È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.
I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano
Antefatto: Trumper, un professore curioso
Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni. John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova. Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.
Il boato di Peteano
La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.
Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni
Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni. Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.
Una strage “minore”
La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.
I funerali dei tre carabinieri caduti
Il dirottatore
È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia. Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro. Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.
Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.
La pistola fumante
Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano
Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini. Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.
I depistaggi
Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.
Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.
Trumper il superperito
Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?
Almirante: tra doppiopetto ed eversione
Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli. Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.
Giorgio Almirante nei primi anni ’70
Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.
Trumper e Toni Negri
Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).
Toni Negri
L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio– di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.
Ancor più dell’agone calcistico è una bibita tutta calabrese a dividere le città di Cosenza e Catanzaro. Una bevanda semplice, che si ottiene aggiungendo caffè alla gassosa, determina una quasi fideistica adesione a due brand o “parrocchie”: la cosentina Moka Drink e la catanzarese Brasilena. Impossibile cercare di stabilire quale sia la più buona, ricercata o ancora la più datata. Ma un fatto è certo: in quanto ad “acque gassose” entrambe le città vantano, insieme a Reggio Calabria, una tradizione che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento.
Il derby delle bolle: “Brasillena” contro “Moka drink”
Derby calabrese: in principio era Reggio contro Cosenza
Nel 1879 erano soltanto tre le fabbriche calabresi che producevano “acque gassose”: due in provincia di Reggio Calabria e una a Cosenza, tutte classificate come produzioni “di minore importanza” e che davano lavoro a un manipolo di operai. Catanzaro non conosceva ancora una produzione locale di bollicine.
Il successivo ventennio fece registrare per le bibite frizzanti con proprietà toniche e rinfrescanti un discreto successo, preludio al boom dei decenni che verranno. Alla metà del Novecento la gassosa era diventata un must, l’alternativa innovativa ad acqua e vino. Con quest’ultimo la gassosa formava un’abbinata “vincente” che accontentava persone poco avvezze all’alcol o serviva a camuffare vinacci di terza o quarta scelta.
Questa tendenza ottocentesca ad “aggiustare” vini poco gradevoli era incoraggiata un po’ dovunque da pubblicazioni come la Rivista d’igiene e sanità pubblica del 1895. Qui apprendiamo che la produzione delle prime acque artificialmente gassate avvenne nel corso del Settecento, ma per molto tempo furono considerate un bene di lusso per l’alto costo.
Acquafrescaio a Napoli
Bollicine e progresso
Poi negli anni ‘30 dell’Ottocento nella Francia funestata dal colera si diffuse «la credenza che l’acqua di Seltz, ed in generale tutte le bevande gassose, giovassero assai contro il morbo asiatico» al punto che «si pensò a svilupparne grandemente l’industria». Il prezzo scese notevolmente e la produzione s’incrementò, anche per la convinzione che «le acque gassose devono essere considerate come bevanda di notevole importanza dal lato igienico».
L’aggiunta della gassosa al vino era addirittura incentivata: «Infatti un vino debole acquista così una certa sapidità per la quale il gusto è meglio soddisfatto». Ma soprattutto «si è osservato che i casi di ebbrezza sono tanto meno frequenti, quanto più si fa uso di acque gassose mescolate al vino» e per questo, come sosteneva il batteriologo Francesco Abba: «il crescere del consumo dell’acqua di Seltz è cagione ed indizio di progresso nella civilizzazione».
Il giro di affari cresce
A fine Ottocento le fabbriche di acque “gassose” o “gazose” iniziarono a diffondersi capillarmente anche in Calabria. Nel 1891 la provincia di Reggio contava sette fabbriche, nelle quali lavoravano sedici operai e che quell’anno avevano prodotto nel complesso 197,69 ettolitri di acque gassose. Quattro di queste erano attive a Reggio e impiegavano 10 operai. Le altre tre fabbriche sorgevano a Bagnara Calabra, Gioia Tauro e Palmi e vi lavoravano due operai ciascuna.
Le fabbriche nella provincia di Cosenza erano quattro: due a Rossano che davano lavoro a quattro operai, una a Cosenza con tre lavoratori e una a Castrovillari che contava un solo impiegato. Nel Catanzarese nel biennio 1890/1891 erano attivi quattro impianti per la produzione di acque gassose che impiegavano in tutto otto operai. Oltre alle due del capoluogo che davano lavoro a quattro operai, erano in funzione altre due fabbriche, una a Monteleone e un’altra a Nicastro che impiegavano due operai ciascuna. La produzione catanzarese complessiva si aggirò in quel biennio sui 123.87 ettolitri di bevande gassose.
Il giro di affari continuò a crescere nel giro di pochi anni anche se non è facile disporre di dati esaustivi considerato che la produzione di acque gassose era spesso affiancata nell’ambito della stessa fabbrica ad altri generi: dolciumi, spiriti, materie vinose e confetture.
Pubblicità di D’Atri da Indicatore postale-telegrafico del Regno d’Italia 1902-1903
Gassose d’antan
Nel 1902 a Castrovillari il proprietario del Gran Caffè Unione, un certo Alberto d’Atri, oltre a commerciare armi e altri articoli da caccia era noto come “Fabbricante di Acque Gassose”. Negli anni successivi gli elenchi dei produttori calabresi, spesso piccoli artigiani che inseguivano la fortuna nei settori più disparati, si fanno più fitti. A Castrovillari nel 1918 operava la “Società Riunite”, a Cosenza si dedicavano alla produzione di bollicine Agostino Deni e Giovanni Gallo, a Scigliano Luigi Virno.
A Catanzaro operavano Raffaello Camistrà, Giuseppe Castagna, Demetrio Quattrone e Luigi Turrà. Antonio Scerbo era titolare di un’industria a Marcellinara. Nel 1924 a Catanzaro operavano i fabbricanti di gassose Giuseppe Corace e Nicola Taranto, a Nicastro Vincenzo e Fedele Ferrise e Santo Riommi, a Cutro Ferdinando Mancuso, a Sambiase Rocco De Silvestro, a Soriano Pasquale Vari mentre a Limbadi Vincenzo Musumeci.
In provincia di Reggio nel 1918 era attiva l’industria di Spataro a Bova Marina, di Francesco Laganà a Motta San Giovanni, di Giovanni Belordi e Antonio Lazzaro a Sambatello, di Giuseppe Mittica a Sant’Ilario dell’Ionio, Matteo Laganà a Radicena, Mariano Ursino a Roccella, Domenico Spagnolo a Rosarno. A Gallina nella fabbrica di Pasquale D’Ascola si producevano insieme “Gassose e Birra” e lo stesso avveniva a Siderno negli impianti di Raffaele Pellegrino e Vincenzo Cremona.
Il dato significativo riguarda il 1924, anno in cui si registrò una produzione considerevole. Tra i beni soggetti a dazio, le acque gassose erano associate alle acque minerali da tavola e raggiungevano una produzione di 2.717 ettolitri in provincia di Cosenza, per un reddito generato di 22.515 lire, 2.810 ettolitri ed un reddito di circa 20mila lire in quella di Catanzaro, e 2.402 ettolitri con un reddito di circa 24mila lire in quella di Reggio Calabria.
Vuoti a rendere
Negli anni ‘50 del Novecento fabbriche e fabbrichette si moltiplicano, dai centri più grandi fino ai piccoli paesi. La gassosa si è ormai ritagliata un posto sulle tavole e nei bicchieri dei calabresi, con l’immancabile bottiglietta di vetro “vuoto a rendere”.
A Cosenza spopolavano le gassose di Gallo, di Bozzo, di Spadafora e di varie altre piccole fabbriche, in genere a conduzione familiare, che avevano sede in quella che era allora considerata la parte nuova della città.
Marchio di Fabbrica per le bibite di Annino Gallo a Cosenza depositato nel 1933
Prima della Seconda guerra mondiale, stando all’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano, la fabbrica di acque gassate di Annino Gallo aveva sede in corso Umberto, quella di Antonio Spadafora in via Monte Santo, quella di Sante Filice in corso Mazzini e quella di Alfio Deni di Agostino in via Rivocati.
Alcuni marchi di gassose cosentine (foto L. Coscarella)
Nei decenni successivi molte si spostarono, altre aggiunsero nuovi prodotti al loro listino, qualcuna chiuse del tutto, qualche altra continua ancora la sua attività mutando col tempo forma e denominazione. Quella di Gallo è rimasta particolarmente impressa nei ricordi, anche perché il suo laboratorio, oltre alle semplici gassose, produceva anche bibite al limone, cedrate e, più in là, la mitica gassosa al caffè.
Il marchio di fabbrica, che non poteva che rappresentare un gallo stilizzato, venne depositato nel 1931 da Annino Gallo per una generica “Bibita Gallo” e comparve poi con nuove forme sui tappi e sul vetro delle mitiche bottigliette di gassosa. Più in là comparve anche la marca “3 galletti”, mentre tra la concorrenza si diffondeva anche la gassosa della fabbrica di Eugenio Bozzo. Qualunque fosse la marca, in cantina e in famiglia la gassosa divenne per alcuni decenni ospite fisso della tavola, sia in cantina, accompagnando i famosi tre quarti di vino, sia in famiglia, soprattutto nelle ricorrenze.
Popi popi vita mia: all’insegna di questa non eccellente lode amorosa si intraprende il 50% approssimativo dei viaggi autostradali degli abitanti di Rende (per chi non ci avesse fatto caso, sta scritta con lo spray sul lato sud di un cavalcavia a breve distanza dallo svincolo di Rende-Cosenza Nord). Tutto un programma, insomma, e soprattutto un’altra buona ragione per ignorare il tracciato autostradale e deliziarsi sul vecchio, su quell’antica Strada per Napoli, la borbonica, la Regia, delle Due Sicilie o come volete chiamarla.
Quella che a Rende da svariati decenni, dopo secoli di doppi sensi di circolazione per i carri, le carrozze, i cavalli, i pedoni e pure gli alfieri, e infine poi per i primi mezzi a motore, è stata declassata a strada urbana a senso unico – sacrilegio! – sotto il nome di JFK, della Resistenza, di Giuseppe Verdi e di Alessandro Volta, nell’ordine da sud a nord: né santi né poeti né navigatori, quindi, per la strada che separa in due “Rende di Sotto”, e che un tempo separava soltanto una campagna da un’altra campagna.
Lungo questa strada, fino a un secolo fa, sorgeva al massimo qualche casupola e forse riusciva a intravedersi, poco più a valle, la cappelletta nel mezzo degli ulivi, dei peri e degli eucalipti, della Commenda di San Giovanni Battista.
“Popi popi vita mia”, genio anonimo rendese
Nord Sud Ovest Est
Il panorama più lontano è rimasto un po’ più invariato: a ovest l’opprimente cortina scura della Catena Costiera: alta e monotona, sempre in ombra (anche quando non lo è, sembra esserlo), quasi una tenda pesante e opaca appesa al cielo.
Là dietro ci sarebbe pure il mare, vicino e irraggiungibile, impercettibile. Ma è come se non ci fosse: un muro di acacie e di faggete impenetrabili. Dell’oscuro profilo della Catena si distingue solo il pizzo di Monte Cocuzzo. A sud, un pizzico del centro storico di Cosenza e un accenno di basse Serre. A nord, lontane ma più illuminate, le cime aguzze del massiccio del Pollino, spessissimo innevate nei canaloni a dirupo.
Anzi, non tutte aguzze, quelle cime: fa eccezione il semicerchio glassato e goloso di Serra del Prete, di fianco al triangolino equilatero del Monte Pollino e all’altro scaleno della Serra Dolcedorme. A est? Gli ampi archi a sesti ribassati della Sila, feriti dai viadotti obliqui, messi lì come spillette su una risma di fogli neri: diagonali, a due due, luccicanti, taglienti nel buio delle abetaie e pinete silane. Insomma, una valle di lacr…, volevo dire un’infelice valle piovosa, quella rendese, anche a giudicare dalle precipitazioni medie.
L’elegante Casino Telesio nella contrada Feudo Telesio di Castrolibero (foto L.I. Fragale)
Toponimi familiari
Eccettuato il centro storico di Rende di cui anche troppo si scrive, e la chiesina di cui sopra, qua intorno resta d’antico poca roba oltre alla masseria S. Agostino – già dei nobili Spada – munita di propria cappella, posta ai piedi della collina omonima ma che omonima non era mai stata e semmai sempre indicata – assieme a contrada Difesa – come Monte Ventino, toponimo dimenticato. Là dietro, nella zona più impervia e selvaggia di tutto il territorio comunale (l’unica che avrebbe qualche spessore paesaggistico e persino naturalistico… chi se la ricorda la quasi pasoliniana “valle dei fossi”?), sorge l’enorme discarica a deturpare il tutto, nei pressi della Fontana Frassine e delle Destre Spizzirri, sopra la stradina che conduce a Ortomatera.
E qui comincia l’avventura – per citare Sergio Tofano – della toponomastica prediale della zona, che ripete i cognomi delle più o meno antiche famiglie di proprietari terrieri. Spizzirri, De Matera, quindi, ma anche i fondi Monaco e persino il rione Cavalcanti, presso quella contrada Crocevia – con piccola ex-masseria di impianto cinquecentesco – da cui si arriva dritti dritti a Feudo Telesio, in territorio di Castrolibero, poco alle spalle della buffa contrada “Fontana Che Piove”. Tutto vero.
Contrada Fontana che piove
E si potrebbe sconfinare fino a Cosenza, con questo criterio onomastico, fino alla contrada Mollo (città 2000 – Rende) o alla contrada Muoio (già possedimento della famiglia Mojo, che – chiariamo – non è Mollo pronunciato alla spagnola…) ma non mi va: restiamo in territorio rendese e cambiamo una vocale, passando da Mojo a Piano di Majo, la collina che soffre di complesso di inferiorità rispetto alla fintamente blasonata collina di Piano Monello alias, più modestamente, Serra Lupara, paradiso del parvenu da una cinquantina d’anni in qua.
Una pseudo Beverly Hills in miniatura a Rende
Non è l’“Italia in miniatura” ma più ambiziosamente una velleitarissima “Beverley Hills in miniatura”: telecamere, villa con piscina, villa con campo da tennis, villa con tutte e due, villino con ascensore per fare mezzo piano che non si sa mai, torretta d’avvistamento, casetta degli gnomi, castelletto delle fiabe, villone da Miami, cottage inglese, villino azzurro, villino rosa, tutta un’accozzaglia cromatica e stilistica da bazar del dubbio gusto (altrove, in altra zona rendese, addirittura un assai maldestro omaggio a Gaudì…). Torniamo a noi e dalla lupara scorgiamo contrada Femmena Morta, altrettanto ameno toponimo rimpiazzato dal più asettico “Failla” (chissà chi decise il maquillage…).
La cappella Spada-Alimena, lungo il torrente Mavigliano (da Facebook)
Ma torniamo alle strade: vogliamo andare a nord? E riprendiamola, questa benedetta strada borbonica! Anzi, zigzaghiamo tra lei e la vecchia strada consolare romana, perché in questo tratto la borbonica è troppo trafficata (siamo in territorio di Montalto, lì dove è una tragedia di semafori, rotonde, brutte insegne di altrettanto brutti negozi e svincoli per centri commerciali, e manifesti pubblicitari orripilanti, fino alla chiesa della SS. Trinità ovvero, più prosaicamente, fino al bivio d’Acri). A contrada Gazzelle – altro feudo telesiano – sorge l’ottocentesca e molto poco autoctona cappella Alimena-Spada, già dei marchesi Episcopia, in stile neogotico-neoceltico-neoirlandese. Una neobomboniera, insomma, a conferma che il problema del buon gusto non è recente.
La casa nella prateria
Con buona pace di questa, e poi di quella curva inaspettatamente boscosa – quasi un errore spaziotemporale – sul torrente Mesca, a metà strada tra il bivio per Montalto e Taverna, conviene invece scendere verso Coretto o Coretta, cioè su una parte di ciò che resta dell’antica Popilia. Precisamente sotto l’evocativa contrada Tesauri/Tesori (il tratto precedente della Popilia, dal confine nord del Comune di Cosenza, è impercorribile oltre Santa Chiara e Santa Rosa di Rende, all’altezza della confluenza tra il Surdo e l’Emoli).
Qui si continua dritti e si infila la vecchia stradina che corre parallela all’autostrada. Qualche buca di troppo ma ne vale ampiamente la pena, specie quando ci si può beare del fatto che, di fianco, gli automobilisti in autostrada vanno spesso più lenti di noi. Una curva obbligata a sinistra, si passa sotto alla suddetta autostrada e ci si immette di nuovo sulla borbonica, all’altezza di una grande casa antica, in mattoni, di cui nemmeno le vecchie mappe registrano la titolarità. Poco più avanti, una casetta minuscola in mezzo alle erbe selvatiche era già crollata ad agosto. A settembre ne restava solo qualche mattone. Era bella, m’è dispiaciuto.
Casetta scomparsa, lungo la vecchia strada tra Montalto e Torano (foto L.I. Fragale)
Arrivano i Cavalcanti
Ed eccoci a Torano Scalo, palma d’oro alla bruttezza – pari merito con almeno altri due Scali in questa provincia, come già accennavo altrove. Eppure questo deprimente abitato è sorto proprio in mezzo a un bel pezzo di storia, in quanto divide in due un antico nucleo feudale: a est, la contrada Sellitte (già Sellitteri/Sellitano) fu il primo possedimento calabrese dei nobili Cavalcanti fiorentini che qui si insediarono proprio per questo motivo (fu Filippo Cavalcanti a riceverlo in dono nel lontano 1363 direttamente dalla regina Giovanna d’Angiò, di cui era ciambellano); a ovest tutta la teoria dei principali insediamenti cavalcantiani: Sartano, Cerzeto e Torano Castello (e, poco più lontano, anche Rota Greca), ognuno con il proprio Palazzo dei duchi Cavalcanti in più o meno bella mostra.
Portale del Palazzo Cavalcanti di Torano Castello
Coincidenze
Perché mi dilungo tanto? Per un dubbio: Wes Anderson è stato qui? Vi starete domandando cosa c’entri. Succede che nel 2013 questo regista ha dato alla luce, su commissione di Prada, un cortometraggio di 8 minuti – delizioso come tutte le sue opere – ambientato in un immaginario paesino italiano degli anni’50, alle prese con il passaggio non della Mille Miglia ma dell’altrettanto immaginaria Molte Miglia. Un pilota – Jed Cavalcanti – si schianta contro una statua nel mezzo del paese, ma sopravvive e scopre che il paese si chiama Castello Cavalcanti ed è proprio quello dei suoi antenati (ecc. ecc. e non vi dico altro). Solo alcune cose non mi quadrano: la livrea di Prada è bianca e rossa; quella della Mille Miglia idem; bianco e rosso sono pure gli smalti dello stemma Cavalcanti, allora perché mai Wes Anderson ha preferito optare per una livrea rossa e gialla? Chissà… Seconda domanda: perché in Calabria non ci si accorge mai di queste coincidenze?
Il cortometraggio Castello Cavalcanti (Wes Anderson, 2013)
Sporco fascista, golpista, pericolo per la democrazia: questo è Junio Valerio Borghese secondo una lettura molto diffusa, di sicuro maggioritaria.
Invece, per altri Borghese è stato un grande eroe, coinvolto in giochi di potere pericolosi e spericolati per amor di patria o in seguito a richieste impossibili da rifiutare.
Ma questa divisione, scontata in un dibattito storico che continua a dividersi tra destra e sinistra (quindi tra ammiratori e detrattori, entrambi a oltranza), non aiuta a rispondere a una domanda.
Eccola: perché Borghese prese la guida di un golpe che forse lui stesso per primo sapeva impossibile?
Il suo antefatto più importante è la strage di piazza Fontana, avvenuta poco meno di un anno prima (12 dicembre 1969). Questa strage fu preceduta e accompagnata da attentati dinamitardi, con e senza vittime, e fu seguita da altri atti eclatanti. In particolare, dalla strage di Peteano, l’unica strage fascista rivolta contro carabinieri e militari, e dalla strage di piazza della Loggia (29 maggio 1974), dopo la quale lo stragismo di destra inizia a declinare.
A questo punto, è lecita un’altra domanda: perchéun golpe così piccolo, tentato con mezzi palesemente insufficienti, di fronte a stragi così crudeli?
La X Mas tra crimini e ambiguità
Memento audere semper: questo motto, nato prima del fascismo e prima che Borghese entrasse nel vivo della sua carriera militare, è costato un brutto incidente a Enrico Montesano.
I guardiani della memoria, anziché storicizzare hanno preferito esasperare gli animi. Tant’è: la leggenda nera della X Mas resiste oltremisura, rafforzata dalla memoria dei feroci rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie nel periodo di Salò.
Questa leggenda impedisce la storicizzazione del principe nero, passato da eroe di guerra a criminale in men che non si dica. E dunque: criminale il Borghese fascista, che fucila partigiani a raffica. Criminale anche l’Oss (Office of Strategic Services, l’antenata della Cia) e il suo capo in Italia, James Jesus Angleton, che salvarono Borghese. Criminali, infine, quei settori deviati dei servizi, civili e militari, che protessero il principe e ne sponsorizzarono il tentativo di golpe.
Possibile che sia tutto un crimine?
James Jesus Angleton, capo dell’Oss in Italia e fondatore della Cia
Tora Tora: Junio Valerio Borghese e Pansa
La recentissima ristampa di Borghese mi ha detto (Rizzoli, Milano 2022), un vecchio libro intervista di Giampaolo Pansa, consente di aprire uno spiraglio sul golpe. Il giornalista piemontese aveva intervistato il principe il 4 dicembre 1970, cioè quattro giorni prima del tentato colpo di Stato. L’intervista uscì su La Stampa il 9 dicembre, cioè ventiquattro ore dopo l’operazione Tora Tora, di cui in quel momento il pubblico non sapeva niente.
Pansa rimase affascinato dalla lucidità e dalla schiettezza di Borghese, che sembrava tutto tranne che un golpista. Infatti, la notizia del golpe sarebbe emersa il 17 marzo del ’71, grazie a uno scoop di Paese Sera.
Riavvolgiamo il nastro: possibile che una cosa tanto grave, un pericolo per la democrazia, finisse tanto sottogamba?
C’è da dire che parecchie avvisaglie di golpe erano già emerse sulla stampa, come ha riscostruito con grande efficacia Fulvio Mazza nel suo Il Golpe Borghese (Pellegrini, Cosenza 2021). E allora: perché Borghese ha potuto agire quasi indisturbato?
Golpe Borghese: un Putch inconsistente
Nel golpe Borghese c’era tutto il cattiverio. C’era Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e il Fronte Nazionale (il partito personale del principe).
Poi c’erano i Servizi e la P2. Insomma, non mancava nulla per creare il colpevole quasi perfetto: un militare fascista, potenzialmente stragista, i Servizi, per definizione deviati, e ambienti inconfessabili. E non dimentichiamo le mafie.
Peccato che tutta questa attrezzatura abbia sostenuto un golpe gestito solo da paramilitari di destra, un pugno di poliziotti, nemmeno cinquecento carabinieri più il vecchio Corpo forestale dello Stato.
C’è una cosa corretta sul golpe Borghese: non fu un conato neofascista ma un tentativo di destabilizzazione atlantista, a cui Borghese si prestò. Ergo: al principe andava bene roba sul modello portoghese, cileno o greco. Nulla di più. Il principe non era un rivoluzionario nero ma un uomo d’ordine e un anticomunista sfegatato. E questo spiega sia la gestione di un golpe rientrato alle battute iniziali sia i legami più o meno inconfessabili, per i fascisti e per gli antifascisti.
Borghese e Licio Gelli: una relazione pericolosa
Iniziamo dalla cosa più pornografica per una certa mentalità politicamente corretta: i rapporti tra il principe e il venerabile della P2.
È noto che Gelli riuscì ad accreditarsi come campione dell’atlantismo. Più complicato il discorso per Junio Valerio Borghese. Tuttavia, sulla base dei documenti disponibili, ci sono alcune certezze.
Le espongono Jack Greene e Alessandro Massignano ne Il principe nero (Mondadori, Milano 2008): Borghese non fu un piduista ma era vicino a Gelli, che lo aveva favorito in momenti di crisi finanziaria. Ancora: sia gli ambienti dei Servizi sia gli extraparlamentari di destra erano infiltrati o condizionati dalla P2.
Licio Gelli
Il tutto ha un corollario: di Gelli si può mettere in discussione ogni cosa, tranne l’atlantismo. Quanto bastava a creare una comunione d’interessi col principe.
Borghese e la resistenza
Col principe nessuno era al sicuro: neppure i partigiani.
C’è una differenza fondamentale tra la Decima di Borghese e le milizie di Salò: la prima era un corpo autonomo, con uno statuto simile alla Legione Straniera; le altre un tentativo di creare un esercito regolare.
Questa differenza fu riconosciuta dalle corti militari del dopoguerra, che trattarono meglio i militi della X Mas rispetto agli altri repubblichini. Ma la apprezzarono anche i comandi e l’intelligence alleati, che negoziavano sottobanco più con Borghese che col resto della Rsi. Inoltre, la apprezzarono i vertici delle brigate partigiane Osoppo, cioè i partigiani bianchi, che temevano e detestavano i “garibaldini”, cioè i partigiani comunisti.
Due studiosi di vaglia, Giacomo Pacini e Giuseppe Parlato concordano su un punto: a partire dalla fine del ’44 ci furono abboccamenti tra la Decima e la Osoppo per concordare un’azione comune contro i partigiani di Tito. La proposta, avanzata dai partigiani fu fatta cadere. Non per l’antifascismo ma perché i seguaci di Borghese erano praticamente bolliti, dopo oltre un anno di guerra civile.
Ancora: Pacini parla della vicinanza, nell’immediato dopoguerra tra vari reduci della Decima e gli ex partigiani bianchi. E allude alla possibile militanza di alcuni ex marò in Gladio, che era comunque una struttura di ex partigiani.
Partigiani della brigata Osoppo
Borghese e Israele
È il capitolo più piccante della vicenda.
Tuttavia, ci sono dei dati certi sui rapporti tra Borghese e i gruppi da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. A dispetto di tutto quel che era capitato prima, leggi razziali incluse.
Il partito di punta del movimento sionista era l’Irgun Zvai Leumi, un gruppo di estrema destra, che in Italia s’intese alla perfezione coi leader del nascente neofascismo (tra questi, Pino Romualdi) in nome dell’odio comune verso la Gran Bretagna.
Borghese contribuì a modo suo: mise in contatto i rappresentanti dell’Irgun col suo braccio destro Nino Buttazzoni, che nel ’46 era latitante in Vaticano.
Quest’ultimo, che non poteva esporsi, convinse i sionisti a ingaggiare due ex marò per addestrare gli incursori della futura Marina israeliana e impiegarli in funzione antibritannica. Dio stramaledica gli inglesi? Lo dicevano i fascisti, ma gli ebrei erano d’accordo. Non a caso, il corpo degli incursori della Marina israeliana si chiama XIII flottiglia. Manca solo Mas.
I rapporti di Borghese con un certo estabilishment atlantista sono storicamente accertati. Il principe era stimato dai britannici, a cui aveva dato filo da torcere in guerra, era apprezzato dagli americani e dagli israeliani. E Gelli lo teneva in considerazione. Insomma, era l’ideale pedina anticomunista.
C’è da dire che Borghese interpretò il ruolo alla grande. Anche nella curiosa ritirata finale. Cioè nel contrordine dato quando il golpe stava per entrare nel vivo.
Al riguardo, in tanti evocano complotti. Ma forse la verità è più semplice, come racconta Miguel Gotor nel suo recentissimo Generazione Settanta (Einaudi, Torino 2022).
Borghese aveva intuito che il golpe avrebbe potuto avere una sola riuscita: spaventare l’opinione pubblica e propiziare un governo autoritario di destra, che tuttavia, per prima cosa avrebbe represso proprio i “camerati”.
Il dietrofront sarebbe dovuto essenzialmente a questa preoccupazione.
Certo, se le cose stanno così, non serviva uno storico stellare come Gotor. Ma basta un regista geniale come Mario Monicelli, che nel suo Vogliamo i colonnelli (1973) racconta più o meno la stessa cosa.
Già: non c’è nulla di meglio di una commedia, per raccontare il golpe da operetta di un ex eroe in declino…
I viaggiatori politicamente corretti si riconoscono subito, fanno tenerezza. Ricordano Silvio Orlando in Ferie d’agosto, quando cerca vanamente di isolarsi dai rumori, dalla cafonaggine e dall’invadenza dei suoi vicini. Tenta inutilmente di arginare il mondo reale, rifugiandosi in un paradiso naturale, senza acqua corrente né elettricità, che rivelerà, però, tutti i suoi limiti.
Silvio Orlando in Ferie d’agosto (Paolo Virzì, 1996)
I viaggiatori motivati, informati, consapevoli non li incroci nei luoghi più affollati. Se anche dovessero transitare su un lungomare, o in un centro commerciale, non si farebbero notare. Vestono in modo sobrio, quasi dimesso. Non ostentano videocamere e altre apparecchiature elettroniche. Non si espongono neanche troppo agli sguardi, dato che il più delle volte sono pallidi per le ore trascorse sui libri più in voga, nei musei e nei teatri. In un posto come Stilo, in provincia di Reggio Calabria, li individui subito, invece, perché spiccano in mezzo agli abitanti del borgo che ha dato i natali a Tommaso Campanella.
Stilo, la terra dell’utopia
Come accade in ogni paese del Sud, anzi in ogni meridione, i nativi osservano con sguardo compassionevole e divertito i viaggiatori che ammirano il paesaggio, rapiti dallo spettacolo. Per un nativo di Stilo quello è il panorama quotidiano, abituale, delle faccende di ogni giorno, lavoro, spesa, scuola, chiacchiere. Per un viaggiatore colto e curioso sbarcare a Stilo significa calpestare la terra dell’utopia, dove è nata la trama de LaCittà del Sole, la comunità perfetta immaginata dal filosofo.
La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella
Non per caso ha scelto di chiamarsi Città del Sole anche l’albergo che affaccia sul corso del paese, ricavato da un immobile sequestrato alla criminalità. Un posto confortevole, funzionale, di misurata eleganza, con un bel terrazzo a disposizione degli ospiti, che riposando lì possono rielaborare i pensieri affiorati alla mente durante le passeggiate tra le chiese e le case di Stilo. Tommaso Campanella fu rinchiuso per quasi trent’anni in un carcere dagli spagnoli, per aver organizzato una congiura contro il dominio straniero, da queste parti. A quei tempi spagnoli e baroni, oggi la ‘ndrangheta e i suoi legami con la politica.
Marulla e granite nel silenzio
Il luogo di maggior richiamo ovviamente è la Cattolica; oggi la piccola chiesa bizantina è inserita in un percorso che segnala eremi e chiese rupestri, per viaggiatori che amano muoversi a piedi o in bicicletta, un turismo lento e rispettoso dei luoghi e del silenzio che regna, un bene prezioso da tutelare.
Infatti intorno alla Cattolica i visitatori sono decisamente à la Silvio Orlando, ammiriamo la bellezza del sito e scrutiamo le pietre e le colonne, alla ricerca di una rivelazione misterica. Individuato come cosentino dal vigilante, vengo informato che il grande Gigi Marulla è nato a Stilo, il mio interlocutore è suo cugino. Non è proprio una rivelazione trascendentale, ma mi accontento. Sul calcio sono sprovveduto, devo compiere un percorso di iniziazione.
Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato
Unica concessione al consumismo, davanti all’ingresso dell’area della Cattolica, un piccolo chiosco di bibite e gelati, segnalato in rete per la bontà delle granite artigianali. Mi concedo pure io la granita, anche se sono arrivato in macchina. Cerco di essere un viaggiatore politicamente corretto, ma subisco tutto il fascino del turismo becero. Poi col caldo di fine estate non sarei mai arrivato vivo a Stilo, marciando attraverso la montagna, con le provviste in spalla, come i fieri escursionisti che mi circondano, sudati e soddisfatti.
L’eremo a Pazzano
Il direttore dell’albergo Città del Sole insiste, dobbiamo assolutamente visitare l’eremo di Santa Maria della Stella, a Pazzano, comune confinante con Stilo. Così lasciando Stilo elaboro un breve itinerario mistico-montano e ci avviamo.
Dopo pochi chilometri e tante curve arriviamo all’eremo, in una posizione meravigliosa, con una vista splendida sullo Ionio. Naturalmente arrivano alla spicciolata altri viaggiatori consapevoli, alcuni con bambini al seguito, che per ora subiscono i viaggi culturali imposti da mamma e papà, in attesa di diventare grandi e fuggire verso le discoteche dello sballo.
Cerchiamo di capire come accedere alla grotta, è stato organizzato un sistema di apertura con moneta, un euro a persona, come contributo per l’illuminazione e le pulizie del luogo.
L’eremo di Santa Maria della Stella
Una signora piuttosto scorbutica non si degna di rispondere alle educate richieste di spiegazioni. Temiamo di rimanere rinchiusi per sempre nell’eremo, una volta entrati. Potrebbe essere pure una soluzione a tanti problemi della vita che tentiamo di lasciarci alle spalle andando per eremi bizantini. Vedo inconsapevoli bambini seguire fiduciosi i genitori nella grotta, quando capiranno i rischi a cui sono stati esposti saranno dolori.
Un viaggio nel tempo fino a… Bivongi
Ultima tappa a San Giovanni Theristis, nel comune di Bivongi. Un monastero bizantino riportato in vita da un monaco greco, partito dal Monte Athos per recuperare questo angolo di Medioevo dimenticato dai calabresi. Solita strada orrenda, soliti viaggiatori pazienti alla ricerca del sacro. Sembra davvero di viaggiare nel tempo, qui. I monaci non ci degnano, passano silenziosi attraverso il prato, immersi nelle proprie faccende. Caprette e galline negli spazi riservati alla vita quotidiana.
Bivongi, il monastero di San Giovanni Theristis
I monaci non colgono gli sguardi desiderosi di ascesi e incuriositi dei turisti pellegrini dello spirito. Si comportano sempre così, forse la loro regola li obbliga a mantenere le distanze. Non si coinvolgono come i sacerdoti cattolici, sempre in mezzo alla gente, a sbracciarsi nell’accoglienza e nell’inclusione delle pecorelle smarrite (sennò papa Francesco li rimprovera), a mostrarsi comprensivi e indulgenti verso le magagne dei peccatori. I monaci ortodossi, mi pare, non si fidano dei cattolici, custodiscono ancora la memoria della crociata del 1204, quando i cavalieri con la croce, anziché attaccare i musulmani, saccheggiarono Costantinopoli e le sue chiese. Certo che dopo ottocento anni potrebbero pure metterci una pietra sopra. Poi non credo ci siano molti cattolici praticanti tra i visitatori degli eremi sperduti.
Via dal paradiso
Andiamo via consapevoli che il paradiso terrestre per ora non possiamo permettercelo, ci tocca tornare nella vita quotidiana. Sosta a Monasterace Marina per qualche conforto materiale. Spiagge affollate, musica ad alto volume, corpi abbronzati ed esposti impudicamente, pure quando le pance e i culi cascanti richiederebbero veli pietosi. Sempre il solito dilemma, godersi i beni terreni più immediati o faticare per distaccarsi dalle miserie del mondo? Ci vorrebbe un consiglio bibliografico di Tommaso Campanella. Durante i trent’anni di carcere avrà avuto modo di chiarirsi tante questioni per noi ancora irrisolte.
Intanto ci tocca la statale 106, un purgatorio moderno.
Anche Telesio sul web si unisce al rito dei cuddrurìeddri
Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.
La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.
Il mistero della vecchiaréddra
A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.
Crispeddi appena fritte
Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».
Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura.
Acciughe in una vecchiaréddra
Qualcosa di erotico
Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.
Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini).
A Cosenza Vecchia si venerano i cuddrurìaddri
Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə).
E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).
Olio, ingredienti, ripieni
Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).
Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”.
Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa.
A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona.
Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.
Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.
Cuddrurìaddri per Carlo V
Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Cratie Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.
Il Duomo di Cosenza
Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90.
Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H.
Una short list minima (10 posti)
Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).
Covid o non covid, a Cosenza si frigge in uno dei chioschi aperti per le festività natalizie (foto Alfonso Bombini)
Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti(via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione).
L’adesivo che omaggia i cuddrurìaddri apparso in questi giorni sui muri della città
Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né C né V lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.
Tonino Napoli
Dove trovarlə sempre
Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).
Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì.
Vecchiaréddre worldwide
Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.
Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.
Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe
Il Golpe dell’Immacolata
Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.
Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio
Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.
Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.
Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte
Il summit di Montalto
Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.
Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto
Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.
La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.
Il piano per il Golpe Borghese
Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.
Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.
La presa del potere
«Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»
Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.
Le dichiarazioni dei pentiti
Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.
Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevolia questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».
A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».
Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».
Golpe Borghese, salta tutto
Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.
Licio Gelli, è stato il capo della P2
Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:
«[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».
Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.
Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.
Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”
Bellocchio e la rivoluzione
Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico ela vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.Il lungometraggio “Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa”, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.
La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival
Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungoperiodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese.
Un manifesto politico con lo stile di sempre
Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.
Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola
La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.
Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca
Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.
I pedinamenti dei carabinieri
Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.
Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.
Un’occupazione in 100 minuti
Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema.
“Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.
Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.
Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.
Paola, 1969
C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.
Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.
1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il Boom si è fermato ad Eboli
Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità. Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.
Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri
Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.
Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.
I poveri e l’avvocato del popolo
La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.
Marcia rossa a Paola, 1969 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
In corteo lungo le strade del paese (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un’altra immagine tratta dal film di Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Militanti e bandiere rosse ripresi da Marco Bellocchio(foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.
Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice overdell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.
Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.
Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità
Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.
I manifestanti stanno per entrare nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un intervento nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Al cinema Cilea per rivendicare le case popolari(foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Un altro momento del dibattito nel cinema Cilea (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.
Il ricordo di Bellocchio
Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.
Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».
Da comunisti a borghesi
L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.
I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.
Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)
Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.
Un libro per capire meglio
Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento». La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.
Chi l’avrebbe mai detto che a un uomo tutto di un pezzo, il quadrunviro col frustino, potesse battere così forte il cuore, innamorato come un ragazzino di una donna che era già, e lo sarebbe stata ancor di più anni dopo, protagonista non certo occulta delle vicende italiane.
La storia d’amore tra Michele Bianchi e Maria de Seta Pignatelli, nata Elia, sta tutta lì, in quel mazzo di lettere che Francesca Simmons, una nipote della marchesa, ha rintracciato nelle carte di famiglia, Anna De Fazio e Antonio Vescio hanno commentato e uno storico del calibro di Giuseppe Parlato ha introdotto e annotato, in un volume di quasi 200 pagine pubblicato da Brenner che avrebbe meritato, proprio per l’argomento e i protagonisti una veste editoriale migliore.
Michele Bianchi e Maria de Seta: cronaca di un amore (e dell’Italia)
Ma non è questo che conta. Contano i contenuti delle lettere finora sconosciuti. Lettere che come scrive Parlato nella sua introduzione «costituiscono non soltanto un significativo documento epistolare che segna un momento importante nel rapporto tra due personaggi pubblici, quali allora erano, ma soprattutto uno degli esempi nei quali la cronaca quasi quotidiana di un amore si intreccia con la storia italiana».
Maria Elia de Seta Pignatelli
È un epistolario a senso unico, in verità, quindi parziale per scrutare a fondo in un rapporto a due. Sono soltanto le lettere d’amore e non solo che Michele inviava a Maria e che questa ha conservato quasi a “futura memoria”. Ora è vero che molto spesso Michele si dilunga a raccontare la propria giornata di lavoro come ministro, una specie di diario che affidava all’amante. Ma è altrettanto vero che intestando le lettere inizialmente con “mia preziosa amica”, “amica sempre più cara”, “amica cara e gentile”, e poi “gioia mia incomparabile”, innamorata mia”, “ti soffocherei di baci”, “mia fiamma ardente”, “tuo, tuo, tuo”, “amore mio bello” “baci e baci”, “morsi e morsi” e altre espressioni analoghe, ci dà l’idea della cotta di un collegiale più che di un uomo maturo, ministro del regime fascista che uno si immagina tutto di un pezzo come ho detto prima, parco di sentimenti, severo.
«Mio tutto»
Sono 77 lettere che il gerarca fascista Michele Bianchi, a quel tempo ministro dei Lavori Pubblici, tra il 5 agosto 1927 e il 19 settembre 1929, inviò alla marchesa Maria Elia de Seta Pignatelli. Se lette in sequenza esse danno anche il senso di un rapporto in crescendo, anche per l’intimità del linguaggio usato da Bianchi che da un asettico “amica mia sempre più cara” della prima lettera dell’agosto 1927, da “gentile marchesa” e “gentile amica”, passa ben presto (ottobre successivo) a “mia gioia divina” e poi “anima mia”, “mia tutto”, “vita mia”.
Non fu un amore clandestino quello tra Michele e Maria perché in tanti sapevano. Fu in un certo senso un amore prudente, anche perché Maria aveva ben quattro figli. Si vedevano ma con discrezione anche se, come una qualsiasi coppia, facevano anche dei viaggi e si facevano vedere in pubblico assieme.
Michele Bianchi pazzo di Maria de Seta. E lei di lui?
Se dalle lettere appare chiaro che Michele si era “perso” per Maria, lei che sentimenti nutriva nei confronti di Michele? Dalle stesse lettere, indirettamente, è evidente che Maria provava gli stessi sentimenti di Michele. Era innamorata e anche gelosa. In una sua lettera, una letteraccia come Michele la definisce, lo accusava di tradimento. E lui come in una qualsiasi coppia di innamorati risponde con una tenerezza «che avalla un po’ gli aculei della passione», dando spiegazioni: «Dov’ero quando tu, alle 6,30 del 14, telefonasti per la prima volta? Presso quale donna? Presso nessuna donna. Ero presso un uomo: S.E. Grandi. È perché? Perché pochi momenti prima avevo ricevuto l’acclusa lettera della tua “Bonne”».
Michele Bianchi con Mussolini
Pubblico e privato
È un epistolario, insomma, che vale la pena di leggere perché consegna, se non alla storia almeno alla memoria, l’altra faccia, quella privata, di un uomo pubblico che uno si immagina senza passioni, di un sindacalista rivoluzionario, di un uomo di lotta, di un interventista della prima ora, del fondatore dei Fasci di azione rivoluzionaria, di un Sansepolcrista fondatore dei Fasci di combattimento che trasformò il movimento in Partito Nazionale Fascista di cui fu il primo segretario, di un uomo di governo, di un uomo la cui immagine pubblica stride con il contenuto delle lettere d’amore inviate alla marchesa.
Quanto una prevalente impostazione culturale a carattere umanista ha contribuito a insediare e consolidare l’impianto individuale e collettivo del Mezzogiorno? Non è soltanto l’appartenenza a un insieme di radici che affondano e si intrecciano fra loro a partire dal mondo ellenico e ebraico e quindi cristiano attraverso inestricabili sentieri sincretici via via tracciati e ritracciati a marcare la differenza con gli imprinting dell’illuminismo e del protestantesimo.
La cultura del fare, il riconoscere nella dimensione imprenditoriale e industriale una galassia comportamentale che impregna di sé i vari ambiti della vita dell’uomo è non solo una visione del mondo ma interessa dalle fondamenta, conseguentemente, architetture istituzionali e modi di stare in esse.
Non solo Pensiero meridiano
Nel Mezzogiorno, complici concause di non marginale importanza quali la forte impronta impressa da dominazioni particolarmente grevi e strutture fisico morfometriche non incoraggianti la socializzazione, il richiamo di Franco Cassano al Pensiero Meridiano hanno rappresentato pleonasticamente, anni fa, l’apertura a un insieme di paradigmi che in verità era iscritto nel suo DNA fin dalle origini. E la stessa forse ormai superata (forse) polemica sull’osso e la polpa, fra (presunta) vocazione agraria e opzione industriale che Manlio Rossi Doria agitò decenni fa altro non è che l’altra faccia della medaglia, la rappresentazione di quanto di recente ha riproposto Giuseppe Lupo del gruppo che fa capo alle posizioni di Adriano Olivetti e del suo stretto collaboratore Leonardo Sinisgalli.
Cosa può fare la letteratura?
Echi tutt’altro che silenti di questo dualismo, di un dibattito che a volte affiora ma nel complesso non decolla, si avvertono in parte della letteratura meridionale di oggi dove produzioni riconducibili a Rea, Ottieri, Volponi, non sono rinvenibili né forse mai esistite. E la letteratura, la forma romanzo, è, lo sappiamo, non soltanto fiction né semplice evasione: contiene in sé potenti capacità di coinvolgimento, sintesi, rappresentazione del detto così come del non detto. Senza disturbare mostri sacri e intoccabili, senza chiamare in causa Benedetto Croce e i numerosi epigoni, come qualcuno forse spericolatamente ha fatto, è facile in ogni caso individuare nelle stesse organizzazioni politiche e nei loro impianti statutari oltre che nelle piattaforme programmatiche una sorta di consecutio del magistero in cui domina il pensare sul fare, la teoria sul pragmatismo.
Se pure sono plausibili queste riflessioni, per forza di cosa schematiche fino all’apparire brutali (mi rendo conto), nel frattempo il fare è diventato sempre più difficile, meno praticabile, il pensare s’è arrestato alla fine della storia o al “www” senza frontiere. Ripensare a Croce con la lente dei giorni nostri potrebbe essere la chiave.
Massimo Veltri Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.