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  • Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Dalla Cattedrale a Villa Rendano è il titolo di un viaggio multimediale che unisce il fulcro simbolico della devozione cosentina allo storico palazzo che ospita la Fondazione Giuliani, la cattedrale come luogo sacro e l’antico edificio che fu dimora del celebre musicista come tempio laico e culturale. Un percorso virtuale, ovviamente, che si apre all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano. E la multimedialità che ne è la cifra caratterizzante non stempera le suggestioni anzi ne amplifica la portata.

    Identità oltre la fede

    Il percorso era stato già presentato in occasione dell’evento celebrativo degli ottocento anni della Cattedrale di Cosenza e inaugurato alla presenza del compianto monsignor Nolè, allora Vescovo della città. Adesso sarà nuovamente fruibile il 25 e 26 di Dicembre.
    Il museo è una delle tappe dell’impegno rivolto alla riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario.
    Da questo punto di vista lo spazio dedicato al Duomo è potentemente significativo per il ruolo che il luogo rappresenta in termini di fede e di identità cittadina. Il Duomo, infatti, non è solo la chiesa principale del capoluogo, ma anche il centro, non solo simbolico ma quasi anche urbanistico, della città antica.

    Sette sale a Villa Rendano per raccontare il Duomo di Cosenza

    Nelle sette sale del Museo si troverà concentrata la storia pluricentenaria della Cattedrale e saranno raccontati gli sforzi compiuti per edificarla e nel tempo abbellirla, passando per tappe di straordinario significato come la donazione della Stauroteca da parte di Federico II, fino alla devozione speciale dedicata dalla popolazione cosentina all’icona duecentesca della Madonna del Pilerio, per arrivare ai monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico VII di Hohenstaufen, alle trasformazioni della facciata che l’edificio ha conosciuto nel corso del XIX e XX secolo, fino  le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento.

    Cosa fare per visitare la mostra

    In occasione del Natale questo viaggio nella storia e nella fede della città di Cosenza viene riproposto alla città dalla Fondazione Giuliani, a consolidare un impegno che lega quest’ultima al suo centro storico.
    Per informazioni e prenotazioni: prenotazionivillarendano@gmail.com

  • Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

    Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

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    Un signore distinto si aggirava nei mesi scorsi tra i vicoli del centro storico di Cosenza, incuriosito e affascinato dalle pietre antiche di Corso Telesio. Quel signore si chiama Giorgio Pala, è un architetto di fama nazionale, che recentemente ha lavorato al restauro del parco archeologico del Colosseo. Cosa ci facesse da queste parti è presto detto: il suo studio romano si è aggiudicato i lavori di riqualificazione di piazzetta Toscano e per qualche mese ha frequentato la parte vecchia della città in cerca dell’idea migliore per ripensare questo luogo.

    I soldi del Cis per piazzetta Toscano

    Una partita da un milione e duecentomila euro (soldi previsti dal Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della cultura) per mettere mano all’opera più controversa della città, con la sua spigolosa copertura di ferro e di vetro nata per “custodire” l’area archeologica sottostante (i resti di una domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale), ma da decenni oggetto di polemiche per lo stato di inesorabile degrado in cui versa. I fondi sono quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) al cui iter per la destinazione alla città dei Bruzi aveva dato un forte impulso la Cinquestelle Anna Laura Orrico, in veste di sottosegretaria nel governo Conte bis.

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    La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico

    Due giunte, altrettanti progetti

    La struttura attuale, progettata dall’architetto Marcello Guido e realizzata negli anni ’90, è danneggiata in più parti, la manutenzione è complicata e costosissima, i resti romani hanno finito per essere ricettacolo di sporcizia, coperti da erbaccia e buste di spazzatura. Nel 2018 l’allora sindaco Occhiuto annuncia un finanziamento per «una rivisitazione» dell’opera che – garantiva il primo cittadino – l’avrebbe resa «più funzionale, accessibile, visitabile anche nella parte archeologica». Nulla, però, è accaduto.

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    Le erbacce sotto la copertura che impedisce la piena fruizione dell’area

    A distanza di anni, con una nuova giunta in sella, riecco il Cis con un altro progetto. Anzi, due: Pala e il suo team, infatti, nell’aggiudicarsi i lavori hanno presentato due proposte (con una identica previsione di spesa) per la riqualificazione urbanistica e funzionale di piazzetta Toscano con la valorizzazione dei reperti. La prima opzione prevede di salvaguardare l’attuale copertura. La seconda, invece, propone di “smontare” l’opera realizzata in ferro e vetro e dare una nuova vita all’area lasciando la piazza aperta e il parco archeologico fruibile dai visitatori.

    La promessa di Alimena: lavori al via ai primi di gennaio

    Chi deciderà? A scegliere la migliore tra le due proposte presentate dal prestigioso studio romano dell’architetto Pala, aggiudicatario dell’appalto, sarà la Conferenza dei servizi che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo tutti gli enti che a vario titolo sono interessati al futuro di piazzetta Toscano. L’ultima parola sulla riqualificazione di quest’area dall’immenso valore storico e artistico, spetta però alla Sovrintendenza, che potrà porre il suo veto nel caso in cui non ritenga garantita la tutela dei reperti.

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    Il consigliere comunale con delega al centro storico Francesco Alimena (PD)

    Pare quindi che il 2023 sarà l’anno del restyling della vituperata piazzetta, l’apertura dei cantieri è prevista per i primi di gennaio, «la tempistica è chiara, già a metà del mese i lavori partiranno» garantisce Francesco Alimena, oggi consigliere comunale con delega alla città vecchia ma sostenitore dei Cis fin dalla prima ora. «Stiamo per cambiare il volto del centro storico – dice – e questa volta non si tratta di proclami ma di fatti».

  • Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

    Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

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    L’unica certezza nei rapporti tra l’Italia del dopoguerra e il mondo arabo è l’ambiguità.
    Di questa ambiguità, che fu un comportamento necessario, uno degli interpreti più abili è Pietro Buffone, storico esponente della Dc calabrese, che gli estimatori e gli amici chiamavano Pierino.
    Gli ispiratori di questa “ambiguità” sono essenzialmente due: Enrico Mattei e Aldo Moro.
    Tuttavia, non serve soffermarsi troppo su questi due giganti dell’Italia contemporanea, perché i protagonisti di questa storia sono altri: oltre Buffone, Roberto Jucci, ex generale dei carabinieri ed ex 007. E con loro, Mu’ammar Gheddafi, vittima di un “pacco” paragonabile alla vendita della Fontana di Trevi nel mitico Totòtruffa.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    Filoarabi e nazionalisti

    Grazie a Mattei e Moro, l’Italia riprende, nel dopoguerra, le linee di politica estera iniziate in età giolittiana ed esasperate dal fascismo: un’attenzione ammiccante verso il mondo arabo, declinata in chiave ora antibritannica, ora antifrancese.
    Con una differenza fondamentale, rispetto al ventennio: questi rapporti non sono più diretti né godono della grancassa della propaganda. Al contrario, sono gestiti dall’intelligence. E, in questo settore, ha un ruolo di primo piano Stefano Giovannone, ufficiale dei carabinieri e agente segreto di fiducia di Moro.
    Giovannone è l’uomo chiave della diplomazia parallela imbastita dal leader Dc, che culmina nel cosiddetto “Lodo Moro”, un accordo con l’Olp di Arafat che preserva l’Italia dagli attentati dei palestinesi.

    Filoisraeliani ma non troppo

    Grazie a questo modo di fare, l’Italia è riuscita a conciliare l’inconciliabile. Cioè l’appoggio ufficiale agli israeliani, imposto dalla Nato, con una simpatia verso il nascente nazionalismo arabo, neppure troppo dissimulata.
    E c’è da dire che questa è l’unica politica mediterranea possibile per l’Italia dell’epoca: un Paese in sviluppo vertiginoso e affamato di energia. Di petrolio in particolare.

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    Il generale Roberto Jucci (a sinistra) con l’ex presidente Francesco Cossiga

    Gheddafi e noi

    Gheddafi è un leader sui generis: antitaliano e panarabista nella forma, è italianissimo nella sua cultura militare, perché si è formato nella Scuola di Guerra di Civitavecchia e in quella di artiglieria contraerea di Brecciano.
    Quando spodesta re Idris, cavalca i malumori contro l’Italia, espelle molti lavoratori italiani, nazionalizza i giacimenti petroliferi, ma si tiene l’Eni, a cui lascia tutte le concessioni e gliene dà qualcuna di più.
    Il tutto a danno della Gran Bretagna, l’ex protettrice della monarchia libica.

    L’amante necessaria

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    Il generale Ambrogio Viviani

    L’Italia lascia fare, perché la Libia di Gheddafi è un’amante necessaria. Quel tipo di amante di cui si dice male in pubblico ma di cui non si può fare a meno.
    Di questo rapporto c’è una testimonianza significativa. Proviene da Ambrogio Viviani, l’ex capo del controspionaggio.
    Viviani rilascia delle dichiarazioni inequivocabili: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’Eni fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate».

    Lo shock petrolifero

    Negli anni in cui opera Viviani il boom economico subisce un arresto fisiologico e il centrosinistra, che ha accompagnato la crescita degli anni ’60, entra in agonia.
    Il problema energetico, affrontato brillantemente da Mattei e comunque gestito dal suo successore Eugenio Cefis, torna a farsi sentire.
    In seguito alla guerra dello Yom Kippur, combattuta da Egitto e Siria contro Israele (1973), i Paesi arabi produttori di petrolio alzano i prezzi di botto. È il cosiddetto shock petrolifero, che spinge le economie occidentali nella stagnazione.
    L’Italia gioca l’unica carta possibile per sfuggire alla morsa: Gheddafi.

    Petrolio contro armi

    L’uomo chiave della delicata trattativa col leader libico è Jucci, che tiene i contatti. Dietro di lui c’è Pietro Buffone, che in quel frangente delicatissimo è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Rumor.
    Grazie ai buoni uffici dello 007, il politico calabrese incontra Gheddafi in pieno deserto. E i tre stringono un accordo: l’Italia avrebbe fornito carri armati alla Libia e questa, a dispetto dell’embargo occidentale, avrebbe aumentato le forniture di greggio.

    Enrico Mattei, il papà dell’Eni

    Armi e tangenti

    Affare fatto? Mica tanto, perché mentre l’Italia diventa il principale importatore di petrolio libico, a Gheddafi non arriva neppure un temperino.
    Ma la Dc preme perché l’affare vada in porto, per un motivo in cui opportunismo e patriottismo vanno a braccetto. Come rivela il generale Michele Correra, ex capo delle relazioni industriali del Sid, l’Eni in quegli anni paga alla Balena Bianca una tangente che va dallo 0,5 allo 0,6% su ogni singola fornitura.
    Tuttavia, nella Dc ci sono al riguardo differenze di vedute, che risalgono al ’72. C’è chi, come Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, vorrebbe fornire armi italiane, tra l’altro nuove di zecca. E chi, al contrario, teme reazioni americane.

    Aldo Moro negli anni del potere

    La patacca italiana

    Buffone riesce a trovare la quadra: niente carri armati, ma autoblindo corazzate vecchio tipo.
    Per la precisione, uno stock di M113, mezzi blindati risalenti agli anni ’50 e prodotti in Italia su concessione americana.
    Queste blindo, ormai vecchiotte, sono praticamente dismesse dall’Esercito, che le ha cedute ai carabinieri. L’idea di Buffone è semplice ed efficace: requisire i mezzi, riverniciarli e cederli ai libici.
    La trovata riesce e tutti sono contenti: le industrie italiane, che fanno il pieno di petrolio, la Dc, che si rimpinza di tangenti, e i libici, che comunque ottengono dei mezzi di trasporto truppe meno antiquati delle reliquie italiane e britanniche della Seconda guerra mondiale.

    Una vecchia blindo M113

    Buffone? Solo un cognome

    Niente male per un politico poco vistoso e, in apparenza, non troppo brillante. Pietro Buffone non è un militare di carriera né un grande accademico come Moro.
    Ha sì e no la scuola dell’obbligo, ma riesce a trovarsi a suo agio sia nei corridoi di Montecitorio sia in quelli del Comune di Rogliano, di cui è sindaco a lungo.
    Su di lui, resta un giudizio significativo di Jucci: «Nei governi i politici si dividono in due categorie: c’è chi appare e chi, invece, produce risultati nell’ombra».
    A riprova, nel suo caso, che Buffone è solo un cognome.

  • Borbone contro Massoni: una storia calabrese

    Borbone contro Massoni: una storia calabrese

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    Dell’arretratezza dei Borbone si parla spesso e troppo.
    Tuttavia, senza per questo voler dare ragione ai neoborbonici e ai revisionisti alla Pino Aprile, non sempre era così. Anzi, in alcune cose l’ex dinastia napoletana era piuttosto avanti. Ne citiamo due: le opere pubbliche in project financing e l’autocertificazione.
    Un esempio delle prime fu la ferrovia Napoli-Portici, realizzata col concorso di un imprenditore francese che sostenne buona parte delle spese.
    Ma questa non riguarda la Calabria.
    L’“autocertificazione”, invece, fu un’idea di Ferdinando I, ’o Re Nasone, per stanare massoni e carbonari dai ruoli di comando. E ci tocca da vicinissimo.

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    Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

    Borbone e Massoni: lo strano rapporto

    È il caso di fare chiarezza su un punto: il rapporto tra i Borbone di Napoli e la massoneria non è mai stato chiaro e lineare, ma molto condizionato dalla politica pontificia.
    All’inizio, cioè sotto don Carlo, il primo, illuminato esponente della dinastia, c’è una certa tolleranza, come ovunque.
    Anzi, molti pezzi grossi della nobiltà napoletana si dilettano nelle logge. Come, ad esempio, Raimondo di Sangro, il principe di Sansevero, il quale prende piuttosto sul serio la “grembiulanza”, al punto di riempire la celebre cappella di famiglia di simboli esoterici.
    Certo, esistono già le prime bolle papali (In eminenti apostolatus specula, del 1738, e Providas romanorum, del 1751).
    Ma i regnanti (e le varie chiese nazionali) le interpretano con larghezza. Poi, a fine secolo, le cose cambiano.

    Una “catena d’unione” massonica

    La grande paranoia dei Borbone

    La rivoluzione francese, col suo carico di novità esplosive, è all’origine della rottura.
    I Borbone si adeguano, anche per via di uno choc familiare enorme: l’esecuzione di Maria Antonietta di Francia, sorella maggiore di Maria Carolina, moglie di Ferdinando e Regina di Napoli.
    I traumi successivi, cioè la Repubblica Partenopea e il decennio napoleonico, cementano un’equazione d’acciaio nella nobiltà lealista napoletana: massone uguale a giacobino e giacobino uguale a carbonaro.
    Dopo la repressione dei moti costituzionali del 1821, la situazione precipita del tutto: lo staff borbonico vede davvero massoni e carbonari ovunque. E quindi jacubbine.

    La “vendetta massonica”: un dettaglio del rito del Cavaliere Kadosh

    I Borbone alla riscossa: le Giunte di scrutino

    Una scoperta consente di ricostruire la persecuzione borbonica contro i grembiuli del Regno delle Due Sicilie.
    L’ha fatta Lorenzo Terzi, giornalista e funzionario dell’Archivio di Stato di Napoli. Terzi, noto al pubblico per varie ricerche specialistiche, ha trovato i documenti dell’attività delle cosiddette Giunte di scrutinio.
    Queste Giunte borboniche erano commissioni d’inchiesta istituite con un decreto del 12 maggio 1821.
    In origine erano quattro e avevano il compito di esaminare «la condotta degli ecclesiastici, pensionisti e funzionarj pubblici; come anche quella degli autori di opere stampate e le massime in esse insegnate».
    Ad esse se ne aggiunsero una quinta (decreto del 16 aprile 1821), che si occupava dei militari, e una sesta (decreto del 24 maggio successivo) destinata alla Marina.

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    Un interrogatorio della polizia borbonica (con relativa tortura)

    Grembiuli di Calabria

    Nel fondo del Ministero di Grazia e Giustizia custodito dall’Archivio di Stato di Napoli c’è un documento importante che riguarda la Calabria Citra, cioè il Cosentino.
    Contiene gli scrutini (cioè i controlli) della Camera notarile di Cosenza.
    I membri della Camera notarile setacciati dalla Giunta borbonica sono il presidente Pasquale Rossi, il cancelliere Tommaso Maria Adami, gli ufficiali di prima classe Giovan Battista Adami e Francesco Rossi, gli ufficiali di seconda classe Francesco Memmi e Giovanni Litrenta, i componenti Pasquale Gatti e Nicola Del Pezzo e il bidello Giuseppe Pettinati.

    L’autocertificazione

    Come funzionavano le Giunte di scrutinio? Nessun interrogatorio pesante né torture. Niente sbirri né inquisitori.
    Più semplicemente, la Giunta competente per territorio inviava dei questionari ai funzionari sotto scrutinio. Questi, a loro volta, dovevano rispondere entro un mese, pena la decadenza dal ruolo e la perdita di stipendio o pensione.
    Solo in caso di dichiarazioni false si passavano i guai, che potevano essere seri.
    In pratica un’autocertificazione.

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    Il verbale dell’interrogatorio di Pasquale Rossi

    Le domande dei Borbone

    Il questionario era composto da sei domande.
    In primo luogo, si chiedevano allo scrutinato informazioni sulla sua carriera. Poi si entrava più nel dettaglio: si chiedeva, quindi, al soggetto sotto esame se fosse o fosse stato massone o carbonaro e, se si, con che ruoli e quando.
    Ancora: gli si chiedeva se avesse fatto attività o propaganda sovversiva, dentro o fuori le logge (o, nel caso dei carbonari, le vendite).

    L’insidia massonica

    Tanta paura non era proprio immotivata. Durante il decennio francese, Gioacchino Murat aveva potenziato il Grande Oriente di Napoli e se ne era proclamato gran maestro.
    Murat, che di sicuro non era un intellettuale in vena di finezze esoteriche, usava la massoneria per raggruppare i liberali e fidelizzare quel po’ di borghesia che faceva carriera negli uffici pubblici. In pratica, aveva creato una specie di “Partito della Corona”.
    Tornato a Napoli, re Ferdinando evitò la ripetizione dei pogrom orribili seguiti alla caduta della Repubblica Partenopea e limitò le epurazioni.

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    Gioacchino Murat

    Al contrario, adottò nel Regno delle Due Sicilie il nuovo modello di amministrazione creato dai francesi, funzionari e impiegati inclusi.
    Ma ciò non risolveva, dal suo punto di vista, il problema della sicurezza, perché i ranghi della burocrazia e dell’esercito pullulavano di carbonari o massoni e il Regno borbonico era costretto a tenerseli in pancia, soprattutto per mancanza di alternative.

    Pochi massoni, molti carbonari

    In realtà, dopo la cacciata dei francesi i massoni non erano tantissimi. Il motivo è facile da intuire: le epurazioni e le repressioni, rafforzate dalle scomuniche, incutevano timore.
    Inoltre la massoneria non aveva scopi eversivi.
    Perciò, chi aveva voglia di trescare o menare le mani, preferiva la carboneria, che invece questi scopi li aveva. Rischio per rischio, tanto valeva osare sul serio.
    Non è il caso di approfondire troppo i rapporti tra carbonari e liberi muratori. Basta dire solo che la carboneria nacque come costola scissionista della Libera Muratoria e aveva strutture e riti simili. Direbbero quelli bravi: la stessa sociabilità.

    Una congiura carbonara

    E che i Borbone temessero i carbonari, lo prova un fatto curioso. Cioè la costituzione dei Calderari, una specie di carboneria reazionaria legata alla Corona e che, tra le varie cose, curava i rapporti con la parte filoborbonica della camorra.

    Massone a chi?

    Nel caso dei giuristi cosentini, è facile intuire che gli scrutinati fecero a gara a negare tutto.
    Anzi, Pasquale Rossi rivendicò di essere stato maltrattato dai Francesi quando faceva il magistrato a Lago. Discorso simile per Nicola Del Pezzo, che parlò del suo ruolo di consigliere giudiziario, ovviamente a favore della monarchia borbonica.
    Occorre notare un dettaglio: il Pasquale Rossi della Camera notarile di Cosenza non è antenato diretto dell’illustre intellettuale cosentino, sebbene la cronologia e l’omonimia gettino qualche suggestione.
    Il Pasquale Rossi “nonno” fu in effetti carbonaro, massone e, quindi cospiratore. Ma era di Tessano, mentre il presidente Rossi era di Cavallerizzo.

    Iniziazione massonica (scena tratta da “Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli)

    Repressione napuletana

    Non esistono dati precisi sulle epurazioni borboniche. Di sicuro, l’autocertificazione aveva uno scopo diverso dal punire massoni e carbonari.
    Semmai, l’obiettivo era tenere per le parti basse i presunti cospiratori, con dichiarazioni verificabili sulla base delle soffiate e dei metodi poco ortodossi dell’occhiuta polizia borbonica.
    In realtà le epurazioni furono poche. E poche pure le condanne. I Borbone usarono le Giunte di scrutinio per prevenire un pericolo potenziale, ma per il resto non avrebbero potuto fare a meno dei funzionari “impiantati” dai napoleonici.
    Una soluzione alla napoletana, insomma, con cui ’o re Nasone scaricò le grane sui suoi eredi. E che grane.

  • Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

    Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

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    Un cittadino dona una casa a un gruppo di ragazzi un po’ cresciuti e con la voglia di rischiare. La sistemano tra mille difficoltà e di tasca loro. Diventa un museo. Con questi pochi ed essenziali gesti nasce nel 2021 Muzé a Pallagorio, in provincia di Crotone. Una collina sullo Jonio, il mare che ha spinto e portato i greci ad occidente.

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    Una delle stanze del museo Muzè a Pallagorio, in provincia di Crotone

    Muzé: museo e comunità

    Muzé è un presidio di cultura e idee in terra arbëresh: un pezzo d’Europa, quella del margine, dell’entroterra, dell’osso. Nulla di statico. Migrazioni, spostamento e contaminazione si condensano nel cammino di tre paesi a pochi chilometri l’uno dall’altro: Carfizzi, Pallagorio, San Nicola dall’Alto. La bellezza fonetica e levantina dell’Arbëria crotonese contro il logorio della Calabria dei luoghi comuni: peperoncino in primis. Una specie di etichetta che ritrovi ovunque. Al di là della indiscutibile bontà a tavola, ha un po’ rotto le scatole.

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    Gruppo musicale arbëresh a San Nicola dall’Alto (foto pagina facebook Fili Meridiani)

    Immagini, abiti tradizionali, oggetti del quotidiano accompagnano il patrimonio immateriale e più importante di questo museo a Pallagorio: libri, idee, incontri, persone sedute in circolo, gente che si parla.
    Più che uno storytelling (parola accantonata pure da Christian Salmon, uno dei suoi primi utilizzatori) si tratta di viaggio rituale e visuale nel passato. La comunità torna al suo atto fondativo: nel XV secolo il condottiero dell’Albania ancora cristiana Giorgio Castriota Skanderbeg porta il suo popolo in salvo dalla furia ottomana. Elemento chiave della cultura arbëresh, celebrato ogni anno nelle danze circolari chiamate vallje.

    Fili meridiani: da Cambridge a Pallagorio

    L’idea di Fili Meridiani nasce in piena pandemia dopo una serie di incontri on line sulle piattaforme ormai entrate nel lessico famigliare di tutti. Ursula Basta è un architetto che, dopo gli studi a Firenze, ha vissuto e lavorato alcuni anni a Cambridge. Ha deciso di tornare nel paese dei genitori e dei nonni e lanciare insieme ad altri tre amici questo laboratorio di pensieri e innovazione. Lei ha già in mente il nome. Ispirato dal Pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano.
    Fabio Spadafora ha frequentato Scienze politiche all’Unical. Si è occupato di comunicazione e analisi politica. Ma con una fidanzata di Pallagorio, non lontano dal paese dello scrittore Carmine Abate, non poteva che essere coinvolto nel progetto. Gli altri sono il videomaker e fotografo, Ettore Bonanno e la grafica Francesca Liuzzo. Dei tre solo Fabio non ha origini arbëresh: un cosentino con una madre presilana, cosa che rivendica con orgoglio. Ma la Calabria è una terra di mescolanze, di diversità intrecciate.

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    I calanchi del Marchesato

    Instaruga

    Instaruga è un progetto di promozione turistica del Marchesato crotonese. Unisce associazioni, guide e cittadini. Ed è pure una piattaforma digitale. Il nome fa pensare subito a Instagram. Ma non è così. C’è altro. «In‘sta ruga significa “in questa ruga”, dentro il vicinato, dentro i paesi, dentro la Calabria». Così si legge sul portale web di Fili meridiani. Che passano con estrema facilità dalle gjitonie agli algoritmi della comunicazione social.

    Alternano escursioni nei calanchi di Cutro oppure scorribande tra le vigne del Cirò. Piccole meraviglie del Crotonese per chi vuole uscire fuori dai percorsi turistici troppo noti e battuti. Alla ricerca di tanti piccoli fili meridiani disseminati nelle calabrie nascoste.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    Cento anni fa la nave Re d’Italia lasciava il porto di Genova e il 18 dicembre 1922 arrivava al porto di Fremantle, borgo marino vicino a Perth, la capitale dell’Australia Occidentale. Da Fremantle, la nave proseguì poi verso Adelaide, nell’Australia Meridionale, poi verso il Nuovo Galles del Sud, a Sydney, e infine a Melbourne, nello stato di Victoria nel nuovo anno (1923). In ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì).

    Front Page King of Italy, National Archives of Australia

    Australia: la ‘ndrangheta più longeva del mondo

    Cosa avevano in comune questi tre soggetti? E perché ne spulciamo ancora nomi e dati negli archivi nazionali a Canberra? Antonio Macri(ì) avrebbe fondato il locale di Perth; Domenico Antonio Strano rimarrà nel nuovo Galles del Sud, dove, si dice, morirà nel 1965 con funerali sontuosi. Infine, Antonio Barbara(o) conosciuto come The Toad (il Rospo), sceso ad Adelaide, si sposterà a Melbourne dove sarà una figura singolare nel mondo criminale cittadino. La relazione di una squadra d’indagine guidata da Colin Brown nel 1964 per l’Australian Security Intelligence Organisation e intitolato The Italian Criminal Society in Australia dirà che è proprio con la Re d’Italia che arrivò l’Onorata Società down under, in Australia. Tutti e tre i nostri uomini sono conosciuti – o meglio raccontati – come i fondatori della ‘ndrangheta in Australia. La ‘ndrangheta d’esportazione più longeva del mondo.

    Una pagina del report firmato da Brown

    Three is a magic number

    Chi conosce anche solo le basi della mafia calabrese avrà già forse sorriso. Tre sono i cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero fondato la mafia in Italia partendo proprio dalla Calabria. Sempre tre sono gli individui della ‘copiata’ nei locali di ‘ndrangheta: il contabile, il capo-locale e il capo-crimine che insieme gestiscono le doti sul territorio. Così come tre sono i mandamenti della ‘ndrangheta reggina che confluiscono nella Provincia. E tre sono anche i personaggi su cui giura(va)no i Santisti: Garibaldi, Mazzini, La Marmora. Insomma, nella numerologia della ‘ndrangheta, (e non solo) il numero tre è trinità e fa storia quanto leggenda.

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    Osso, Mastrosso e Carcagnosso

    Tra storia e leggenda

    Come in tutte le leggende, anche in quella della fondazione della ‘ndrangheta in Australia c’è un fondo di verità storica, oltre all’arrivo comprovato della nave Re d’Italia nel 1922. Le storie su Antonio Barbara(o), per esempio, ci raccontano di come appariva la ‘ndrangheta dei primordi a Melbourne. Barbara(o) fu arrestato varie volte a Melbourne: nel 1926 per stato di ubriachezza; nel 1929, per aggressione; nel 1936, per la vendita di alcolici senza licenza. Per tutti questi reati fu condannato a pagare pene pecuniarie o scontare qualche settimana di carcere, ma nel 1937 fu condannato a 5 anni per omicidio colposo di una donna vicino al Queen Victoria Market, noto mercato di frutta e verdura della città.

    È arrivato un bastimento carico di… calabresi

    Non è inusuale, soprattutto in quegli anni, che l’Onorata Società si faccia vedere con reati contro l’ordine pubblico, e l’escalation fino all’omicidio sarebbe in linea con il profilo di uno ‘ndranghetista in crescita. Barbara(o), infatti, si dedica anche ad altre attività più “organizzate”. Ad esempio, gli archivi ci raccontano che ‘il Rospo’, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva ideato un sistema fraudolento per far arrivare alcuni suoi conterranei dalla Calabria, Platì e zona aspromontana per la precisione, verso l’Australia. Lavorando in un ufficio per l’immigrazione, utilizzava nomi di Italiani già sul territorio per contraffare richieste di sponsorizzazione, senza che questi lo sapessero.

    Il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia

    Ma Barbara(o) il Rospo è coinvolto anche in quello che, molto probabilmente, è il primo omicidio legato alla ‘ndrangheta in Australia; si tratta dell’omicidio di Fat Joe (Joe il Grasso) Versace, i cui documenti giudiziari sono stati desecretati solo nel 2020, 75 anni dopo. Siamo in una sera d’ottobre del 1945 nel quartiere Fitzroy di Melbourne. Quattro uomini stanno giocando a carte e bevendo birra a casa di Antonio Cardamona: Michele Scriva, Giuseppe Versace, Domenico De Marte e Domenico Pezzimenti. Tutti immigrati calabresi, tutti impiegati in attività del mercato di frutta e verdura. In seguito a una lite, Pezzimenti avrebbe attaccato Versace con un coltello. Novantuno ferite, alcune post mortem; una ferocia bestiale, l’avrebbe definita il coroner.

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    La morte di Fat Joe Versace sulle pagine di The Truth del 4 novembre 1945

    Una questione di donne?

    Sembra essere una questione di donne. Honneth Edwards era la compagna di Joe Versace, e sua sorella Dorothy Dunn era uscita un paio di volte con Pezzimenti, il quale però l’aveva insultata dicendole che «puzzava più di sua sorella». Dorothy e Honneth si sarebbero dunque lamentate con Joe e tanto sarebbe bastato per far iniziare una lite tra i due uomini. Dopo l’omicidio, Cardamone prima, Pezzimenti e De Marte poi, decisero di andare a raccontare quanto avvenuto alla polizia – accusando principalmente Pezzimenti di aver colpito Versace, ma allo stesso tempo confermando che era stata auto-difesa.

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    Antonio Barbaro riconosce il cadavere di Fat Joe Versace. Il documento riporta anche i suoi precedenti penali in Australia

    Scriva venne intercettato poco dopo a casa sua, intento a lavar via il sangue dai vestiti. Versace, dissero i tre calabresi, era notoriamente un poco di buono, un uomo violento e spesso in possesso di armi, era uno che portava guai. Tra le sue frequentazioni c’era Antonio Barbara(o). Sarà proprio lui, il Rospo, uscito dal carcere da poco in seguito alla sentenza per omicidio, a identificare Versace all’obitorio. Aveva lavorato con Versace e i due erano amici.

    Confessioni che non tornano

    Ci sono però varie cose che non tornano in questo caso. Innanzitutto, colpisce lo zelo delle confessioni: in quel periodo i calabresi, e gli italiani più generalmente, non erano molto in confidenza con le forze dell’ordine australiane; spesso vittime di discriminazione e ancora più spesso di pregiudizio, la comunità migrante era notoriamente reticente in quegli anni a collaborare con la giustizia, figuriamoci a farlo volontariamente. Inoltre, le confessioni sembrano in qualche modo artefatte, soprattutto perché non spiegano come sia stato possibile che, da una semplice lite tra due uomini, si fosse arrivati al corpo della vittima sfigurato, «con lo stomaco di fuori, e con larghe ferite sulla faccia e sulla testa», per citare le annotazioni dei detective. Queste ferite sanno di punizione precisa. E poi, il sangue trovato sugli abiti di Scriva e degli altri suggeriscono che probabilmente tutti i presenti erano intervenuti nella lotta.

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    Una foto scattata sulla scena del delitto

    Il Rospo, il Papa e la ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, che fosse un’escalation di violenza dovuta a una rissa per donne, o che ci fossero altre motivazioni alla base di tale lite, fatto sta che la presenza di Barbara(o) a sancire la morte di Versace non sembra casuale. Antonio Barbara(o) da lì a poco diventerà uno degli uomini più (ri)conosciuti dell’Onorata Società a Melbourne. Partner del capo Domenico Italiano, detto il Papa, e fino alla morte di entrambi nel 1962, questo gruppo mafioso cittadino sarà responsabile di una serie di eventi violenti, estorsivi, fraudolenti e legati a questioni di “onore” all’interno di una ristretta comunità di calabresi che lavorava nel mercato ortofrutticolo.

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    1962, I funerali di Domenico “The Pope” Italiano

    Alla morte di Italiano e di Barbara(o) e nel vuoto di potere che essi lasciarono, scatterà una guerra di mafia, meglio conosciuta come The Queen Victoria Market Murders – gli omicidi del mercato Queen Victoria. La ‘ndrangheta delle origini, dalla Re d’Italia, era ormai cresciuta. Ma questa, e per i decenni a venire, è un’altra storia.

  • Quadara, una lingua di rame a Dipignano

    Quadara, una lingua di rame a Dipignano

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    La quadara (il calderone) è una questione da prendere sul serio a Dipignano e in Calabria. Se non altro perché ospita la cottura di parti molto saporite del maiale, quadrupede culto e prelibatezza immancabile nella cucina e nell’immaginario dei suoi abitanti.
    Dipignano è sempre stato, nei secoli dei secoli, il paese dei quadarari, i calderai, maestri abilissimi nella lavorazione del rame. Probabilmente sin dal 1300.

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    Calderoni nella bottega-officina di Roberto Farno a Dipignano

    Roberto Farno: ultimo dei calderai di Dipignano

    Oggi cosa resta di questa antica tradizione? Non poco, nemmeno tanto. Innanzitutto le mani grandi e callose di Roberto Farno, ultimo superstite di un mestiere in estinzione. La sua bottega è a Motta, parte bassa del comune a pochi chilometri da Cosenza. Abbastanza lontano dalla città per raggiungere e superare i 700 metri di altitudine. Roberto si cimenta anche con il ferro, che gli è «costato tre ernie». I cancelli li fabbrica e poi li prende di peso. Alla lunga persino Ercole avrebbe qualche problema alla schiena.

    Suo padre è il “mitico” Franchino Farno. È stato calderaio, comunista e uomo incline all’ironia. Roberto ha appreso questa arte come i suoi fratelli più grandi, oggi «radiatoristi e meccanici alla Riforma», storico quartiere di Cosenza.
    Rame e stagno, eccoli i due metalli intrecciati in una lunga storia di fatica e passione. Roberto racconta l’apprendistato iniziato a 16 anni e le prime tappe. In giro per i paesi il padre e i fratelli preparavano un piccolo fuoco per fondere lo stagno in piazza. E lui richiamava l’attenzione «iettannu ‘u bannu», diffondendo la voce per le viuzze.

    Nell’economia domestica, fino a qualche decennio fa, non poteva mancare una quota da destinare all’involucro interno di pentole e calderoni. Oggi è tutto cambiato. In cucina il rame è utilizzato dai grandi chef. Il calore si diffonde in maniera uniforme a tutto vantaggio di una buona cottura. I costi, però, sono elevati. Roberto Farno ci parla del listino prezzi dei calderoni: per 80 cm di diametro in rame si spendono fino a 600 euro, in acciaio 250 e in alluminio appena 60. Ci sarà una ragione se il prezzo varia così tanto. Qualche commessa arriva da proprietari di ville e da chi ama creazioni uniche. Poca cosa ormai.

    Il museo del Rame

    Un pezzo di storia di Dipignano e dei suoi calderai vive ancora nel Museo del rame e degli antichi mestieri. È un viaggio a ritroso tra utensili e strumenti della bottega artigiana, fatiche e vita grama, oggetti quotidiani e libri. Compresi quelli scritti da Franco Michele Greco che ha ricostruito il cammino di una comunità.

    Il tempo dei calderai nel Museo del Rame e degli antichi mestieri a Dipignano (foto Alfonso Bombini)

    Ammascante, la lingua dei calderai

    I calderai erano un po’ alchimisti, custodivano gelosamente i segreti del mestiere. A tal punto da inventare una lingua, l’ammascante. Che significa, appunto: parlata mascherata. E i calderai erano mascheri, varvottari, erbari, mussi tinti. Tutti sinonimi.

    Esiste pure un vocabolario grazie alle ricerche del glottologo John Trumper e della linguista Marta Maddalon, entrambi professori dell’Università della Calabria. Oltre 400 lemmi catalogati e spiegati con tutta la ricchezza di idee che solo due studiosi così attenti potevano restituire e donare alla memoria collettiva. Parole di questa lingua hanno contaminato il gergo dei calderai sardi a Isili. E altrove. Segno che gli artigiani di Dipignano hanno girato in lungo e in largo per l’Italia nei secoli passati.

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    Franco Araniti, poeta che scrive pure in Ammascanti (foto Alfonso Bombini)

    Franco Araniti, poeta e scrittore di Gallico (Reggio Calabria), ha fatto tesoro di questo vocabolario. Arrivato a Dipignano per amore, non è più andato via. Uno “straniero” che scrive versi anche in ammascanti. Parole poi musicate dal Collettivo Dedalus in un album valso al gruppo musicale il secondo posto al prestigioso Premio Tenco.

    Araniti, da attento osservatore, ha notato come questa lingua sia sopravvissuta pure nelle comunità dipignanesi in Canada. Dove, prima dell’avvento di Watt’s up, si scambiavano sms farciti di ammascanti. Un piccolo matrimonio tra nostalgia del paese natale e tecnologia. Manca solo una quadara sul fuoco. Magari a Montreal o Toronto qualcuno in giardino non rinuncia al suo pezzo di Calabria. Alla sua porzione di frittole.

  • Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

    Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

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    Una citazione colta per iniziare: Orazio, riferendosi a certe abitudini dei Bruzi, parlava di «amores insanes caprini», cioè amori insani con le capre.
    Segno che lo sfottò terribile, «noi avevamo le terme quando voi vi accoppiavate con le bestie», non era solo un modo di dire.
    Anzi, certe forme di zoofilia sarebbero sopravvissute all’antichità e alle proibizioni del cristianesimo fino a poco tempo fa.

    Lo scrittore e i pastori

    Il protagonista di questa vicenda, che risale a una fredda serata d’inverno di fine’800, è Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore.
    Lo studioso, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo fu forse tra gli ultimi testimoni oculari di una farchinoria, ovvero di un’orgia tra i pastori e le loro pecore. Un nome bizzarro per una pratica bizzarra: parrebbe che farchinoria derivi dal latino farcino, riempire.

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    Percore al pascolo (olio su tela, XIX sec)

    Ma in che modo de Giacomo apprese di questa strana abitudine? Lo scrittore cita le testimonianze di Domenico Bascio e Nicola Svago, due anziani pastori che vivevano sulle pendici del Monte Cocuzzo. I due, in una serata di novembre 1891, gli avrebbero raccontato, anche con una certa nostalgia, dei loro svaghi di gioventù. Soprattutto della farchinoria…

    Monte Cocuzzo

    Coi suoi 1.541 metri, il Monte Cocuzzo è la vetta più elevata della Catena Paolana, la prima fascia dell’Appennino Calabro.
    È una montagna dalla classica forma di cono, che fa pensare a un’origine vulcanica. Per gli antichi, il Cocuzzo, coi suoi boschi fitti e oscuri, non era un luogo rassicurante. Lo fa capire lo stesso nome, che deriverebbe dal greco kakos kytos, pietra cattiva.
    Ma per i pastori calabresi di fine ’800 quei boschi erano un rifugio, dove agivano indisturbati.
    Al riparo di quelle stesse fronde, si sarebbe appostato anche de Giacomo, per spiare una farchinoria, nella notte di un 6 gennaio agli albori del ’900.

    Il festino

    I pastori riuniti attorno al fuoco cenano con una pecora arrostita, che hanno macellato in maniera a dir poco particolare.
    Le hanno infilato un palo nel retto e le hanno dilaniato le viscere per simulare un incidente. Così potranno dare una spiegazione al padrone, quando gli restituiranno la pelle dell’animale.
    Finito il pasto, innaffiato da abbondanti bevute, quattro giovani vestiti di pelli bianche e nere danno il via al festino, che comincia con una specie di corrida.

    Il dio Pan e la capra (gruppo marmoreo esposto nel Museo Nazionale di Napoli)

    I pastori fanno entrare un montone che, spaventato e infuriato, inizia a caricare i giovani. Stavolta non c’è nulla di cruento: i quattro provocano la povera bestia e ne schivano le cornate. Poi l’animale crolla sfinito e il gioco finisce.
    Anzi no: entra nel vivo.

    Amplessi bestiali sul Monte Cocuzzo

    A questo punto iniziano a suonare le zampogne e un pastore fa entrare sette pecore, agghindate con nastri e fiori.
    Alla corrida segue una specie di maratona: i quattro giovani possiedono ripetutamente le povere bestie. Come tutte le maratone, anche questa è una gara di resistenza: vince l’ultimo che cede. Per citare Highlander, ne resterà solo uno.
    Anche il pubblico, più che avvinazzato, si scatena. Alcuni si lasciano andare con le proprie compagne, altri fanno da sé.
    Infine, dopo tanta “fatica”, la stanchezza prende il sopravvento, protagonisti e spettatori si addormentano e la festa termina.

    Un giallo letterario

    Fin qui, la vicenda di cui Giovanni de Giacomo asserisce di essere stato testimone.
    Tuttavia, il pubblico ha appreso questa storia molti anni dopo.

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    Giovanni de Giacomo

    Infatti, risale al 1972 La Farchinoria. Eros e magia in Calabria, il libro in cui lo studioso racconta la sua esperienza di voyeur per amor di scienza. Intendiamoci: il Nostro aveva finito il manoscritto nel 1914, cioè quindici anni prima della morte (1929).
    Quindi parliamo di un testo rimasto inedito per 43 anni, che è riuscito a vedere la luce solo grazie all’interessamento di Paride de Giacomo, figlio di Giovanni e generale dei carabinieri, il quale consegnò il testo a un altro studioso, Raffaele Sirri.

    Come mai questo ritardo nella pubblicazione di una storia così interessante?
    A pensar male, si potrebbe ipotizzare che la farchinoria sia in buona parte una fake d’epoca. Oppure, con più credibilità, si può ritenere che forse gli ambienti scientifici dell’epoca non fossero pronti per questa scoperta.
    Ma quest’ultima ipotesi è davvero difficile: parliamo degli stessi anni in cui Lombroso teorizzava il delinquente e la prostituta per nascita e in cui la psicanalisi freudiana, piena di sesso fino all’orlo, si faceva strada nel dibattito scientifico.
    Oppure, più semplicemente, l’autore ha lasciato questo manoscritto nel classico cassetto per il timore di non essere creduto.

    Solo per amore

    Delle farchinorie, che si svolgevano tutti gli anni tra l’Epifania e la Quaresima, oggi si parla poco. Al riguardo, c’è chi si rifà al mondo arcaico. E c’è chi, invece, richiama le vecchie letture gramsciane, in una sorta di marxismo pecoreccio. Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla psicanalisi.
    Ma forse la verità è più semplice: i pastori calabresi amavano il loro duro lavoro. Molto e intensamente, più di quanto non si creda.

  • L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

    L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

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    Belmonte Calabro, la patria dei prestigiosi pomodori che si tagliano e si mangiano come se fossero bistecche, rivuole indietro le sue opere d’arte. Per ragioni sconosciute le hanno portate a Cosenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Forse per avviarne i restauri, che poi si sono rivelati infiniti, forse per motivi di sicurezza, oppure per entrambe le cose. Fatto sta che le chiese di Belmonte Calabro sono state spogliate e chiuse, eccetto le parrocchie più grandi.

    «L’idea è di far rientrare la cittadina negli itinerari artistico-religiosi», spiega Stefania Bosco, storica dell’arte e restauratrice diagnosta, che dirige il “progetto Belmonte”. «Speriamo di poter riaprire tutte le chiese e di poter restituire loro le opere sottratte». Dovrebbero essere una ventina in tutto, disseminate tra i magazzini della Soprintendenza e della Curia.
    A giorni è attesa un’Annunciazione che recenti studi attribuiscono ad Antonello da Messina, mentre nel duomo sono stati appena recuperati due dipinti del Settecento a spese di un gruppo di belmontesi. A pilotare l’operazione dal basso, con una raccolta di fondi, è stata l’associazione Arte e bellezza, presieduta da Filippo Verre, a lungo medico di famiglia.

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    L’associazione Arte e bellezza festeggia il restauro dei due dipinti del ‘700

    La tavola preziosa che torna dopo quarant’anni

    Il ritorno del dipinto dell’Annunciazione è previsto proprio in questi giorni. Dopo quarant’anni, la tavola del Quattrocento sta per lasciare la Soprintendenza di Cosenza per rientrare a casa. Come Ulisse ad Itaca, come una parente amatissima partita tempo fa e attesa in patria. Un’opera di originale stile compositivo e ricca di simbolismi.
    Quando è stata portata via dalla deliziosa chiesa della frazione dell’Annunziata, si pensava che il suo autore fosse Pietro Befulco. E invece no, non è più cosa certa. Potrebbe essere di Antonello da Messina, il maestro meridionale che ha fuso l’arte italiana con quella fiamminga e che ha creato dipinti mozzafiato reinventando spazio e luce, come la Crocifissione e San Girolamo nello studio conservati nella National Gallery di Londra.

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    L’Annunciazione di fine XV secolo a Belmonte Calabro

    «È un’opera bellissima, una delle più importanti che abbiamo in Calabria, di una fattura molto raffinata. Il supporto è assai povero, una tavoletta di pessima qualità, ma la preparazione della stessa è straordinaria», spiega Stefania Bosco. E come se l’autore avesse raccolto un pezzo di legno qualsiasi per dipingerci sopra. Un supporto di fortuna che nel tempo è stato attaccato dai parassiti e che, per via della fragilità, ha messo a dura prova i tecnici durante le fasi di recupero. «Ma si è capito da subito – aggiunge, – che la scuola e il livello dell’artista erano molto alti».

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    I restauratori al lavoro. In primo piano, Stefania Bosco

    Vuole questo regalo per Natale il sindaco Roberto Veltri. La Soprintendenza ha richiesto standard di qualità e sicurezza molto precisi per poter riconsegnare l’opera. Lui, con il suo staff, grazie a fondi comunali e alla donazione di un imprenditore locale, ha predisposto «una stanza del Comune, dotandola del sistema d’allarme richiesto e di un dispositivo di controllo di temperatura e umidità. Abbiamo reso adatto l’ambiente per la buona conservazione dell’opera al suo rientro».

    C’è fermento nel centro storico di Belmonte

    Anche don Giuseppe Belcastro, responsabile delle chiese della cittadina, si sta dando da fare per riportare l’arte sacra nel borgo. «Iniziamo a vedere qualche risultato con il restauro dei due dipinti e il ritorno della tavola. È un primo importante passo, poi bisognerà impegnarsi per riavere tutto il resto. Grazie all’impegno competente e appassionato di Stefania Bosco il progetto Belmonte ha avuto una accelerata».
    È candidata ad ospitare un piccolo museo la chiesa dell’Immacolata, all’ingresso del centro storico. Risale al 1622 e ha un affascinante portale tardo rinascimentale. È stata recuperata in parte, ma ha ancora bisogno di interventi.

    «Siamo riusciti a restaurare tutti gli affreschi dell’abside e l’altare maggiore, grazie a una fusione di forze tra l’università, il Comune, la Curia, la Soprintendenza di Cosenza e le associazioni culturali San Martino e Barrueco», racconta ancora la Bosco, che lavora al progetto da un po’ di anni. Ha diretto i lavori di recupero dei due dipinti del Settecento del duomo e ha restaurato l’interno dell’Immacolata. Insieme a lei, la collega Donatella Barca e studenti dell’Università della Calabria. La chiesa è diventata un cantiere didattico prima della pandemia. Sette studenti del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Università della Calabria, hanno pulito le superfici decorate, hanno stuccato, integrato la pittura, rifinito con gli strati di protezione.

    Il duomo di Santa Maria Assunta è anche nel centro storico. Sta accogliendo gruppetti di viaggiatori dalla fine di novembre, da quando la pala d’altare e L’ultima cena sono tornati ad antico splendore. L’Assunzione, del 1795, è del pittore di Borgia Francesco Basile. L’ultima cena è un’opera del pugliese Nicola Menzele, formatosi nella bottega partenopea di Francesco De Mura.
    «Siamo rimasti molto soddisfatti, non soltanto noi dell’associazione ma anche la cittadinanza», dice il dottore Verre, che è uno dei duemila abitanti del borgo, dove è rimasto a vivere dopo il pensionamento.

    Non solo Belmonte: la regione delle “invasioni” artistiche

    Come tutta la Calabria, Belmonte ha ospitato artisti di diversa provenienza «Non esiste una scuola calabrese, i nostri artisti, come Mattia Preti, Pietro Negroni, Marco Cordisco, per formarsi sono andati in altre regioni», racconta ancora la direttrice del progetto. «La Calabria esprime un’arte contaminata da culture diverse, che abbiamo assorbito e fatto nostre. E questo può essere anche un punto di forza».

    Non desta quindi meraviglia un’apparizione del grande Antonello da Messina a Belmonte. Alla Pinacoteca comunale di Reggio Calabria, lo scorso anno, sono rientrate due tavolette a lui attribuite e che raffigurano San Girolamo penitente e La visita dei tre angeli ad Abramo .
    Che Antonello è ad Amantea, a pochi chilometri da Belmonte, nel 1460, è attestato da un documento. Quell’anno il padre Giovanni affitta un brigantino e si dirige proprio sulla costa tirrenica cosentina. Sul piccolo veliero salgono l’artista, sua moglie, i figli, la servitù. Un trasloco dopo un periodo trascorso in Calabria?
    La città di Belmonte non si pone domande. Aspetta la sua Annunciazione. Ci sarà tempo per i certificati di paternità, «l’importante – dice il primo cittadino – è che torni a casa».

  • Giovanni Parisi, il campione dimenticato

    Giovanni Parisi, il campione dimenticato

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    Siete mai stati terroni? Il vibonese Giovanni Parisi una volta sì, quando era povero. Poi, veloce come i suoi pugni, è diventato un campione, uno dei più grandi che lo sport italiano abbia mai avuto. E più veloce ci ha lasciati, schiacciato tra le lamiere lungo le strade di Voghera, la città che lo aveva adottato. Aveva 42 anni. Lassù, nella provincia pavese dove il piccolo emigrante calabrese aveva trovato in palestra il rifugio dalle frecciate degli altri ragazzi sulle sue origini, Giovanni Parisi è ancora un eroe.

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    Giovanni Parisi, oro olimpico a Seoul ’88 tra i pesi piuma

    Oggi invece, pochi giorni dopo quello che doveva essere il suo 55esimo compleanno, di lui nella sua Calabria, nella sua Vibo, non restano che qualche sparuta traccia e sbiaditi ricordi. Eppure di questa terra – che oggi prova con dubbia grazia a intestarsi un briciolo dei successi di Marcell Jacobs celebrandone le estati rosarnesi – Giovanni Parisi resta il solo ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi moderne. Non solo: insieme a Nino Benvenuti e Patrizio Oliva (trionfatore però nell’edizione “dimezzata” di Mosca ’80) è l’unico pugile italiano ad avere aggiunto nella propria bacheca anche la cintura di campione mondiale, una volta passato tra i professionisti. Parisi di titoli iridati ne ha conquistati due, in altrettante categorie di peso differenti.

    Un precedente illustre

    Già, le Olimpiadi moderne. In quelle antiche, infatti, la Calabria se la cavava alla grande, tanto da potersi vantare di aver dato i natali a Milone da Crotone, probabilmente il più grande lottatore della sua epoca. Un uomo dall’appetito leggendario, come Michael Phelps, e che proprio come il plurimedagliato nuotatore statunitense aveva fatto incetta di allori olimpici imponendosi in sette edizioni tra il 540 e il 512 avanti Cristo.

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    La statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

    Di omaggi a Milone, però, il mondo è pieno. La Coca Cola gli ha dedicato una cartolina inserendolo tra i grandi campioni della storia delle Olimpiadi. C’è una città nel Maine (USA) che porta il suo nome. Senza contare la statua di Puget al Louvre oppure quelle nello stadio di Olimpia e nello stadio dei Marmi a Roma. O, ancora, il fatto che a citarlo nelle loro opere ci siano autori del calibro di Shakespeare, Rabelais, Dumas padre e Balzac. E come si chiama uno dei principali appuntamenti per gli appassionati di lotta greco-romana? Trofeo Milone. Giovanni Parisi, invece, di tributi, specie in Calabria, non ne ha mai ricevuti abbastanza. Né dopo la morte, sic transit gloria mundi, né quando la sua stella brillava sotto i riflettori al centro del ring.

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    Un cartello di benvenuto a Milo (USA)

    Da Vibo a Voghera

    Giovanni Parisi nasce a Vibo il 2 dicembre del 1967 ma l’abbandona ancora bambino; sua madre Carmela vuole lasciarsi alle spalle un marito uccel di bosco e cercare fortuna al Nord. Ci prova prima a Pavia, poi a Voghera. Carmela non gode di buona salute ma si ammazza di lavoro, dovunque lo trovi, per sfamare i suoi tre figli. Gli anni ’70 passano e Giovanni ha sempre meno voglia di trascorrerli tra i banchi. Irrequieto, diffidente, non esattamente il beniamino di tutti a causa delle sue origini e delle ristrettezze economiche. Una volta salta fuori dalla finestra della scuola (per fortuna la classe è al pian terreno) per darsi alla fuga. Il modo di scappare da quella vita lo trova nella boxe, sport di poveri per poveri.

    È il 1980 quando in palestra arriva quel ragazzo mingherlino, meno di cinquanta chili su un corpo sempre pronto a scattare. L’allenatore Livio Locarno, che negli anni successivi diviene quasi il padre mai avuto prima, lo chiama “nano” per temprarlo. Ma capisce presto che ha davanti uno di quei treni che, se va bene, passano una volta sola nella carriera. Il “nano” in realtà è un gigante. Di più: un campione. È velocissimo, disposto al sacrificio, con tanta fame e nessuna paura. E ha qualcosa che non tutti i pugili, anche tra i migliori, hanno: un pugno da K.O.

    Lacrime e ananas

    L’unica cosa che sembra poter fermare il ragazzo è l’ansia, che gli manda lo stomaco in subbuglio a ridosso di ogni incontro. Risolverà tutto con un semplice cracker mandato giù negli spogliatoi prima di infilare i guantoni. Da quel momento la strada per Giovanni Parisi si mette in discesa. Nel 1985 è campione italiano tra i piuma, titolo bissato un anno dopo tra i leggeri. Quando le Olimpiadi di Seoul si avvicinano, però, si rompe il metacarpo di una mano. È fuori dalla selezione azzurra in partenza per la Corea del Sud.

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    La nazionale italiana di boxe in partenza per Seoul ’88

    Ritroverà un posto solo grazie a un infortunio identico al suo occorso al collega Cantarella. Ma Franco Falcinelli, il selezionatore della delegazione italiana, non vuole che partecipi nella sua categoria abituale. Per il c.t. la concorrenza lì è troppa, Giovanni Parisi deve dimagrire per tornare tra i pesi piuma, pena l’esclusione dalla squadra. Inizia una corsa contro il tempo: sacrifici, sudore e tonnellate di ananas per tenersi in forza ma perdere peso. Poi, improvvisa, la morte di mamma Carmela. Parisi, distrutto dal dolore, si mette in testa di dover vincere per lei, per restituirle tutto quello che gli ha dato. E si presenta puntuale e in forma smagliante all’appuntamento con la Storia.

    Il bambino d’oro: Giovanni Parisi diventa Flash

    I Giochi dell’88 rappresentano una delle pagine più buie di quel grande romanzo sportivo che è la Boxe. Restano negli annali per l’oro scippato al leggendario Roy Jones Jr, che dopo aver massacrato per tutto l’incontro il suo avversario Park Si-Hun, vede i giudici assegnare il match all’incredulo e malmesso pugile di casa. Ma nessuno può battere Giovanni Parisi, non ancora ventunenne, in quei giorni.

    Il vibonese elimina gli avversari uno dopo l’altro. E quando sale per l’ultima volta sul ring gli bastano un minuto e 41 secondi per chiarire chi sia il campione. Il suo sinistro d’incontro si abbatte come un fulmine sul romeno Daniel Dumitrescu, che non riesce a rialzarsi. Con quel pugno a velocità supersonica Parisi fa suoi l’oro e un soprannome che si porterà appresso per il resto della carriera: Flash. Giovanni festeggia con una capriola poi le prime parole, i primi pensieri, sono per Carmela. E da quel giorno ogni volta che entrerà tra le sedici corde avrà al collo una mezzaluna d’oro su cui ha fatto incidere il nome della madre e la scritta “Seoul 88”.

    Flash in America

    È ora di passare tra i professionisti. E Parisi anche lì fa scintille. Il primo incontro senza caschetto lo disputa nel 1989 proprio in Calabria, nell’ex Cgr di Melito Portosalvo, a rimarcare il legame indissolubile con la sua terra natia. Tre riprese e l’americano Kenny Brown finisce K.O.
    Il titolo mondiale, invece, se lo aggiudica nella sua città d’adozione: il 25 settembre 1992 a Voghera manda a tappeto Francisco Javier Altamirano. La cintura di campione del mondo Wbo dei pesi leggeri è sua. La difende due volte, poi decide di lasciarla per passare tra i superleggeri.

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    Altamirano va giù e non si rialza, Parisi è campione mondiale

    Vuole l’America, si trasferisce lì, entra a far parte della scuderia di un altro mito della boxe (e della truffa): Don King. Il promoter dai capelli elettrici in quegli anni è il dominus della Noble art e gli organizza la sfida dei sogni: a Las Vegas Giovanni Parisi proverà a strappare la cintura Wbc nientepopodimeno che a Julio Cesar Chavez. Il Toro di Culiacàn si rivelerà un osso troppo duro per lui. Parisi resta in piedi fino all’ultimo, ma la sconfitta ai punti è l’unico verdetto possibile. L’appuntamento col secondo titolo mondiale, però, è solo rimandato.

    Giovanni Parisi torna in Calabria: la bomba a Vibo

    Parisi torna in Europa e nel 1996 a Milano si prende la cintura Wbo dei superleggeri sconfiggendo il portoricano Sammy Fuentes. Decide di difenderla nella sua Calabria, in quella Vibo che ha dovuto lasciare da piccolo. L’accoglienza non è esattamente quella che si riserva al figliol prodigo. Le operazioni di peso si svolgono nell’Hotel 501, ma pochi minuti dopo a due passi dalla hall scoppia una bomba. «È il racket, escluso dall’incontro, che ha voluto farsi sentire in maniera rumorosa? O una premessa estorsiva ai titolari del grande albergo?», chiede Pantalone Sergi dalle colonne di Repubblica. Domande che resteranno senza risposta.

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    Il manifesto dell’incontro, poi spostato, in piazza San Leoluca a Vibo

    Non è l’unico problema da affrontare per Parisi in quei giorni. Monsignor Onofrio Brindisi, parrocco del duomo cittadino, ha costretto gli organizzatori a spostare l’incontro da piazza San Leoluca alla periferia di Vibo. Secondo il prelato, disputarlo di fronte a una chiesa profanerebbe la sacralità del luogo. «Un’offesa alla cristianità? Spero – commenta Parisi – di far cambiare idea a monsignore. Vibo Valentia è la mia città natale e avevamo pensato di valorizzarla facendo ammirare in televisione le sue bellezze artistiche». Sarà per un’altra volta. Parisi sconfigge comunque l’inglese Nigel Wenton e festeggia tra i suoi corregionali. Sul ring dalle nostre parti, però, non risalirà più.

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    Giovanni Parisi festeggia la difesa del titolo sul ring di Vibo

    Il lungo addio

    Negli anni a seguire il pugile calabrese difende la cintura altre cinque volte, prima di doverla cedere al messicano Carlos Gonzalez. Prova a riprendersene una un paio d’anni dopo passando tra i welter, ma perde la sfida decisiva contro il portoricano Daniel Santos. Poi i problemi a quella mano che rischiavano di fargli perdere le Olimpiadi dell’88 ritornano, costringendolo a restare lontano dal ring per un paio d’anni. Annuncia più volte il ritiro, poi torna sempre, spinto dalla passione. Ha un’ultima grande chance, prendersi il titolo europeo dei welter contro il francese Frederic Klose. Subisce una batosta, le immagini di suo figlio che piange a bordo ring conquistano le pagine dei giornali. E lui, dicendo addio a quella boxe che gli aveva dato tutto strappandolo alla povertà, dedica al bambino una struggente lettera dalle colonne della Gazzetta dello Sport. È il 2006.

    Nemo propheta in patria: la Calabria e Giovanni Parisi

    Il 25 marzo del 2009 sulla circonvallazione di Voghera una BMW si schianta poco prima dell’ora di cena contro un furgone. Tra i rottami dell’auto c’è il corpo di Giovanni Parisi. Lì dov’era stato terrone, ora tutti piangono quello che considerano da tempo il loro campione. Danno il suo nome allo stadio e nel decennale della sua morte gli dedicano, col supporto della Rosea, una statua che lo ritrae mentre esce da una pagina del giornale per sferrare uno dei suoi formidabili pugni.

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    Voghera, la presentazione della statua dedicata a Giovanni Parisi

    Vibo, invece, fatica a ricordarlo. Ci provano i tifosi, che di recente hanno realizzato anche un bel documentario dal titolo Flash – La storia di Giovanni Parisi, un po’ meno le istituzioni locali. Certo, c’è ancora la decrepita targa che ricorda l’intitolazione di una struttura nel 2011 al pugile scomparso. Deserta la messa celebrata in suo onore nel 2016. A fine 2020 dal Comune arriva l’annuncio che, su proposta del pentastellato Marco Miceli accolta all’unanimità dagli altri consiglieri, una delle tredici “via Roma” presenti in città diventerà “via Giovanni Parisi”. Due anni dopo pare siano ancora tutte e tredici lì. Quella strada, dichiarava Miceli, avrebbe dovuto «essere da esempio e da stimolo per le nuove generazioni vibonesi, affinché credano nei propri sogni, trovando la forza di non mollare mai». Forse conviene la cerchino altrove, a Voghera magari.