Bob trovò il padre che cercava, al contrario dei suoi idoli che, non rinvenendo il senso della vita nella umanità circostante, rincorsero la beatitudine consumandosi nella droga e nell’alcol. Bob Dylan non ne ebbe bisogno, sia pure dopo averne provato il rischio. Prese la sua strada, per farne tanta, come si era ripromesso in Song to Woody.

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    La recensione con cui Robert Shelton esalta il giovane Dylan sul prestigioso New York Times: è nata una stella

    Shelton gli dedicò una esaltante recensione. John Hammond, leggendario produttore discografico, se lo accaparrò alla Columbia Records. Di qui il volo verso la celebrità, dopo aver fatto la fortuna dell’emigrato calabrese. Che, negli ultimi anni della sua vita, era solito raccontare ai suoi figli come la sua tenacia fosse valsa a riunire la famiglia nel benessere del nuovo mondo e a coronare, così, il sogno paterno.

    Un locale di culto

    Trent’anni fa, il 13 marzo 1992, dava l’addio al mondo Mike Porco, il calabrese che, negli anni Trenta, da Domanico, borgo rurale delle Serre cosentine, emigrò in America. E a New York fondò il Gerde’s Folk City – uno dei tre migliori locali musicali del mondo, secondo la rivista Rolling Stone, insieme al beatlesiano The Cavern di Liverpool e al newyorkese CBGB – e centro propulsore sempre all’avanguardia del folk, del rock, del folk rock e ritrovo degli intellettuali della controcultura in fermento nel Village.
    Alla sua scena si legano gli esordi e le carriere di innumerevoli celebrità: dal già citato Bob Dylan a Joan Baez, da Dave Van Ronk a Richie Havens, da John Lee Hooker a Jimi Hendrix, da Simon & Garfunkel a José Feliciano. Una vera e propria pista di lancio per tanti musicisti destinati ad entrare nella storia della musica.

    L’anniversario in mondovisione

    Sulla ribalta dei Newport Folk Festival, ciclicamente organizzati negli anniversari del locale, gli artisti promossi dal Gerde’s si esibivano in massa, in dichiarato omaggio al loro scopritore. In occasione del 25mo anniversario del Folk City, il concerto fu trasmesso in tutto il mondo dalla Pbs e dalla Bbc Tv. In quello del 1979, il sindaco di New York, Edward Koch, indirizzò al titolare del Gerde’s una lettera di calorose congratulazioni per la sua “benemerita attività”.

    Spesso, i media americani si occuparono di Mike Porco. Lui era pronto a narrare aneddoti inediti sulla sua singolare esperienza e sugli artisti di cui, pur senza capire un accidente di musica, aveva istintivamente colto il valore. Era diventato un personaggio gradito al grande pubblico, che lo aveva in simpatia anche per il suo inglese maccheronico. Gli stessi artisti parlavano di lui come una gran brava persona, una figura familiare, certo scaltrita dal fiuto per gli affari, ma sempre disponibile ad aiutare il prossimo.

    Non solo Bob Dylan: gli artisti come figli

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    Mike Porco insieme al cantautore Cisco Houston

    In un’intervista per il libro Conclusions on the wall: new essays on Bob Dylan della esperta musicale del New York Times Magazine, Elizabeth Thomson (Thin man, 1980), Mike Porco raccontò la sua vicenda di emigrato, di proprietario del Gerde’s, di paterno sostenitore di Bob Dylan, in modo speciale, ma anche degli artisti che egli incamminò sulla strada del successo. «Sento come se questi ragazzi siano stati tutti miei figli. Li ho visti crescere – disse – come persone e come artisti. Tanti di loro sono andati avanti sino a diventare delle vere e proprie star. Vorrei che potessero tornare quei tempi, con Bobby, Janis Joplin, Steve Goodman, Phil Ochs. In occasione del mio sessantunesimo compleanno, li vidi arrivare un po’ tutti, Bobby con Joan Baez, Allen Ginsberg, Phil, Bobby Neuwirth, Roger MacGuinn, tutta la mia vecchia gente».

    Mike Porco, un affabile calabrese

    Robert Shelton nel suo libro biografico su Bob Dylan descrisse così Mike Porco: «Un affabile calabrese, con baffetti sottili, lenti spesse e un accento ancora più spesso delle lenti. A malapena distingueva una ballata da una mortadella. Ammassava profitti sulle consumazioni. Si affidava alle reazioni del pubblico per scegliere i cantanti, spesso ascoltando non la musica, ma gli applausi. La simpatia che Mike suscitava era dovuta anche al fatto che non aveva mai imparato bene l’inglese.

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    Michele “Mike” Porco

    Chiamava il suo club “a Folk a City”. Una volta dettò al telefono un annuncio pubblicitario al Village Voice, che fu ripetuto per due settimane di fila, presentando Anita Sheer come una cantante di flamingo (l’equivalente inglese dell’italiano “fenicottero”, ndr), invece che di flamenco. Di un altro che cantava in diverse lingue disse che si trattava di un cantante linguistico. Era, però, molto ben disposto verso i nuovi talenti. “Diamogli una possibilità”, era il suo motto, mentre la sua politica gestionale si basava sul “più è nuovo e meno costa”».

    Un cappotto che non si dimentica

    José Feliciano dichiarò: «Mike fu per me come un secondo padre. Mi ha aiutato in ogni modo a superare i momenti di difficoltà, facendomi guadagnare. Da uomo buono e generoso qual era, visto che non lo avevo, mi regalò un cappotto nuovo, perché il freddo a New York si sente, eccome. Io non ne avevo uno che potesse definirsi tale. Sono cose che non potrò mai dimenticare». Dello stesso tono riconoscente, decine e decine di altre testimonianze su un uomo che, evidentemente, non dimenticò mai le sue origini e il senso dei suoi sacrifici.

    1962, Suze Rotolo e José Feliciano al Gerde’s Folk City

    All’America seppe restituire il capitale che gli aveva dato in banconote con il capitale invisibile, eppure concreto, del suo altruismo e della sua intelligenza intuitiva. Se New York non è stata la capitale dell’America, lo è diventata del mondo per quella ribalta musicale nata nel Village e ideata – chi l’avrebbe mai immaginato – da un calabrese.

  • MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

    MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

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    «Anche via Popilia è Cosenza»
    (frase attribuita a Tonino Napoli, visibile su una recinzione di lamiera)

    Finirà che dovremo ringraziare la grande distribuzione per questo lento eppure costante processo di integrazione che interessa via Popilia, un processo che in vent’anni la politica a Cosenza non è riuscita a portare a termine.
    Ora che anche la Lidl ha aperto un supermercato sulla antica strada consolare romana, è ufficiale che non è bastato l’abbattimento della secolare linea ferrata per inglobare nel tessuto urbano ’a petrara (così detta un tempo in virtù dei ciottoli del fiume Crati che le scorre a est): i binari erano un diaframma che la isolava da un centro incredibilmente ravvicinato. E oggi di nuovo allontanatosi.

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    1910, Crati: Santa Maria degli Angeli e foresta, poi via Popilia

    Il rilevato ferroviario è stato sostituito da un viale ibrido (alberato ma anche asfaltato e con pista ciclabile ma anche pedonale) che continua a non avere pace tra annunci di restyling e cantieri sospesi e riaperti, anzi no; ma nel frattempo anche la presunta rinascita edilizia dei primi anni Duemila sembra fallita, con molti palazzoni in gran parte ancora vuoti e che iniziano a invecchiare seppur disabitati fin dalla costruzione.
    Oggi almeno si registra un ritrovato attivismo da ricondurre ai Bonus 110 sulle tante cooperative nate già da fine anni Ottanta. Fu quella la prima “riconversione” del quartiere (una scommessa di gentrificazione ante litteram), quando viale Parco era ancora un progetto – a cui però, evidentemente, i costruttori credevano.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal centro città

    Subito dopo, la diffusa colata di cemento del nuovo millennio non è servita a rendere via Popilia più vivibile: all’aumento della volumetria non ha fatto seguito un parallelo miglioramento dei servizi.
    La spazzatura accatastata all’ultimo lotto, a qualche decina di metri in linea d’area dai lussuosi appartamenti rendesi, è un simbolo perfetto di questo abbandono assoluto, che fa ancora più rabbia dopo la prosopopea dell’ultima campagna elettorale in cui si prometteva l’ennesima rinascita.

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    Rifiuti all’ultimo lotto di via Popilia a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perché se una legge non scritta della politica a Cosenza vuole da sempre che «le elezioni si vincono a via Popilia», alle ultime amministrative, questo elemento è apparso come qualcosa di più di una indicazione, rivelandosi piuttosto la conferma dell’esistenza di un blocco di consenso decisivo nel ballottaggio che ha incoronato Franz Caruso: proprio in nome della «attenzione per le periferie», o meglio per la periferia cosentina per antonomasia.

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    La protesta, organizzata dall’allora consigliere di maggioranza – diventerà assessore poco dopo, carica che riveste anche oggi nella Giunta Caruso – De Cicco contro il progetto di un campo rom a via Popilia

    Capannoni tutti uguali per salvare le periferie?

    Di certo questo isolamento non è attribuibile (solo) agli ultimi arrivati a Palazzo dei Bruzi.
    Viale Mancini e la bretella fantasma a est di via Popilia (ex via Reggio Calabria, con innesto sul ponte di Calatrava) rappresentano due simboli della più totale inadeguatezza amministrativa a Cosenza essendo, rispettivamente, un’eterna incompiuta e un cantiere che non parte mai: due confini più o meno immaginari – il primo incerottato d’arancione, il secondo solo tracciato – che corrono paralleli e continuano a condannare l’ex stradone popolare alla marginalità, a rimanere il ghetto che si credeva di aver cancellato – diciamo spostato nel ghetto/bis di via degli Stadi – oltre vent’anni fa con il “trasloco” della vecchia baraccopoli (dicembre 2001) e il viale Parco poi intitolato al sindaco che lo immaginò e ne inaugurò i primi spezzoni mentre era ancora in vita.

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    La baraccopoli demolita per volere di Mancini: il ghetto trasloca a via degli Stadi (foto Ercole Scorza)

    Di recente, un lunedì mattina in cui molti se le aspettavano proprio su viale Mancini – annuncio di due esponenti di giunta in una trasmissione tv –, le ruspe si videro spuntare nel tratto centrale della petràra. Veloci e aggressive come solo quelle di un privato, per di più forestiero, sanno essere.
    La tabella dei lavori conferma la vox populi di un nuovo supermercato Lidl e il polverone dovuto al livellamento del terreno, misto agli sventramenti di antiche palazzine basse e disabitate, ufficializza come conclusa la parabola che dalla guerra di mafia ha portato a una ben più innocua guerra dei supermercati, passando da quella del mattone: forse, quest’ultimo, un conflitto dormiente e sempre dietro l’angolo.

    Cosenza, i lavori per realizzare un nuovo supermercato a via Popilia

    I capannoni tutti uguali della Gdo si confermano dunque elemento antropico e urbanistico prima che commerciale eppure, in questo, via Popilia è solo l’ultima frontiera se si pensa ai tanti precedenti (EuroSpin e ancora Lidl su via degli Stadi, un’altra Lidl con annessa rotatoria lungo viale Principe a Rende solo per restare agli ultimi): perché, prima di diventare area degli acquisti per residenti e pendolari, questa era e rimane l’arteria delle scuole (anzi di recente si sono aggiunti lo scientifico e il geometra), delle farmacie che si spostano rinnovandosi e delle edicole che chiudono (aumentano solo quelle votive), dei presidi di legalità come la polizia stradale all’estremità sud e i carabinieri al confine nord, del carcere, dell’Agenzia delle entrate e del palazzetto dello sport.

    Gnugna e tressette, scommesse e munnizza: «Questa è la realtà»

    Qui, accanto alla Comunità Bethel, un orto si affaccia sulla strada dove le auto sfreccerebbero a 100 all’ora se non ci fossero i dossi in cemento più alti di Cosenza (due, ma fanno egregiamente il loro lavoro…): un gruppo eterogeneo gioca a carte nel cortile di quello che fu un frequentato centro per anziani.
    Il welfare ha da tempo abbandonato queste latitudini, come se la cementificazione avesse portato anche inclusione: l’associazione di volontariato “IoNoi” ha sede nei locali della fu VII circoscrizione, un tempo anche ludoteca per i bambini della zona.

    Spariti anche i luoghi della politica – un processo comune ai quartieri centrali ma qui forse più doloroso – si è passati dalle sezioni di partito alle sale scommesse come luogo di aggregazione.
    Nel blocco che si vuole costruito coi soldi del piano Marshall – siamo nel tratto centrale, zona sopraelevata – sono quasi stinti i murales tracciati sulle palazzine basse color senape. Uno dei progetti, meritevoli per carità, ma che durano il tempo della foto assessorile e del seguente comunicato stampa: ma almeno in questo casa resta il monumentum, lo stimolo visivo a ricordare.

    Un furgone abbandonato in una traversa di via Popilia

    Tutt’intorno, auto e furgoni abbandonati, ancora spazzatura, siringhe. È anche vero che se la gnugna (l’eroina, ndr) non è mai scomparsa – continua anzi ad avere periodici ritorni di fiamma –, questa periferia non appare più inaccessibile e infernale come un tempo, quanto piuttosto sospesa in un limbo purgatoriale; può essere però ben definita con un verso sempre dantesco ma dal Paradiso (XV, v. 106): «Non avea case di famiglia vote». Il Sommo si riferiva agli appartamenti fiorentini disabitati perché sproporzionati al bisogno delle famiglie, qui siamo piuttosto nel territorio della superfetazione di solai fine a se stessa che ingrassa la lobby dei costruttori mentre altri strati sociali sono condannati all’emergenza abitativa e all’esclusione sociale.

    Uno stallo che raramente permette il salto da uno status a quello superiore, una stratificazione immobile che Lugi, alias Luigi Pecora, orgogliosamente afro-popiliano, racconta benissimo in un pezzo rap (Questa è la realtà) in cui passeggia idealmente da casa sua – l’ultimo lotto che sembra un block di Spike Lee – al centro.

    Via Popilia, dalle guerre di mafia (e del mattone) a quella dei supermercati

    Il culto del dio cemento e il cristianesimo convivono a via Popilia

    Nel 2005 si contavano tredici gru su viale Mancini (intanto saturatosi), nel frattempo altrettante ne sono spuntate su via Popilia (oggi in realtà sono una decina, sparse tra i Due Fiumi e la casa circondariale).
    I due delitti eccellenti al giro di boa dei due secoli e due millenni – tra il semaforo in zona carcere e l’ultimo lotto – sembrano un ricordo lontanissimo. Ora la guerra – dopo quella combattuta a colpi di cazzuola nel ventennio passato – se la fanno i supermercati, a colpi stavolta di oneri di urbanizzazione: a fine aprile 2019 la storica baracca di Felicetta con annessa fontanella fu abbattuta per permettere la spianata con relativa rotatoria in funzione EuroSpin.

    L’ex sindaco Occhiuto e gli allora assessori Caruso, Vizza e Spataro in posa simil Beatles per l’inaugurazione della rotatoria

    Come allora apparve chiaro che servisse un supermercato per cucire la viabilità rimasta monca (in quel caso per collegare il ponte di Calatrava con viale Mancini), adesso un altro mega gruppo (Lidl) invade i territori Conad sbloccando i lavori in un’area pensata in origine come parco – e così “venduta” una quindicina di anni fa agli acquirenti dei nuovi e coloratissimi palazzoni sorti nella zona della chiesa di Cristo Re.
    Urbanisticamente rivoluzionario, il mega-cantiere è l’ennesima dimostrazione che dove non arriva il pubblico tocca al privato. Dovesse leggerci qualcuno di EsseLunga e decidesse di avventarsi su via Popilia: di lotti abbandonati ce ne sono a bizzeffe, tocca soltanto scegliere.

    COSA VEDERE

    Il quartiere è il più classico degli ibridi urbanistici tra case popolari e palazzoni moderni. Da vedere i murales del secondo lotto (ma anche quello di Marulla al Marca) e le tante edicole votive, segni della fede autoprodotti. In assenza di negozi storici – sbranati dal cemento come Carlino o scomparsi come il mitico maniscalco –, un tour a piedi può essere illuminante soprattutto per “pesare” la mancata saldatura della zona cuscinetto venutasi a creare a est di viale Mancini e poi, oltre, nella fascia tra via Popilia e il fiume.

    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    DOVE MANGIARE

    La pizzeria di Roberto Presta, figlio del compianto Franchino detto “’a chiacchiera” per il gusto di intrattenersi con i clienti, merita una tappa anche per la piccola rosticceria: fondata nel 1975, si trova al civico 160. Da provare anche il pesce del Pirata, pescheria-trattoria di mare (via Anna Morrone, zona sud) e gli arancini di Cusenza Piccante (n. 60/62)

    DOVE COMPRARE

    Ma se passate da via Popilia non potete non provare la pasta di mandorle di Gaudio! Un antro al civico 230 in cui il tempo si è fermato e dove è possibile trovare anche gli ultimi esemplari di “pastarelle” formato grande: addirittura il diplomatico e il mega-choux con tanto di “gileppo”. Tra l’altro vi servirà uno degli ultimi negozianti cosentini dotato di sorriso…

    (2. continua)

  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

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    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

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    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

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    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

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    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?

  • Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Con sessanta milioni e duecentomila abitanti censiti, l’Italia è la venticinquesima nazione della Terra per popolazione.
    È ciò che emerge dall’analisi condotta a giugno 2022 da Worldometers.info, sito web dedicato alle statistiche sui più svariati argomenti. Il dato è ricavato dall’esame di duecentoquarantasette Stati del pianeta terracqueo.
    Il Bel Paese però scende in settantaduesima posizione (dati 2018) se si considera esclusivamente la densità, vale a dire la popolazione per chilometri quadrati. Infatti, l’Italia conta circa duecento abitanti ogni chilometro quadrato di territorio.

    Una nazione fatta di paesi

    In questa particolare graduatoria, siamo circondati da Paesi esotici quali Gambia, Saint Kitts e Nevis e Isole Vergini Britanniche (rispettivamente alle posizioni settanta, settantuno e settantatré), assai meno estesi, popolati e conosciuti del nostro.
    Dal dato sulla densità emerge una realtà che spesso tendiamo a dimenticare: l’Italia non è una nazione fatta di città ma una unità politica e territoriale composta, prima di tutto, da una moltitudine di medi, piccoli e piccolissimi centri di provincia.

    Poche le grandi città

    Paesi dalle dimensioni contenute se non modeste, scarsamente abitati. È un nitido riflesso del contesto nazionale in cui solo sei città superano i cinquecentomila abitanti. Cioè, in ordine decrescente: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, stando ai dati Istat 2022.

    Il sogno del progresso nell’Italia degli anni ’60

    Tutto il resto, sono piccoli paesi, con le loro culture, i loro costumi, le loro lingue regionali scorporate in migliaia di dialetti inintelligibili l’uno con l’altro. È un patrimonio straordinario messo però in crisi dal processo di unità linguistica iniziato, sulla carta, con la nascita dello Stato italiano del 1861 realizzato davvero un secolo dopo con la diffusione poderosa e capillare della televisione in tutto il territorio nazionale.

    Dialetti e borghi fantasma

    Come i dialetti – la cui dissoluzione in favore dell’omologazione verbale e culturale del Paese ha compromesso irrimediabilmente i particolarismi linguistici -, anche i paesi hanno preso piano piano a scomparire, a perdere le tipicità, in quei rivoluzionari primi decenni del secondo dopoguerra.
    Fu l’esito di una serie di processi: innanzitutto le rinnovate ondate di emigrazione, sia all’estero sia verso il Settentrione. Ma non si devono sottovalutare i massicci spostamenti interni verso altri centri e nuovi paesi omonimi in costruzione.

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    Un vicolo deserto di Apice Vecchia

    È il fenomeno dei paesi doppi, sosia degli originali abbandonati e destinati a trasformarsi in paesi-presepe. I nuovi centri erano più prossimi al mare e alle moderne infrastrutture: più fertili e salubri, meno soggetti alle catastrofi naturali – eruzioni, smottamenti, alluvioni, terremoti – che per secoli avevano segnato le esistenze di tante comunità.
    Questa emorragia demografica, da cui non ci siamo più ripresi, ha generato i cosiddetti paesi fantasma, cioè, per usare l’espressione dell’antropologo Vito Teti, «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi».

    I “nonluoghi” d’Italia

    In tutto il Paese, ci sono tanti posti dimenticati, a seguito, come detto, della volontà di costruire un futuro migliore altrove – che spesso si traduceva in corse vere e proprie al cieco riscatto sociale e all’emulazione, anticamera dell’incultura – oppure cancellati dalla furia della natura, desiderosa di riprendersi i suoi spazi.
    Non luogo, non più luogo o non ancora luogo: ecco cos’è oggi Rovaiolo Vecchio, borgo dell’Oltrepò Pavese, abbandonato negli anni sessanta.

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    Consonno: le rovine del “Paese dei balocchi”

    I suoi abitanti traversarono l’Avagnone per andare verso quello che credevano il lato giusto della Valle. Stesso discorso per Consonno, l’iperbolico villaggio dei balocchi brianzolo, messo in piedi, sempre nei “miracolosi” anni sessanta, dall’imprenditore Mario Bagno per sostenere l’ideale della società dei consumi dentro cui, allora, gli italiani si lanciavano spensierati e leggiadri come il Tuffatore di Paestum.
    Un sogno rapidamente svanito per trasformarsi in un rudere alla mercé dei graffitari. Così è Apice, nel Sannio, il più grande paese fantasma della Penisola, conosciuto anche come la Pompei del ’900. Idem per la sarda Santa Chiara del Tirso, nata con la sua diga negli anni venti del secolo scorso e arresasi nel giro di qualche decennio al tempo e alla vegetazione.

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    I ruderi di Rovaiolo Vecchio

    Paesi fantasma in Calabria

    Sono luoghi in disfacimento, dimenticati e inghiottiti dalla natura in rivolta. Sono espressione di un’Italia profonda, trapassata o in divenire.
    Come, in Calabria, Cavallerizzo di Cerzeto e Roghudi Vecchio, paesi flagellati dalle frane e inseriti tra i venti borghi abbandonati protagonisti di Atlante dei paesi fantasma, il saggio di Riccardo Finelli uscito di recente dai tipi di Sonzogno.

    Riccardo Finelli, giornalista viaggiatore

    Arricchito delle eleganti illustrazioni di Alessandra Scandella, il volume di Finelli (giornalista e viaggiatore, già autore di altri saggi sulle tracce dell’Italia sconosciuta) ripercorre strade antiche, dimenticate, cancellate dalle cartine e dalla memoria.
    Scivola per gli Appennini e giunge nella Calabria interna, a Roghudi, paese di lingua grecanica della provincia di Reggio.

    Roghudi e l’alluvione killer

    Roghudi è stato angustiato da continue calamità naturali. Quella definitiva è del gennaio 1973: un’alluvione che costrinse i roghudesi a lasciare per sempre il grappolo di case abbarbicate sull’irto ciglione che dà sulla fiumara Amendolea. È uno dei paesi fantasma in Calabria. Qui si mescolano memoria storica e leggenda: le urla dei bambini che nei secoli sono precipitati dallo strapiombo, i canti delle Anarade, maliarde dagli zoccoli di mulo sempre pronte a condurre qualche uomo alla perdizione. Anche le rocce, qui, hanno assunto una conformazione mitica grazie al lavorio delle intemperie: la Rocca tu Draku (Roccia del drago) e le Vastarùcia (Caldaie del latte).

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    La Rocca tu Draku a Roghudi

    La frana di Cavallerizzo

    Più recente l’apocalisse di Cavallerizzo di Cerzeto, centro arbëreshë in provincia di Cosenza. Questa Ghost town è diversa da Roghudi: qui l’abbandono è iniziato soltanto in seguito all’impressionante smottamento del 7 marzo 2005 quando una piccola porzione del centro, costituita per giunta da abitazioni di fresca costruzione, scivolò in un dirupo. L’evento era prevedibile, date le caratteristiche morfologiche del terreno in cui si permise di edificare.
    «La bestia aveva vinto» scrive Finelli con allusione a Madre Natura. Ma la “bestia” aveva anche il volto sia di una classe politica che per anni ha intascato i fondi destinati a fronteggiare il dissesto idrogeologico, sia di chi ha disboscato ad libitum la vegetazione attorno a Cavallerizzo. Adesso è uno dei paesi fantasma in Calabria.

    E se fosse un suicidio?

    Ma qual è il futuro di tali «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi? Soprattutto, sta a noi deciderlo? E se invece i luoghi avessero “deciso” di non farcela, di restare nella condizione di sentinelle solitarie di una Italia impresidiata?
    Forse il male minore e accettabile, è essere presi “d’assalto” dagli expat o spatriati, gli emigrati o figli e nipoti di emigrati che ritornano al paese una o due settimane per le feste patronali, in moltissimi casi aggiornate e fatte coincidere con le ferie d’agosto di chi quei paesi ha dovuto o voluto lasciare. Paesi che compaiono e scompaiono, come dietro un verecondo velario.

    Come sopravvivono i deserti

    Ma il paese c’è e non si riduce a quei tre giorni segnati dalla processione per le vie pietrose col santo di cartapesta in spalla, e dalla sagra del peperoncino o del caciocavallo.

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    Santo in processione in una festa patronale

    Il paese c’è e vive, seppur immobile alla percezione umana. «Anche quando non ci sei resta ad aspettarti», diceva Cesare Pavese: vive per i rovi e le piante che abbracciano le dimore e sfondano pavimenti, solai e tetti. Ed esiste per gli animali che danno un senso a quelle pietre, a quelle mura, a quei terreni incolti, a quelle insegne rugginose.
    Il paese chiede di essere vissuto, ma non deturpato e snaturato con musei all’aperto, residenze diffuse per anziani (il nome politicamente corretto degli ospizi), parchi letterari, tali solo sul progetto vergato per mettere le mani sui fondi, e chi più ne ha, ne metta. Il paese non vuole essere prostituito, a fini cinematografici o pubblicitari a questo o quell’altro regista.
    Forse dovremmo chiederci: cosa vuole da noi il paese? E, soprattutto, dopo le nefandezze perpetrategli negli ultimi secoli, siamo sicuri che la domanda sia rivolta proprio a noi?

  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

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    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

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    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…

  • Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Non ebbe, forse, il clamore esplosivo della vicenda di Paul Getty III né creo catene di solidarietà in tutto il Paese, come il caso di Cesare Casella.
    Tuttavia, il sequestro di Marco Forgione, dieci anni compiuti l’antivigilia del Natale 1979, scosse Cosenza e divenne un caso nazionale.

    La città “babba”

    Cosenza ha solo la fama di zona civile e tranquilla. In realtà, in quell’ultimo scorcio di anni ’70 si spara e ammazza alla grande.
    L’escalation inizia il 14 dicembre 1977, con l’omicidio di Luigi Palermo detto ’u Zorru, lo storico capo della vecchia malavita bruzia.

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    John Paul Getty III

    Sotto la patina di un’apparente tranquillità i cosentini vivono quasi sotto coprifuoco.
    In questo contesto, il sequestro del piccolo Forgione è il primo punto di rottura. È il primo segnale all’opinione pubblica nazionale che anche il nord della Calabria è come tutto il resto del Sud infestato dalla mafia. Già: i sequestri di persona, negli anni’70, significano soprattutto ’ndrangheta.
    Certo, ci sono stati i sardi, in testa Grazianeddu Mesina, e poi ci sono state le spacconate di Vallanzasca. Ma i calabresi sono un’altra cosa: con loro non si può assolutamente scherzare.

    Il sequestro

    È la sera del 9 novembre 1979. Una Fiat 500 imbocca lo svincolo per Pianette di Rovito, una manciata di chilometri dal capoluogo.
    La guida Davide Forgione, un ragazzo di 19 anni, rampollo di una celebre famiglia di commercianti di calzature. A bordo con lui c’è Marco, il fratello minore.

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    La 500 su cui viaggiava Marco Forgione

    All’improvviso, due auto bloccano la 500. Ne escono otto uomini armati, che bloccano Davide per circa mezzora e rapiscono Marco.
    È l’inizio di un calvario, per il piccolo e la sua famiglia, che durerà cinquantasette giorni.

    Silenzio, parla il Papa

    Il 16 dicembre 1979 Karol Wojtyla è Papa da poco più di un anno. Più deciso e carismatico dei suoi due predecessori immediati (Paolo VI e Giovanni Paolo I), inizia a prendere posizione nei confronti delle mafie, sulle quali la Chiesa aveva tenuto fino ad allora atteggiamenti altalenanti.
    Quel 16 dicembre è domenica e Giovanni Paolo II dedica la sua omelia proprio a Marco.
    «Ho presente in questo momento il piccolo Marco Forgione, rapito a Cosenza nel mese scorso e che l’antivigilia di Natale compirà il decimo anno di età», dice il Papa alla folla che riempie piazza San Pietro.

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    Il ritaglio di Gazzetta del Sud con la notizia del rapimento

    E continua: «La sua voce e quella di altre persone che versano nella stessa dolorosa condizione, giunge al mio cuore, insieme a quella dei familiari, carica di ansia e di angoscia».
    Infine l’appello: «È questo dolore profondo di anime innocenti e di famiglie colpite nei più intimi affetti che mi induce a rivolgere un accorato appello ai rapitori: la grazia del Natale tocchi i loro cuori, li distolga dai loro propositi e li induca a restituire alle famiglie i loro cari».
    Non è ancora il Pontefice che, tredici anni dopo, lancerà la scomunica ai mafiosi, ma la strada è quella.

    La parola ai comunisti

    Anche l’altra Chiesa italiana, cioè il Pci, prende posizione sul rapimento di Marco. Sulle colonne de L’Unità del 27 dicembre Filippo Veltri riporta una dichiarazione del papà del piccolo prigioniero: «Non fategli sapere che è Natale».
    I comunisti vivono l’era Berlinguer e tentano il dialogo con la “borghesia”, fino ad allora trattata con sospetto da molta sinistra. Disinteressata o meno, la linea legalitaria, sperimentata già con grande durezza nei confronti delle Br durante il sequestro Moro, assume definitivamente le vesti dell’antimafia.

    L’articolo dedicato da L’Unità al sequestro Forgione

    Proprio a fine ’79, il Partito comunista organizza due dibattiti sulla criminalità mafiosa: uno a Paola e l’altro a Sibari. E di questa criminalità i sequestri di persona sono un segno tangibile.
    O meglio, «un segno ulteriore di come la piovra mafiosa si sia ormai propagata in tutta la regione, non risparmiando oasi un tempo ritenute felici ed immuni dalla criminalità organizzata».

    La liberazione

    Più che le parole del Papa e le polemiche dei comunisti, per Marco è stato decisivo il riscatto: circa quattrocento milioni di lire dell’epoca.
    Il piccolo ritrova la libertà il 5 gennaio del 1980, quando i suoi carcerieri lo rilasciano nella periferia di Sant’Onofrio, il paese del Vibonese noto per il rito religioso dell’Affruntata.
    Le indagini, coordinate dal procuratore capo Saverio Cavalcanti e dai suoi sostituti Oreste Nicastro e Alfredo Serafini, approdano a poco, tanta è l’omertà. Che, tuttavia, non riguarda solo l’affaire Forgione.

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    Marco Forgione assieme al sostituto procuratore Oreste Nicastro

    Alfredo: l’altro bambino rapito

    Marco è il più piccolo tra i sequestrati di quell’anno.
    Poco più grande di lui, Alfredo Battaglia in quel terribile ’79 ha compiuto tredici anni. Alfredo, figlio di un gioielliere di Bovalino, viene sequestrato il 30 ottobre ed è rilasciato il 23 febbraio del 1980, dopo centoquindici giorni di prigionia vissuti in piena sindrome di Stoccolma.
    Intervistato dalla neonata Rai 3 durante il sequestro, suo padre si dimostra duro: «Non si tratta solo dei mafiosi ma dei politici che li proteggono, che alle elezioni li abbracciano e li baciano sui palchi dei comizi».

    Enrico: lo studente universitario

    Piuttosto giovane è anche Enrico Zappino, che nel ’79 ha ventidue anni e studia all’Università di Pisa.
    Figlio di Pasquale, ufficiale medico di Mileto, nel Vibonese, e della professoressa Giuseppina Naccari Carlizzi, Enrico viene sequestrato il 22 dicembre e torna in libertà quattro mesi dopo. Il suo riscatto subisce varie negoziazioni: all’inizio i rapitori pretendono due miliardi, alla fine si “accontentano” di duecento milioni.
    Quando si dice chiedere cento per ottenere dieci…

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    Adolfo Cartisano, il fotografo morto in balia dei rapitori

    Zappino torna agli onori della cronaca nel ’93, quando si offre prigioniero al posto di un altro rapito di Bovalino: il fotografo Adolfo Cartisano, sequestrato a luglio di quell’anno e non ancora liberato, a dispetto dell’avvenuto pagamento del riscatto.
    Il gesto è nobile ma inutile: Cartisano, probabilmente, era già morto. I suoi familiari ne ritrovano il corpo solo nel 2005, in seguito alla cantata anonima di un pentito.

    Gli altri

    Antonio Rullo, imprenditore di Reggio Calabria, resta botte di mesi in mano ai suoi rapitori.
    I quali, tuttavia, gli consentono di inviare lettere e foto ai suoi familiari perché si affrettino a liberarlo.

    L’articolo de L’Unità sul sequestro Rullo

    L’ultimo della lista è Domenico Frascà, farmacista di Locri, anche lui imprigionato per mesi.
    Forse anche questa sequenza di rapimenti stimola il legislatore a far presto sulla normativa antimafia, all’epoca in elaborazione, che sarebbe stata varata solo nel 1982, sulla scia dell’impatto emotivo del delitto dalla Chiesa.
    Ma nel ’79 la consapevolezza del pericolo mafioso era comunque alle stelle. Scrive ancora, al riguardo, Veltri: «Attenti che si è giunti ad un punto limite». Col senno del poi, è impossibile dargli torto.