È un pamphlet dal titolo secco ed evocativo, In Calabria, scritto da Cesare Lombroso nel 1897. Il libretto è stato riedito nel 2009 da Rubbettino e riproposto, in ristampa anastatica (cioè tal quale all’originale ottocentesco) da Local Genius alcuni mesi fa.
Come mai ancora tanto interesse per uno studioso superato, che, al massimo, può sollevare qualche curiosità come pioniere della criminologia e poco nulla più?
Soprattutto, come mai tanto interesse per Lombroso in Calabria e da parte di editori calabresi?
Il precursore del meridionalismo
La risposta è semplice ma non banale: In Calabria è l’edizione in libro del diario tenuto da Lombroso nel 1862, quando per alcuni mesi il papà dell’antropologia criminale visitò il Reggino.
Cesare Lombroso nel suo studio in una stampa d’epoca
Il Lombroso dell’epoca è un medico di 28 anni specializzato in igiene e aggregato al Regio Esercito durante i primi anni di occupazione dell’ex Regno delle Due Sicilie. È inoltre un laico di orientamento socialista con una spiccata sensibilità sociale.
Prima di arrivare in Calabria, il giovane studioso si era occupato dellapellagra, che tormentava i contadini del Nord. Anche da noi si sofferma tantissimo sulle condizioni della popolazione. Con un risultato: anticipa di almeno dieci anni la questione meridionale.
Questione di date
Un problema dei meridionali è non saper dare un nome ai propri guai.
Infatti, l’espressione Questione Meridionale è stata coniata da Antonio Billia, giornalista e deputato lombardo, nel 1873.
Invece, il rapportocon cui Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti inaugurano il filone classico del meridionalismo risale al 1876. Lombroso, che pubblica una prima versione dei suoi diari nel 1863 come reportage per Rivista Contemporanea, li precede di un bel po’: denuncia la pessima situazione degli strati bassi del Sud, l’abbandono dei territori e gli abusi delle classi dominanti.
Niente più e niente meno di quel che avrebbe fatto Gaetano Salvemini più di cinquant’anni dopo.
Sidney Sonnino (a sinistra nella foto)
L’indice puntato
Il Lombroso del 1862 ancora non si occupa di criminali. Né coltiva pregiudizi contro i meridionali. Ma c’è da dire che neppure il Lombroso di dopo li avrebbe coltivati.
Allora, di cosa parla il celebre scienziato veronese nel suo pamphlet?
In pratica, denuncia l’arretratezza delle popolazioni, la forte disparità nella distribuzione delle ricchezze, la miseria e l’ignoranza diffusa. Edice e scrive tutto ciò che può scrivere un intellettuale progressista dell’epoca. Ma lo fa prima degli altri.
Tuttavia, in Lombroso l’antropologo convive col medico. Perciò una buona fetta del suo diario è dedicata all’elogio della creatività dei calabresi e delle loro culture particolari, in particolare quella grecanica e quella albanese.
Lombroso razzista?
Pazienza se, qui e lì, ci scappa qualche espressione oggi politicamente scorretta (la vecchia contrapposizione, per capirci, tra “africani”, “ariani” e “semiti”): era la cultura dell’epoca, diffusa tra tutti gli antropologi.
Ma una cosa è sicura: Lombroso (che tra l’altro era di origine ebrea) non è un razzista né, tantomeno, ha tentato di fornire basi scientifiche al pregiudizioantimeridionale.
Questo esisteva già. E, per quel che riguarda il razzismo scientifico, bisogna cercare altrove.
Ufficiali del Terzo Bersaglieri di stanza in Calabria nel 1
L’equivoco
Come ha chiarito l’antropologa Maria Teresa Milicia nel suo Lombroso e il brigante (Roma, Salerno 2014), il papà del razzismo antimeridionale con pretese scientifiche è il siciliano Alfredo Niceforoche, suggestionato dalla teoria lombrosiana, ne tenta una lettura in chiave “razziale”.
Per Lombroso gli uomini possono essere delinquenti per nascita, a prescindere dall’etnia di appartenenza. Niceforo va oltre: secondo lui ci sono popoli geneticamente delinquenti: gli italiani del Sud e i sardi, per esempio.
Un cranio made in Calabria per Lombroso
È noto che Lombroso elaborò la propria teoria dopo aver esaminato il cranio di un pastore calabrese: Giuseppe Villella, morto di malattia nel carcere di Pavia, dov’era recluso in seguito a una denuncia per furto.
Ma (e lo ha confermato anche un discendente di Villella), dalla calabresità di Villella non si può derivare in alcun modo l’equazione calabrese uguale ladro o assassino.
Villella, in altre parole, poteva essere anche nordamericano, slavo o cinese: ciò che secondo Lombroso lo rendeva delinquente era una piccola malformazione cranica (la fossetta occipitale mediana), non la “razza”.
Il cranio di Giuseppe Villella
La teoria di Lombroso e la Calabria
L’uomo delinquente, uscito in più edizioni e ristampato nel 2013 da Bompiani, è l’opera più importante e più indigeribile di Lombroso: un mattone di 2.138 pagine, che diventano 4mila e rotte nell’edizione digitale. Il classico libro più citato che letto.
Eppure, a scavarvi un po’ dentro, ci si accorge che la Calabria non è in cima alle preoccupazioni criminologiche dello scienziato.
Al contrario: la parola Calabria appare solo 27 volte e mai per “inchiodare” il territorio a pregiudizi.
Prostitute, assassini e promiscui
Nelle pagine de L’uomo delinquente, c’è, ad esempio, la comparazione tra le caratteristiche anatomiche di una prostituta di Reggio Calabria con quelle di una collega di Milano (che risultano simili).
Oppure si scopre che il numero di infanticidi commessi in Calabria è uguale a quello del Piemonte.
Ancora: a proposito di omicidi, si scopre che i calabresi accoltellano di più e i piemontesi preferiscono l’avvelenamento. Poi c’è un dato curioso: Cosenza, secondo le ricerche di Lombroso, era in cima alla lista per i comportamenti illeciti a sfondo sessuale, inclusa la prostituzione.
In tutto questo, il pregiudizio antimeridionale dov’è?
Il Museo Lombroso di Torino
Niceforo, un allievo imbarazzante
Lombroso ripubblica nel 1897 il suo diario militare giovanile con l’aiuto di Giuseppe Pelaggi, un medico di Strongoli.
Il perché di questa tardiva operazione editoriale è chiaro: Lombroso, preso di mira dai meridionalisti, deve un po’ sbarazzarsi dell’ingombrante paragone con Niceforo, che a fine Ottocento impazza col suo La delinquenza in Sardegna.
Ed ecco che il professore di Torino riscopre il suo passato di meridionalista, tra l’altro mai rinnegato né sconfessato dalla sua produzione matura.
Il pregiudizio antilombrosiano
Semmai, il pregiudizio vero resta quello contro Lombroso, riesploso all’inizio del decennio scorso, in seguito all’apertura di un Museo a lui dedicato presso l’Università di Torino.
Sull’argomento è tornato di recente Dino Messina. La firma storica del Corriere ripercorre, nel suo La storia cancellata degli italiani (Solferino, Milano 2012), la vicenda un po’ comica di alcuni gruppi di revisionisti “antirisorgimentali” che hanno tentato di far chiudere il Museo.
Ma tant’è: ognuno ha la sua cancel culture. Chi ha subito il colonialismo prende di mira la cultura occidentale. Chi, invece, è stato vittima della propria arretratezza, parla a vanvera. A ciascuno il suo.
Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.
Quartetto d’Archi
Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di donMico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.
Arresto di Mico Tripodo (a destra, in primo piano)
Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.
I rapporti di Paolo De Stefano
‘Ntoni Macrì
Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.
Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
Nero di Calabria
De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alladestra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.
Il potere di Paolo De Stefano
Giorgio De Stefano, fratello di Paolo e suo predecessore ai vertici dell’omonimo clan
All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.
De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.
Il braccio armato della Madonna
All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.
L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».
Gli equilibri in riva allo Stretto
Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.
Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».
Autobomba e moto
Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.
Orazio De Stefano
Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.
Il racconto del collaboratore
È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».
Pasquale “il Supremo” Condello
«Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».
La morte di Paolo De Stefano
La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.
È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.
Archi, Reggio Calabria
Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.
La guerra di ‘ndrangheta
Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.
L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti
Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.
Mancava fino a poco tempo fa. Ma da ottobre dello scorso anno anche la Presila cosentina ha la sua sezione dell’Anpi, associazione nazionale partigiani d’Italia. Il presidente è Massimo Covello, ex segretario regionale della Fiom. Adesso è il responsabile dell’ufficio studi Formazione e Archivio storico della Cgil. A I Calabresi spiega perché questo territorio ha bisogno di riannodare il suo legame con la Resistenza.
La Presila ha un deficit di memoria storica?
«È stata una delle aree calabresi a più alta intensità di lotta sociale e di protagonismo antifascista. E non solo. Tornerei indietro al pensiero garibaldino e alla lotta dei briganti traditi dalla unificazione dello Stato nazionale, elemento che ha visto crescere tra le masse diseredate uno spirito di lotta. Purtroppo la memoria è un po’ sbiadita in questi anni».
Molti ritengono, anche a sinistra, che l’Anpi sia anacronistica?
«Non condivido per nulla chi ha un pensiero di questo tipo. C’è sempre tempo per essere partigiani. Significa aderire a una lezione etica e politica che sta dentro i valori della Costituzione. L’Anpi oggi è un soggetto che deve e può essere rafforzato con una visione moderna e prospettica. C’è bisogno di difendere valori come la libertà, l’inclusione, la valorizzazione delle differenze».
Non è una battaglia di retroguardia?
«Restano sempre meno, purtroppo, le persone che hanno condotto in prima persona la lotta partigiana. La realtà ci insegna che la lezione di questa lotta – pluralismo, democrazia, libertà – non sono venuti meno. Anzi, il fatto che negli anni recenti sia entrato in un cono d’ombra l’antifascismo e abbia prevalso un revisionismo carico di un lettura distorta della storia, ha prodotto e sta producendo risultati e fenomeni negativi».
Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio
Quanti conoscono una figura come Cesare Curcio?
«Non solo Cesare Curcio (che nascose Pietro Ingrao). Penso a Edoardo Zumpano, Salvatore Martire, Luigi Prato. Tutti espressione della lotta partigiana qui in Calabria. Senza dimenticare due militari come Filippo Caruso e Mario Martire che, nell’esercizio delle loro funzioni, anche prima dell’8 settembre decidono di schierarsi dalla parte dei resistenti all’occupazione nazifascista».
C’è stato un antifascismo “minore” al Sud?
«Gli studi storici più recenti hanno dimostrato che non è vero. Poi è ovvio che lottare contro il Fascismo ha significato in alcuni luoghi imbracciare le armi e unirsi alla lotta partigiana, in altri resistenza per l’affermazione di alcuni valori. Noi abbiamo confinati politici per avere mostrato la loro estraneità e contrarietà al regime di Mussolini. A Casali del Manco c’è stata una cellula molto forte della Resistenza. Che era trasversale: comunista, socialista, in alcuni frangenti anarchica, anche bordighista e cattolica».
Poi, improvvisamente, cosa è cambiato?
«Possiamo individuare una data: il 1989 e il crollo del Muro di Berlino. Da lì c’è stato un revisionismo anche a sinistra quasi come se ci fosse una colpa da espiare. Con una interpretazione della storia assolutamente inaccettabile. Le conseguenze sono ben visibili. Comprese le istituzioni locali della Presila vocate a un approccio governista dei problemi, svendendo quei valori di riscatto sociale cari alla generazione dei vecchi gruppi dirigenti.
Mi vengono in mente Rita Pisano, Pietro D’Ambrosio, Peppino Viafora, Oscar Cavaliere, Eleandro Noce. Anche nella loro storia amministrativa erano ancorati a quella cultura della politica come servizio e riscatto sociale. Invece negli ultimi anni l’obiettivo è stato l’occupazione del sistema istituzionale. E la classe politica locale e regionale? Indifferente ai destini collettivi».
E la destra ormai è entrata nella ex fortezza rossa
«Addirittura una delle candidate più votate è una leghista, una delle forze con più consensi è Fratelli d’Italia. Casali del Manco rischia di essere una palude in cui tutte le idee sono uguali. Si è tutti gli stessi e l’unica cosa che conta è l’intercessione per avere accesso a benefici privati invece di promuovere benefici collettivi».
Un assessore regionale leghista, che smacco per la sinistra?
«Questa è la conferma della confusione e del grande smarrimento. Che io leggo come una responsabilità storica di quei partiti che, a parole, dicono di rifarsi alla storia della Resistenza. Poi come sia arrivata a diventare assessore la dottoressa Staine è questione politicista. Il suo legame con il territorio non esiste se non per essere nata a Celico e avere origini pedacesi».
Emma Staine
In pochi hanno trovato spazio nelle istituzioni?
«Sono stati consiglieri regionali Enzo Caligiuri, Ciccio Matera e Giuseppe Giudiceandrea. Il problema non sono gli uomini e le donne, ma le idee per cui ci si impegna in un percorso. L’Anpi nasce qui per dire alle giovani generazioni che questa storia oggi sbiadita e messa in disparte merita di essere riportata in auge, valorizzando il patrimonio accumulato nella Biblioteca Gullo, nel Fondo storico Curcio, Zumpano, Malito. Sono patrimoni librari e documentali misconosciuti. Il nostro intento è metterli in circuito, coinvolgere le scuole in un lavoro di approfondimento e ricerca».
Lo studio di Fausto Gullo nella casa-museo che ospita la biblioteca omonima a Macchia nel Comune di Casali del Manco
Le elezioni si avvicinano e l’Anpi Presila che farà?
«L’Anpi da statuto non sarà della partita elettorale. Noi vogliamo dare un contributo alla comunità con idee, teorie, valori. Certo, sarebbe una contraddizione se uno si iscrive all’Anpi Presila e poi concorre con Fratelli d’Italia o con la Lega. Intanto siamo in prima fila per la raccolta firme contro l’autonomia differenziata. In quello saremo parte della lotta, eccome».
Nella storia della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo, la Chiesa ha sempre valorizzato l’opera di evangelizzazione dei missionari.
Sacerdoti e religiosi di ogni rango sono consacrati nel racconto ufficiale ,inserito nella storia della nascita del Nuovo Mondo.
Tra i personaggi più celebrati di questa schiera, c’è padre Bernard Boyl, dell’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola.
Padre Boyl nel ricordo di Giovanni Paolo II
Padre Boyl partecipò al secondo viaggio dell’ammiraglio, iniziato il 25 settembre del 1493, su comando dei reali di Spagna.
Il 1979 in America Latina, il pontefice Giovanni Paolo II rese omaggio a questi “apostoli” nel suo sbarco «sulla rotta – come disse a Santo Domingo – dei primi evangelizzatori del nuovo continente, di quei religiosi che vennero ad annunziare Cristo Salvatore, a difendere la dignità degli indigeni, a proclamare i loro inviolabili diritti, a favorire la loro integrale promozione, ad insegnare la loro fratellanza come uomini e come figli del medesimo Signore e Padre, Dio».
Il ritratto di padre Bernard Boyl
Il racconto di Rosselly de Lorgues
Ma le cose forse non andarono proprio così. E tra l’esaltazione enfatica di queste “conquiste” e la storia riletta in un’ottica diametralmente opposta, ancora oggi le distanze rimangono incolmabili. Come se ci fossero due verità diverse. Una la racconta il conte francese Rosselly de Lorgues in un libro del 1856, Cristoforo Colombo-Storia della sua vita e dei suoi viaggi che poggia su «documenti autentici raccolti in Ispagna ed in Italia». L’autore tenta, come riporta la prefazione, «di adempiere ad un atto di giustizia riparatrice pubblicando la storia esatta di questo gran Servo di Dio». Questo libro sembra l’ennesimo “romanzo” di una vicenda fin troppo conosciuta e celebrata.
Il libro del conte francese
Uno scambio di persona
Ma così non è: de Lourges fu avallato da Papa Pio IX, il quale gli scrisse in una lettera del 1851, di apprezzare lo sforzo «di proteggere la gloria del primo cattolico che piantò la croce in quelle lontane spiagge, e divulgò il nome del Redentore».
La versione del secondo viaggio di Colombo in America, fornita da de Lorgues sulla base di una documentazione corposa, ribalta del tutto la storiografia “ufficiale” sul ruolo determinante di padre Boyl nella conversione degli indios.
Anche perché il Boyl di cui parla il conte, non era un seguace di San Francesco di Paola, bensì un benedettino suo omonimo. Questo Boyl aveva preso il posto dell’originale all’ultimo momento a causa di un fraintendimento sulle sue generalità sorto tra papa Alessandro VI e i sovrani di Spagna. Fu insomma uno scambio di persona.
Un missionario in America Latina
Padre Boyl secondo la Chiesa
Questo mistero, mai indagato a fondo, emerge oggi dalla lettura di questo testo “occultato” e mai citato in nessuna bibliografia.
Il libro di de Lorgues pone dubbi che solo una seria ricognizione potrà chiarire.
Ma prima di esaminare le parti che riguardano l’identità di padre Boyl, è opportuno un accenno biografico su colui che per la Chiesa è il primo apostolo di Cristo in America. Le fonti che si riportano, molto simili tra loro, provengono da pubblicazioni religiose.
Si sa che padre Bernard Boyl era di originetarraconense e venne scelto da Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, in occasione del secondo viaggio di Cristoforo Colombo per la evangelizzazione del nuovo mondo «sia per motivi di fede che per legare alla Spagna le future colonie».
Il legame con San Francesco di Paola
L’indicazione ricadde su di lui perché «era già consigliere e segretario del re di Spagna ed eremita dell’Ordine dei Minimi, nonché amico di infanzia del monarca».
A lui fu affidato il compito di risolvere una controversia politica sorta con il Re di Francia, Carlo VIII. E proprio in questa occasione il religioso conobbe Francesco di Paola. «Colpito dalla santità e dall’austerità del santo eremita calabrese – proseguono le note – Bernard Boyl prese la decisione di entrare nell’Ordine dei Frati Minimi Eremiti. San Francesco ebbe modo di conoscerne e apprezzarne le qualità e lo nominò Vicario Generale per la Spagna inviandolo in quella terra per fondarvi dei conventi, nella seconda metà del 1492. Incaricato dallo stesso Papa Alessandro VI, che a sua volta era stato sollecitato dai reali di Spagna, Boyl partì per le nuove terre al seguito di Cristoforo Colombo».
San Francesco di Paola
La lite con Colombo
Da qui in avanti il rapporto con Colombo diventa un aperto conflitto «tra l’idea missionaria e civilizzatrice e gli interessi materiali che avevano stimolato l’espansione europea oltreoceano».
I rapporti tra i due si logorarono al punto che Boyl lasciò la Missione nel 1494.
Da Tours, su incarico di San Francesco, il religioso arrivò a Roma presso Alessandro VI per intercedere in favore dei Minimi. Per obbedienza al Re di Spagna accettò di succedere a Cesare Borgia nella carica di abate commendatario dell’Abbazia di San Michele di Cuxà, nel Rossiglione. E qui rimase fino al 1507, anno in cui cessava di vivere San Francesco di Paola.
Padre Boyl secondo de Lorgues
Fin qui, il racconto ufficiale della vita di padre Boyl secondo la Chiesa e l’Ordine dei Minimi. Questo racconto è però confutato dal conte de Lorgues.
Questi svela nel suo libro che colui che era andato in America in realtà era «il padre Bernardo Boil, catalano monaco benedettino del Monserrato in gran credito alla corte pel suo sapere, Eletto dai Monarchi per quel Vicario Apostolico, egli aveva obbedito imbarcandosi, come sarebbe andato ad un negoziato diplomatico. Il padre Boil, superbo nel suffragio reale, stimando sé stesso, cominciò a provare una profonda antipatia per l’Ammiraglio, che pareva credere piuttosto ad un selvaggio che alla sua penetrazione d’uomo diplomatico».
Cristoforo Colombo
Il frate e il capitano: complotto contro Colombo
Boil si alleò al comandante Margarit, Costui, contravvenendo agli ordini, si era installato nei villaggi degli indios «in cerca di facili piaceri». E aveva commesso soprusi di ogni genere. Il frate e il marinaio ordirono una congiura. Insieme i due fecero ritorno in Spagna per ribaltare le accuse e mettere in cattiva luce Colombo presso i reali. «Margarit e Boil – sostiene De Lorgues – macchinarono di partire, si impadronirono di alcune navi ancorate nel porto, e fuggirono vilmente da veri disertori».
Un religioso indegno
Il giudizio del conte diventa ancora più sferzante nel raccontare il controverso personaggio di padre Boil. Questi, nella sua missione «non aveva provato che noia, aridità e disgusto delle sue funzioni, e, senza fare alcun bene aveva cooperato a troppi mali». «Diremo di più – prosegue lo scrittore – la grazia evangelica non era stata concessa da Dio al padre Boil. Lo spirito di forza e di verità, che consacra l’apostolato non poteva discendere su quello statista catalano, perché in realtà il Capo della Chiesa non aveva eletto lui a proprio VicarioApostolico».
Papa Alessandro VI
Boyl vs Boil
E qui viene fuori la versione inedita sulla vera identità del frate sbarcato in America. «L’ardimento di questa affermazione potrà sorprendere e parer temeraria – continua De Lorgues – ma noi andiam debitori alla verità, alla dignità della Chiesa, e alla giustizia della storia, di chiarire finalmente questo fatto singolare, tenuto sinora al buio anche per gli Spagnuoli. L’onore della nomina era stato riservato all’umiltà di un discepolo di san Francesco, il frate Bernard Boyl».
Dunque: il prescelto non era un minimo, ma un benedettino, contrariamente a quanto aveva caldeggiato il re presso il pontefice. «Quando giunse in Castiglia l’ampliazione della Bolla – sostiene il conte – il Re pensò che si fossero ingannati a Roma nel dinotare la persona a motivo della somiglianza del nome; che cioè, il Papa avesse designato il frate Boyl volendo nominare il padre Boil».
Chi è il vero Boyl?
Resosi conto dell’“errore”, il re però non volle ritardare la partenza delle navi. Perciò non informò il francescano: «Il padre Bernardo Boil, scelto dal Re, fu mandato in cambio di Fra’ Bernardo Boyl, eletto dal Santo Padre. Agli occhi di Ferdinando, non v’era nella sostituzione che ardiva permettersi altro che una rettificazione d’indirizzo: non vedeva in ciò di mutato che una lettera del nome: Boil invece di Boyl, un Benedettino invece di un Francescano». Qual è la verità? Quella raccontata fino ad oggi dalla Chiesa, oppure quella del De Lorgues, che comunque aveva preannunciato le sue rivelazioni al pontefice Pio IX?
Un conquistador in azione
Conversioni coatte
Una cosa è certa, a qualunque Ordine monastico appartenesse il missionario, è documentato che il suo comportamento, non fu irreprensibile.
Anzi, non solo egli calunniò Colombo, ma fu complice della “conversione” forzata degli indios, attuata, più che con la parola di Dio,con la violenza.
La testimonianza di Canale
A dimostrazione di questo comportamento valga ancora una ulteriore testimonianza. È quella contenuta nel libro del 1863 Vita e viaggi di Cristoforo Colombo di Michel Giuseppe Canale.
«Deliberato e posto in pronto il viaggio – scrive l’autore – si volle che missionari religiosi accompagnassero il Colombo, e recassero colà il benefizio del Vangelo, convertendo a questo i naturali; diversi frati si scelsero quindi sotto la direzione di padre Boyl monaco catalano, vicario apostolico; sventuratamente costoro nonché portare buon frutto in quelle vergini terre, vi sparsero la zizzania delle loro male opere, e il padre Boyl specialmente fu principale autore dei disordini che vi accaddero e delle molte sventure che afflissero l’animo di Colombo».
In questa storia sono certi due elementi: lo scenario e uno dei due protagonisti.
Il primo è la Cosenza della seconda metà del ’600. Cioè il capoluogo di una provincia importante del vicereame di Napoli.
Cosenza non è ricca, ma è una meta ambita dei nobili smaniosi di far carriera, che l’hanno trasformata in un loro quartiere-dormitorio. Soprattutto, ha un filo diretto con Napoli e Madrid, perché è città demaniale. Cioè è protetta dalla corona e non è sotto il dominio del solito principe o duca.
Il secondo elemento certo è Gennaro Sanfelice, che diventa arcivescovo di Cosenza nel 1661.
Il terzo elemento è incerto, perché avvolto tuttora in un mito popolare in cui realtà e immaginazione si intrecciano fino a diventare indistinguibili: è Duonnu Pantu, l’altro protagonista.
Il palazzo Sanfelice (Napoli)
Sanfelice, un nobile in carriera
Gennaro Sanfelice è un nobile napoletano di grande blasone. È il fratello minore di Giovanni Francesco, duca di Lauriano.
Ma, soprattutto, è il cugino di Giuseppe Sanfelice, che fa una gran carriera nella Chiesa dell’epoca. Gennaro, forte di una preziosissima laurea in “Utroque” (Giurisprudenza, che allora era il passepartout per il potere e quasi un obbligo per gli aristocratici), arriva a Cosenza nel 1650, come vicario del potente cugino, nominato arcivescovo da papa Alessandro VII.
Poi Giuseppe diventa nunzio apostolico in Germania e Gennaro regge l’arcidiocesi fino al 1661, quando il cugino muore.
A questo punto, il papa formalizza l’attività di Gennaro e lo fa restare a Cosenza come arcivescovo.
Un vescovo progressista
Giuseppe Sanfelice arcivescovo di Cosenza
Non c’è troppo da scandalizzarsi per tanto nepotismo, che allora era una prassi socialmente accettata.
Anzi, il nepotismo dell’epoca, esplicito e sfacciato, dà i punti a quello attuale, giustificato con le formule più ipocrite.
Tuttavia, l’arcivescovo Gennaro non è solo un figlio di papà. È un uomo di carattere, che dimostra di essere tagliato per il ruolo a cui l’hanno destinato gli studi e il blasone.
Appena ha le mani libere, Sanfelice mette ordine nella diocesi. Soprattutto, difende le prerogative del vescovo (cioè le sue) e mette un freno alle ingerenze della Santa Inquisizione.
Il suo merito più grande è lo stop alle persecuzioni dei valdesi, che dopo il pogrom di Guardia Piemonteseerano proseguite per circa un secolo a San Sisto e a Vaccarizzo.
Come mai uno così tosto diventa una macchietta? Chiediamolo a Duonnu Pantu.
Il prete pornografo
Di Donnu Pantu sono certe due cose: i versi pornografici in vernacolo e la sua zona d’origine, Aprigliano, un paese tra Cosenza e la Sila. Sulla sua identità storica restano parecchi dubbi, alimentati dalle solite contese tra studiosi, a partire da Lugi Gallucci (il primo interprete che nel 1833 ha messo ordine nella produzione pantiana) per finire con Oscar Lucente, raffinatissimo intellettuale e storico dirigente del Msi, entrambi di Aprigliano.
Per convenzione, Duonnu Pantu è il nome d’arte di Domenico Piro, sacerdote apriglianese morto poco più che trentenne a fine ’600.
Antica veduta di Aprigliano
Un trio di preti
A riprova che il nepotismo è un doc dell’Italia di allora, anche don Domenico appartiene a una famiglia di sacerdoti: nel suo caso gli zii materni Giuseppe e Ignazio Donato.
I tre, oltre che somministrare sacramenti, sono specializzati in pasquinate. Infatti, sono conosciuti con un nomignolo: gapulieri, ossia criticoni. Piro, a differenza degli zii, si specializza nella pornografia, che racconta in alcuni poemi (la Cazzeide e la Cunneide) pieni di riferimenti colti e volgarità estreme e caratterizzati da un uso virtuosistico dei versi in dialetto.
Ma c’è di più: Piro è un gaudente e un goliarda a tutta forza, come prova la sua polemica con l’arcivescovo.
Contestatore avant la lettre
Alla base del dissidio tra Piro e Sanfelice – che, da buon napoletano, è piuttosto tollerante – ci sarebbe stato un piccolo tumulto nel collegio del Seminario di Cosenza, raccontato tra l’altro nel poemetto La briga de li studienti.
In pratica, alcuni studenti poveri, costretti ad accontentarsi della mensa, rubano le vettovaglie ai ricchi. Un “esproprio proletario” in piena regola. Piro resta coinvolto nella bagarre e finisce in cella di rigore proprio per ordine dell’arcivescovo.
La poesia: un’arma per la libertà
La poesia è un’arma potente, sia quando commuove sia quando ridicolizza. Duonnu Pantu, dopo alcuni giorni di gattabuia, indirizza una supplica (Lu mumuriale) a Sanfelice. L’arcivescovo convoca il giovane prelato e gli annuncia l’imminente liberazione.
Ma la tentazione di fare un’ennesima burla è forte. E Piro non è tipo che sa resistere: infatti, mette sulla porta della cella un cartello con la dicitura “si loca”, cioè affittasi. Sanfelice non si fa volare la mosca al naso, riconvoca Piro e gli chiede il perché della scritta. «Monsignore, visto che me ne vado, resta vuota, quindi si loca», è la risposta beffarda.
«Bene», replica l’arcivescovo, «ci resterete voi finché non arriverà il nuovo inquilino».
Versi sparsi di Duonnu Pantu
La sfida: prete trasgressivo vs arcivescovo
A questo punto, la sfida entra nel vivo e Pantu gioca un’altra carta. Il prigioniero si è accorto che nel cortile davanti alla cella si radunano tutti i giorni dei ragazzini.
Li chiama, gli insegna dei versi e gli affida un compito: recitarli ogni sera sotto casa dell’arcivescovo.
Eccoli: «Bonsegnù, Bonsegnù, fùttete l’ossa/ lu vicariu allu culu e tu alla fissa/ vi ca si nun me cacci de sta fossa/ iu dicu c’hai prenatu la patissa» (Monsignore, monsignore… se non mi tiri fuori dico che hai ingravidato la badessa).
Dopo alcuni giorni di questo battage, l’arcivescovo cede. Ma non vuole capitolare. E fa una proposta a Duonnu Pantu.
La tentazione più forte
La libertà in cambio di una poesia dedicata alla Madonna. Ma, per cortesia, niente volgarità.
La leggenda narra che Pantu abbia eseguito il compito più o meno alla lettera. Ma di questa poesia resta solo un verso, in cui il Nostro racconta a modo suo la verginità della Madonna: «E nzinca chi campau la mamma bella/ de cazzu nun pruvau na tanticchiella» (ossia: «Finché campò la mamma bella…»). Già: alle tentazioni Pantu non sa resistere.
Ma c’è da dire che l’arcivescovo mantiene comunque la promessa. Ciò fa pensare che, sotto sotto, anche lui sia stato al gioco.
La targa commemorativa sulla casa di don Domenico Piro
L’ultima tentazione di Pantu
La leggenda attribuisce a Pantu una morte degna della sua vita. O, almeno della sua poesia.
Malato di tisi e agonizzante, il giovane sacerdote sente gli amici e i parenti bisbigliare in attesa del suo trapasso. Piro si risveglia di botto e chiede beffardo: «Si parrati ’i cunnu miscatiminnici puru a mia» (cioè: se parlate di… fatemi partecipare),
Poi chiude gli occhi e raggiunge Sanfelice, morto due anni prima.
Persino gli addetti al settore (sedicenti e non) hanno dimenticato questa figura preminente nel panorama pedagogico del Mezzogiorno. Francesco Coppola – anzi, per l’esattezza Francesco di Paola Vincenzo Coppola – nacque ad Altomonte il 6 giugno del 1858 da Vincenzo Gerardo e Maria Carmela Riccio, in una nobile casata di antiche radici napoletane, sulla quale tantissimo scrisse qualche decennio fa Franz von Lobstein nel suo Settecento calabrese.
Una famiglia di nobili e tre mogli
Se i suoi avi furono subfeudatari di Altomonte e agenti del Principe di Bisignano, in tempi più recenti i cugini in primo grado di suo padre erano stati i parlamentari Ferdinando Balsàno (1836-1869, arciprete, deputato nella IX legislatura del Regno) e l’ancor più noto Giacomo Coppola (1797-1872, senatore dal 1863, Ministro delle finanze durante il Governo Garibaldi). Tra i fratelli del suo bisnonno Luzio Coppola, spiccavano infine Reginaldo (1730-1810), vescovo di San Marco Argentano nel 1797, il domenicano Giacomo, l’abate Luigi, Silvio (sindaco d’Altomonte) e quella Isabella che, sposando Domenico Andreassi di Montegiordano, diventerà capostipite degli omonimi nobili amendolaresi e perciò anche degli ultimi Mazzario di Roseto Capo Spulico.
Altomonte, palazzo Coppola: casa natale del pedagogo.
Fatta questa premessa familiare, va pur detto che tuttavia proprio il milieu nobiliare dovette star stretto al Coppola. Il quale, in rotta con i suoi, scappò da Altomonte e abbandonò presto la famiglia d’origine sposandosi, la prima di tre volte, a diciotto anni (in data 30 settembre 1881) con la giovanissima lungrese Lucrezia D’Aquila, che morirà al terzo parto, appena sette anni dopo. Dopo la prematura scomparsa di quest’ultima, Coppola convolerà a seconde nozze il 15 agosto 1884 con Mariangela Italia Irene Diodati. Nuovamente vedovo, sposerà infine, il 21 novembre 1908, Ortensia Fera.
Francesco Coppola, una vita per l’insegnamento
Il professore dedicò l’intera sua esistenza all’insegnamento e, più in generale, all’istituto della Scuola, inteso come la più alta e nobile delle missioni civili. Benemerito primo direttore didattico delle scuole di Spezzano Albanese, educò – dapprima nella sua residenza di Palazzo Scorza, a Spezzano Albanese, nella piazza oggi intitolata a Giacomo Matteotti – generazioni di allievi, dalle elementari alle superiori e provvide pure con solerzia alla refezione scolastica del Ricreatorio per i figli dei richiamati in guerra.
Un commosso e nostalgico ritratto della personalità e delle abitudini quotidiane del “Professore” per antonomasia, fu dato alle stampe nel 1982 da Arcangelo Barbati, nel suo Immagini del passato. A Spezzano Albanese dal 1912 al 1923, di cui una copia mi fu donata una quindicina d’anni fa dal nobile cavaliere Giuseppe Alfredo Coppola, suo nipote.
Le opere di Francesco Coppola
Medaglia d’Oro al Merito Civile, conferita il 30 maggio 1912 dal Ministero della Pubblica istruzione per i suoi alti meriti educativi e di direzione nel campo della Scuola, Coppola fu peraltro scrittore elegante, linguista, critico e studioso non comune di problemi pedagogici. Pubblicò infatti diversi saggi di pedagogia, tra cui è doveroso citare almeno La morale dei fanciulli. Trattatello di doveri e diritti per le scuole elementari (Castrovillari, 1887), dedicato al suo Maestro (il celebre filosofo Andrea Angiulli, educatore insigne e di spiccato animo anticlericale, a sua volta allievo di Bertrando Spaventa nonché affiliato alla loggia Fede Italica, all’Oriente di Napoli) ed espressamente ricalcato sugli Elements d’education civique et morale di Gabriel Compayré (Paris, 1881); e un saggio su Rousseau: Giangiacomo Rousseau. La sua vita, i suoi tempi e la sua fede pedagogica (Castrovillari, 1887), opera che anticipa, pioneristica, tutta una successiva e fortunata letteratura sul medesimo tema.
Ancora, tra le altre sue opere, tutte oggi piuttosto introvabili persino sul mercato antiquario e nelle biblioteche conservative, vanno menzionate Racconti e biografie di uomini illustri, per servire di storia patria nelle scuole elementari (Milano, 1887), Brevi racconti di storia patria sui fatti principali dell’unificazione d’Italia, per la terza classe elementare (Milano, 1889), Primizie storiche tratte dalla storia ebraica, greca e romana, per la seconda classe elementare Inferiore (Milano, 1889), Storia nazionale da Carlo 8° ad Umberto 1° (Milano, 1894), Storia Nazionale dalla fondazione di Roma alla scoperta dell’America per la Quarta classe elementare (Milano-Roma, 1894), Storia d’Italia dal 1848 al 1870 per la terza classe elementare (Milano-Roma, 1895), Racconti e biografie di storia patria, ad uso della Quarta classe elementare (Milano, 1897).
Colophon della Morale dei fanciulli. Trattatello di doveri e diritti per le scuole elementari (1887), opera d’esordio di Francesco Coppola
Un massone con una missione
Di tempra laica (era affiliato alla loggia massonica Agostino Casini, all’Oriente di Spezzano Albanese, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia), considerava la Scuola «l’unica, vera, grande missionaria per la redenzione delle classi umili nell’inquieta ed incerta società» italiana dei suoi tempi.
Lasciò almeno undici figli, tra cui è opportuno segnalare almeno i due di primo letto, Gustavo Luigi Ugo e Alfredo Gerardo: il primo, istitutore nel 1905, affiliato dal 27 maggio del 1912 ad una loggia cosentina del Grande Oriente d’Italia, sottotenente di Fanteria nel 1917, fu poi segretario presso il Liceo Classico di Cosenza nel 1919 e infine segretario presso il Ministero della Pubblica Istruzione e, fino al 1931, presso quello delle Finanze in Roma, laddove – già vedovo della nobile cosentina Regina Monaco – scomparve prematuramente nella sua abitazione di Monteverde; il secondo, già prigioniero in Austria e primo segretario comunale di Spezzano Albanese, venne assassinato da sconosciuti.
Spezzano Albanese, palazzo Scorza, al cui primo piano visse e morì Francesco Coppola.
A lui e a suo padre è intitolata una via di Spezzano Albanese: il bastone dal pomo d’argento accompagnò il Professore fino alla sua ultima puntuale passeggiata pomeridiana. Francesco Coppola muore a Spezzano Albanese il 7 maggio 1926 e riposa nella cappella di famiglia, presso il cimitero locale.
Nelle rughe di Faustino Olivito detto “il Caporale” sono scolpiti settant’anni di storia cosentina. I solchi sulla sua fronte sono un reticolato di strade e vinelle, personaggi e aneddoti, profumi, voci, panni stesi al sole e minestre fumanti sui fornelli: c’è dentro la vita di Santa Lucia, uno dei quartieri più suggestivi e chiacchierati della città vecchia.
Lo chiamano “il sindaco” perché ha l’autorevolezza della memoria storica. E poi ha le chiavi. Faustino è il custode delle chiavi della piccola chiesa di origine medievale dedicata a Santa Lucia, la santa protettrice degli occhi e della vista da cui prende il nome il quartiere. Gliele consegnò anni addietro don Giacomo Tuoto quando era parroco e rettore del Duomo. Sapeva di metterle in mani sicure per garantire a chiunque di visitare quel luogo sacro così importante per i cosentini, nonostante durante la pandemia la statua della Santa sia stata portata nella cattedrale per evitare affollamenti e non sia ancora tornata nella sua casa.
Faustino ci pare le porte della chiesa di Santa Lucia (foto Benedetta Caira)
Faustino con le sue chiavi è l’emblema della resistenza, di chi non scappa e resta aggrappato a ciò che rimane, tra cumuli di macerie e spazzatura, palazzi sventrati dai crolli, vicoli deserti, topaie spacciate per alloggi e date in affitto ai rom.
Faustino e la festa di Santa Lucia
Ogni 13 dicembre, giorno della festa di Santa Lucia, lui rinnova il rituale e apre il portone della chiesa ai fedeli che di anno in anno sono sempre meno. E invece ricorda quando la folla era così tanta che la gente doveva sostare sulla scalinata a fare la sua preghiera mentre la piccola navata della chiesa era gremita. A ogni ora a partire dall’alba, veniva celebrata una messa. C’erano i venditori di candele, se ne vendevano migliaia, «ce n’erano di vario tipo – ricorda Faustino – quelle più semplici costavano 50 lire. Tutti i fedeli accendevano i ceri in chiesa e le cassette delle offerte erano sempre piene».
Niente più candele accese all’interno della chiesa
Era una festa solo religiosa, un momento di raccoglimento in cui la comunità si ritrovava, ma oltre ai canti risuonavano tra i vicoli zampogne e tamburi. «Gli zampognariarrivavano da Laino Borgo o da Serra San Bruno all’inizio di dicembre e restavano in città per un paio di settimane, proprio qui sopra – Faustino indica una viuzza – si affittavano letti e loro alloggiavano lì». Non camere ma letti, in quelli che erano B&B ante litteram.
Il tempo si è fermato
La piccola chiesa di Santa Lucia, con il suo rosone in pietra, resta un punto di riferimento, nonostante sia stata privata della statua tanto amata dai fedeli, un colpo che ha impoverito il quartiere e ridotto ulteriormente i momenti di socialità. «Spesso arrivano cosentini emigrati, che vivono lontano dalla Calabria e tornano qui per ritrovare la magia di questo luogo, l’atmosfera della loro infanzia. Io apro la porta della chiesa – dice Faustino – e per molti è una emozione grande rivivere il ricordo della festa».
Faustino Olivito nella sua bottega (foto Benedetta Caira)
Bottiglie impolverate sugli scaffali del negozio Faustino Olivito nella sua bottega (foto Benedetta Caira)
Faustino dietro il bancone della sua bottega (foto Alfonso Bombini 2022)
Faustino “il sindaco” arriva ogni mattina presto e apre le porte della sua piccola putica. Il negozio di alimentari ha oltre cento anni perché fu suo padre ad aprirlo. Qui – come in un incantesimo – il tempo sembra essersi fermato. Cristallizzato a quando – dove adesso non c’è più nessuno – arrivavano i bambini col grembiule a comprare il panino. «Ci mettevo dentro una fetta di mortadella o di salame e costava trenta lire». Le bottiglie di moscato di una marca che non esiste più, la grossa bilancia su cui si posavano gli occhi curiosi degli scolari in attesa della merenda avvolta nella carta oleata, vecchie lattine impolverate e gli adesivi con le réclame che oggi più nessuno conosce.
Il quartiere che non c’è più
In vendita sugli scaffali ci sono ormai solo detersivi e poco altro, in questo luogo del cuore Faustino torna ogni mattina non perché deve, ma perché non può farne a meno. «Ci hanno lavorato mio padre, mio zio, mio fratello che ora è in America. Io ci sono entrato quando ero un bambino, ora ho 81 anni: la mia vita l’ho fatta tutta qui dentro. A questo quartiere sento di appartenere nonostante oggi sia irriconoscibile: disabitato, abbandonato».
Gli occhi di Faustino brillano, sembra quasi di vederle le immagini che scorrono nella sua memoria. Con il dito indica i palazzi, ricostruisce pezzi di storia a partire dai cognomi o dai soprannomi. Si ferma, ricorda meglio, aggiunge un dettaglio. «Ogni casa era abitata. Dove adesso le porte sono sbarrate o murate vivevano intere famiglie. Si festeggiavano continuamente nascite di bambini».
Sacro e profano
Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta era la preghiera dei fedeli davanti alla statua della Santa, lo ripetevano in coro i bambini scendendo dai gradini di pietra, senza comprenderne neanche bene il significato. «Era bello qui – racconta Faustino – perché era un posto pieno di vita. I negozi di alimentari non si contavano, poi c’erano calzolai, sarti, il quadararo, cinque cantine che vendevano vino. E poi – e i suoi occhi sorridono – c’erano le signorine».
Vico IV Santa Lucia era luogo di perdizione e peccato. Le prostitute stavano sull’uscio delle loro case ad aspettare i clienti, spesso in abiti così dimessi che si faceva fatica a non confonderle con le massaie intente a scambiarsi confidenze e ricette poco più in là. Molte di loro avevano nomi d’arte e soprannomi fantasiosi e ammiccanti. Tanto bastava ad accendere l’immaginario dei ragazzini che le spiavano da lontano o contravvenivano al divieto di superare i confini imposti dai genitori.
«Erano clienti del mio negozio – ricorda Faustino – e io le ho sempre rispettate. Sapevo, ma facevo finta di non sapere». La più bella? Franca, detta “la ballerina”, «mezza bionda, bellissima». Molte di quelle signore sono cresciute, diventate mamme e nonne, invecchiate sugli usci delle porte delle loro case, incipriando il viso e ossigenando i capelli nel tentativo di rimanere appetibili, osservando questa parte di città perdere pezzi, crollare, sparire insieme a loro.
Faustino nel deserto di Santa Lucia
Continuando arrampicarsi sui gradini, ci si spinge nel cuore del quartiere, si attraversano le sue stratificazioni. Un gruppo di bambini rom trascina un fascio di rami che serviranno per scaldare la notte gelida, montagne di rifiuti, scorci meravigliosi di pietre antiche, case senza tetto, stendipanni carichi di indumenti appena lavati. Da una finestra una signora ci invita a salire: «Ho ammelato mo’ mo’ i turdilli, venite a provarli!».
Famiglie rom risalgono cariche di buste lungo i vicoli del rione
Spazzatura accastasta nel quartiere tra l’indifferenza generale
Uno dei murales sulle pareti del rione
Un cane osserva i passanti da una finestra del rione
Un gatto tiene d’occhio uno spiazzo del rione
Case senza finestre (ma con la parabola) a Santa Lucia
Lo spiazzo su cui si affacciano anche le finestre di uno degli assessorati del Comune di Cosenza
Immondizia accatastata in un “vascio”
“Che dobbiamo fare!”, scrivono i residenti sui muri. Sotto, il disegno della tradizionale replica delle istituzioni
Quel che resta di antichi edifici del rione
Natale tra i ruderi del rione
Un’edicola votiva tra le macerie del quartiere
Uno scorcio di Santa Lucia
Panni stesi alle finestre di un palazzo dell’antico quartiere
Un angolo del rione
Un pannello che ripercorre la storia della città dietro le impalcature che sorreggono il muro di un palazzo pericolante
I vicoli ormai deserti
Un portone murato nel rione
Spazzatura abbandonata tra le erbacce
Ci si perde tra le strettoie e si incontrano più gatti che esseri umani. Sparse qui e lì ci sono tracce di vite e di devozione: fiori finti e lumini spenti davanti a immaginette sacre ed edicole votive abbandonate. Da lontano si sente una strina, voci di bambini, murales, colore. Poi, d’improvviso, ancora deserto: edifici vuoti, macerie e spazzatura, un cane che abbaia sfinito. Solo il muschio a colorare il grigio dei mattoni, sui portoni i cognomi scritti a penna, sovrapposti a quelli di chi abitava qui quando tutto era integro.
Un quartiere di paradossi
Una bestemmia sul muro e una Madonnina afflitta in una teca di plastica: nichilismo e devozione. Perché il quartiere di Santa Lucia è da sempre un luogo di paradossi, ossimori, asimmetrie: sante e puttane, nobiltà e miseria, canti e silenzi profondi come abissi. Pieni e vuoti, memoria e rimozione. Ora per esempio, sta per arrivare una pioggia di fondi del Contratto Istituzionale di Sviluppo: 90 milioni di euro, 24 cantieri che in tre anni dovrebbero trasformare il centro storico e migliorare sensibilmente la qualità della vita di chi lo abita: accessibilità, cultura, turismo.
Gli abitanti del quartiere si lamentano della mancata raccolta dei rifiuti (foto Benedetta Caira)
È il momento di tirare fuori le idee, assicurano gli amministratori, perché tutti i progetti validi saranno finanziati. L’ultima volta lo aveva promesso il Contratto di quartiere, non se ne fece praticamente nulla. Si può cautamente ricominciare a crederci. Non sarà facile ritrovare l’ottimismo, ma viene come sempre in soccorso la saggezza popolare: Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta.
Il treno a vapore nella pittura e nella fantasia di Luigi Rovella. È questo il titolo della personale inaugurata ieri, mercoledì 28 dicembre 2022, a Villa Rendano e che chiuderà i battenti il 30 dicembre. Una riflessione a più voci ha preceduto il taglio del nastro. Mostra e workshop sono stati promossi dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani. Il direttore del museo Consentia Itinera, Anna Cipparrone, ha introdotto i lavori e stimolato la discussione con una serie di domande e riflessioni.
Una delle tele di Luigi Rovella esposte a Villa Rendano
La personale dedicata a Luigi Rovella, artista scomparso prematuramente, si snoda lungo un percorso creativo lungo 4 anni. Dal 2017 al 2020 il pittore ha realizzato dodici tele. Una di queste porta il nome della storica locomotiva a vapore della Sila.
Deborah De Rose, anima di Interazioni creative, ha ricordato il contributo di Luigi Rovella al “Cose belle festival”: «È stato un protagonista del nostro festival, artista della luce e persona che ci è stato vicina nei momenti topici dell’organizzazione della kermesse». Deborah De Rose ha richiamato alla memoria anche la profonda gentilezza di Rovella: «Non dimentico quando ci diede un bellissimo albero di Natale che aveva realizzato in cartone».
Due opere di Lugi Rovella che fanno parte della mostra aperta fino al 30 dicembre a Villa Rendano
Treni e turismo lento
I treni storici «una volta entrati in crisi come mezzi di trasporto sono diventati destinazioni turistiche». Un fenomeno «partito dal Regno Unito» e che da molto tempo ha contagiato anche l’Europa continentale, Italia compresa.
Lo ha spiegato Sonia Ferrari, docente all’Unical di Marketing del turismo e territoriale. Subito dopo ha chiamato in causa due treni storici ormai diventati simboli e suggestioni letterarie: Orient Express e Transibieriana. E il treno della Sila? La docente dell’Università della Calabria ha sottolineato come sia un elemento tipico del «turismo lento e sostenibile», in linea con i trend di un settore che costituisce una nicchia importante.
Treni e letteratura: la morte di Tolstoj
Dopo aver tratteggiato le suggestioni delle tele di Rovella, Pino Sassano ha compiuto un piccolo tour tra letteratura e treni. Partendo da una riflessione perentoria: «Non esiste uno scrittore dall’Ottocento in poi che non abbia avuto come riferimento il treno». Inevitabile il riferimento del librario e professore a Lev Tolstoj: «La parte finale della sua vita si svolge su un treno, poi l’ultima fermata nella stazione di Astapovo dove muore circondato dal popolo e dai cronisti dell’epoca». Ma Sassano non si ferma alla letteratura. E chiama in causa lo sguardo di Luigi Ghirri, il fotografo che ha rivoluzionato la percezione del paesaggio. E i treni ne sono sempre stati parte integrante.
Un momento del workshop di ieri a Villa Rendano
Treni e identità
Dalla fredda stazione di Astapovo alla fredda stazione di San Giovanni in Fiore. L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio, non ha dimenticato il treno che passava dall’altopiano.
«Ha spostato centinaia di migliaia di persone in un esodo drammatico dal Sud verso il Nord dell’Italia e dell’Europa». In quel treno di sofferenza e speranza «c’è oggi un carattere identitario». Lo stesso che Mario OIiverio vede nel treno storico della Sila, un progetto nato per una sua precisa volontà politica. Quella locomotiva che corre nel “Gran bosco d’Italia” può e deve essere «veicolo di crescita e sviluppo, attrattore turistico come scoperta e non solo come vacanza».
Dall’alba della civiltà al 1582 tutti i popoli hanno cercato invano di sincronizzare le date del calendario ai cicli delle stagioni. Solo Luigi Lilio vi riuscì. Quello di Lilio era un compito arduo da svolgere. Ai suoi tempi mancavano le leggi dei modelli planetari, i metodi della fisica e gli strumenti della matematica che vedranno la luce pochi anni dopo grazie a Keplero, Galileo e Newton. Lilio non aveva a disposizione queste conoscenze, ma riuscì ad elaborare un calendario così preciso da sfidare i secoli. A Cirò è stato realizzato un museo dedicato a Luigi Lilio dove sono riprodotti i più importanti documenti della riforma del calendario.
Il museo di Cirò dedicato a Luigi Lilio (foto Giovanni Bosi)
Lilio, medico a Napoli e professore a Perugia
Lilio nacque nel 1510 a Psycron, oggi Cirò. Dopo aver compiuto gli studi di medicina a Napoli si trasferisce a Roma ed è accertato che vent’anni dopo era professore di medicina a Perugia. Non sappiamo dove e quando morì, ma sicuramente prima del 1576. Medico, dunque, ma anche edotto di matematica e di astronomia, come del resto era normale che avvenisse per l’istruzione universitaria dell’epoca. Tra le discipline che l’aspirante medico doveva studiare c’erano l’astronomia e l’astrologia per via degli influssi che gli astri potevano avere sulle malattie. Sono poche le vicende note della esistenza di Luigi Lilio, tanto che in passato non sono mancati dubbi sulla sue origini calabresi.
Il calendario giuliano “sbagliava” il giorno di Pasqua
Luigi Lilio, busto di realizzato da Giuseppe Capoano, 2012
Nel corso dei secoli la discordanza tra le date del calendario giuliano, in vigore dal 46 a.C., e l’equinozio di primavera, impone la necessità di correggere le regole adottate per registrare il tempo. Di questo problema soffre in particolare la Chiesa Cattolica, che già dal Concilio di Nicea del 325 aveva legato al novilunio e all’equinozio di primavera il suo mistero fondamentale: la Resurrezione di Cristo. I Padri del Concilio di Nicea avevano stabilito che la Pasqua di Resurrezione si dovesse celebrare nella domenica seguente alla XIV Luna (plenilunio) del primo mese dopo l’equinozio di primavera.
Nella metà del 1500 il calendario giuliano aveva segnato come giorno dell’equinozio di primavera il 21 marzo, ma gli astri l’avevano indicato l’11 marzo cioè circa 10 giorni prima. In considerazione di ciò, la Pasqua si celebrava nel periodo astronomicamente sbagliato. Appare ormai improcrastinabile la riformulazione del calendario, ma era un compito arduo da svolgere. Si trattava di correggere il computo per registrare il tempo e contemporaneamente evitare che l’equinozio astronomico di primavera rimanesse indietro, rispetto al calendario civile, com’era successo nel corso dei secoli.
Le meccaniche celesti
Le difficoltà astronomiche da risolvere riguardavano sia il moto apparente del sole sia il moto relativo della luna. Si trattava di sincronizzare il tempo civile con gli indicatori celesti, mantenendo un vincolo inamovibile: la data dell’equinozio di primavera, convenzionalmente fissata in modo perenne il 21 marzo. Il moto dei pianeti, però, è tutt’altro che regolare ed uniforme. In particolare, non è uniforme il cammino della terra attorno al sole. E, di conseguenza, nell’ottica precopernicana, non è neppure uniforme il moto apparente del sole rispetto al nostro pianeta. Il calendario è la rappresentazione degli aspetti periodici di questo moto; quindi finché esso si basa su regole precise e invariate nel tempo, è destinato a sfasarsi rispetto ai fenomeni celesti e ogni tanto deve essere “aggiustato” se lo vogliamo sincronizzato con le stagioni.
Dieci giorni di ritardo per il pianeta Terra
La Terra non presenta solo il moto della rotazione e della rivoluzione, ma è soggetta anche ad altri movimenti meno appariscenti; uno di questi, detto della “precessione degli equinozi”, consiste in una specie di moto di trottola che fa oscillare l’asse di rotazione con un periodo di circa 26mila anni. Il moto orbitale della Terra è riproducibile solo nel suo complesso, ma una formalizzazione accurata deve considerare la variabilità di tutti i termini descrittivi, causata da altre oscillazioni proprie della Terra, dalle perturbazioni gravitazionali degli altri pianeti e dal rallentamento della rotazione per effetto delle maree.
A metà del XVI secolo aver trascurato tutto ciò comportava un ritardo di circa 10 giorni della reale posizione della Terra rispetto al calendario giuliano allora in uso. In breve, l’anno del calendario civile era considerato di 365, 25 giorni, più lungo dell’anno tropico di cui era incerta la reale misura. La Terra era rimasta indietro di 10 giorni nella sua orbita intorno al Sole, rispetto a quanto era previsto nel calendario giuliano.
La Chiesa non sapeva quando fosse Pasqua
Può non essere ovvio come questo problema debba riguardare la religione cristiana. In effetti, l’interesse astronomico della Chiesa discende dall’aver connesso la celebrazione della Pasqua alle fasi lunari e all’equinozio di primavera. Il non saper proporre un metodo esatto per la determinazione della data della Pasqua, rischiava di compromettere ulteriormente l’autorità della Chiesa cattolica in quel periodo storico molto difficile, scosso dallo scisma dei Protestanti e dei Calvinisti. Roma avvertiva il pericolo di un’ulteriore frattura con la Chiesa d’Oriente. Si doveva trovare un metodo indiscutibile, di validità perenne e di facile comprensione anche per chi non avesse specifiche competenze scientifiche.
Il calendario in ritardo
Nel 325 d.C., per fare fronte al dilagare dello scisma di Ario, papa Silvestro I e l’imperatore Costantino indissero in Bitinia (attuale Turchia) il primo importante Concilio cristiano: quello di Nicea. Il calendario era all’epoca in ritardo di tre giorni rispetto alle stagioni e ciò provocava nei cristiani sconcerto nel fissare la data della loro festa principale, la Pasqua. Per evitare il pluralismo liturgico nelle comunità cristiane, si fece strada l’idea di legare la Resurrezione del Cristo all’anno solare e al calendario di Cesare, utilizzando l’equinozio di primavera come data astronomica per la determinazione della Pasqua. Si stabilì una data fissa per tale avvenimento celeste, che invece è leggermente variabile: il 21 marzo.
Il Concilio di Nicea
I padri conciliari eliminarono due giorni dall’anno per risistemare l’equinozio al 21 marzo, ma non furono in grado di correggere il difetto fondamentale del calendario giuliano che rimase più lungo rispetto all’anno solare. Mentre attraverso i secoli scorreva placidamente il calendario giuliano, la data dell’equinozio di primavera si allontanava lentamente rispetto alla misura reale dell’anno tropico.
Diversi pontefici, non pochi concili e molti studiosi versati nelle discipline matematiche e astronomiche nel corso dei secoli avevano tentato invano di conciliare i due periodi del mese lunare e dell’anno solare.
Ruggero Bacone nel 1267 aveva fatto osservare al papa Clemente IV un errore di 9 giorni dell’equinozio di primavera segnato nel calendario. Il problema della non rispondenza del calendario giuliano con i cicli delle stagioni era noto persino a Dante Alighieri che lo ricorda nel XXVII Canto del Paradiso (142-143): «Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch’è là giù negletta».
Nemmeno Copernico riuscì nell’impresa
Al tempo del Concilio Lateranense, con Leone X, molti si adoperarono per risolvere la desiderata riforma. Tra questi, emerse come figura di spicco l’astronomo tedesco Paolo di Middelburg. Chiamato in causa da quest’ultimo, anche Copernico espresse il suo parere. Per Copernico non era possibile arrivare ad un calendario perfetto poiché l’anno solare era variabile.
Niccolò Copernico, padre dell’astronomia moderna
Tutti gli studiosi che nel corso di tredici secoli si occuparono di trovare una soluzione al calendario, pur avendo dissertato abbondantemente sulla durata dell’anno, non riuscirono a trovare un metodo sicuro che desse una data stabile e duratura all’equinozio di primavera dal quale dipendono la Pasqua e tutte le altre feste mobili. Il calendario giuliano continuò, pertanto, ad essere utilizzato senza alcuna modifica. E man mano che passava il tempo aumentava sempre più il divario tra il calendario civile in uso e il ciclo delle stagioni. Nel frattempo si giunse al Concilio di Trento.
Il Concilio di Trento (1545 – 1563) affrontò anche il problema della riforma del calendario. Durante le sue fasi pervennero alla presidenza varie proposte di astronomi e matematici ma, per la vastità dei temi trattati, si decise di delegare la soluzione del problema alla Santa Sede.
La riforma di Lilio arriva in Commissione
Subito dopo il suo insediamento papa Gregorio XIII nominò una Commissione costituita da astronomi, giuristi e teologi a cui affidò il mandato di valutare e approvare un progetto di riforma del calendario.
La proposta di riforma elaborata da Lilio arrivò alla Commissione, che aveva come primo matematico il tedesco Cristoforo Clavio, insieme ad altre e venne giudicata la più efficiente ed anche la più facile da applicare. Però non fu lui a presentarla, poiché presumibilmente era già deceduto. Compare invece il nome del fratello Antonio, anche come membro della Commissione stessa, ed è l’unico laico che fu chiamato a farne parte. Dei nove membri della Commissione Pontificia tre erano calabresi: Antonio Lilio (fratello di Luigi), il cardinale Guglielmo Sirleto di Stilo e il vescovo Lauro di Tropea.
Basilica San Pietro in Roma. Mausoleo di Gregorio XIII. Antonio Lilio genuflesso porge al papa il libro dei calcoli di suo fratello Luigi
Una testimonianza significativa del ruolo svolto da Antonio è la sua immagine scolpita nel bassorilievo del monumento dedicato a Gregorio XIII, situato nella basilica di San Pietro a Roma, nel quale Antonio Lilio, genuflesso, porge al pontefice il libro del nuovo calendario.
La riforma del calendario era di difficile soluzione essenzialmente per la difficile misurazione dell’anno tropico. Se l’anno tropico avesse un valore costante, le regole di Lilio garantirebbero la correttezza della datazione per sempre. In effetti era questo il problema più importante da risolvere: non tanto il riallineamento tra calendario e reale posizione della Terra sull’orbita, quanto poter disporre di un sistema di calcolo stabile, invariante al trascorrere del tempo.
La riforma di Lilio diventa calendario
La nuova formulazione calendariale di Lilio venne inviata in forma di Compendium ai principi cristiani, Università e Accademie più rinomate d’Europa, con l’invito di esaminarlo, correggerlo o approvarlo. Gli esperti in matematica ed astronomia esaminarono la proposta ed inviarono i loro commenti al papa. I giudizi degli esperti, trentaquattro rapporti, furono quasi tutti positivi. Papa Gregorio XIII il 24 febbraio 1582 con la bolla Inter gravissimas promulgò il nuovo calendario.
In generale, la semplicissima regola delle intercalazioni adottata dalla riforma liliana è la seguente:
un anno comune contiene 365 giorni; 366 giorni l’anno bisestile;
il giorno in più viene aggiunto alla fine di febbraio;
ogni anno dell’era cristiana dopo il 1582 se è divisibile per 4 è un anno bisestile;
la regola vale anche per gli anni di fine secolo che sono bisestili solo se divisibili per 400.
La bolla papale Inter gravissimas
Ti addormenti il 4 ottobre e il giorno dopo è già 15
Per evitare dunque che si producessero accumuli di errori futuri, si decretò di cancellare 3 giorni ogni 400 anni. Seguendo queste indicazioni non sono stati o non saranno bisestili gli anni 1800, 1900, 2200 etc.; sono stati e saranno bisestili gli anni 1600, 2000, 2400, 2800 etc. Invece di 100 giorni aggiuntivi ogni 400 anni secondo il calendario giuliano, si aggiungono 97 giorni in 400 anni che portano la lunghezza media dell’anno a 365 e 97/400 giorni. In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera, Lilio propose di eliminare 10 giorni dal vecchio calendario. Si andò a letto il 4 ottobre del 1582, era un giovedì, ci si svegliò il mattino dopo non il 5 ma il 15 ottobre del 1582.
Furono i dieci giorni scomparsi dalla storia dell’umanità.
Dove è il manoscritto di Lilio?
Calendario gregoriano perpetuo, 1583
Lilio, perfettamente consapevole delle problematiche astronomiche discusse nel corso dei secoli, riteneva che un calendario basato su una teoria planetaria come avrebbe voluto Copernico, e inizialmente lo stesso Clavio, sarebbe stato troppo complicato da tradurre in uno strumento che segnasse il tempo e fosse facilmente accessibile a tutti. Elaborò la riforma del calendario prendendo come riferimento il valore medio delle misurazioni dell’anno tropico di 365g 5h, 49m 16s contenuto nelle Tavole Alfonsine.
Come Lilio sia arrivato al valore annuo medio calendariale di 365,2425 (365g 5h 49m 12s) non è molto chiaro poiché il suo manoscritto non è mai stato stampato ed è scomparso senza lasciare traccia.
Le correzioni di Lilio non sono limitate alla sincronizzazione dell’anno civile con l’anno astronomico di quel tempo. Le sue regole di intercalazione permettono di adattare il calendario nel corso del tempo ed anticipano la possibile variazione della durata dell’anno tropico nel corso dei secoli.
L’età della luna
Risolto il problema dell’anno calendaristico, non era così semplice il rimedio di correggere l’altro errore del calendario giuliano: la retrodatazione dei noviluni. È la parte più interessante della riforma. Scopo fondamentale dei riformatori era infatti che, nello stabilire l’epoca della Pasqua, non si tradisse l’intenzione dei padri niceni, cioè che la Pasqua cristiana si celebrasse nella prima domenica dopo il plenilunio che seguiva l’equinozio di primavera.
Mediante due equazioni accordò i due cicli, solare e lunare, propose una tabella di validità ultramillenaria ed un originale e complicatissimo “ciclo delle epatte”. Se si conosce l’età della luna, ossia l’epatta il primo gennaio di un qualsiasi anno, si possono facilmente determinare tutti i giorni di quell’anno nei quali la luna sarà nuova o piena. E, di conseguenza, si determina senza incertezza la data della Pasqua.
Lunario Novo. Uno dei primi calendari gregoriani stampati a Roma nel 1582
Il giorno Sexto Calend. Martij Anno Incarnationis Dominae M.D.LXXXI, corrispondente al 24 febbraio 1582, Gregorio XIII firmò la bolla Inter gravissimas. Il 1° marzo 1582 il testo venne affisso alle porte della Basilica di S. Pietro, alle porte della Cancelleria Vaticana e nella piazza Campo de’ Fiori.
Pure i protestanti adottarono il calendario di Lilio
Il nuovo calendario non fu subito e ovunque accettato da tutti i paesi. Adottarono subito il calendario i paesi cattolici romani. Dopo più di un secolo, le difficoltà incontrate nelle attività legate al commercio e nelle relazioni internazionali convinsero i paesi protestanti ad adottarlo. I più tardivi furono i paesi ortodossi, che accettarono il nuovo calendario dopo la fine della prima guerra mondiale soltanto in materia civile, mentre in liturgia utilizzano ancora il calendario giuliano. La Bulgaria si associò agli altri stati nel 1917, la Russia nel 1918, Serbia e Romania nel 1919, la Jugoslavia nel 1923, la Turchia nel 1927 e per ultima fu la Grecia nel 1928. Fuori dall’Europa il Giappone si allineò nel 1873 e la Cina nel 1911. Rifiutano ancora oggi di adottare il calendario gregoriano gli Ebrei e i Musulmani ma limitatamente ai fini religiosi.
Francesco Vizza Direttore Istituto di Chimica dei Composti OrganoMetallici – ICCOM Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR
Di profeti, veri o falsi che siano, la Calabria ne ha avuti parecchi nei secoli. Il più famoso? Senza dubbio l’abate Gioacchino, personaggio simbolo della silana San Giovanni in Fiore. Il religioso si ritrova adesso al centro di un dibattito che nemmeno le sue tanto decantate doti divinatorie gli avrebbero potuto far prevedere. In città, infatti, sta andando in scena uno scontro tutto politico che lo riguarda. O, meglio, che vede coinvolto il Centro internazionale di studi gioachimiti a lui dedicato. A darsi battaglia sono la sindaca Succurro e… l’ex sindaco Succurro.
La cosa, però, in municipio pare non interessare quanto in passato. Tant’è che la maggioranza che fa capo alla sindaca ha deliberato poco prima di Natale una drastica riduzione al contributo previsto per il Centro. Da quasi 10.500 euro si passa a 2.000 tondi tondi, un taglio di circa l’85%. Tutto mentre il Comune nello stesso periodo stanzia oltre 70mila euro – costo dell’elettricità escluso – per luci artistiche che illumineranno San Giovanni da qui fino a febbraio inoltrato.
Una variazione di bilancio che fa discutere
Il caso è scoppiato pochi giorni fa, il 20 dicembre, durante un consiglio comunale di indubbia teatralità, la cui visione si consiglia agli amanti del vernacolo. L’aula si è infiammata quando al centro del dibattito sono finite alcune variazioni di bilancio da ratificare dopo la relativa delibera di Giunta. Soldi spostati da un capitolo all’altro o all’interno dello stesso, col Centro internazionale studi gioachimiti a beneficiare di 8.426,53 euro meno del previsto per il 2022. E gli stanziamenti per la voce “Luminarie e addobbi natalizi” in aumento di 40mila euro.
Quest’ultima somma, peraltro, coprirà le spese solo per dicembre. Perché, recita la determina 589 del primo dicembre scorso, «oltre al periodo natalizio, è prevista l’installazione delle luminarie artistiche anche in occasione del periodo dei saldi, San Valentino e Carnevale». Ergo, serviranno altri 33.200 euro, impegnati fin d’ora sul bilancio 2023.
Déjà vu
Il Comune ha optato, in questo caso, per un affidamento diretto, visto il Natale ormai alle porte. A beneficiarne, una ditta in grado di fornire «installazioni esclusive, originali e dal forte richiamo turistico»: la Med Labor. Più che nella San Giovanni in Fiore del 2022, sembrerebbe di essere nella Cosenza del decennio scorso. Qui si parla di Buone feste florensi, lì si parlava di Buone feste cosentine. Anche all’epoca Rosaria Succurro sedeva in giunta, ma come assessore a Palazzo dei Bruzi. E Med Labor infiammava il dibattito politico (e non solo) come e più di adesso.
Palazzo dei Bruzi illuminato dai cerchi luminosi a Natale di qualche anno fa
L’azienda era, infatti, assisa ad esclusivista o quasi delle forniture di luminarie al municipio bruzio a botte di affidamenti diretti sotto la soglia dei 40mila euro (oltre la quale, per la normativa del tempo, sarebbero state necessarie gare d’appalto aperte a più concorrenti) fatturando somme mai guadagnate prima d’allora. La questione finì pure in un’inchiesta della Procura locale sui cosiddetti “appalti spezzatino”. Nemmeno sfiorata da sospetti Succurro; a giudizio invece, tra gli altri, il titolare dell’azienda insieme ad alcuni dirigenti comunali. La notizia finì al Tg1, ma gli inquirenti fecero un buco nell’acqua: imputati tutti assolti perché il fatto non sussiste.
La rendicontazione c’è o no?
Memore senz’altro della buona fattura delle luminarie cosentine, è probabile che la sindaca abbia suggerito Med Labor come «operatore economico con capacità tecniche ed organizzative, che possa fornire quanto richiesto in tempi brevi». Dimenticando, però, l’importanza per San Giovanni in Fiore del Centro studi. E, per di più, senza fornire una spiegazione plausibile al taglio dei fondi.
Succurro, infatti, nel replicare in aula alle critiche dell’opposizione ha giustificato così la scelta di ridurre lo stanziamento: il Centro non avrebbe rendicontato le attività svolte nell’anno precedente, ragion per cui dargli più dei 2.000 euro rimasti avrebbe potuto creare anche problemi con la Corte dei Conti.
Succurro vs Succurro
E qui entra in scena l’altro Succurro, il professor Riccardo, che peraltro di Rosaria è zio. Udite le dichiarazioni della nipote, le ha definite in una nota «fortemente lesive della reputazione e del prestigio del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti». Il giudizio sulla cifra destinata al Cisg dopo la variazione di bilancio? Lapidario: «Mortificante». Non meno severo quello sul perché del taglio ai finanziamenti. «Il sindaco ha affermato che il Centro Studi non ha rendicontato le attività svolte nel 2021. È un’affermazione non vera. Il sindaco mente? Pensiamo non sia informata. Il Centro Studi ha invece rendicontato le attività svolte nel 2021 ed inviato il piano delle attività del 2022 con comunicazioni che gli uffici comunali hanno acquisito agli atti». E con il denaro decurtato prevedeva di realizzare materiale didattico sull’abate Gioacchino da Fiore per le scuole del territorio.
Riccardo Succurro
E l’altro 15%?
Ad alimentare i dubbi è arrivata un’ulteriore nota, stavolta del Psi locale. I socialisti riportano che «in data 20.07.2022 ed in data 19.08.2022, sono state notificate alla Responsabile del Settore Cultura del Comune due note, aventi per oggetto: “richiesta contributo finanziario per l’attività del CISG”. In entrambe sono state allegati i seguenti documenti:
Relazione sulle attività svolte dal CISG;
Piano delle attività per l’anno 2022:
Bilancio di previsione per l’anno finanziario 2022.
Si precisa che i tre documenti inviati sono stati approvati dall’assemblea dei soci ad unanimità».
Circolano anche immagini di una lettera protocollata che risalirebbe al 28 luglio. Date e protocolli a parte, c’è un dettaglio non da poco: uno dei soci è proprio il sindaco pro tempore di San Giovanni in Fiore. E se anche fossero il professor Succurro o il Psi a non raccontarla giusta resterebbe comunque un dubbio: in assenza delle rendicontazioni, perché dare i 2.000 euro rimasti e non eliminare del tutto il finanziamento, scongiurando così gli eventuali problemi con la magistratura contabile?
Tressette
Ma la querelle tra i Succurro non finisce qui. Rosaria nel suo intervento in aula ha aggiunto che la progettualità del Centro dev’essere adeguata alla linea di indirizzo politico dell’amministrazione comunale. Parole che Riccardo ha accolto così:«Il Centro Studi non è un circolo di tressette che dipende dal Comune. Il Centro Studi è un istituto culturale autonomo statutariamente, giuridicamente riconosciuto di valenza nazionale. Il piano delle attività del Centro viene approvato dall’assemblea dei soci dove il Comune è rappresentato. La programmazione pluriennale del Centro è di altissimo livello culturale ed è apprezzata in tutto il mondo».
Pare che iniziative come il Premio Città di Gioacchino, istituito dalla sindaca e organizzato spendendo qualche decina di migliaia di euro nei mesi scorsi, non incontrino il gradimento del professore. Che alle passerelle di personaggi più o meno illustri continua a preferire lo studio dei testi antichi come omaggio al fondatore della locale abbazia.
La tomba dell’abate Gioacchino all’interno dell’Abbazia florense
Tra zio, nipote e rispettivi enti, insomma, le posizioni sembrano inconciliabili. Qualcuno si diverte a suggerire che per mediare tra le parti si potrebbe piazzare qualche luminaria pure nel Centro Studi. Ma non serve essere «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato» collocato da Dante nel suo Paradiso per prevedere come andrebbe a finire.
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